Paesaggio e patrimonio culturale
Ripresa e resilienza tra le vie dei borghi storici
di Enrico Guarnieri [*]
Sommario: 1. Il patrimonio culturale oltre i “luoghi comuni” del turismo. - 2. Considerazioni minime sul rapporto tra patrimonio culturale, turismo e sviluppo territoriale. - 3. L’uso strategico del turismo culturale: il caso paradigmatico del rilancio dei borghi storici (e appunti sulla loro definizione). - 4. Turistificazione e ripopolamento “specializzato” nei borghi storici.
Recovery and resilience through the streets of historic villages
The essay aims at analyzing the issue of the cultural valorization of historical villages from the perspective of their recovery and socio-economic revitalization. The impression is that this is possible, but neither the instrument nor the objective should be absolutized: the valorization of historical villages can (or as is often the case, above all) be used as a strategy to generate more tourism and more gross domestic product at the national level. Therefore: the recovery and resilience of the State also pass through the streets of historic villages.
Keywords: Historic villages; Cultural heritage; Tourism; Repopulation.
1. Il patrimonio culturale oltre i “luoghi comuni” del turismo
Il punto di attacco di un discorso riferito ai borghi storici è così tanto sfaccettato da demandare necessariamente l’assunzione di una scelta sui termini di avvio dell’analisi. Perché dunque non prendere le mosse dalla ricerca di una (per molti versi assente) definizione di borgo storico, dalla evidenza dei dati concernenti lo spopolamento e le criticità sociali nonché economiche lì registrate, o ancora dalla considerazione delle forme e dei modi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale lì custodito? Perché si tratta forse di sentieri già utilmente percorsi dalle varie scienze che sul tema si sono via via affastellate? La risposta affermativa, che pure si impone, non sarebbe qui bastevole.
La ragione di abbandonare - ma solo per un istante - questi apprezzamenti si appunta soprattutto nella esigenza di conferire sin da subito una direzione precisa alla riflessione qui proposta e di manifestare, pertanto e senza alcun indugio, piena adesione all’impostazione offerta da quella autorevole dottrina che, trattando del rapporto tra cultura e turismo, ha sanzionato come “riduttiv[o] se assolutizzat[o]” l’apprezzamento in chiave strettamente turistica delle ricadute dei fondi destinati al patrimonio culturale: “[t]ali ricadute” - si è osservato - “si estendono ad un ampio ventaglio di attività economiche e produzioni industriali, che oltre al turismo abbracciano la moda, il disegno industriale, l’artigianato, la realizzazione di contenuti per l’informazione, la comunicazione e l’intrattenimento” [1].
È quindi opportuno chiarire che sarebbe al pari riduttiva e finanche perniciosa la stretta connessione biunivoca che si volesse instillare tra la valorizzazione dei borghi storici, da un lato, ed il turismo, dall’altro: come si cercherà di dimostrare, infatti, il disegno sotteso alla valorizzazione dei borghi storici è un disegno strategico, che non si risolve nell’aumento dei flussi turistici - secondo quel tradizionale moto polarizzato che dalla valorizzazione va alla maggiore tutela e fruizione (v. infra par. 2) - ma che usa il turismo come volano per una ripresa tanto interna quanto esterna ai borghi.
Si comprenderà, per altro verso, la genesi dei perché impliciti alla provocazione contenuta nel titolo di questo paragrafo. I “luoghi comuni” del turismo, tanto in senso spaziale - le città (anche e soprattutto d’arte) - quanto in senso figurato - il turismo come fine (in sé e di per sé) della valorizzazione del patrimonio culturale - appaiono superati e fuorvianti: il turismo è infatti sempre più attratto verso altri luoghi fisici (i borghi storici), ed è proprio con riferimento a questi “nuovi” luoghi che si va progressivamente affermando una rinnovata metrica, caratterizzata dalla torsione del prius (il patrimonio culturale) e del posterius (il turismo) in altrettanti strumenti di coesione e sviluppo.
Questo in sintesi, in estrema sintesi, l’oggetto del presente contributo.
2. Considerazioni minime sul rapporto tra patrimonio culturale, turismo e sviluppo territoriale
Le preliminari considerazioni di metodo e di merito che precedono non elidono di certo la stretta connessione sussistente tra il patrimonio culturale ed il turismo, non fosse altro perché il d.lg. 23 maggio 2011, n. 79, ha per l’appunto dedicato il Capo II del Titolo V al “turismo culturale”, che, sebbene sprovvisto di una nozione di diritto positivo, è stato agilmente - ma approssimativamente [2] - definito in dottrina come il “viaggio finalizzato alla fruizione di beni culturali, alla partecipazione ad un evento” [3].
Eppure, prima ancora che giuridico, il dato è strettamente fattuale [4]. L’Italia vanta un vastissimo patrimonio culturale - da cui la fortunata espressione di museo a cielo aperto [5] - come comprovato dai tentativi di censimento del patrimonio culturale [6], dal primato di concentrazione di siti Unesco (nell’ammontare di cinquantotto [7]), nonché dalle elevatissime stime (per alcuni ampiamente sottostimate [8]) del valore economico dei beni culturali immobili e mobili operate dalla Ragioneria generale dello Stato nei rapporti su “Il patrimonio dello Stato” [9]; stime considerate a tal punto cruciali che nel 2012 la procura della Corte dei conti del Lazio aveva aperto (per poi archiviare) una istruttoria a carico di ben note Agenzie di rating, queste non avendo considerato nella valutazione e nel declassamento del debito pubblico italiano l’altissimo valore economico del patrimonio culturale [10]. Ed è così che a fronte di questa “dotazione” non sorprendono le stime più che positive sull’attrattività turistica del patrimonio culturale italiano, specialmente se si considerano, come pare doveroso fare, i dati antecedenti allo scoppio della pandemia da Covid-19: secondo le rilevazioni della Banca d’Italia, ad esempio, nel 2017 il turismo culturale degli stranieri ha rappresentato il 51,7 per cento degli arrivi, il 52,3 per cento dei pernottamenti e il 59,6 per cento della spesa [11].
Fisiologico è quindi il rapporto tra turismo e cultura (si intende: almeno per il nostro paese). Patologico, per altro verso, ma pur sempre entro una dimensione tutta domestica, è stato invece il disinteressamento a lungo mostrato dal legislatore per il suddetto legame.
La dottrina ha peraltro saputo cogliere le ragioni del ritardo: dapprima, la preminenza esclusivamente accordata alla tutela dalla legge 1° giugno 1939, n. 1089, ad “una tutela rigorosissima, strettissima, estremamente puntuale”; poi, ancorché in misura minore - perché ben presto sconsacrata - la lettura eminentemente testuale dell’art. 9, comma 2, Cost., che “costituzionalizzava” quelle medesime esigenze di tutela, già recate dalla legge n. 1089/1939, evidentemente contrarie a tutto ciò che potesse comportare anche solo un potenziale deterioramento del patrimonio culturale [12]. Così, in sintesi, la genesi della scissione tra turismo e cultura.
Per la revisione di questo paradigma non bisogna però di certo attendere l’entrata in vigore del Codice del Turismo e delle già menzionate disposizioni sul turismo culturale [13]. Se è infatti vero che l’assolutizzazione della tutela ha mortificato le ragioni del turismo [14], allora è anzitutto alla emersione del concetto di valorizzazione che bisogna riferirsi. Emersione, peraltro, affatto recente, tenuto conto che la possibilità di ridefinire la “funzione della tutela in termini anche dinamici” [15] è considerazione che scaturisce per l’appunto dalla presa d’atto circa l’ampiezza del disposto dell’art. 9 Cost. Il germe della “concezione totalizzante della tutela” [16] e della “concezione estetizzante ed elitaria delle “cose d’arte” [17], che pure nel dettato costituzionale è parso avere un qualche addentellato, è stato sconfessato da chi ha saputo cogliere nella tutela un “mezzo al fine” [18] (secondo l’idea della strumentalità dell’art. 9 Cost. rispetto agli artt. 1-4 Cost.) e da quanti, promovendo “una lettura unitaria” dei commi dell’art. 9 Cost., hanno enfatizzato la “accentuazione particolare del fine generale di promozione della cultura” [19]. Insomma, come più di recente chiosato, “già nell’ottica costituzionale tutela e promozione dei beni culturali sono tra loro indissolubilmente legate e devono procedere all’unisono” [20].
Sta di fatto che, dapprima declamata in dichiarazioni (così nei lavori della commissione Franceschini) quindi via via positivizzata in plurimi interventi legislativi (d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 e, da ultimo, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42), la valorizzazione è entrata a far parte, seppur in maniera alquanto travagliata (basti por mente ai tormenti del riparto di competenze), del novero delle funzioni amministrative aventi ad oggetto il patrimonio culturale. Un aspetto, questo, determinante, giacché, come correttamente osservato, la valorizzazione ha finito per “coniugare, almeno a livello concettuale, il patrimonio culturale italiano con la fruizione turistica del medesimo” [21].
Il rapporto così venutosi progressivamente a creare tra valorizzazione e turismo reca però in sé una potenziale distonia rispetto agli esiti raggiunti da quelle autorevoli voci dottrinali che hanno descritto e per questa via limitato la caratterizzazione economica della valorizzazione.
Come noto, infatti, la valorizzazione è stata fortemente dissociata dalla mera produttività di reddito, essendone stata invece predicata una struttura “circolare” [22], tale per cui la produzione di reddito generata dai beni culturali deve produrre maggiori entrate, a loro volta pur sempre generatrici di “migliore tutela e fruizione più ampia dei beni culturali” [23].
È però altrettanto noto che il turismo non produca soltanto maggiori entrate, per così dire, “interne” al circuito culturale e quindi destinate in via principale e diretta ad incrementarne la futura tutela e fruizione: è infatti innegabile che il turismo generato dalla valorizzazione del patrimonio culturale possa produrre (recte: produce) effetti benefici “esterni”, a favore del territorio, effetti quindi non direttamente destinati ad una maggiore tutela e fruizione del mezzo (il patrimonio culturale) attraverso cui il turismo ha tratto propulsione.
Quest’ultimo risvolto della fruizione turistica parrebbe quindi porsi in contrasto con l’immagine della circolarità della ricchezza prodotta dalla valorizzazione, non fosse altro perché il reddito prodotto dal turismo, per quanto si è detto, sembra rompere il circolo virtuoso tra mezzo (la valorizzazione del patrimonio culturale) e fine (la maggiore tutela e fruizione del patrimonio culturale) [24]. Ciononostante - e a tacere del fatto che anche il beneficio esterno, ancorché in maniera un po’ più mediata, può sempre ritornare a favore del circuito culturale - v’è comunque da riconoscere che una insanabile e patologica distonia potrebbe sussistere soltanto laddove fosse esasperato il carattere circolare della redditività del patrimonio culturale. Rifuggendo dalle assolutizzazioni, è infatti possibile affermare che dal punto di vista della valorizzazione (e quindi della fruizione turistica) il patrimonio culturale è un fine tra altri fini: un fine che occupa pur sempre una particolare posizione (basti por mente al preciso rapporto “gerarchico” tra tutela e valorizzazione definito dall’art. 6, comma 2, d.lg. n. 42/2004), ma che non è per ciò stesso solitario ed escludente.
È quindi alla luce di questo quadro teorico che si spiega con maggiore dovizia d’analisi la surriferita esigenza di prendere le mosse dalla constatazione circa la superficialità di un ipotizzabile rapporto biunivoco tra cultura e turismo (supra par. 1). Dal punto di vista della fruizione, il turismo culturale è un esito della valorizzazione, ma dal punto di vista della valorizzazione il turismo non è l’unico degli esiti possibili; allo stesso modo, i benefici economici del turismo non si riflettono sempre e comunque dentro il circuito culturale. Come si diceva, v’è qualcosa di più; un qualcosa che sta anzitutto nella “natura (anche) ‘produttiva’ dei beni culturali, perché da considerarsi non solo valore da salvaguardare ma anche risorsa da utilizzare” [25] e che poi si riflette al di fuori del comparto culturale interessando direttamente l’utile socioeconomico prodotto a favore del territorio di riferimento.
Di ciò la dottrina è peraltro sempre più consapevole. Della valorizzazione si riconosce una duplice veste, quella potendo essere intesa tanto in senso tradizionale come valorizzazione culturale quanto in senso più aggiornato, concorrente e non necessariamente alternativo alla prima, come valorizzazione economica, ossia come quella pratica di valorizzazione che genera dinamiche aventi effetti positivi sullo sviluppo economico e sociale dei territori interessati [26]; della cultura si professa la natura di “driver per l’economia”, e del “patrimonio culturale” si riconosce sempre più la torsione verso “nuove funzioni”, in particolare quelle destinate a creare degli “attivatori di processi di tipo economico-sociale” [27]: della molteplicità dei fini perseguibili tramite la valorizzazione del patrimonio culturale non si dubita quindi più (di tanto), essendo sempre più chiaro come siano via via “cambiate le finalità, perché alla conservazione dei beni e alla fruizione collettiva degli stessi, si devono aggiungere le potenzialità economiche che il bene racchiude, nella prospettiva [...] di rilanciare aree territoriali economicamente più depresse” [28].
3. L’uso strategico del turismo culturale: il caso paradigmatico del rilancio dei borghi storici (e appunti sulla loro definizione)
Compreso che dietro alla valorizzazione del patrimonio culturale per finalità di sviluppo socioeconomico dei territori di riferimento non si annida - per dirla con le categorie generali - una ipotesi di eccesso di potere nella forma (più risalente) di sviamento, apparirà quindi chiaro che il “caso” dei borghi storici è niente più che un esempio per compenetrare di concretezza l’astrattezza del punto di osservazione teorico sin qui privilegiato: non è un caso che in dottrina questa connessione sia stata chiaramente enfatizzata laddove si è detto che vi sono “alcune categorie di beni culturali (come borghi, città d’arte, centri storici, o paesaggi) nei quali, senza l’apprezzamento delle dinamiche socio-economiche e ambientali-territoriali che li riguardano, non sono possibili né tutela né valorizzazione, né restauro né fruizione” [29].
L’oggetto “borghi storici” trattiene peraltro in sé un coacervo di problematiche di cui è qui difficile dare compiutamente conto, tanto più se si considera che per il tema in esame l’interdisciplinarietà non dovrebbe rappresentare solo una possibile forma di analisi, bensì dovrebbe costituire un doveroso angolo prospettico. Purtuttavia, a beneficio e con il beneficio della sintesi, e quindi recuperando alcuni spunti, veramente solo alcuni spunti, delle scienze statistiche (ce ne si avvede, con deficitaria omissione delle altre scienze che sul tema si sono affastellate), si segnala che tutto il problema dei borghi storici, così come e più in generale delle aree interne [30], ruota attorno alla questione dello spopolamento, che è assieme causa ed effetto del sottosviluppo e della scarsa attrattività (anche turistica) di quei luoghi. Secondo un dossier dell’Anci datato 2018, i 5.544 piccoli comuni italiani (ossia quelli con popolazione inferiore a 5.000 abitanti) avrebbero registrato tra il 2012 ed il 2017 uno spopolamento di quasi 74.000 persone a favore dei territori maggiormente urbanizzati [31]; secondo quanto emerge da un dossier di Assoturismo-Confesercenti, il turismo appare poi ampiamente trainato dai grandi attrattori cittadini, essendo stato rilevato nelle sole città d’arte un afflusso turistico superiore ai 139 milioni di presenze (anno di riferimento 2019) [32].
Ad ogni modo, dai dati così brevemente considerati è possibile isolare almeno tre considerazioni. La prima è che il problema dei borghi è, a tutti gli effetti, attuale. La seconda è che non pare possibile trattare di borghi senza parlare di città, né sembra possibile operare in senso contrario: come si è visto, le città rappresentano un fattore di attrattività (residenziale e turistica) antagonistico rispetto alle esigenze dei borghi, tanto più che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), come si dirà, ha predisposto alcuni interventi proprio per invertire quella tendenza. La terza è che il rapporto tra città e borghi non è solo un rapporto statico (definito da caratteristiche morfologiche e dimensionali), bensì e pertanto anche un rapporto dinamico, perché tra quei due poli avviene un passaggio demografico continuo (anche di modelli: si pensi alla trasfusione della prossimità borghigiana nella città dei quindici minuti [33]), ma non osmotico, se si eccettua l’inaspettato “secondo tempo” dei borghi attivato in costanza della recente stagione pandemica, avendo le restrizioni generato un processo “invertito”, motivato dalla epifanica consapevolezza - va ammesso: obiettivamente transeunte - dei fisiologici condizionamenti del vivere urbano [34].
È peraltro interessante notare come alla crescente attenzione per il fenomeno delle città è corrisposto un maggiore riguardo per le vicende inerenti alle sorti dei borghi storici, senza però - è giusto il caso di osservarlo - che da questi maturati interessamenti sia poi discesa la definizione di un vero e proprio statuto giuridico di diritto positivo, eccezion fatta, si intende, per i riusciti ed apprezzabili sforzi dottrinali [35].
Non è un caso - ed anzi, in ciò l’esatta riprova del disinteressamento legislativo per le categorizzazioni - che dei borghi storici manchi una nozione di diritto positivo; un deficit, questo, ricorrente sia nei casi in cui la normativa ha operato un qualche riferimento espresso ai borghi (cfr. legge 6 ottobre 2017, n. 158 e d.lg. n. 79/2011 [36]) sia, ed a fortiori, laddove del termine “borghi” non v’è proprio alcuna traccia (d.lg. n. 42/2004, su cui però v. infra).
Neppure la legislazione regionale riesce ad offrire un sicuro parterre di definizioni, tenuto conto che la poliedricità delle nozioni assunte dalle regioni con riferimento ai centri storici [37] è quantitativamente e qualitativamente rapportabile alla differenziazione degli usi e delle definizioni impiegati con riferimento all’espressione “borgo”.
A tal riguardo, se si eccettuano, per un verso, quelle previsioni (obiettivamente meno rilevanti) che nel richiamare e nel non definire i borghi [38] pongono questi ultimi in rapporto alle “città”, così assumendo una sorta di relazione dimensionale “piccolo-grande” [39], presentano per altro verso un sicuro e maggiore interesse quelle disposizioni che tentano un coordinamento anche definitorio tra il “livello” del borgo e quello del centro storico.
Lo studio delle definizioni di centro storico assunte a livello regionale si rivela peraltro di grande interesse se intrecciato con l’analisi delle definizioni regionali di borgo storico, non fosse altro perché tra le plurime considerazioni che possono essere svolte spicca quella relativa alla (più che) potenziale sussistenza di alcune sovrapposizioni nozionistiche.
Muovendo per esempi, si consideri che la l.r. Sardegna 13 ottobre 1998, n. 29, reca una definizione di centri storici - “agglomerati urbani che conservano nell’organizzazione territoriale, nell’impianto urbanistico o nelle strutture edilizie i segni di una formazione remota e di proprie originarie funzioni abitative, economiche, sociali, politiche e culturali” (art. 2, comma 1) - che è ampiamente assimilabile (se non sovrapponibile) a quella che, come si illustrerà appresso, altre leggi regionali prescrivono in merito ai borghi storici. Il tutto, peraltro, con una particolarità aggiuntiva, tenuto conto che l’art. 2, comma 2, l.r. Sardegna n. 29/1998, dispone che “[a]ppartiene a questa categoria ogni altra struttura insediativa, anche extra urbana, che costituisca eredità significativa di storia locale”. Si è quindi qui dinanzi ad una sovrapposizione nozionistica che opera certamente all’esterno (ossia tra le definizioni recate da testi normativi prodotti da legislatori regionali diversi), ma anche e soprattutto all’interno (ossia tra le definizioni fornite nell’ambito dello stesso testo normativo), considerato che il citato art. 2, comma 2, lascia trapelare la volontà del legislatore sardo di fornire una definizione onnicomprensiva, che trascende l’idea del centro storico urbano, per abbracciare, in sostanza, ogni nucleo storico.
La casistica è peraltro florida. In effetti, considerando e confrontando ad esempio i precetti della l.r. Abruzzo 17 marzo 2004, n. 13, e della l.r. Marche 22 novembre 2021, n. 29, emerge una definizione di centro storico (resa dalla legge abruzzese) per molti versi equiparabile a quella che la legge marchigiana appresta per i borghi storici: infatti, ai sensi dell’art. 2, comma 1, l.r. Abruzzo n. 13/2004, sono i centri storici ad essere definiti come “agglomerati insediativi urbani che conservano nell’organizzazione territoriale, nell’impianto urbanistico o nelle strutture edilizie, i segni di una formazione remota e di proprie originarie funzioni economiche, sociali, politiche e culturali” [40]; mentre, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a), l.r. Marche n. 29/2021, sono invece i borghi storici ad essere qualificati come “agglomerati insediativi che conservano nell’organizzazione territoriale, nell’assetto urbanistico o nelle strutture edilizie i segni di una formazione remota e di proprie originarie funzioni economiche, politiche, sociali e culturali connesse alle caratteristiche del territorio e che possono rivestire anche carattere artistico o di particolare pregio ambientale e paesaggistico”. A latere di questa pressocché totale sovrapposizione nozionistica operante all’esterno e trasversalmente ai due testi legislativi - sovrapposizione, questa, al più scongiurata (salvo quanto osservato appresso) dal diverso uso dell’aggettivo “urbani”, impiegato nella definizione abruzzese di centro storico e assente in quella marchigiana di borgo - merita poi di essere evidenziato che se la legge abruzzese ha cercato di evitare sovrapposizioni interne (allo stesso corpo normativo) tra la nozione sopra riportata di centro storico e quella di borgo (“un insieme armonico di elementi urbanistici, architettonici e storici, correlati ad una presenza di attività artigianali, turistiche e di servizio”), il percorso seguito dal legislatore marchigiano si è rivelato per certi versi differente. Ed infatti, evitata a livello meramente formale la sovrapposizione tra la sopra citata nozione di borgo storico e quella di centro storico - quest’ultimo essendo lì definito come l’insediamento individuato “dalla pianificazione urbanistica comunale come zona A” (art. 2, comma 1, lett. b) - la l.r. Marche n. 29/2021 ha poi comunque generato una sovrapposizione di tipo, per così dire, “territoriale”, tenuto conto che secondo il disposto dell’art. 2, comma 1, lett. a), i borghi storici possono poi “anche coincidere con i centri storici”, ossia, lo si ripete, con “gli insediamenti individuati dalla pianificazione urbanistica comunale come zona A” [41].
Considerata la coincidenza perimetrale (i.e. territoriale, sia essa totale o parziale) prefigurata dal legislatore marchigiano, parrebbe quindi possibile immaginare (quantomeno nel quadro normativo della l.r. Marche n. 29/2021) un triplice rapporto tra i borghi ed i centri storici. Anzitutto, vi può essere una coincidenza totale tra il borgo ed il centro storico, nel qual caso, allora, la distinzione terminologica scema ad orpello giuridico. V’è poi l’ipotesi della inclusione spaziale del borgo nel centro storico, nel qual caso il borgo si caratterizzerà come un nucleo con “autonome” origini e con una propria identità, in quanto caratterizzato - si prende a prestito una formula impiegata dalla citata l.r. Abruzzo n. 13/2004 - dalla “presenza di attività artigianali, turistiche e di servizio” evidentemente altre (perché identitarie) rispetto a quelle offerte nel più ampio centro storico. Infine, vi è l’ipotesi della assenza di sovrapposizione: un caso questo che si esprime nella formula lata di borghi rurali e che è più che ricorrente nella normativa regionale.
In effetti, non solo alcune leggi regionali contemplano il borgo rurale come ulteriore declinazione del borgo storico [42] (ciò da cui si ricava e si ribadisce la possibile esistenza di borghi storici urbani, finanche coincidenti con il o inseriti nel centro storico), ma per di più molti altri testi normativi fanno esclusivo riferimento al borgo rurale, così finendo per creare un “sistema binario” in cui, al contrario di quanto sopra osservato, sovrapposizioni non paiono proprio poter esservi.
Va in tal senso la l.r. Toscana 20 dicembre 2016, n. 86, ove il legislatore all’art. 21 ha optato per una chiara distinzione tra il “centro storico” (ossia la porzione di territorio coincidente con la “zona A”) ed il “borgo rurale”, ovvero “il nucleo o insediamento in stretta relazione morfologica, insediativa e funzionale con il contesto rurale, caratterizzato dalla presenza di più unità dalla tipologia simile nel territorio esterno alla città storica di una comunità, dalla presenza sia di edifici per la residenza sia di rustici e dalla presenza di un impianto urbanistico delimitato nel quale siano presenti elementi caratteristici di identità”. Caratteristica di questo impianto è, peraltro, che i borghi rurali rilevano, ai fini della normativa considerata, nella misura in cui siano qualificati dalla storicità o dalla culturalità del luogo (così per i borghi rurali che “presentano emergenze di rilievo storico, culturale, paesaggistico o di tipo ambientale naturale”) o comunque laddove siano qualificati da una più generale attrattività (così per i borghi rurali che “presentano emergenze [...] inerenti alla vocazione turistica, all’artigianato tipico, a itinerari culturali, religiosi o percorsi enologico-gastronomici in zone di produzione con prodotti a denominazione di origine protetta (Dop), ad indicazione geografica protetta (Igp) e a specialità tradizionale garantita (Stg)”: scomposizione, questa, che si rivela di un certo interesse nella misura in cui, come si dirà appresso, tende a differenziare le singole realtà borghigiane, negando in radice una prospettiva unitaria o comunque omologante.
Il caso toscano non rappresenta peraltro un unicum: una distinzione di tal fatta e così tranchant è infatti contemplata anche in altre esperienze regionali. Tra queste [43], una menzione particolare deve essere riservata al decreto della regione Abruzzo del 29 aprile 2014, n. 3, recante il regolamento attuativo della l.r. 9 agosto 2013, n. 22 sul “Recupero e restauro dei borghi antichi e centri storici minori nella Regione Abruzzo attraverso la valorizzazione del modello abruzzese di ospitalità diffusa”. In particolare, merita di essere osservato come l’art. 1 del suddetto regolamento riproduca, seppur con alcune differenze, la piana distinzione tra borgo e centro storico sopra considerata. Sovrapposizioni e duplicazioni sono infatti lì scongiurate dalla distinzione tra ciò che è “centro storico” (la porzione di territorio di cui alla zona A) e ciò che è “borgo antico”, ancora una volta inteso come “insediamento del territorio rurale, esterno al centro storico” e che deve risultare essere “costituito da strutture insediative rappresentate sia da edifici per la residenza che da spazi pertinenziali ovvero rustici, e caratterizzato dalla presenza di aggregati dalla tipologia architettonica simile, riconducibile a più nuclei familiari contadini, nonché dalla presenza di un impianto urbanistico ben delimitato in cui i fabbricati siano in massima parte antecedenti il 1900 e nel quale siano presenti elementi caratteristici di identità”.
Ora, non v’è dubbio che la normativa considerata palesi percorsi definitori assai variegati, che determinano o, di converso, prevengono sovrapposizioni nozionistiche con i centri storici, e che comunque scontano il più delle volte la specificità del relativo ambito applicativo [44]. Ma già questo è un dato: si conferma per questa via l’assenza di una univoca definizione di borgo e se ne attesta la rispondenza al mutare dell’ottica e del fine della normativa. Ciononostante, e seppur in un siffatto contesto, una tendenza, per così dire omologante, può comunque essere registrata. Come si è potuto osservare, è infatti ampiamente riconoscibile il ricorso ad una metrica per così dire binaria, che, nel recepire una percezione comune (quella di borgo come luogo “remoto”), previene le possibili sovrapposizioni operando un semplice distinguo tra centro storico (di cui alla zona A) e borgo rurale (inteso come luogo “esterno alla città storica” o comunque “esterno al centro storico”) [45]. A quest’ultimo riguardo, peraltro, è poi giusto il caso di precisare che non ogni agglomerato “remoto” può essere per ciò solo considerato un borgo. Come dimostrato dalla l.r. Toscana n. 86/2016, infatti, è pur sempre necessario che quel luogo sia contraddistinto dalla ricorrenza di “elementi caratteristici di identità” che poggiano in definitiva sulla terna storicità-culturalità-attrattività o anche solo su uno soltanto di questi caratteri.
Quest’ultima specifica porta a due osservazioni ulteriori.
La prima è che la storicità parrebbe non costituire un carattere sempre indefettibile della qualificazione normativa di borgo: lo è - anche se con sfumature diverse - nella definizione recata dalla l.r. Marche n. 29/2021 e dal decreto della regione Abruzzo del 29 aprile 2014, n. 3, ma non lo è per l’appunto nella l.r. Toscana n. 86/2016. Ciononostante, vi è motivo di credere che, seppur in “senso debole”, la componente storica sia ineluttabile, se non altro perché il carattere identitario (questo sì: necessario) presuppone pur sempre una matrice storica (ancorché intesa non in senso forte, ossia come formazione antica) [46]: una ragione questa sufficiente - si crede - per impiegare l’espressione “borghi storici”, come si usa fare con formula sintetica e generalizzante.
La seconda considerazione attiene invece al profilo della culturalità (in senso giuridico) dei borghi storici. Ebbene, anche questo profilo si presenta come un elemento non indefettibile secondo la normativa sopra considerata: per un verso, infatti, l’art. 2, comma 1, lett. a), l.r. Marche n. 29/2021, dispone, tramite l’uso della congiunzione “anche”, la natura eventuale ed accessoria del carattere artistico o del particolare pregio ambientale e paesaggistico dell’agglomerato [47]; per altro verso, poi, la più volte citata l.r. Toscana n. 86/2016 ammette, come si è visto, che non tutti i borghi siano caratterizzati dalla culturalità [48]. Ciononostante, questa considerazione - oltre a non precludere la possibilità di annoverare siffatti borghi tra i paesaggi “della quotidianità” [49] (un’espressione, questa, “a cui non deve attribuirsi alcuna accezione svalutativa”, trattandosi di aree “comunque capaci di esprimere, sempre in ragione del loro aspetto, messaggi di senso” [50], perché “raccontano una loro storia e presentano una loro identità” [51]) - non esclude di certo che i borghi possano in concreto comunque ricadere nell’alveo del patrimonio culturale [52].
Si badi, non si fa qui riferimento alla sola ipotesi in cui nel perimetro del borgo siano custoditi beni culturali - nel qual caso, è chiaro, non sarà il borgo in quanto tale a rilevare ai fini della tutela e della valorizzazione, ma solo i beni culturali immobili o comunque i singoli beni o delle singole attività culturali immateriali [53] che in quel luogo trovano la propria “sedes” - bensì ci si riferisce anche ad un caso ulteriore, che apre in definitiva ad una qualificazione diversa ed aggiuntiva per il borgo storico nel suo complesso, ossia quella di bene paesaggistico. Ai sensi dell’art. 136, comma 1, lett. c), d.lg. n. 42/2004, e all’esito del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area ex artt. 137 ss. [54], è infatti il borgo storico a poter rilevare, in sé e di per sé, come bene paesaggistico di notevole interesse pubblico, come “compless[o] di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale” e, quindi, come “bellezza d’insieme” [55] la cui tutela “è determinata, non già dal pregio dei singoli elementi architettonici, quanto piuttosto dalla completezza dell’insieme” [56]. A tacere del fatto che la dichiarazione di notevole interesse pubblico non presuppone necessariamente una preventiva catalogazione del borgo nelle formule di “centro storico” e di “nucleo storico” - formule la cui aggiunta nell’art. 136, comma 1, lett. c), disposta dal correttivo del 2008, ha sempre mostrato “una valenza soprattutto esplicativa e ricognitiva di una prassi già ampiamente diffusa” [57] -, ciò che merita di essere ribadita è la radicale differenza tra le due ipotesi sopra considerate: nell’un caso, non è il borgo, bensì sono i singoli beni culturali lì “situati” a ricevere una determinata qualificazione giuridica e quindi a beneficiare delle correlate previsioni in tema di tutela e valorizzazione; nell’altro caso, invece, in dipendenza di “esigenze conservative non (necessariamente) connesse con singolari pregi estetici o funzionali” [58] e in ragione di un riconoscimento fondato su di un “criterio storico-sociale” applicato ad aree aventi “valore identitario del territorio in cui ricadono o che siano percepite come tali dalle popolazioni” [59], è il borgo come bellezza d’insieme a rilevare, anche nella prospettiva della “tutela della personalità umana attraverso il paesaggio” [60].
Ora, l’analisi giuridica dei contorni definitori dell’espressione “borghi storici” potrebbe certamente proseguire, ma con il rischio (molto poco eventuale) di smarrire la direzione iniziale di questo contributo. È quindi necessario ritornare al tema centrale di questa indagine. In altre parole, è quindi ora il tempo ed il luogo della riprova sopra preannunciata: ebbene, come anticipato, il caso dei borghi storici rappresenta effettivamente un esempio paradigmatico per comprovare la torsione finalistica della valorizzazione del patrimonio culturale (e quindi del turismo culturale) verso finalità altre dalla mera alimentazione del circuito della culturalità.
È chiaro, peraltro, che queste riflessioni non potranno che essere riferite ai casi in cui sussista una riconosciuta culturalità dei o nei borghi storici, mancando altrimenti il presupposto giuridico attorno al quale impostare un discorso connesso al turismo culturale in senso stretto, ossia riferito alla fruizione dell’insieme dei beni culturali (anche immateriali) e paesaggistici riferibili alla nozione codicistica di patrimonio culturale [61]. Non che le conclusioni mutino. Ed infatti, rimane fermo che, anche a prescindere dalla culturalità dei luoghi di “atterraggio”, il turismo in genere è innegabilmente riconosciuto come uno strumento di rilancio economico delle aree depresse, di quelle in corso di abbandono e finanche di quelle abbandonate. Si badi, non si tratta solo di una percezione di senso e di buon senso, bensì un fatto comprovato dai dati. Assumendo qui per ricorrente (come nei fatti statisticamente è) la collocazione dei borghi in corso di spopolamento nei “comuni geograficamente e/o logisticamente più isolati, periferici rispetto alle principali reti di comunicazione”, ebbene è giusto il caso di osservare che, come riconosciuto dall’Istat, proprio per queste aree “remote”, “il turismo riesce [...] a rappresentare un’opportunità di sviluppo”, tanto più che laddove è riuscito l’incremento dell’attrattività turistica si è poi registrato (tra il 2011 e il 2017) un ripopolamento pari al 2,1 per cento ed un incremento del reddito (tra il 2012 ed il 2016) pari al 6,5 per cento (ossia di due punti superiore alla media nazionale) [62].
Calando quindi il discorso nel perimetro ora delineato, v’è da ammettere che l’analisi delle previsioni normativo/programmatiche sul turismo culturale nei borghi storici conferma la torsione finalistica di cui si è ampiamente detto.
Così è, ad esempio, per la Strategia nazionale delle aree interne (Snai), laddove il tema dello spopolamento è aggredito attraverso due macro-obiettivi, l’uno dei quali, per quanto qui più interessa e come esattamente colto in dottrina, è quello di “promuovere progetti di sviluppo che valorizzino il patrimonio naturale e culturale di queste aree, puntando anche sul rilancio delle filiere produttive locali secondo logiche integrate di mercato” [63].
Così è ancora nella legge n. 158/2017, per tradizione ricordata come “legge salva borghi”, ma che contempla anzitutto un piano di finanziamento di progetti per il sostegno dei piccoli comuni [64] e che quindi si rivolge ai borghi nella misura in cui vi sia corrispondenza tra il piccolo comune ed il borgo oppure nel caso in cui il borgo costituisca una frazione del comune considerato (art. 1, comma 2, lett. h). Per quanto qui più rileva è giusto il caso di osservare che alcuni dei fini lì esplicitati, in specie tutela/valorizzazione del patrimonio culturale e, quindi, l’aumento dei flussi turistici, costituiscono certamente finalità correlate, secondo il più tradizionale circolo virtuoso (per cui i prodotti del turismo culturale scaturito dalla valorizzazione culturale devono tornare a vantaggio della maggiore tutela e fruizione culturale), ma ed al contempo sono posti all’art. 1, comma 1, quali fini strumentali rispetto al raggiungimento di un fine ulteriore: il contrasto dello “spopolamento” (componente negativa) e la promozione della “residenza” (componente positiva), nella consapevolezza che “[l]’insediamento nei piccoli comuni costituisce una risorsa a presidio del territorio”.
Eguali considerazioni possono poi essere tratte dal Pnrr, nel cui assetto il rilancio demografico ed economico delle aree interne costituisce tanto una vocazione trasversale (così per i progetti sulla banda larga e sul potenziamento delle infrastrutture di trasporto) quanto un obiettivo assistito da specifiche voci di investimento (inter alia, nel capo dei servizi sanitari di prossimità e dei servizi e delle infrastrutture sociali). Tra queste voci, l’attenzione non può che essere riservata all’Investimento 2.1. “Attrattività dei borghi” della M1C3.2. “Rigenerazione di piccoli siti culturali, patrimonio culturale, religioso e rurale” [65]. E la ragione è presto detta. Le misure funzionali a rendere, per l’appunto, attrattivi i borghi, non rispondo solo ad una “operazione estetica” finalizzata al mero richiamo turistico, né assolvono, come più avanti si chiarirà, alla sola funzione di “bilanciare i flussi turistici in modo sostenibile” (così nella introduzione alla M1C3 “Turismo e cultura”): quella ricerca di “attrattività” deve essere letta nel quadro interpretativo e teleologico recato dalla premessa alla M1C3.2., laddove è chiaro che il “recupero del patrimonio storico”, la “creazione di piccoli servizi culturali anche a fini turistici” e la “creazione e promozione di nuovi itinerari” (Investimento 2.1.) costituiscono un parterre di misure di valorizzazione culturale finalizzate in ultima analisi a “contrasta[re] lo spopolamento” e a rivitalizzare “il tessuto socio-economico dei luoghi” [66].
Non serve certo indugiare oltre per constatare quanto concreta sia la torsione della valorizzazione culturale in strumento di rilancio socioeconomico dei territori: il caso dei borghi storici ne è plastica dimostrazione, come è stato peraltro attestato da chi ha di recente registrato che “la tendenza agli investimenti per rigenerare in modo qualificato questi territori” vede “al centro la cultura delle comunità e per le comunità come strumento di sviluppo sociale ed economico” [67].
Più in generale, ciò che sembra emergere dal caso dei borghi storici e dal retroterra teorico posto a supporto è che tramite la valorizzazione del patrimonio culturale l’ordinamento mira in ultima analisi a sorreggere lo sviluppo economico (implicito nel fine della maggiore occupazione) e sociale (“premessa consustanziale” al fine del ripopolamento) dei luoghi depressi: ossia, ed in sintesi, tramite la valorizzazione si produce coesione economica sociale e territoriale. Il che non solo riflette quella dinamica esattamente fotografata in dottrina quando si è detto che lo storico avvicendamento tra sviluppo economico e coesione per le aree del meridione ha rappresentato un “cambiamento di prospettiva deriva[nte] dal riconoscimento che l’economia gioca sì un ruolo nel fenomeno delle aree depresse, ma che essa non ha un ruolo esclusivo” [68]; ma per di più rispecchia il contenuto assiologico promosso dalla Carta di Agrigento del 2019, laddove, sulla scia di una piuttosto esplicita rubrica (“La cultura come veicolo di coesione”), si è per l’appunto demandato alle istituzioni italiane ed europee il compito di evitare di considerare la cultura “come una mera politica di settore”, così da riconoscerne “il ruolo rispetto a tutte le dimensioni della coesione (economica, sociale e territoriale)”.
4. Turistificazione e ripopolamento “specializzato” nei borghi storici
Il discorso sin qui condotto non sarebbe completo né onesto se fossero tralasciati alcuni dubbi che intersecano più o meno direttamente il rapporto tra valorizzazione culturale, fruizione turistica e ripopolamento dei borghi storici: in sintesi, tramite la leva culturale-turistica è possibile garantire un ripopolamento, per così dire, ordinario? E, ancora, il binomio valorizzazione culturale-leva turistica è impiegabile solo per ragioni di rilancio socio-economico delle aree di atterraggio di quelle politiche o può sottendere un obiettivo più ampio?
Anzitutto, è necessario ammettere che l’interessamento per il (possibile) ripopolamento e rilancio dei borghi è ben superiore a quello mostrato per le altre aree interne o, comunque, depresse [69]. Un fatto, questo, stigmatizzato da quanti hanno rilevato una eccessiva attenzione per il “bello” (ossia: per i borghi storici), così trascurando il “brutto” (ossia: i paesi): “[l]a verità” - si è d’altronde osservato - “è che l’Italia è un paese bellissimo fatto, per la maggior parte, di posti brutti” [70]. Questa discrasia (che è parziale: non si scordi infatti la Snai [71]) può peraltro essere agilmente spiegata: da qualche parte bisogna pur partire, e i borghi storici presentano un “avviamento” non irrilevante rispetto ad altri luoghi in via di abbandono, ossia presentano un vantaggio competitivo che delinea più semplici strategie di implementazione [72] e che, pur demandando maggiori e più urgenti interventi di tutela culturale, prefigura in ultima analisi un aumento considerevole del prodotto interno lordo nazionale.
Queste giustificazioni così appena abbozzate si rivelano peraltro di un qualche interesse. Lo è, in specie, l’ultima. L’idea che il rilancio dei borghi possa generare benefici esterni sul Sistema Paese dà infatti conto della irriducibile multipolarità dei fini perseguibili tramite la valorizzazione dei borghi storici: il che non solo motiva le ragioni della preferenza accordata dall’ordinamento per quei nuclei che semplici paesi non sono, ma per di più consente di articolare il discorso attorno al ripopolamento in termini non aprioristici, come invece l’asettica lettura del dato normativo potrebbe indurre a fare.
Le ragioni a supporto di questa interpretazione ampia delle finalità (per così dire estrinseche) della valorizzazione dei borghi storici sono peraltro più d’una. Riscontri sono anzitutto forniti dai dati e, quindi, da quella percezione comune ben sintetizzata dalla ricorrente formula “turismo: l’oro d’Italia” [73]. Altri riscontri possono invece essere fatti derivare dall’esegesi dei testi normativi e non. Così è ad esempio per l’art. 25, d.lg. n. 79/2011, laddove il rinvio agli strumenti di programmazione negoziale - finalizzato a “promuovere, in chiave turistica, iniziative di valorizzazione del patrimonio storico-artistico, archeologico, architettonico e paesaggistico presente sul territorio italiano, con particolare attenzione ai borghi [...]” - è compiuto al dichiarato fine “del perseguimento degli obiettivi di cui all’art. 22”: in specie, il superamento della frammentazione della promozione e della strutturazione dell’offerta turistica, così da collegare l’Italia tutta e contribuire strategicamente a creare un’offerta tematica idonea a soddisfare le molteplici esigenze dei turisti nazionali e internazionali; in sintesi, e come da rubrica dell’art. 22, al fine di creare circuiti nazionali di eccellenza “a sostegno dell’offerta turistica e del sistema Italia”. In termini non dissimili può poi essere ricordato quanto sostenuto negli studi della Banca d’Italia, ossia che l’obiettivo dell’ampliamento dell’offerta turistica del sistema paese, così come promosso dal Piano strategico di Sviluppo del Turismo 2017-2022, avrebbe potuto “avvantaggiarsi dello sviluppo di aree meno conosciute, ma ricche di beni archeologici, artistici e paesaggistici ufficialmente riconosciuti” [74]. Questa percezione d’insieme, ovverosia questa sorta di strumentalità dei borghi verso esigenze estrinseche, può poi essere ricavata anche dalla necessità, da più parti avvertita, di dirottare consistenti flussi verso altre mete al fine di preservare i grandi attrattori cittadini dal deterioramento [75]; non è un caso che nel Pnrr la rigenerazione dei piccoli siti culturali muova proprio dall’esigenza di aggredire l’overtourism (Missione M1C3.2 del Pnrr), essendo indubbio che “[i] flussi turistici italiani sono tipicamente catalizzati da alcuni “attrattori” particolarmente noti a livello internazionale. Le implicazioni di questa polarizzazione sono che, da un lato l’uso intensivo dei luoghi culturali più richiesti rischia di usurarli/impoverirli nel lungo periodo, mettendone a rischio la preservazione la sostenibilità nel tempo”.
Orbene, compreso quindi che l’attenzione per i borghi si giustifica anche per ragioni estrinseche di “sostenibilità” e “competitività” del sistema paese [76], rimane però innegabile che il ripopolamento, così come il rilancio economico, dei borghi costituisce comunque uno degli obiettivi da perseguire.
Di qui, un secondo dubbio: se il ripopolamento deve convivere con una strategia di partenza radicata attorno al valore culturale dei luoghi, quale ripopolamento si sta immaginando? In altri termini, è possibile pervenire, attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale (e, quindi, attraverso la leva del turismo culturale), ad un ripopolamento “ordinario” dei borghi storici in via di abbandono?
Stando alle premesse normativo-teleologiche, l’impressione è che laddove lo strumento sia rappresentato dal binomio “patrimonio culturale-turismo” il risultato non potrà che essere un ripopolamento fatto di utenti temporanei e di residenti in gran parte specializzati. L’obiettivo di un ripopolamento “ordinario” non può infatti prescindere da alcune azioni che muovono da un presupposto ben specifico: che il borgo ed i suoi contorni costituiscono un problema, la cui risoluzione demanda l’assunzione di politiche ben definite quanto ad infrastrutturazione e offerta di servizi pubblici [77]. Al contrario, nella prospettiva del turismo, il borgo rappresenta una opportunità; una opportunità il cui sfruttamento è pur sempre capace di generare effetti indiretti sul tessuto socioeconomico, ma con l’avvertenza che il suo perseguimento è altresì determinante nella identificazione del tipo di tessuto socioeconomico insediabile. Due esempi per tutti.
Il primo può essere recuperato dalla Strategia nazionale per le aree interne, laddove si è dichiarato che il turismo naturalistico - fattispecie tipica nell’offerta turistica delle aree interne del nostro Paese - avrebbe potuto dar vita a nuove e professionalizzanti forme di occupazione dei giovani e alla “creazione di forme alternative e integrative di reddito per la popolazione locale”, così da costituire una “modalità interessante di tutela di borghi, piccoli paesi, ecc. e di mantenimento di un tessuto sociale in questi territori”.
Il secondo consta invece di una suggestione che considera il tipo di commercio da svolgere nei borghi storici, tenuto conto che proprio le tradizioni immedesimate nei locali storici e veicolate dalle attività della tradizione rappresentano senz’altro, anche nell’impianto del Pnrr, un sicuro caposaldo attorno al quale attivare meccanismi di rilancio. Ebbene, specialmente (ma non solo) laddove si dovesse superare l’interpretazione più ricorrente, ossia quella che circoscrive il discorso sui locali storici alla tutela del “contenitore materiale”, riconoscendo soltanto la possibilità di apporre i c.d. vincoli in negativo sulle sole attività incompatibili con la destinazione d’uso [78] - interpretazione storicamente sorretta, inter alia, dalla “non congruità del mezzo [il vincolo sulla attività] rispetto agli obiettivi della tutela” [79] e dalla cogenza dei limiti insiti nel “nucleo incomprimibile della proprietà privata [... che] non può essere ulteriormente vulnerato dal provvedimento di tutela” [80] - e, quindi, laddove si dovesse accedere a quelle più audaci tesi che, muovendo da una innovativa interpretazione dell’art. 52, comma 1-bis, d.lg. n. 42/2004, hanno ammesso la possibilità di apporre vincoli in positivo sulle attività della tradizione [81], non v’è dubbio che questa (re)impostazioni del problema potrebbe comportare importanti “condizionamenti” per il vivere quotidiano del residente: non fosse altro perché i prodotti della tradizione non solo non rispondono sempre alle esigenze della modernità, ma perdipiù non si rivelano sempre “economicamente accessibili” rispetto alla soddisfazione delle quotidiane esigenze dei residenti. Non è un caso che proprio chi si è fatto promotore di quella lettura più estensiva abbia poi avvertito dei rischi della “museificazione” [82]: una deriva che certamente scaturisce anche da altre dinamiche - su tutte, la tendenza, da più parti avvertita, alla radicale preclusione rispetto alla possibilità di svolgere nei nuclei storici interventi non rigorosamente conservativi [83] -, ma che comunque comporta inevitabili disagi e, quindi, ostacoli sul piano del “ripopolamento ordinario” [84].
Insomma, se è vero che “l’idea che la tutela e promozione dei locali storici e delle attività tradizionali concorre a “salvare l’anima” dei centri storici e degli antichi borghi” [85], è altresì innegabile che le misure inerenti alla limitazione delle attività commerciali [86] ed in specie la discussa possibilità di porre vincoli di continuazione sulle attività della tradizione, così come, e più in generale, i tentativi di museificazione laddove praticati, determinerebbero sì maggiore tutela del contesto, quindi maggiore valorizzazione del contorno (il borgo nella sua complessità) e, per l’effetto, maggiore turismo, ma provocherebbero al contempo tanto fenomeni patologici di gentrificazione [87] (con buona pace delle politiche abitative sociali [88]) quanto fenomeni fisiologici di residenza per lo più specializzata nei settori turistico-culturali(artigianali).
Se quindi la residenza specializzata rappresenta l’esito più credibile - quantomeno in assenza di una chiara ed univoca politica infrastrutturale [89] - non è peraltro ed al pari credibile che un esito diverso possa essere garantito dalla pratica delle c.d. case ad un euro, pratica che pure contempla interventi ed azioni per il contrasto allo spopolamento e per il ripristino della funzione abitativa dei luoghi, agendo sul problema degli immobili in proprietà di privati che risultano assolutamente inutilizzati, se non addirittura fatiscenti. L’analisi delle esperienze concrete fornisce interessanti spunti, perché se è pur vero i) che l’autonomia negoziale del privato proprietario cedente è teleologicamente orientata, come si usa leggere negli avvisi pubblici, “al fine di contribuire al perseguimento delle finalità di preminente interesse pubblico”, ii) e che il futuro acquirente si obbliga (sotto condizione sospensiva del trasferimento della proprietà) ad operare i necessari interventi di ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo e/o ristrutturazione e riqualificazione dell’immobile acquisito, iii) per altro verso, rimane purtuttavia impregiudicata, nei limiti impressi dalla destinazione urbanistica dell’immobile, l’autonomia privata quanto a futura e concreta destinazione dell’immobile: semplificando, qualora la destinazione urbanistica sia residenziale, la scelta, che pur deve intervenire tra le “priorità” elencate nei bandi, tra abitazione principale e seconda casa, o tra abitazione e albergo diffuso (per il quale la normativa regionale neppure prevede la necessità del cambio di destinazione da residenziale a turistico-ricettiva [90]) è assolutamente rimessa all’autonomia privata. Altrimenti a dirsi, l’unico strumento che ad oggi pare praticabile per garantire il ripopolamento stabile attraverso la pratica delle case ad un euro è quello della attribuzione dei punteggi alle proposte degli acquirenti, sempre che non si riesca ad immaginare il ricorso alla revoca per un uso non conforme alla dichiarazione impressa nella proposta di acquisto.
Quanto precede induce ad una considerazione conclusiva. Il rischio alle porte è evidentemente quello della turistificazione [91], così come quello della terziarizzazione, concetti di certo non pienamente sovrapponibili [92], ma pur sempre tra loro connessi, così come dimostrato (in negativo) dalle vicende di tutti quei territori che, in forza di una decisa torsione turistica, “avevano [dapprima] attraversato un profondo processo di trasformazione del proprio tessuto produttivo all’insegna della terziarizzazione” e che poi proprio a causa della crisi turistica legata allo scoppio della recente stagione pandemica hanno quindi subito una violenta crisi economica [93]. Ora, non v’è dubbio che sul punto potrebbero aprirsi innumerevoli riflessioni, tenuto conto che, specialmente nel “campo” della terziarizzazione nei centri storici, le prospettive di indagine hanno definito non pochi, e tra loro piuttosto distanti, esiti. Basti solo por mente che alla fondata e ricorrente tesi che confina la terziarizzazione nei centri storici ad anomalia ed inopportunità [94] - un fenomeno, quindi, da contrastare, ricorrendo a misure di “rivitalizzazione” e “funzionalizzazione”, consistenti in “una serie di misure positive, incidenti sia sui beni [...] sia sulle attività economico-sociali”, al fine di aggredire “i problemi di mantenimento della fisionomia culturale anche per quanto attiene ai connotati socio-economici dell’insediamento urbano” [95] - si affianca quella diversa impostazione, calibrata sulle potenzialità economiche dei centri storici, favorevole ad una ulteriore spinta verso la terziarizzazione e verso un suo ammodernamento declinato secondo il modello dell’“industria high tech, culturale e creativa”, quale “sorta di nuovo artigianato stavolta connesso con il mondo digitale” [96]. Ad ogni buon conto, e focalizzando per ragioni di sintesi il focus sulla turistificazione (pur con i connessi risvolti a cui si è ora fatto cenno), è bene intendersi almeno su un punto: la turistificazione è veramente un male? Verrebbe da dire: distingue frequenter. Perché sì (!), nelle città d’arte e nei loro centri storici la turistificazione è effettivamente una criticità (come dimostrato dal recente manifesto “Set, Sud Europa contro la turistificazione”, prodotto da una rete di città europee, tra cui Venezia), non solo per il depauperamento del patrimonio culturale, ma anche per le ricadute economiche sui residenti, derivanti da aumenti incontrollati degli affitti e da un progressivo spopolamento dei centri storici, sempre più a misura di turista e sempre più governati dalla sharing economy [97] ed in definitiva dai processi di terziarizzazione. Ed invece nei borghi storici forse no (!), la turistificazione non è necessariamente un male: non lo è perché il turismo è lo strumento elettivo per il rilancio socioeconomico di questi luoghi; non lo è perché la cultural entertainment machine, nei limiti della compatibilità con le ragioni della tutela, è uno scenario parzialmente prefigurato dal legislatore, tanto più che, come si è già detto poco sopra, il borgo costituisce una soluzione all’overtourism cittadino; e non lo è perché non vi è conflitto tra turismo e residenzialità, giacché in luoghi fisiologicamente abbandonati dai residenti, il pernottamento turistico (facilitato proprio dalle misure abilitanti il rilancio, tra cui il modello dell’albergo diffuso) e la residenza in forma specializzata sono gli unici scenari possibili, specialmente in un mondo che non riesce a fare a meno della comodità e della velocità del vivere urbano [98].
L’indirizzo pare chiaro. Cultura e turismo nei borghi storici rappresentano uno strumentario utile a perseguire un risultato multipolare, che mira sì alla coesione delle parti ma in un’ottica di convergenza verso il tutto, ovverosia in un’ottica di sostenibilità dell’intero Sistema Paese. Insomma, come da titolo: ripresa e resilienza tra le vie dei borghi storici.
Note
[*] Enrico Guarnieri, dottore di ricerca in Diritto amministrativo, docente a contratto presso il Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali dell’Università di Bologna, Viale del Risorgimento 2, 40136 Bologna, enrico.guarnieri3@unibo.it.
[1] G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare - una spesa, un investimento, in Aedon, 2017, 3.
[2] Si condivide il tentativo (riuscito) di A. Sau, Le frontiere del turismo culturale, in Aedon, 2020, 1, pag. 41 ss., nel cercare una non semplice distinzione tra “turismo culturale”, “turismo dell’heritage”, “turismo esperienziale” e “turismo creativo” (pag. 41).
[3] S. Sergio, Enti locali e uso turistico del territorio, in federalismi.it, 2018, 10, pag. 1 ss., spec. 23 (così anche Id., La valorizzazione dei beni culturali mediante il turismo, in federalismi.it, 2018, 6, pag. 1 ss., spec. 27).
[4] La contraddizione tra fatti e dinamiche giuridiche è stata ben colta da G. Bottino, Turismo e beni culturali, in Amministrazione pubblica e mercato del turismo, (a cura di) M. Gola, A. Zito e A. Cicchetti, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2012, pag. 195 ss., laddove, come si chiarirà a breve anche nel testo, l’A. ha rilevato che la pur “minima” e “recente” relazione tra turismo e beni culturali, espressa da disposizioni lì sanzionate come “esigue nel numero”, ha fatto seguito ad una storica e contraddittoria “disattenzione” legislativa nei confronti di una dinamica di interrelazioni che “nei fatti” è sempre esistita (pag. 196 ss.).
[5] È peraltro nota la critica rivolta da S. Settis, Italia SPA. Assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2007, all’espressione “museo Italia” impiegata da A. Paolucci, Museo Italia: diario di un sopraintendente-ministro, Livorno, Sillabe, 1996: quella formula è sanzionata come “efficace ma debole, perché si presta ad essere capovolta: l’Italia, si può rispondere, non può essere imbalsamata come un museo, è prima di tutto un Paese vivo, che deve crescere. Quello del museo è per sua natura uno spazio artificiale, dedicato, separato, nel quale si entra per scelta, in cerca di oggetti specifici, “da museo” per l’appunto. Al contrario, la forza del “modello Italia” è tutta nella presenza diffusa, capillare, viva di un patrimonio solo in piccola parte conservato nei musei”.
[6] Secondo quanto riportato nel, non più recentissimo ma comunque utile, report dell’Istat, Rapporto BES 2014: capitolo Paesaggio e patrimonio culturale, pag. 186 s., “[l]e aree di particolare pregio, sottoposte a vincolo di tutela dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, coprono poco meno della metà del territorio nazionale (46,9%) e i beni censiti dal ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Mibact) superano, considerando siti archeologici, architettonici e museali, le 100.000 unità”. Cfr. anche la banca dati www.catalogo.beniculturali.it.
[7] Cfr. www.unesco.it/it/italianellunesco/detail/188 (ultimo accesso 18 novembre 2022).
[8] Cfr. R. Aprile, F. Giulio Grandis e F. Mocavini, Heritage come asset nella contabilità economico-patrimoniale delle amministrazioni pubbliche, in Rivista della Corte dei conti, 2018, 3-4, pag. 429 ss., spec. 430.
[9] Da ultimo si v. Ragioneria generale dello Stato, Il patrimonio dello Stato. Informazioni e statistiche, 2020.
[10] In tema cfr. L. Castellani, Agenzie di rating e patrimonio culturale, in Aedon, 2014, 3.
[11] Banca d’Italia, Eurosistema, Turismo in Italia: numeri e potenziale di sviluppo, in Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers), 2019, 505, pag. 53.
[12] Così G. Bottino, Turismo e beni culturali, cit., rispettivamente a pag. 199 e a pag. 200.
[13] Su cui si v. M. Gola, Offerta turistica d’eccellenza e organizzazione pubblica: circuiti nazionali e sistemi turistici locali, in L’ordinamento del mercato turistico, (a cura di) S. Cogliani, M. Gola, M.A. Sandulli e R. Santagata, Torino, Giappichelli, 2012, pag. 51 ss.; A Cicchetti, Tipologie di prodotti turistici. I circuiti nazionali di eccellenza e i sistemi turistici locali, in Amministrazione pubblica e mercato del turismo, cit., pag. 109 ss.
[14] In tal senso si v. anche S. Sergio, Enti locali e uso turistico del territorio, cit., pag. 21, nt. 77.
[15] G. Manfredi, Il riparto delle competenze in tema di beni culturali e la leale collaborazione, in Ist. fed., 2017, 3, pag. 791 ss., spec. 795.
[16] Secondo la felice formula di G. Sciullo, Beni culturali e principi della delega, in Aedon, 1998, 1.
[17] L. Casini, Beni culturali (dir. amm.), in Dizionario di diritto pubblico, I, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, pag. 679 ss., spec. 680.
[18] A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. ed., 1967, 1, pag. 69 ss.
[19] F. Merusi, Art. 9, in Commentario della Costituzione, (a cura di) G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli, 1975, pag. 445 ss.
[20] M. Ramajoli, Note critiche in tema di tutela, valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Le proprietà pubbliche: tutela, valorizzazione e gestione, (a cura di) F.G. Scoca e A.F. Di Sciascio, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, pag. 135 ss., spec. 140.
[21] G. Bottino, Turismo e beni culturali, cit., pag. 200.
[22] M. Ainis e M. Fiorillo, I beni culturali, in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, II, (a cura di) S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2003 pag. 1449 ss., spec. 1480.
[23] S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 7, pag. 673 ss., spec. 674.
[24] Un rapporto circolare chiaramente descritto da F. Martines, La fruizione turistica dei beni culturali. Luci e ombre, in Patrimonio culturale, modelli organizzativi e sviluppo territoriale. Atti del Convegno di Messina 14-15 ottobre 2016, (a cura di) F. Astone, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, pag. 243 ss., spec. 252, quando ha affermato che “[l]o sfruttamento a scopo turistico del bene culturale” recherebbe in sé due preminenti effetti positivi: per un verso, “il turismo diviene veicolo di cultura e, dunque strumento diretto di tutela dell’interesse fondamentale protetto dall’art. 9 Cost.”; per altro verso, “la fruizione turistica dei beni culturali, in molti casi, costituisce l’unico mezzo attraverso il quale si riesce a garantire efficacemente la protezione del bene medesimo”.
[25] G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare - una spesa, un investimento, cit. Cfr. anche G. Severini, Sub artt. 6 e 7, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) A.M. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, pag. 55 ss., spec. 62.
[26] In tal senso cfr. G. Piperata, La valorizzazione economica dei beni culturali: il caso dei musei e delle collezioni, in La valorisation économique des biens culturels locaux en France et en Italie. Toulouse, 21 novembre 2014, pag. 1 ss., spec. 3 s., pubblicato nel 2016 su Aedon. Più in generale sul tema si v. B. Accettura, Valorizzazione del patrimonio culturale e nuovi modelli per lo sviluppo dei territori, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015.
[27] G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e... di come addomesticare gli scoiattoli, in Aedon, 2018, 3.
[28] M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, in Aedon, 2018, 3.
[29] M. Cammelli, L’ordinamento dei beni culturali tra continuità e innovazione, in Aedon, 2017, 3.
[30] Su cui, di recente, C. Vitale, Riuso del patrimonio culturale e sviluppo delle aree interne. Le norme e le pratiche, in Dir. amm., 2022, pag. 867 ss.
[31] ANCI, XVIII Conferenza nazionale ANCI: piccoli comuni, 13 luglio 2018. Sul punto si v. Riabitare l’Italia. Le aree interne fra abbandono e riconquista, (a cura di) A. De Rossi, Roma, Donzelli, 2020.
[32] Assoturismo Confesercenti, Ritorno alla grande bellezza: la ripartenza del turismo culturale e delle città d’arte italiane, giugno 2022.
[33] M. Cremaschi, I borghi postmetropolitani tra la pandemia e il digitale, in Econ. cult. 2022, 1, pag. 23 ss.
[34] Come di recente osservato, “[s]i ritrovano infatti in tanti borghi, talora intatti, modalità del vivere, ritmi quotidiani, relazioni umane, un rapporto speciale con il tempo e la memoria, emozioni e modi di guardare gli altri, lentezze e assaporamenti della realtà circostante, che nella città sono ormai perduti per sempre. Una dimensione antropologica del vivere e del sentire, travolta dalla modernità, che qui si ritrova ancora, conservata come per una miracolosa regressione in un altro tempo storico” (P. Bevilacqua, Collocare i borghi nel loro territorio, in Econ. cult., 2022, 1, pag. 49 ss., spec. 51).
[35] Con specifico riguardo alle città d’arte si v. M. Cammelli, Cittą d’arte tra autonomia e regimi speciali, in Aedon, 2015, 2; A. Bartolini, Lo statuto della Cittą d’arte, ibidem; S. Amorosino, Le “cittą d’arte”: nozione e ipotesi di discipline amministrative di tutela, in Riv. giur. urb., 1990, 3-4, pag. 595 ss.
[36] Al più, ciò che può essere ricavato è l’esistenza di una implicita distinzione concettuale, in specie tra “piccoli comuni”, “borghi antichi”, “centri storici”, “realtà minori”, espressioni che possono ammettere sovrapposizioni (come si osserverà a breve), ma che purtuttavia tra loro non necessariamente coincidono. Detta implicita divisione è presente, ad esempio, nell’art. 4, comma 4, legge n. 158/2017, quando prevede la possibilità di promuovere alberghi diffusi nell’ambito dei “borghi antichi o [dei] centri storici abbandonati o parzialmente spopolati”; e così anche nell’art. 25, comma 2, lett. a), d.lg. n. 79/2011, laddove si dispone che gli strumenti di programmazione negoziale possono prevedere la promozione delle iniziative di valorizzazione del patrimonio storico, artistico, archeologico, architettonico e paesaggistico “con particolare attenzione ai borghi, ai piccoli comuni ed a tutte le realtà minori che ancora non hanno conosciuto una adeguata valorizzazione del proprio patrimonio a fini turistici”.
[37] A. Simonati, La disciplina regionale dei centri storici: caratteri e tendenze, in Riv. giur. urb., 2015, 2, pag. 295 ss. Sulla natura polisemica del concetto di centro storico cfr. anche G. Piperata, Paesaggio, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata e G. Sciullo, Bologna, Il Mulino, 2020, pag. 249 ss., spec. 267, nonché S. Fantini, Il centro storico come bene paesaggistico a valenza culturale, in Aedon, 2015, 2, che per l’appunto parla di “locuzione giuridicamente polisemica”. Imprescindibile è poi il rinvio, inter alia, a C. Videtta, I centri storici al crocevia tra disciplina dei beni culturali, disciplina del paesaggio e urbanistica: profili critici, in Aedon, 2012, 3, nonché a F. Benvenuti, Introduzione, in La tutela dei centri storici: discipline giuridiche, (a cura di) G. Caia e G. Ghetti, Torino, Giappichelli, 1997, pag. 1 ss., ed a F.G. Scoca e D. D’Orsogna, Centri storici, problema irrisolto, ivi, pag. 39 ss. Da ultimo, è altresì opportuno ricordare una recentissima affermazione resa da M. Cammelli, Politiche urbane e protezione del patrimonio culturale, in Aedon, 2022, 2, quando ha inteso (con piena ragione) ricollegare i centri storici e, così, la loro individuazione alla presenza dei beni religiosi, avendo egli affermato che “[i] centri storici della maggior parte delle città italiane e di tutte le città d’arte europee non sono letteralmente definibili senza i beni religiosi (per lo più ecclesiastici) di interesse culturale”.
[38] Così, ad esempio e tra le tante, la l.r. Piemonte 22 febbraio 2019, n. 5, recante “Disciplina dei complessi ricettivi all'aperto e del turismo itinerante”.
[39] È il caso della l.r. Toscana 3 marzo 2021, n. 8, recante “Interventi di sostegno per le città murate e le fortificazioni della Toscana”.
[40] Allo stesso modo si v. la l.r. Veneto 23 aprile 2004, n. 11, il cui art. 40, comma 1, definisce i centri storici come “gli agglomerati insediativi urbani che conservano nell’organizzazione territoriale, nell’impianto urbanistico o nelle strutture edilizie i segni di una formazione remota e di proprie originarie funzioni economiche, sociali, politiche o culturali”.
[41] Il che concorre a spiegare la specifica contenuta all’art. 2, comma 1, lett. a), l.r. Marche n. 29/2021, secondo cui quegli “agglomerati insediativi” che si sostanziano nei borghi storici “possono rivestire anche carattere artistico o di particolare pregio ambientale e paesaggistico”: si evidenzia, a tal riguardo, che ai sensi del Decreto interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, la zona A riguarda per l’appunto “le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale”.
[42]È il caso della citata l.r. Marche n. 29/2021 che, a fianco dei borghi storici (come sopra descritti), definisce i borghi rurali alla stregua di “nuclei storici extraurbani con popolazione censuaria di riferimento inferiore a settecento abitanti” ((art. 2, comma 1, lett. c). Per l’effetto, dall’impianto normativo della legislazione marchigiana possono quindi essere desunti quattro livelli definitori: i) il borgo storico urbano coincidente con il centro storico (in quanto collimante con la stessa “zona A”); ii) il borgo storico urbano che non è centro storico; iii) il borgo storico rurale, ossia quello extraurbano e con popolazione inferiore a settecento abitanti; iv) il borgo storico extraurbano con popolazione al di sopra della surrichiamata soglia (ciò che è sufficiente ad escluderne la categorizzazione di borgo rurale).
[43] Cfr. l.r. Emilia-Romagna 26 giungo 2013, n. 14, recante “Rete escursionistica dell’Emilia-Romagna e valorizzazione delle attività escursionistiche” (cfr. l’art. 11, comma 2, lett. c). Ma si v. anche la l.r. Calabria 5 aprile 2008, n. 8, recante “Riordino dell’organizzazione turistica regionale”.
[44] A tal riguardo, merita di essere ricordato quanto affermato da G. D’Alessio, I centri storici: aspetti giuridici, Milano, Giuffrè, 1983, pag. 454, quando, dinanzi alla molteplicità delle definizioni rese, seppur con esclusivo riferimento ai centri storici, dalla dottrina e da altri attori istituzionali, ha sostenuto che “va chiarito che qui non ci troviamo di fronte a delle vere e proprie definizioni, ad una puntuale determinazione di connotati che consentano di identificare sul piano sostanziale ed in via generale cosa siano i centri storici; al massimo, e nei casi migliori, si tratta della fissazione di alcuni presupposti, di alcuni punti di partenza, spesso ancora abbastanza vaghi, generici ed incompleti [...]”.
[45] Così come rispettivamente previsto dalla citata l.r. Toscana n. 86/2016 e dal decreto della regione Abruzzo n. 3/2014. Nello stesso senso si v. anche la l.r. Veneto, 8 agosto 2019, n. 35, recante “Promozione del cicloturismo e istituzione del logo Venice Bike Lands”, il cui art. 2, comma 3, lett. f), fa ricorso alla formula “antichi borghi rurali e montani”.
[46] Sovviene quell’accostamento tra identità e storia che compare in G. Sciullo, Il paesaggio fra la Convenzione e il Codice, in Aedon, 2008, 3, il quale, trattando della “identità [...] dei paesaggi della ‘vita quotidiana’ (cfr. Convenzione, Preambolo capoverso 6) o della ‘quotidianità’”, afferma che detta identità appartiene a quei paesaggi che “raccontano una loro storia e presentano una loro identità” (sul punto si v. anche infra nel corpo di testo).
[47] I borghi storici, recita infatti il citato art. 2, sono definiti come gli agglomerati “che possono rivestire anche carattere artistico o di particolare pregio ambientale e paesaggistico”.
[48] Secondo il disposto dell’art. 21, l.r. Toscana n. 86/2016, non tutti i borghi, infatti, “presentano emergenze di rilievo [...] culturale, paesaggistico o di tipo ambientale naturale”.
[49] Si consideri che, come affermato da A. Sau, La rivitalizzazione dei borghi e dei centri storici minori come strumento per il rilancio delle aree interne, in federalismi.it, 2018, 3, pag. 1 ss., spec. 11, i borghi storici “quandanche non costituiscano eccellenza paesaggistica (e quindi non siano espressivi di quell’“identità nazionale” evocata ai fini della tutela dal comma 2 dell’art. 131 del Codice), incarnano perfettamente quei paesaggi della quotidianità menzionati dalla Convenzione europea del paesaggio”. Sul punto, fondamentale è il rinvio a G. Sciullo, Il paesaggio fra la Convenzione e il Codice, cit., secondo cui “[s]e idealmente si ‘sottrae’ il paesaggio in senso culturale dal paesaggio in senso generale, residua il paesaggio che, secondo il linguaggio della Convenzione (Preambolo, capoverso 6), si è definito della ‘vita quotidiana’ o della quotidianità, che rileva non in chiave di tutela o di valorizzazione, ma - seguendo l’elenco delle materie contenuto nell’art. 117 Cost. - in termini di ‘governo del territorio’, ancorché ad occuparsene sia lo stesso Codice”.
[50] E. Boscolo, Le nozioni di paesaggio. La tutela giuridica di un bene comune (in appartenenza diffusa) tra valori culturali e identitari, in giustamm.it, 2016, 5.
[51] G. Sciullo, Il paesaggio fra la Convenzione e il Codice, cit.
[52] Cfr. A. Sau, La rivitalizzazione dei borghi e dei centri storici minori, cit., pag. 9 ss.
[53] Su cui è imprescindibile il rinvio quantomeno a M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1, pag. 3 ss., nonché alla rilettura di quel lavoro così come del problema dell’immaterialità in sé offerta da G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1. A tal riguardo, e seppur con precipuo riferimento ai centri storici, si presenta come ampiamente rilevante la qualificazione resa da A. Bartolini, Patrimonio culturale e urbanistica, in Riv. giur. urb., 2016, 3, pag. 10 ss., spec. 26, quando ha affermato che “i centri storici non sono solo un complesso di beni culturali urbanistici materiali, in quanto essendo un corpo vivo, vivente (e da molto tempo), racchiudono anche idealità, esperienze, ricordi, ecc., che lo connotano, pure, come un bene culturale immateriale”.
[54] Come noto, la dichiarazione di “notevole interesse pubblico” dell’area è rilasciata a seguito dell’esperimento del procedimento regolato dagli artt. 137 ss., d.lg. n. 42/2004: un procedimento che, per quanto osservato in dottrina, non è obliterabile per il sol fatto che una determinata area sia individuata come centro storico dal Prg: “[l]a nozione di centro storico di cui al Codice dei beni culturali” - si è infatti affermato - “non può coincidere logicamente con quella urbanistica che emerge dai Prg, posto che l’art. 136 ne richiede una specifica individuazione a seguito dell'espletamento del procedimento regolato dagli artt. 138 e ss.” (C. Videtta, I centri storici al crocevia tra disciplina dei beni culturali, disciplina del paesaggio e urbanistica: profili critici, cit.). D’altronde, si è poi aggiunto, in caso contrario “ci troveremmo di fronte ad una tutela ex lege con rinvio alla zonizzazione urbanistica” (M.A. Quaglia e A. Rallo, sub Art. 136, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, pag. 1203 ss., spec. 1208). Sulla “equiparazione in chiave riduttivistica” tra centro storico e zona A, nonché sul rapporto tra questa interpretazione e quella che “portava a ricondurre questo particolare oggetto [il centro storico] alla sfera dei beni culturali, come profilato dalla Commissione Franceschini”, cfr. E. Boscolo, Il piano regolatore comunale, in Codice di edilizia e urbanistica, (a cura di) S. Battini, L. Casini, G. Vesperini e C. Vitale, Torino, Utet, 2013, pag. 179 ss., spec. 230.
[55] Si tenga conto che tra i complessi di cose immobili sottoponibili a tutela paesaggistica la giurisprudenza è giunta ad includere “interi centri storici”, così come “antichi castelli, villaggi, borghi, agglomerati urbani e zone di interesse archeologico” (Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 846; Id., 9 febbraio 2016, n. 519; Id., 12 giugno 2013, n. 3255; Id., 21 giugno 2006, n. 3733).
[56] A. Crosetti, La nozione giuridica del paesaggio e le sue valenze, in A. Crosetti e D. Vaiano, Beni culturali paesaggistici, Torino, Giappichelli, 2018, pag. 179 ss. spec. 196.
[57] P. Carpentieri, Il secondo «correttivo» del codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. app., 2008, 6, pag. 681 ss. Il riferimento che l’art. 136 fa ai “centri ed i nuclei storici” non ha quindi carattere tassativo, tenuto peraltro conto che essi, per dettato normativo, sono meramente “inclusi” tra “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”: tra i primi ed i secondi, quindi, intercorre un mero rapporto di specie a genere.
[58] M.A. Quaglia e A. Rallo, sub Art. 136, cit., pag. 1206.
[59] A. Bartolini, sub Art. 136, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 536 ss., spec. 538.
[60] M.A. Quaglia e A. Rallo, sub Art. 136, cit., pag. 1206. Sui rischi delle “derive interpretative sull’identificazione dei profili identitari” del paesaggio (in specie: dei centri storici) minacciati dall’accentuazione di “caratteri percettivi e soggettivi”, nonché sulla correlata “sostanziale deminutio della salvaguardia” dei beni paesaggistici, cfr. A. Angiuli, La genesi urbanistica del centro storico: dalla «Carta di Gubbio» alle nuove problematiche del risanamento, in I centri storici tra norme e politiche, (a cura di) C. Lamberti e M.L. Campiani, Napoli, Jovene, 2015, pag. 75 ss., spec. 95. In merito alla “rappresentazione “obiettiva” del paesaggio”, siccome espressa dalla “percezione [...] di un “soggetto collettivo””, cfr. S. Civitarese Matteucci, sub Art. 131, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, cit., pag. 521 ss., spec. 523.
[61] Vale la pena evidenziare che per G. Sciullo, Il paesaggio fra la Convenzione e il Codice, cit., il paesaggio della quotidianità “rileva non in chiave di tutela o di valorizzazione, ma - seguendo l’elenco delle materie contenuto nell'art. 117 Cost. - in termini di “governo del territorio”.
[62] Istat, Rapporto annuale 2019. La situazione del Paese, Roma, 2019, pag. 68.
[63] G.M. Caruso e G. Befani, L’urbanistica e lo spopolamento in Italia, in Ist. fed., 2020, 2, pag. 347 ss., spec. 353.
[64] Invero, l’unica previsione della legge n. 158/2017 riguardante direttamente i borghi è quella recata dall’art. 4, comma 4, laddove, per finalità di recupero e riqualificazione dei “borghi antichi o ai centri storici abbandonati o parzialmente spopolati”, è prevista in capo ai comuni la possibilità di promuovere la realizzazione di alberghi diffusi.
[65] Più in generale, sul “disegno strategico destinato prioritariamente a valorizzare l’intero settore culturale”, così come articolato nel Pnrr, si v. M. Cammelli e G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, in Aedon, 2022, 1.
[66] Per alcune indicazioni sullo stato di attuazione delle misure del Pnrr in relazione al rilancio dei borghi storici si v. il recente contributo di G. Piperata, Nuovi scenari e nuove sfide per il governo della cultura, in Aedon, 2022, 2.
[67] O. Ricci, Dal PNRR al Piano Nazionale dei Borghi, cit., pag. 34.
[68] S. Cassese, Dallo sviluppo alla coesione. storia e disciplina vigente dell’intervento pubblico per le aree insufficientemente sviluppate, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 2, pag. 579 ss., spec. 581.
[69] Sul tema si v. più ampiamente il fascicolo n. 2/2020 della Rivista Istituzioni del federalismo in tema di “Contrasto allo spopolamento e ruolo delle istituzioni. Modelli a confronto”.
[70] F. Barbera e J. Dagnes, Bruttitalia: la vita quotidiana dove i turisti non vogliono andare, in Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, (a cura di) F. Barbera, D. Cersosimo e A. De Rossi, Roma, Donzelli, 2022, pag. 5 ss., spec. 5.
[71] Ed infatti la Strategia nazionale per le aree interne ha un ambito applicativo che trascende, superandolo, il più ristretto “comparto” dei borghi storici, tenuto peraltro conto che la definizione di area interna qualifica dette aree in ragione della mera “lontananza” dai servizi essenziali” (così la Nota metodologica “Le aree interne: di quali territori parliamo? Nota esplicativa sul metodo di classificazione delle aree” pubblicata dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica). Sul punto cfr. C. Vitale, Riuso del patrimonio culturale e sviluppo delle aree interne, cit., pag. 868.
[72] Sebbene sia assolutamente credibile la sussistenza di quel problema nel problema rilevata da R. Salvatore, e E. Chiodo, Borghi turistici e processi “nessogeni”, in Ripartire dai borghi, per cambiare le città. Modelli e buone pratiche per ripensare lo sviluppo locale, (a cura di) S. D’Alessandro, R. Salvatore e N. Bortoletto, Milano, FrancoAngeli, 2020, pag. 43 ss., spec. 47, laddove si è detto che nei borghi storici la “precondizione” per l’attivazione di risorse locali per finalità turistico-rurali (ossia: la sinergica operosità delle istituzioni pubbliche, degli attori sociali e delle aziende private) “potrebbe essere stessa rappresentare un problema a livello locale, poiché le comunità potrebbero evidenziare dei deficit in termini di numerosità di attori, di disponibilità di potere politico-economico, di motivazione, di competenze sociali necessarie a gestire la complessità del cambiamento”.
[73] A tal riguardo, è giusto il caso di chiarire che la ricorrente stima del valore aggiunto turistico è sovrastimata, come è d’altronde confermato dall’Istat nel Conto satellite del turismo per l’Italia del 2020 (anno di riferimento 2017). Il turismo non genera infatti come si è soliti ritenere il 13,4% del Pil, bensì solo il 6%: la prima percentuale è il valore aggiunto “generato dall’insieme delle industrie attive nelle attività economiche riconducibili al turismo”, il che significa essere “generato da una produzione di beni e servizi non totalmente imputabile al turismo come, ad esempio, le spese per ristorazione effettuate da residenti per motivi non turistici”. Si badi, la precisazione è lungi dal compromette la valenza (anzitutto) economica del turismo; al contrario, essa reclama come sempre più improcrastinabile un maggiore investimento nel settore, pur quanto temperato dalla chiara rappresentazione dei limiti oggettivi che investono fisiologicamente tanto l’industria quanto i territori del turismo (basti pensare al caso veneziano).
[74] Banca d’Italia, Eurosistema, Turismo in Italia: numeri e potenziale di sviluppo, cit., pag. 47.
[75] Si noti peraltro che la diversificazione dell’offerta turistica costituisce per il settore un principio irretrattabile: “[i]n un mercato globale lo sviluppo del turismo culturale dipende in primo luogo dall’efficacia delle politiche di innovazione e diversificazione dell’offerta turistica e dalla loro capacità di valorizzare il patrimonio culturale sfruttando il “vantaggio competitivo legato alla pluralità e alla varietà di patrimoni culturali, naturali, antropologici e di altra natura, espressi anche attraverso le competenze, i saperi, i talenti e le tradizioni locali” (A. Sau, Le frontiere del turismo culturale, cit., pag. 42).
[76 Sul punto si v. A. Giusti, La rigenerazione urbana tra consolidamento dei paradigmi e nuove contingenze, in Dir. amm., 2021, pag. 439 ss., spec. 449 ss., laddove, considerando il più ampio ambito della Strategia nazionale per le aree interne, ha affermato che “la strategia per le aree interne passa, innanzitutto, attraverso una nuova accezione di accessibilità ai servizi, quale premessa per valorizzare dei territori che potrebbero rappresentare un grande capitale territoriale, naturale e umano, strategico per il rilancio e la crescita del Paese”.
[77] Sul punto, per tutti, cfr. A. Sau, La rivitalizzazione dei borghi, cit., pag. 14 ss.
[78] Imprescindibile è il rinvio a C. cost., 9 marzo 1990, n. 118.
[79] F.G. Scoca e D. D’Orsogna, Centri storici, problema irrisolto, cit., pag. 65 ss., laddove si aggiunge che “al posto di un inefficace (o perfino sviante e distorsivo) vincolo di continuazione” sarebbe più opportuno operare “con strumenti di sostegno, che siano i doni a mantenere l’ambiente o il clima culturale (e socio-economico) nei quali le attività culturalmente pregevoli possono conservarsi e riprodursi”.
[80] P. Carpentieri, Decoro urbano e tutela e promozione dei locali storici e delle attività tradizionali, in Riv. giur. urb., 2018, 2, pag. 190 ss., spec. 225. Sul punto cfr. altresì A. Giannelli, Il rinnovo in favore del concessionario uscente quale forma di tutela del valore identitario di determinati locali “storici”: dalla dittatura della concorrenza alla dittatura della cd. eccezione culturale?, in Dir. proc. amm., 2019, pag. 174 ss.
[81] G. Torelli, La salvaguardia delle attività tradizionali nei c.d.“locali storici”, in Munus, 2021, 2, pag. 437 ss.
[82] Id., pag. 457.
[83] A. Simonati, Il giudice amministrativo nei meandri del centro storico: alla ricerca di un paradigma unitario, fra governo del territorio e salvaguardia del patrimonio culturale, in Nuove auton., 2021, 2, pag. 505 ss., spec. 518.
[84] Per A. Bartolini, Patrimonio culturale e urbanistica, cit., pag. 26, a lungo il limite degli interventi normativi relativi al centro storico è stato quello di considerarlo “come una res di valore culturale e paesaggistico, disinteressandosi del contesto, innescando meccanismi assai noti come quello della “musealizzazione”.
[85] P. Carpentieri, Decoro urbano e tutela e promozione dei locali storici e delle attività tradizionali, cit., pag. 194.
[86] T. Bonetti, Pianificazione urbanistica e regolazione delle attività commerciali nei centri storici, in Riv. giur. urb., 2017, 3, pag. 386 ss.
[87] Su cui si v. G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Bologna, Il Mulino, 2015. Sulla gentrificazione nei centri storici si v. le importanti riflessioni, consapevoli delle dinamiche concretamente intercorse a livello locale, di E. Boscolo, Le periferie in degrado (socio-territoriale) e i (plurimi) fallimenti dell’urbanistica italiana, in Riv. giur. urb., 2021, 1, pag. 54 ss., spec. 77 ss.
[88] Connessione, questa, ben colta da C. Prevete, Le funzioni, l’organizzazione e la gestione dell’edilizia residenziale pubblica e sociale: oltre il «diritto alla città», in Ripensare la città e il suo diritto, (a cura di) P. Stella Richter, Milano, Giuffrè, 2022, pag. 189 ss.
[89] Come rilevato in dottrina, infatti, i fattori che “costituiscono il fondamento empirico” dello spopolamento “si collegano alla scarsa fruibilità di alcuni servizi o al gap infrastrutturale che si registra in determinate aree territoriali” (G.M. Caruso e G. Befani, L’urbanistica e lo spopolamento in Italia, cit., pag. 351).
[90] Cfr. l’art. 5, comma 2, del regolamento della Regione Piemonte, 15 maggio 2017, n. 9, recante “Caratteristiche e modalità di gestione delle aziende alberghiere nonché requisiti tecnico-edilizi ed igienico-sanitari occorrenti al loro funzionamento. (Articolo 8 della legge regionale 11 marzo 2015, n. 3)”: “gli immobili convertiti in albergo diffuso, se non ricadono in aree in cui è ammessa dagli strumenti di pianificazione urbanistica la destinazione turistico-ricettiva, possono mantenere la destinazione d'uso residenziale, fatta eccezione per lo stabile principale destinato ad accogliere i servizi di uso comune”.
[91] In tema cfr. P.L. Cervellati, La chimera della rigenerazione e il popoloso deserto della città storica, in Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, (a cura di) I. Agostini, Bologna, Pendragon, 2017, pag. 47 ss.
[92] Così come dimostrato dalla pluralità delle declinazioni delle “dinamiche di terziarizzazione economica in atto [nei centri storici]”, ben esposte da L. Ferrucci, Le potenzialità economiche dei centri storici, in Aedon, 2015, 2: declinazioni che vanno certamente oltre l’immagine del “centro storico come contenitore di beni culturali, storici e artistici [...] per attrarre turisti”, abbracciando anche i fenomeni di terziarizzazione legati ad altri servizi, siano essi resi dalle istituzioni (“centro storico come contenitore di parti importanti della pubblica amministrazione”), dalle accademie ed università (“centro storico come contenitore di istituzioni di formazione culturale e scientifica”) o dagli imprenditori (“centro storico come contenitore di commercio”).
[93] Così E. Fragale, Un Patto tra le città d’arte per il rilancio del turismo e la protezione del pregio storico, in Ist. fed., 2021, 4, pag. 1091 ss., spec. 1091. Sempre sul punto, dello stesso A. si v. Id., Il problema dei centri storici tra le sfide poste dalla sharing economy e le nuove istanze di salvaguardia, in Munus, 2020, 3, pag. 549 ss.
[94] Per E. Boscolo, Il piano regolatore comunale, cit., pag. 231, “[s]ui centri storici incombe sempre il rischio di terziarizzazione, con espulsione delle tradizionali coorti di occupanti: cd. gentrification, o di museificazione, con sostituzione dei luoghi di vita con una sterile metafora degli stessi ad uso esclusivamente turistico”.
[95] A. Crosetti, Tutela di beni culturali attraverso vincoli di destinazione: problemi e prospettive, in Riv. giur. edil., 2002, 4, pag. 255 ss., spec. 271 ss. Sulla “rifunzionalizzazione non debole” legata ad una “parziale de-terziarizzazione”, quale strategia per evitare che i centri storici rimangano o divengano “contenitori a dominante valenza turistica o per eventi effimeri, straordinari e incongrui, ma non vitali né vivificanti”, si v. G. Severini, Centri storici: occorre una legge speciale o politiche speciali?, in Aedon, 2015, 2. Qualche spunto in tema può essere tratto anche da T. Bonetti, Pianificazione urbanistica e regolazione delle attività commerciali nei centri storici, cit., pag. 404 ss., nonché da R. Dipace, La rigenerazione urbana tra programmazione e pianificazione, in Riv. giur. edil., 2014, 5, pag. 237 ss., spec. 244 ss.
[96] L. Ferrucci, Le potenzialità economiche dei centri storici, cit.
[97] K. Gyodi, Airbnb in European cities: Business as usual or true sharing economy?, in Journal of Cleaner Production, 2019, 221, pag. 536 ss.
[98] Si v. però A. Giannelli, La rigenerazione urbana tra consolidamento dei paradigmi e nuove contingenze, in Dir. amm., 2021, 2, pag. 439 ss., spec. 444, laddove l’A. ritiene che “il fenomeno della diffusione urbana e i processi di metropolizzazione sono gli effetti della difficoltà, in queste aree, di esercitare i diritti di cittadinanza”.