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Le "lunghe strade verdi" degli armenti.
Gli antichi tratturi tra competenza statale e regionale

(commento alla sentenza Corte costituzionale 5 luglio 2005, n. 388)

di Gabriella De Giorgi Cezzi

Sommario: 1. Premessa. - 2. Privilegi, conflitti e usurpazioni nella storia dei tratturi. - 3. La speciale natura del "demanio armentizio". - 4. Verso la ricerca di una nuova identità. - 5. La disciplina regionale. - 6. L'ordine delle censure. - 7. I poteri soprintendizi come poteri decisori. - 8. Pareri soprintendizi e desacralizzazione del nomen iuris. - 9. La verifica dell'interesse archeologico.

1. Premessa

Attraverso la sentenza in commento, giunge sino a noi l'eco della storia millenaria dei tratturi pugliesi, nome delle "lunghe strade verdi" percorse dai pastori abruzzesi che a settembre, ricorda il poeta, lasciati gli stazzi, migravano verso il mare [1].

L'impugnazione da parte dello Stato della legge regionale pugliese 23 dicembre 2003, n. 29 (Disciplina delle funzioni amministrative in materia di tratturi) evoca anche antichi conflitti. Fra portatori di interessi già biblicamente contrapposti (pastori vs. agricoltori), ma anche fra livelli istituzionali (stato vs. collettività locali), fra statuti proprietari (proprietà collettiva vs. proprietà singola), infine fra interessi pubblici (interessi fiscali della corona vs. usi civici delle universitates e poi dei comuni alla disciplina integrale del proprio territorio) e fra questi e quelli dei singoli e delle stesse collettività di riferimento.

Il conflitto, nella sua veste attuale, vede lo Stato opporsi ad una disciplina regionale che lo spoglierebbe delle competenze legislative esclusive che ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione gli competono nella materia della "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali", categoria questa nella quale i tratturi rientrano a pieno titolo, in quanto beni archeologici.

Anche la controversia portata dinanzi alla Corte nasconde, dietro questioni di competenza, profili di conflitti fra interessi contrapposti e di ricerca di una loro possibile compatibilità, divenuta essenziale dopo il trasferimento alle regioni delle funzioni in tema di agricoltura e foreste [2]. E se il ricorso n. 38/2004 proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri contro la l.r. Puglia 29/2003 parla della "storia dei tratturi" come di un frammento della "storia della cultura del nostro Paese", la rivendicazione di competenze statali - oggi delle soprintendenze, ieri fiscali - appare un topos della materia, ultimo tassello della storia dei ricorrenti conflitti che contrassegna il regime dei tratturi.

2. Privilegi, conflitti e usurpazioni nella storia dei tratturi

I tratturi - larghe vie erbose (60 passi napoletani, pari a 111.60 metri) utilizzate dai pastori abruzzesi in occasione della transumanza - rappresentano la traccia materiale della civiltà che ne porta il nome, che, insieme al regime giuridico demaniale dei terreni interessati, testimonia una storia millenaria, legata a un'attività produttiva e ai modi con cui era organizzata, col sostegno, per finalità fiscali, dell'amministrazione regia. Gli stessi numeri testimoniano l'importanza del fenomeno: fra tratturi, tratturelli, bracci (questi ultimi, rete viaria minore di collegamento fra i tronchi principali) e "riposi laterali", i terreni sottratti all'agricoltura erano infatti solo in Puglia oltre 30.000 ettari, percorsi da una rete viaria estesa circa 1.360 chilometri per i tratturi e 1.500 chilometri per i tratturelli e bracci [3].

Attraverso questi percorsi "pubblici" mantenuti a spese dell'erario, i pastori abruzzesi scendevano al piano all'inizio dell'inverno, per risalire sulle montagne nella primavera successiva, senza dover subire vessazioni o limitazioni da parte di baroni o universitates, ma anche senza poter sconfinare in terreni non regi. Il privilegio (tractoria) di libero uso di percorsi pubblici determinati dalla corona e attraversanti "regie difese" o "regi demani" è alla base della formazione di un vero e proprio "patrimonio fiscale", fonte delle relative entrate, ma anche strumento di perseguimento di finalità di interesse generale, in quanto senza una rete viaria "regia" in grado di assicurare la libera transumanza, le terre montane del Sannio e dell'Abruzzo sarebbero state inutilizzabili e quelle paludose e malariche del tavoliere pugliese inabitabili [4].

Questo vasto demanio regio, accresciuto (a partire da metà '400, dopo l'istituzione della dogana della mena delle pecore con sede a Foggia) con politiche di acquisizione di ulteriori pascoli dalle universitates, allo scopo di incrementare, con l'aumento dei capi che svernavano in Puglia, anche quello delle entrate fiscali, fu fonte di costanti tensioni fra esigenze della pastorizia (abruzzese) e dell'agricoltura (pugliese) e, sul piano giuridico, fra interessi fiscali della corona e produttivi delle universitates, e causa delle costanti usurpazioni a opera dei contadini delle vie armentizie.

Le usurpazioni peraltro svelavano, attraverso la forza dei fatti, la specialissima natura della demanialità di queste "vie", di proprietà collettiva solo nominalmente, poiché il loro uso era inibito al "pubblico" e invece riservato, in forza di un titolo giuridico di natura privata, ai pastori abruzzesi (i locati) per l'uso della discesa e risalita, due volte l'anno, delle greggi [5].

3. La speciale natura del "demanio armentizio"

La legislazione unitaria prima e quella di inizio secolo XX poi, registra la storia complessa dei tratturi. E' così che per un verso ne mantenne fermo il regime demaniale (in quanto parte del demanio armentizio, di cui al regio decreto 29 dicembre 1927, n. 2801, regolamento di esecuzione del regio decreto legge 30 dicembre 1923, n. 3244 passaggio dei tratturi di Puglia e delle trazzere di Sicilia dalla dipendenza del ministero delle Finanze a quella del ministero dell'Economia nazionale), ma per altro verso non poté ignorare che, col decadimento della pastorizia, era cessata la stessa necessità di tratturi e riposi laterali, e che al venir meno della funzione era seguita la costante usurpazione delle aree a opera dei proprietari frontisti, con conseguente e in molti casi ormai irreversibile trasformazione dei suoli.

Si spiega così che l'art. 10 delle legge 26 febbraio 1865, n. 2168 prevedesse la possibilità di porre in vendita tratturi e riposi man mano che ne fosse cessato il bisogno e che il r.d.l. 3244/1923, istitutivo del "commissario per la reintegra dei tratturi" di Foggia, nell'intento di dare una sistemazione organica della materia, già contenesse previsioni di sclassificazione, alienazione e di legittimazione di possessi abusivi.

Quando nel 1977, con l'art. 66 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 le relative funzioni amministrative furono trasferite alle regioni (con conseguente, incontestato, trasferimento anche del demanio armentizio) [6], la condizione dei tratturi appariva come quella di beni pubblici che, a causa di una costante non applicazione della pur articolata disciplina che li riguardava, avevano per la gran parte perduto non solo le funzioni, ma anche l'identità originaria [7].

4. Verso la ricerca di una nuova identità

Questa identità, secondo un processo di lenta sedimentazione, si ricostruisce intorno a una funzione non più economica, ma culturale della rete tratturale.

A quegli stessi anni risalgono infatti i primi decreti di vincolo di tutti i suoli di proprietà dello Stato "appartenenti alla rete dei tratturi, alle loro diramazioni minori e ad ogni altra loro pertinenza", il cui assoggettamento alla disciplina di tutela discende dal notevole interesse che rivestono sia per l'archeologia (trovandosi sulle loro tracce "testimonianze archeologiche di insediamenti preromani, di centri urbani di epoca romana, di abitati longobardi e normanni..."), sia per la storia politica, militare, sociale e culturale in genere dei territori interessati, essendo "innumerevoli gli avvenimenti storici legati alla tradizionale rete viaria costituita dai tratturi".

Sebbene i decreti di vincolo (decreto ministeriale 15 giugno 1976 sui tratturi del Molise, modificato e integrato dal decreto ministeriale 20 marzo 1980 e dal decreto ministeriale 22 dicembre 1983) fondino dunque su interessi specificamente individuati dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089, come quello archeologico e storico, la ragione della tutela è però in un'esigenza più ampia, di salvaguardia di un'identità culturale sorta intorno ai tratturi, nella consapevolezza che "la topografia degli insediamenti, la morfologia dei centri storici, l'aspetto del paesaggio agrario, elementi tutti determinanti la fisionomia dell'ambiente culturale, sono stati profondamente caratterizzati dalla funzione storica svolta dai tratturi", come espressamente si afferma nel decreto del '76.

5. La disciplina regionale

Da questo punto riparte dunque la versione aggiornata del conflitto di competenze che ha al centro il demanio armentizio, e l'intento del legislatore regionale di salvaguardare il valore "monumentale" dei tratti armentizi ancora integri, ma, al tempo stesso, di riordinare definitivamente la materia.

Il primo fine, è perseguito attraverso il "Parco dei tratturi della Puglia", costituito dai tratturi che in quanto "monumento della storia economica e sociale del territorio pugliese interessato dalle migrazioni stagionali degli armenti e in quanto testimonianza archeologica di insediamenti di varia epoca", vengono "conservati al demanio armentizio regionale" (art. 1).

Il secondo, stabilendo procedure snelle di alienazione dei suoli tratturali, privi ormai di connotazione storico - archeologica.

Sono proprio i modi di attuazione di quest'ultimo fine a essere al centro della controversia che si esamina, di cui occorre subito notare - cosa che la Consulta non manca infatti di fare - che ha al centro una questione - la invasione di competenze esclusive dello Stato da parte della regione - mai prima sollevata, pur essendo la legge impugnata l'ultima di una serie di interventi normativi (leggi regionali Puglia 9 giugno 1980, n. 67, 15 febbraio1985, n. 5 e 24 maggio 1994, n. 17) delineanti l'ordinamento del demanio armentizio regionale, in cui, insieme a quello della protezione delle aree meritevoli di conservazione, è già posto il principio dell'alienazione dei suoli demaniali non più utili o idonei a soddisfare esigenze di carattere pubblico, principio che la legge impugnata si propone perciò solo di realizzare.

Lo strumento è individuato dalla legge impugnata nel "piano comunale dei tratturi", redatto "anche ai fini del piano quadro di cui al d.m. 23 dicembre 1983" (art. 2 legge regionale 23 dicembre 2003, n. 29) [8], con lo scopo di ricondurvi la disciplina di tutte le aree tratturali, e perciò sia "di individuare e perimetrare i tronchi armentizi che conservano l'originaria consistenza o che possono essere alla stessa reintegrati, nonché la loro destinazione in ordine alla possibilità di fruizione turistico - culturale" (art. 2, comma 2, lett. a); sia i tronchi armentizi "idonei a soddisfare riconosciute esigenze di carattere pubblico, con particolare riguardo a quella di strada ordinaria" (lett. b); sia infine, quelli "che hanno subito permanenti alterazioni, anche di natura edilizia" (lett. c).

Il piano - che ha valenza di piano urbanistico esecutivo (Pue) ed è approvato anche in variante dello strumento urbanistico generale (art. 2, comma 3) [9] - è proposto dal comune che a questo fine convoca una conferenza di servizi (art. 2, comma 5), le cui determinazioni vengono assunte col parere - espressamente qualificato come vincolante - sia della soprintendenza archeologica che di quella per i beni architettonici e per il paesaggio" (art. 2, comma 7), in ordine all'ascrizione delle aree tratturali a una delle tre categorie descritte dalla legge [10].

Alla cennata distinzione dei tronchi tratturali, a seconda che conservino o meno la originaria consistenza o che sono suscettibili di riacquistarla, si ispira la restante disciplina regionale.

Così l'art. 3 - che disciplina le "aree tratturali di interesse archeologico" -, prevede sui tratti integri o suscettibili di ripristino (di cui all'art. 2, comma 2, lett. a), una disciplina di conservazione e tutela, attraverso la imposizione di un vincolo di inedificabilità assoluta e l'impegno regionale a promuoverne la valorizzazione, anche per mezzo di forme indirette di gestione (art. 3, comma 1).

La norma prevede che solo in due ipotesi si possa derogare al regime vincolistico così posto sulle aree: per realizzarvi opere pubbliche o di pubblico interesse, subordinatamente al rilascio di un'autorizzazione regionale e previo "parere favorevole della soprintendenza archeologica" (art. 3, comma 2); per procedere, ove possibile [11], alla "regolarizzazione" delle costruzioni che vi insistono, purché già esistenti alla data di entrata in vigore della legge, e sempre su parere (che, come si vedrà, la norma non qualifica) della soprintendenza archeologica, da rendere sulle opere realizzate "successivamente al vincolo storico introdotto con d.m. 23 dicembre 1983" (art. 3, comma 3, lett. a).

L'art. 4 - che disciplina invece le "aree tratturali prive di interesse archeologico" - prevede che - su domanda e previa delibera di giunta regionale "di autorizzazione e sdemanializzazione" - ne sia possibile l'alienazione in favore degli enti locali, con vincolo permanente di destinazione, quando si tratti dei tronchi tratturali di cui all'art. 2, comma 2, lettere b), idonei cioè "a soddisfare riconosciute esigenze di carattere pubblico, con particolare riguardo a quella di strada ordinaria" (art. 4, comma 1, lett. a) e in favore del soggetto utilizzatore (che ne abbia comunque il possesso alla data di entrata in vigore), per i tronchi descritti all'art. 2, comma 2, lett. c) della legge, che abbiano ormai "subito permanenti alterazioni, anche di natura edilizia" (art. 4, comma 1, lett. b).

A queste aree tratturali si riferisce peraltro espressamente l'art. 2, comma 8 della legge, secondo cui, sempre sulla scorta del parere della soprintendenza archeologica, questa volta qualificato "definitivo", si può procedere, ai sensi dell'art. 55 del T.u. del 1999 (decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490), all'alienazione dei suoli che non conservano più l'originaria consistenza, né sono suscettibili di riacquistarla (lettere b) e c) art. 2).

6. L'ordine delle censure

Questo complesso di disposizioni (art. 2, comma 2 e 8; art. 3, comma 2 e 3; art. 4, comma 1, lett. b) è oggetto di censura da parte del Presidente del Consiglio dei ministri che lamenta la violazione degli articoli 9, 117, comma 2, lett. l) e s) e 118 Cost. e, quale norma interposta, dell'articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2000, n. 283 (Regolamento recante disciplina delle alienazioni di beni immobili del demanio storico e artistico).

Il ricorso parte dalla premessa che i tratturi, in quanto beni archeologici, sono beni demaniali (ex artt. 822 e 824 codice civile) inalienabili (ex art. 2 del d.p.r. 283/2000) e che in ordine alla disciplina dei beni archeologici lo Stato vanta, ex art. 117, comma 2, lett. s) Cost, una competenza legislativa esclusiva, di cui la legge regionale censurata sarebbe invasiva [12].

Rileva innanzitutto il ricorrente che in sede di formazione del "piano comunale dei tratturi", la soprintendenza "è chiamata ad esprimere solo un mero parere (peraltro da rendersi in sede di conferenza di servizi)" in merito alla utilizzazione delle aree tratturali (art. 2, commi 2 e 8), sebbene questa possa spingersi "fino alla sottrazione di parte di esse al regime di tutela loro imposto e alla successiva alienazione o destinazione ad altri fini pubblici, non meglio precisati, a parte la destinazione a strade".

Ciò avverrebbe in deroga al regime di tutela proprio dei tratturi in quanto beni archeologici e dunque in violazione delle prerogative che, in diretta attuazione dell'art. 9 Cost., spettano allo Stato in materia, secondo il disposto dell'art. 117, comma 2, lett. s), Cost., prerogative il cui esercizio può ben essere oggetto di intesa e coordinamento con le regioni, ma solo entro i limiti eventualmente fissati dalla legge statale, in base all'art. 118, comma 3, Cost. [13].

L'art. 3, comma 2 della legge è censurato per simmetrici profili, in quanto la giunta regionale può autorizzare la realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico anche nelle aree definite di interesse archeologico, sulla base di un mero parere favorevole della soprintendenza.

A questa sarebbe perciò sottratto sia lo specifico potere - riconosciutole dagli articoli 21 e 23 del d.lg. 490/1999, - di approvazione dei progetti "delle opere di qualunque genere" da eseguire in area vincolata e non rientranti nei casi sottoposti ad autorizzazione del ministero; sia il potere dello Stato di operare un controllo di legittimità sul nulla osta paesaggistico che la regione rilascia in ordine alle opere incidenti su beni sottoposti alla relativa tutela, cui sono assoggettati ope legis (ex art. 146, comma 1, lettera m) dello stesso d.lg. 490/1999) anche i tratturi, in quanto "siti archeologici" [14].

L'impugnazione dell'art. 3, comma 3 fonda per un verso sullo stesso ordine di censure (richiesta di un mero parere per la sanatoria di opere eseguite sui suoli tratturali dopo la data di imposizione del vincolo archeologico; non previsione del potere soprintendizio di annullamento del nulla osta paesaggistico da rilasciare anche ai fini della prevista sanatoria), per altro verso sull'invasione delle competenze che - in riferimento all'art. 117, comma 2, lett. s) e l) Cost. - spettano allo Stato in materia penale, per il fatto che la prevista sanatoria farebbe venir meno le sanzioni collegate all'abuso

Infine l'art. 4, comma 1, lett. b) è censurato per l'assunta violazione dell'articolo 2 del d.p.r. 283/2000 (norma interposta) che, prescrivendo l'inalienabilità dei beni archeologici, ne consente solo il trasferimento ad altro soggetto titolare di demanio, e non anche a privati, come sarebbe invece possibile in base alla norma impugnata.

Con argomento di chiusura, il ricorrente lamenta infine che, se pure le norme impugnate si volessero qualificare come dirette alla valorizzazione dei tratturi, in nessun caso potrebbero implicare una violazione della disciplina in tema di tutela, secondo le prescrizioni dell'art. 97 del ricordato T.u. 490/1999 [15].

7. I poteri soprintendizi come poteri decisori

Rileva, in primo luogo, la Corte con la sentenza 388/2005 in commento, la infondatezza del richiamo operato dal ricorrente agli articoli 9 e 118 Costituzione a censura di una disciplina regionale che rinnova le finalità di valorizzazione dei tratturi quali testimonianze del passato, già proprie della precedente legislazione regionale, mai impugnata dallo Stato.

Egualmente infondate appaiono inoltre alla Corte le restanti censure, concernenti il ruolo marginale che, a dire del ricorrente, sarebbe stato riservato alla soprintendenza, chiamata dalle norme impugnate solo ad un apporto consultivo circa le modalità di utilizzazione delle aree tratturali, e così privata sia dei poteri che in ordine alla tutela di questi beni le spettano, in quanto beni archeologici, sia di quelli che - sotto specie di potestà di annullamento del nulla osta paesaggistico regionale - le competono su beni, quali i siti archeologici, assoggettati ope legis anche a tutela paesaggistica.

La Corte rigetta la censura, ritenendola fondata su argomenti di tipo nominalistico.

Rileva infatti che il "parere" che la soprintendenza è chiamata a esprimere (per la cura dei valori archeologici, ma anche paesaggistici espressi dai tratturi) è sempre da intendersi vincolante, sia che la legge lo qualifichi espressamente come tale [16], sia che lo qualifichi come favorevole [17] o definitivo [18], sia, infine, che non lo qualifichi affatto [19].

Questa conclusione - frutto di un'interpretazione delle norme che ne consente la compatibilità coi principi costituzionali - porta la Corte a ritenere che il ruolo assegnato alla soprintendenza, al di là del nomen, non è affatto riconducibile a una funzione meramente consultiva, ma a una funzione "determinante il contenuto del piano dei tratturi", e dunque decisoria.

La legge, rileva la Corte, individua infatti tre categorie di tratturi, di cui quelli indicati all'art. 2, comma 2, lett. a) sono i soli aventi natura di beni culturali "per le loro caratteristiche", in quanto beni che "conservano la originaria consistenza" o che "possono alla stessa essere reintegrati":sicché è sufficiente che la soprintendenza si opponga alla inclusione di un tronco armentizio fra quelli di cui alle lettere b) e c) - includenti aree che, per differenza con le prime, "hanno subito nel corso dei tempi trasformazioni irreversibili, tali da rendere impossibile la reintegrazione nella originaria consistenza" - perché i relativi beni vengano senz'altro ascritti a quelli della lettera a) e quindi tutelati pienamente.

Da qui anche la incapacità delle norme censurate a invadere competenze esclusive dello Stato, in quanto è la stessa soprintendenza a determinare l'ampiezza e l'estensione della tutela di questi beni, attraverso il proprio parere in ordine alla classificazione dei tronchi armentizi, e, per i rami, alla disciplina delle relative aree, mantenendo per ciò stesso integre le proprie prerogative in materia.

Questo argomento conclusivo che fonda sul valore dei pareri di competenza della soprintendenza, è rafforzato dal fatto che l'apporto dello Stato è necessario non solo in via generale, ai fini della determinazione del contenuto del piano, ma anche in modo specifico, ai fini del possibile utilizzo delle aree tratturali cui il piano abbia già riconosciuto interesse archeologico, com'è nell'ipotesi della realizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse, in deroga al regime di inedificabilità assoluta che vi grava, o dell'altra ipotesi pure prevista dall'art. 3 della legge, della regolarizzazione di costruzioni realizzate su queste aree dopo l'introduzione del vincolo storico di cui al d.m. del 1983 [20].

Meno convincenti appaiono invece altri argomenti pure adoperati dalla Corte, in aggiunta a quello principale, per escludere una lesione delle competenze statali in materia.

Non così in particolare quello secondo cui il previsto (ex art. 3, comma 2) utilizzo di tronchi armentizi di interesse archeologico per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse, si ascriverebbe in realtà a una ipotesi di "valorizzazione" dei relativi suoli, anche attraverso forme indirette di gestione, di cui parla lo stesso art. 3, comma 1 della legge, non impugnato.

Va infatti notato a questo proposito che, sebbene la normativa regionale si proponga di valorizzare i tronchi armentizi di interesse archeologico, anche consentendone una fruizione turistico - culturale (art. 2, comma 2, lett. a), la prevista, possibile realizzazione su di essi di opere pubbliche o di pubblico interesse a destinazione specifica, appare difficilmente connettibile con le proclamate finalità di valorizzazione di beni tutelati proprio per il loro (riconosciuto) interesse archeologico, o quantomeno non dichiarata [21].

In conclusione, dunque, l'argomento principe, e per così dire di chiusura [22], resta sempre legato a una lettura non formalistica dei poteri soprintendizi in materia.

8. Pareri soprintendizi e desacralizzazione del nomen iuris

I rilievi della Corte in ordine alla natura di apporti procedimentali formalmente ascrivibili alla funzione consultiva, si inseriscono a pieno titolo nel filone di riflessione evocato dalla difesa regionale, che aveva sottolineato che "il parere di un organo della pubblica amministrazione è vincolante perché l'amministrazione è obbligata a tenere il comportamento previsto nel parere oppure (a salvaguardia della discrezionalità nell'an) a non tenere alcun comportamento" e che, per altro verso, il "mero parere" riservato alla soprintendenza, a tutela sia degli interessi archeologici che paesaggistici, lungi dall'essere un minus rispetto alle prerogative di tutela, le garantisce meglio e più puntualmente di quanto non accadrebbe in presenza di poteri autorizzatori [23].

In particolare la difesa regionale aveva sottolineato che - una volta assicurato l'effetto di mantenere in capo allo Stato delle prerogative in tema di tutela - è del tutto indifferente che ciò si verifichi non attraverso un'autorizzazione, ma mediante un parere "poiché da tempo la sacralità del nomen iuris ha smesso di fare aggio sulla identità dell'effetto giuridico prodotto".

In definitiva, si rivendica al parere vincolante quella funzione decisoria da tempo conosciuta dalla dottrina nella forma della "decisione preliminare" attinente al contenuto dell'atto, cui segue la decisione costituente la volizione (nel caso di specie, le determinazioni della conferenza di servizi, l'autorizzazione alla realizzazione dell'opera, all'alienazione, ecc.) [24].

L'equipollenza delle formule normative è del resto sottolineata dalla giurisprudenza, proprio con riferimento ai pareri soprintendizi, di cui è stato evidenziato in più occasioni "natura sostanziale" affatto diversa dal "parere" [25], a conferma dell'attenzione esclusiva agli effetti conseguiti che non alle formule utilizzate [26].

9. La verifica dell'interesse archeologico

Un'ultima annotazione appare infine necessaria. A rafforzare il ruolo decisorio sostanzialmente riservato allo Stato nella disciplina dei tratturi vi è infatti la circostanza - non rilevata dalla Corte - che, secondo quanto prevede l'art. 2, comma 9 della legge impugnata, "il piano comunale dei tratturi comprende l'elenco di cui al regolamento emanato con d.p.r. 283/2000".

Ciò significa che compete allo Stato, attraverso il rilascio o meno del proprio parere in ordine all'ascrizione di un tronco armentizio fra quelli di interesse archeologico, operare quella "verifica dell'interesse archeologico" il cui esito positivo ne determina la soggezione ad un regime di assoluta inalienabilità (art. 54, comma 1, lett. a del Codice), confermando il ruolo centrale della soprintendenza in quel meccanismo di verifica dell'interesse che ormai costituisce un passaggio obbligato per l'ascrizione di un bene al novero di quelli culturali [27].

 

Note

[1] Significativamente, per le omologhe trazzere, v. S. Fontana, L'irruzione della storia nel diritto. Il mito delle Regie Trazzere di Sicilia, in Rass. dir. civ., 2001, 63, citato in A. Germano, Terre civiche e proprietà collettive. I tratturi del Tavoliere, in Riv. dir. agr., 2001, 253, cui si rinvia per la bibliografia di riferimento. L'espressione riportata nel titolo è in M. Di Lecce, Una nuova vita per i vecchi tratturi, in Riv. giur. amb., 2003, 899, che ne sottolinea ormai la nuova funzione, "legata molto più all'ambiente e alla cultura che alla produzione e al commercio", funzione si cui si veda S. Amorosino, Gli itinerari turistico-culturali nell'esperienza amministrativa italiana, in Riv. giur. edil., 2000, 313.

[2] La questione della molteplicità degli interessi coinvolti dal regime dei tratturi è già stata affrontata da Corte cost. 6 luglio 1972, n. 142, in Giur. cost., 1972, 2868. In occasione del trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, avvenuto con decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 972, n. 11, venne sollevata la questione della "determinazione" della relativa materia, nel cui ambito, secondo le regioni Emilia Romagna, Lombardia e Umbria, dovevano ritenersi rientranti alcuni settori invece riservati allo Stato, in contrasto dunque con gli artt. 117 e 118 Cost. e con art. 76 Cost., sotto il profilo della incorsa inosservanza dei principi contenuti nell'art. 17 della legge di delega 16 maggio 1970, n. 281, secondo cui il passaggio di attribuzioni doveva avvenire per "settori organici di materie".

Fra queste funzioni "riservate" compare anche il demanio armentizio, denominazione assunta a qualificare il regime dei "tratturi" di Puglia e delle "trazzere" di Sicilia, disciplinati dal regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3244, e nei regolamenti nn. 2801 del 1972 e 1706 del 1936. In quella occasione la Corte dichiarò non fondate le questioni di legittimità proposte, con argomenti che fondano sull'interpretazione dell'art. 17 l. 281/1970 (che, parlando di "settori organici di materie", contempla la possibilità "di una non perfetta coincidenza della parte trasferibile con quella argomentabile da una loro generica qualificazione"), ma anche con altri, poi ripresi dalla successiva giurisprudenza costituzionale sulla "trasversalità" delle materie intrecciate da più interessi (in particolare, per i beni culturali, Corte cost. 16 giugno 2005, n. 232, in Foro amm., CdS, 2005, 1657; per l'ambiente, Corte cost. 26 luglio 2002, n. 407, in Le Regioni, 2003, 337; Corte cost. 29 maggio 2003, n. 222, in Giur. cost., 2003, 1688).

La Corte sottolineò in quella occasione che, con riferimento all'industria armentizia, alcuni interessi sono certamente ascrivibili alla "materia" agricoltura e foreste, senza tuttavia esaurirla, posto che ne "costituiscono solo un settore, non isolabile dagli altri in particolare dagli interessi disciplinati dalle norme sul demanio armentizio che prevedono la conservazione, la alienazione o la trasformazione in strade rotabili delle dette vie di comunicazione (e anche la legittimazione dei possessi abusivi delle aree dell'antico demanio)".

A. Germano, op. cit., 252, evidenzia tuttavia che la "materia" dei tratturi non venne trasferita alle regioni né col d.p.r. 11/1972 in tema di agricoltura, né col d.p.r. 8/1972 in materia di viabilità (in quanto i tratturi non sono mai stati equiparati a nessuna delle categorie delle strade ordinarie, pur essendo parificati alle strade nazionali circa le spese di conservazione e di polizia (al fine, soprattutto, dell'incasso dei proventi da contravvenzioni elevate a carico dei trasgressori), ma solo col decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 che all'art. 66, 1° comma, in occasione del trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative in tema di agricoltura e foreste, parla esplicitamente di "demanio armentizio", riprendendo una locuzione puntuale già usata, dal ricordato regolamento n. 2801 del 1927.

[3] Le notizie sono tratte da Canosa e il Tratturo in www.terredelmediterraneo.org. Ampio riferimento agli ordinamenti di disciplina della transumanza, si può leggere nella Relazione al ddl n. dell'11/02/2003 "Disciplina delle funzioni amministrative in materia di tratturi", Lavori preparatori alla legge della regione Puglia 23 dicembre 2003, n. 29.

[4] Così, A. Germano, Terre civiche e proprietà collettive. I tratturi del Tavoliere, cit., 246.

[5] C. Corradini, Le strade ordinarie, in Primo trattato completo di Diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. Orlando, vol VII, I, Milano, 1914, 95. A. Germano, op. cit., 248-49, evidenzia che, durante il decennio francese (1806-1815), si incrina per la prima volta, grazie alla legge 21 maggio 1806 n. 75 di Giuseppe Napoleone, l'equazione interessi fiscali dello Stato uguale interessi economici dei pastori abruzzesi, grazie a una vasta operazione di sdemanializzazione dei pascoli del tavoliere a favore dei contadini pugliesi che tuttavia non tocca il regime demaniale dei tratturi, per i quali viene ribadito dall'art. 23 della legge, che "i tratturi e i riposi laterali saranno riguardati come pubblica proprietà e quindi reintegrati e garantiti dalla pubblica amministrazione". Col ripristino dei privilegi di pascolo a favore dei pastori da parte dei Borboni dopo la restaurazione (legge 13 gennaio 1817 e regolamento 7 maggio 1839) i tratturi perdono la vocazione all'uso collettivo, insito nel regime demaniale, per tornare a essere vie "riservate", a titolo privato, ai pastori abruzzesi per uso delle greggi che scendevano in Puglia nell'autunno di ogni anno e che ritornavano sulle montagne nella primavera dell'anno successivo (art. 1 reg.); a conferma che il demanio regio è solo uno strumento per la conservazione all'amministrazione di quel vasto "patrimonio fiscale" che è il demanio pubblico armentizio.

[6] Sulla certa appartenenza della rete tratturale al demanio armentizio della regione Puglia, si v. Tar Puglia - Bari, sent. 27 gennaio 1999, n. 135, in I Tar, 1999, I, 1101, confermata da Cons. Stato, VI, sent. 17 febbraio 2004, n. 657, in Cons. Stato, 2004, I, 345, secondo cui "nella regione Puglia, a i sensi dell'art. 1 l. r. 9 giugno 1980 n. 67 i tratturi, in quanto direttamente strumentali alle funzioni concernenti il demanio armentizio, trasferite alle regioni, costituiscono demanio pubblico della regione stessa", cui spetta pertanto determinare il canone di occupazione.

[7] A questo esito non sembra ininfluente la circostanza che il regolamento di esecuzione della l. 2168/1865 (regolamento 23 marzo 1865, n. 2211) attribuì la conservazione dei tratturi alla "direzione delle tasse e del demanio", ma invece le funzioni di sorveglianza agli "agenti forestali ed ai sindaci dei comuni", e cioè a organi di collettività locali storicamente ostili ai privilegi della pastorizia, sebbene il fenomeno dell'usurpazione dei tratturi proseguì anche dopo il r.d.l. 3244/1923 che, in epoca fascista, assegnò agli intendenti di finanza la funzione "di vigilare sull'integrità e sulla conservazione dei tratturi, e di reprimere, mediante proprio decreto, gli abusi, ordinandone la rimozione entro un congruo termine, stabilendo, contestualmente, la somma dovuta dal contravventore, a titolo di penalità e di risarcimento dei danni".

[8] La legge regionale erroneamente fa riferimento al d.m. del 23 dicembre 1983 (rectius, del 22 dicembre 1983), dato che la previsione di un piano quadro è invece nel d.m. 20 marzo 1980 (di cui il d.m. del 1983 è modificativo e integrativo), che, a sua volta (modificando e integrando il primo decreto di vincolo, posto con d.m. 15 giugno 1976), aveva previsto appunto la redazione del piano quadro - tratturi da parte dei comuni "che alla data del 15 giugno 1976 avevano subito una espansione che ha determinato una occupazione di fatto di suolo tratturale". Il piano quadro - tratturi, ovviamente di redazione facoltativa, stante la fonte della sua previsione, appare funzionale alla "perimetrazione definitiva delle predette aree e il loro utilizzo secondo la normativa urbanistica vigente per i perimetri urbani", e al definitivo assetto urbanistico delle aree tratturali, ormai irreversibilmente trasformate.

[9] Ma anche apportando, ai sensi dell'art. 2 comma 4, "le necessarie modificazioni al Putt - p, così come previste dagli articoli 5.06 e 5.07 dello stesso Putt - p, rilevando il livello di interazione con gli altri ambiti territoriali distinti". Sotto il profilo della pianificazione comunale, il piano segue una procedura affatto peculiare che si discosta da quella delineata dalla legge urbanistica regionale (l.r. Puglia 27 luglio 2001, n. 20) per l'approvazione degli strumenti urbanistici esecutivi. La ragione sembra essere nel fatto che il piano, più che per attuare le previsioni urbanistiche generali, è redatto ai fini della loro variante, con la particolarità che, mentre nel procedimento ordinario la variante al p.r.g. scaturisce da un procedimento unitario - in cui può peraltro trovare spazio la convocazione di una conferenza di servizi istruttoria, "qualora il Pue riguardi aree sulle quali insistono vincoli specifici", ex art. 16, comma 5 l.r. 20/2001 - qui l'atto di impulso è dato da una proposta, rappresentata dalle determinazioni cui giunge la conferenza di servizi.

[10] Rileva la difesa della regione Puglia che la legge impugnata, riproducendo le categorie di tratturi già indicati dalla norma precedente, "peccherebbe per eccesso e non certo per difetto o per sviamento", ben potendo essere il piano comunale dei tratturi limitato nel suo contenuto alla rilevazione de tratturi "veri e propri" o a quelli riconvertibili. Viceversa, il piano si occupa anche delle aree che a causa della loro totale o parziale trasformazione hanno irreversibilmente perso le caratteristiche dei tratturi, con attenzione dunque "alla più completa ricostruzione del contesto storico - sociale precedente e, per quanto possibile, alla sua conservazione e alla sua riutilizzazione funzionale". Va peraltro notato che questa "ricostruzione dei contesti" ha precise finalità regolative, connesse da un lato al definitivo assetto urbanistico delle aree (già tronchi armentizi) ormai irreversibilmente trasformate, attraverso l'equipollenza che a questi fini è posta dalla legge fra il piano in questione e il piano - quadro tratturi (v. supra, nota 8); dall'altro, alla necessità di stabilire in ogni caso procedure certe per la sdemanializzazione e successiva alienazione di aree che formalmente risultano ancora appartenere al demanio armentizio regionale. E' appena il caso di ricordare che a quest'ultima problematica si legano le controversie, di cui si è costantemente occupato il giudice penale nel tempo, connesse all'abusiva occupazione di tratturi e trazzere, e all'esercizio dei relativi poteri di vigilanza spettanti all'intendente di finanza e di irrogazione delle relative sanzioni.

[11] Restando "fermi... tutti gli altri vincoli territoriali", e salva la applicazione della disciplina della l. 47/1985 per le "opere non regolarizzabili", come espressamente prevede l'art. 3, comma 4 della legge.

[12] Sulla competenza esclusiva dello Stato in tema di tutela, v. C. Barbati, I soggetti in C. Barbati - M. Cammelli - G. Sciullo (a cura di), Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2003, 104 ss.; G. Sciullo, La tutela del patrimonio culturale, in Aedon, 1/2004; G. Pastori, Le funzioni dello Stato in materia del patrimonio culturale, in Aedon, 1/2004; L. Tarantino, Tutela e valorizzazione dei beni culturali tra riforma del Titolo V e Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. app., 2004, 1017 ss.

[13] Sul punto v. G. Sciullo, Politiche per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e ruolo delle regioni, in Aedon, 3/2003.

[14] Com'è noto il vincolo sui siti archeologici accomuna questi beni ad altre categorie generali di beni assoggettati dalla legge Galasso (legge 8 agosto 1985, n. 431) a tutela paesaggistica ex lege. Per la applicabilità di questo vincolo paesaggistico anche ai tratturi, si veda Cass. pen., sez. III, sent. 21 giugno 2002, n. 903, in Riv. penale, 2002, 900, secondo cui l'assoggettamento alla tutela paesaggistica di una zona di interesse archeologico scaturirebbe dal "suo valore intrinseco", indipendentemente "dall'avvenuto accertamento dell'interesse archeologico ai sensi della legge 1 giugno 1939, n. 1089 o di altre leggi speciali", con decisione che sebbene tenga conto della duplicità degli interessi in gioco, scinde talmente le due prospettive di protezione da condurre all'imposizione di una tutela paesaggistica anche su aree che, indipendentemente dalla imposizione di uno specifico vincolo archeologico, non abbiano però ormai neppure le caratteristiche di riconoscibilità di "zona di interesse archeologico", cui la legge connette l'automatica tutela paesaggistica. In quest'ottica è la precisazione sempre di Cass., sez. III, sent. 21 giugno 2002, n. 903, cit., secondo cui, anche a prescindere dalla imposizione di uno specifico vincolo, le zone di interesse archeologico possono essere individuate per il loro valore intrinseco sia da una norma di carattere generale (statale o regionale) sia da strumenti urbanistici (previsti dalla legge regionale) e che questa individuazione "comporta anche la sussistenza del vincolo paesaggistico ex legge 29 giugno 1939, n. 1497". Quanto al procedimento di rilascio della c.d. autorizzazione paesaggistica regionale, è noto che l'art. 151 del t.u. 490/99 ne prevede il potere soprintendizio di annullamento, ai fini di un controllo di legittimità sull'operato della regione che, nella lettura fattane dalla Corte (Corte cost., sent. 9 dicembre 1991, n. 437, in Riv. giur. edil., 1992, I, 8) rappresenta "l'estrema difesa" dei vincoli paesaggistici, la cui previsione è pertanto qualificabile, per la diretta connessione con il valore costituzionale primario della tutela del paesaggio espresso dall'art. 9 Cost., fra le "norme fondamentali di riforma economico-sociale" e come tale non derogabile, né sostituibile o modificabile dalla legislazione regionale. Questo procedimento resta sostanzialmente inalterato anche secondo il Codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (abrogativo del d.lg. 490/1999), ma solo in via transitoria (cioè sino all'approvazione dei piani paesaggistici ed al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici ex art. 159 Codice). A regime infatti il ruolo della soprintendenza è destinato a mutare radicalmente, degradato a parere obbligatorio ex art. 146, comma 7, Codice. Va segnalato che il procedimento è oggetto di ulteriore revisione nel disegno di riforma del Codice dei beni culturali, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 18 novembre 2005: il nuovo art. 146 specifica che il parere soprintendizio è vincolante, restando obbligatorio solo nell'ipotesi in cui il piano paesaggistico è elaborato congiuntamente da regione e Stato.

[15] L'art. 97 d.lg. 490/1999 prescrive, infatti, che gli interventi di valorizzazione siano conformi alle disposizioni relative alla tutela dei beni culturali. Sui profili di sovrapposizione tra le funzioni di "tutela" e "valorizzazione" si rinvia a G. Sciullo, Le funzioni, in C. Barbati - M. Cammelli - G. Sciullo (a cura di), Il diritto dei beni culturali, cit., 57 ss.; C. Barbati, Tutela e valorizzazione dei beni culturali dopo la riforma del Titolo V: la separazione delle funzioni, in Giorn. dir. amm., 2003, 145 ss.

[16] Dall'art. 2, comma 7 della legge, in ordine al parere da rendersi in sede di conferenza di servizi.

[17] Dall'art. 3, comma 2, in ordine alla possibile realizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse sulle aree tratturali aventi interesse archeologico.

[18] Previsione, di cui però non fa cenno la sentenza in commento, contenuta nell'art. art. 2, comma 8, in ordine all'autorizzazione, da rendere ex art. 55 d.lg. 490/1999, delle aree suscettibili di alienazione, in quanto rientranti nella classificazione, più volte ricordata, delle aree che non conservano l'originaria consistenza, e che non possono essere alla stessa reintegrate (art. 2, comma 2, lett. b) e c).

[19] Come accade per il parere che la soprintendenza archeologica deve esprimere in ordine alla "regolarizzabilità" delle opere eseguite successivamente alla introduzione del vincolo, sulle aree ritenute tuttora di interesse archeologico, secondo la previsione dell'art. 3, comma 3, lett. a). In questo caso, rileva la Corte, sarebbe illogico che il parere soprintendizio, vincolante nelle ipotesi in cui si tratti di costruire una nuova opera, non lo fosse anche nel caso in cui si tratti invece di valutare la compatibilità con le finalità di tutela di una costruzione già realizzata.

[20] In realtà, il catalogo dei pareri soprintendizi previsti dalla legge regionale comprende anche il "parere definitivo" richiesto per l'alienazione dei tratturi rientranti nel catalogo di quelli ritenuti privi di interesse archeologico e perciò dal piano classificati sub lettere b) e c) dell'art. 2, comma 2 della legge.

[21] La conclusione non sembra elisa dalla considerazione che le opere pubbliche o di pubblica utilità da realizzare su questi tronchi armentizi dovrebbero essere diverse da quelle (fra cui le strade ordinarie) che si possono realizzare su tronchi armentizi privi di interesse archeologico, secondo le previsioni dell'art. 2, comma 2, lett. b) della legge. Tutto ciò conferma peraltro l'ambiguità intrinseca nella stessa nozione di valorizzazione, nella sua distinzione/opposizione alla nozione di tutela, per fini di riparto di competenze fra Stato e regioni (v. supra, nota 15). Sulla nozione di valorizzazione, nell'ambito della giurisprudenza costituzionale, si veda Corte cost., sent. 28 marzo 2003, n. 94, in Foro it., 2003, I, 1308, con riferimento all'ascrizione o meno alla nozione di previsioni legislative regionali, nella specie della regione Lazio, dirette ad agevolare finanziariamente interventi "fisici" quali il restauro e la manutenzione dei c.d. locali storici; e all'applicabilità della distinzione fra tutela e valorizzazione solo con riferimento ai beni culturali che siano tali secondo il T.u. del 1999, cui segue la "speciale conformazione del loro regime giuridico", ma non anche ad "altri beni" cui la legislazione regionale voglia apprestare tutela; Corte cost., sent. 13 gennaio 2004, n. 9, in Foro it., 2005, I, 1998, secondo cui l'intervento diretto sulla cosa, richiesto dall'attività di restauro, implica la competenza statale in ordine ai requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori di restauro e manutenzione dei beni mobili e delle superfici decorate di quelli architettonici; e infine la fondamentale Corte cost., sent. 20 gennaio 2004, n. 26, in Giorn. dir. amm., 2004, 397 con nota di G. Sciullo, I servizi culturali dello Stato.

[22] Utilizzato dalla Corte anche per rigettare la censura concernente la lamentata interferenza con "la materia penale", ex art. 117, comma 2, lett. l) Cost., della disciplina in ordine alla "regolarizzabilità", a date condizioni, delle costruzioni realizzate sui tratti ancora di interesse archeologico. Resta infatti questo l'argomento "forte" utilizzato dalla Corte per giustificare la compatibilità costituzionale della disciplina regionale che, ad avviso della Corte, si sovrapporrebbe senz'altro a quella della l. 47/1985, salvo che per la disciplina del prezzo della "sanatoria" (per la "disponibilità" di questo profilo da parte del legislatore regionale, in considerazione del fatto che la disciplina del condono edilizio, per la parte non inerente a profili penalistici, è da ritenere ascrivibile alla materia "governo del territorio", s v. Corte cost., sent. 24 giugno 2004, n. 196, in Foro it., 2005, I, 327. Rimane tuttavia sullo sfondo la questione - che però non può neppure essere affrontata in questa sede- della simmetria o meno fra le due ipotesi, anche semanticamente distinte, della "sanatoria" e della "regolarizzazione" di opere realizzate su suoli archeologici, legate a prima vista da un rapporto che appare di continenza sotto il profilo della disciplina urbanistica (sono regolarizzabili solo le opere sanabili ai sensi della disciplina generale), e di distinzione, sotto quello della disciplina dei beni storico - artistici in generale e archeologici in particolare (sono regolarizzabili anche le opere realizzate su suolo demaniale).

[23] Che, secondo la formula di origine ranellettiana invocata dalla regione muovono "dal riconoscimento della esistenza di una situazione soggettiva per eliminare il limite posto al suo esercizio".

[24] M. S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, II, 1970, 864 - 865, in cui si sottolinea che non sembra che in pratica "esista una distinzione tra le formule normative pareri vincolanti, pronunzie e decisioni". Sulla trasformazione delle attività consultive e per la ricerca della loro "difficile identità", si veda C. Barbati, L'attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, 2002.

[25] Nel caso del parere soprintendizio previsto dall'art. 28 l.u. 1150/1942, modificato dall'art. 18 l. 65/1967) circa la compatibilità paesistica del piano regolatore, si tratta di autorizzazione paesistica secondo Cons. Stato, sez. VI, sent. 2 marzo 2000 n. 1095; donde la competenza regionale al suo rilascio (Cons. St., IV, sent. 13 marzo 1991, n. 181, in Foro amm., 1991, 677; Cons. Stato, sez. IV, sent. 16 giugno 1986, n. 421, in Foro amm., 1986, 1033). Circa l'equivalenza fra autorizzazione al restauro (prima negata) e parere favorevole ai lavori proposti (poi rilasciato), si veda Corte cost., sent. 29 aprile 1996, n. 136, in Giur. cost., 1996, 1197.

[26] Altro discorso, che qui non è possibile affrontare, è quello della maggiore o minore incisività del ruolo assegnato allo Stato nella prefigurata trasformazione del potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla regione, in un apporto consultivo, peraltro non vincolante. Val la pena sottolineare tuttavia, sulla scia di quanto rilevato dalla difesa della regione Puglia, sia pure con riferimento ai pareri "vincolanti" previsti dalla normativa in commento (ma con conclusioni cui non sembrano sfuggire le restanti tipologie di pareri) che "il parere in quanto tale ingloberebbe, come l'atto di approvazione, una valutazione di legittimità e di merito, condizionando lo stesso esercizio del potere deliberativo, sicché il potere statale ne risulterebbe addirittura rafforzato". La conclusione non appare priva di rilievo in presenza di una giurisprudenza amministrativa che garantisce ampia riserva alle valutazioni di merito soprintendizie, tuttora pienamente sottratte alla sfera della giuridicità.

[27] Sul problema della verifica dell'interesse culturale rivestito dai beni "pubblici" di cui all'art. 12 del Codice, sia consentito il richiamo a G. De Giorgi Cezzi, Verifica dell'interesse culturale e meccanismo del silenzio - assenso, in Aedon, 3/2003.

 



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