Patrimonio culturale e riqualificazione urbanistica
I centri storici al crocevia tra disciplina dei beni culturali, disciplina del paesaggio e urbanistica: profili critici
Sommario: 1. La definizione del centro storico: origini del problema. - 2. La "vitalità" del centro storico: un elemento di complicazione del problema. - 3. Incertezze definitorie e problemi di sovrapposizione di discipline all'esterno e all'interno del Codice dei beni culturali e del paesaggio. - 4. Qualche riflessione conclusiva.
Italian Historic City Centers between Cultural Heritage
Protection, Landscape Regulation and Urban Planning
The legislative decree n. 63/2008
explicitly includes downtowns and historic city centers among the landscape
assets that fall under the definition of the "Code of cultural heritage
and landscape". The article addresses the problems of coordination between
the new and the old discipline, with particular regard to the tension arising
between urban planning and protection of cultural heritage. It highlights the
overlapping areas and the resulting uncertainties in the concrete application.
1. La definizione del centro storico: origini del problema
La questione dei centri storici, ben nota ad architetti ed urbanisti ormai da tempo, presenta, per il giurista che si occupi di tutela del patrimonio culturale, profili affatto peculiari, basti pensare che, ad onta del fatto che il territorio italiano vanta una enorme quantità di realtà che pacificamente vengono inquadrate appunto come tali, tale disciplina ne ha pressoché ignorato l'esistenza (quanto meno in modo esplicito) fino al 2008, quando il decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63, ne ha introdotto il concetto all'interno del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio ascrivendolo, tuttavia, ai beni paesaggistici e non a quelli culturali come ci si sarebbe potuti aspettare.
Diversamente, la regolamentazione specificamente preposta alla protezione dei beni culturali, fin dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089, impostata come normativa di tutela puntiforme di singoli beni e non di complessi eterogenei (a meno che, naturalmente, non potessero essere configurati come collezioni o serie di oggetti), ha ignorato del tutto tale nozione.
Fu la commissione Franceschini, nel 1967, a cominciare a parlare di centri storici, ascrivendoli alla più ampia categoria di "beni culturali ambientali", in quanto "zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà" da conservarsi "al godimento della collettività", evidenziandone, per la prima volta, la caratteristica della "vitalità" sia quale elemento costitutivo necessario della stessa identità culturale del "bene", sia anche quale obiettivo ultimo a cui ogni criterio di intervento sul tessuto urbano andava orientato [1].
Da notare come le sollecitazioni della commissione Franceschini si rivolgessero alla disciplina urbanistica, quale interlocutore privilegiato, cui essa espressamente rinviava, sancendone una sorta di sottomissione (o quanto meno un necessario coordinamento) alle scelte paesaggistico/ambientali [2].
Tali stimoli non trovarono accoglimento nella legge 1089/1939, che non fu modificata in tal senso; toccò, invece, alla legge c.d. ponte, legge 6 agosto 1967, n. 765, positivizzare per la prima volta, nel solco della c.d. carta di Gubbio [3], la nozione di centro storico facendo riferimento agli agglomerati urbani di "carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale", e indicando, attraverso la circolare del ministero dei Lavori pubblici del 28 ottobre 1967, n. 3210, quali criteri di individuazione di tale carattere, il fatto che si trattasse di "a) strutture urbane in cui la maggioranza degli isolati contengano edifici costruiti in epoca anteriore al 1860, anche in assenza di monumenti od edifici di particolare valore artistico"; ovvero di "b) strutture urbane racchiuse da antiche mura in tutto o in parte conservate, ivi comprese le eventuali propaggini esterne che rientrino nella definizione del punto a)"; o, infine, di "strutture urbane realizzate anche dopo il 1860, che nel loro complesso costituiscano documenti di un costume edilizio altamente qualificato" [4].
Va immediatamente rilevato come, rispetto alle indicazioni fornite dalla commissione Franceschini, nella legge 765/1967 sembri perdersi, almeno in parte, il carattere di "culturalità", nel suo nuovo significato di "testimonianza materiale avente valore di civiltà", restando piuttosto privilegiato un generico criterio di pregevolezza (evidentemente ancora legato alle concezioni estetizzanti delle leggi Bottai) ovvero un mero criterio di "anzianità" degli immobili siti in una certa area della città; viceversa, non si ritrova alcun riferimento alla "vitalità" del luogo, vero carattere peculiare dei centri storici rispetto agli altri beni culturali e ambientali [5].
Ben può dirsi, dunque, come, proprio nel momento in cui i centri storici sono espressamente contemplati dal diritto positivo, emerga in tutta la sua criticità quella tensione tra urbanistica e disciplina del patrimonio culturale che caratterizza la discussione su questo tema ancora nel dibattito odierno, nel segno di una continua ricerca di reciproca indipendenza e, se così si può dire, superiorità [6]. Se, infatti, l'individuazione dei centri storici resta riferita, pur dalla disciplina urbanistica, a caratteri di culturalità, per altro verso la stessa circolare del ministero del Lavori pubblici citata affermava in modo esplicito che "poiché da parte di alcuni comuni è stato chiesto specificamente se la norma di cui trattasi debba applicarsi alle zone dichiarate di notevole interesse pubblico ai sensi dell'art. 6 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, occorre precisare in primo luogo che le limitazioni previste dalla norma stessa possono trovare applicazione limitatamente alle parti di tali zone comprese negli agglomerati urbani e inoltre che, anche in tale ambito, deve sempre sussistere il carattere stabilito dalla norma, e che non può farsi derivare automaticamente dal vincolo suindicato. L'esistenza di tale carattere potrà essere valutato dalla soprintendenza ai monumenti in sede di rilascio del prescritto nulla osta. Ad evitare, comunque, difficoltà ed incertezze interpretative o disparità di trattamento nell'applicazione della nuova norma sarebbe opportuno che i comuni procedessero, in occasione della delimitazione dei centri abitati, anche alla perimetrazione degli agglomerati urbani aventi i caratteri indicati dalla legge". A ciò deve poi aggiungersi, come attenta dottrina ha evidenziato, che "l'indeterminatezza della formula legislativa, unita al fatto che il decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, include nelle zone A sia gli agglomerati urbani di antica origine dotati di importanza storico-artistico-ambientale, ma anche le aree circostanti che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi, hanno favorito l'affermarsi di un'interpretazione estremamente estensiva ed elastica, secondo la quale l'operazione di delimitazione, nell'ambito del Piano regolatore generale (Prg), del centro storico come entità giuridico-urbanistica diventa vera e propria scelta urbanistica", con la conseguenza che "il problema del centro storico perde la sua specificità, collocandosi nell'ambito dei problemi da affrontare (e risolvere) in sede urbanistica" e "l'interesse alla tutela del centro storico diventa, tra i vari interessi pari ordinati da comporre in sede pianificatoria, forse nemmeno il più importante a livello statistico" [7].
Da quanto osservato, emerge con chiarezza come il problema di fondo, ancor prima che di regolamentazione, sia di qualificazione, posto che nell'ordinamento italiano mancava (e continua a mancare) una nozione giuridicamente univoca di centro storico, nonostante più testi normativi vi facciano riferimento, quasi come se si trattasse di una realtà auto evidente.
Particolarmente significativo a questo proposito è, altresì, il dibattito sulla città storica identificata dal disegno di legge Camera n. 4015/1997, Norme per le città storiche (iniz. Veltroni), come "quella che, con la stratificazione dei suoi monumenti e dell'intero tessuto urbano, rispecchia esemplarmente il processo evolutivo storico, antropologico, culturale e artistico di cui è stata protagonista". Il concetto così individuato generava non pochi problemi di sovrapposizione con la nozione appunto di centro storico propria della disciplina urbanistica tanto che, in una riflessione di pochi anni fa, se ne proponeva una distinzione basata non tanto sull'essenza di questi, quanto piuttosto sulle finalità ispiratrici delle discipline che li concernevano: il "centro storico" avrebbe dovuto considerarsi un concetto "storicamente utilizzato solo all'interno della disciplina urbanistica" e, dunque, oggetto di una disciplina prevalentemente edilizio-conservativa, mentre la "città storica" rinviava piuttosto a finalità di "vivibilità e conoscibilità delle città ricche d'arte e di cultura" [8].
Tuttavia, oggi, il d.lg. 63/2008 pare rimescolare le carte, rimettendo in discussione i rapporti tra urbanistica e tutela del patrimonio culturale. Infatti, il nuovo art. 136 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che, come già detto, ascrive definitivamente i centri storici ai beni paesaggistici, usa l'espressione "centri e nuclei storici" (senza peraltro distinguere tra i due concetti, che restano indefiniti) secondo un'accezione che non pare poter coincidere automaticamente con quella emergente dalle zonizzazioni contenute nei Prg, dal momento che la norma richiede una specifica individuazione a seguito dell'espletamento dell'apposito procedimento regolato agli articoli successivi. L'ordinamento attuale, dunque, conosce due differenti accezioni di centro storico (quella urbanistica e quella paesaggistica) non automaticamente e necessariamente coincidenti, ma potenzialmente riferite (in concreto) alla medesima realtà.
2. La "vitalità" del centro storico: un elemento di complicazione del problema
Le difficoltà di individuazione di una nozione univoca, e dunque, utile, di centro storico, dipendono altresì dal fatto che esso rappresenta una realtà complessa e composita, del tutto eterogenea e sempre peculiare, in cui convergono interessi differenti che, anche adottando unicamente la prospettiva della tutela del patrimonio culturale nazionale, difficilmente possono essere composti. La questione è, infatti, complicata dal fatto che, come già accennato, la caratteristica del centro storico risiede nel suo essere una realtà viva e vitale [9], come a suo tempo la commissione Franceschini aveva messo in evidenza con una chiara sollecitazione rimasta però inascoltata.
Il tema non è, invero, sconosciuto alla disciplina dei beni culturali, anzi, ben può dirsi come proprio quello della protezione e del rilancio della sua vitalità, attraverso la tutela delle attività c.d. tradizionali, rappresenti uno dei terreni più delicati su cui si è giocata la partita tra giudici amministrativi e soprintendenze.
Dal punto di vista della individuazione del valore culturale di un agglomerato urbano, infatti, tali attività rivestono una posizione di primissimo piano; infatti, il ruolo identitario del centro storico si individua anche, e (forse) soprattutto, proprio per le attività tradizionali che vi si svolgono, le quali rappresentano certamente il più rilevante indizio di vitalità del luogo e la cui conservazione impedisce che esso diventi una sorta di museo a cielo aperto. Tali attività rivestono indubbiamente un valore culturale particolare dal momento che testimoniano la storia della vita della città stessa e, conseguentemente, possono arrivare a rivestire il ruolo di fattore costitutivo dell'interesse culturale del luogo, coerentemente con quanto disposto dall'art. 9 Costituzione, che impone una concezione di patrimonio culturale in cui la valenza identitaria costituisce l'attributo fondamentale e caratterizzante di ogni "realtà" che si voglia qualificare come tale.
La vicenda della tutela delle attività tradizionali è del tutto nota e pare superfluo, in questa sede, ripercorrerne ancora una volta le tappe. Pare in effetti sufficiente richiamare, ai fini che qui interessano, la posizione netta della Corte costituzionale che, chiamata a decidere della legittimità costituzionale della legge 1089/1939 per la parte in cui non era consentito estendere il vincolo culturale anche a tali attività, dichiarò infondata la questione e ribadì la legittimità delle norme censurate, confermandone l'inapplicabilità ad oggetti "non materiali"; secondo l'insegnamento della Corte, inoltre, il vincolo di destinazione non può mai riguardare l'attività in sé (considerata separatamente dal bene), ma questa "deve essere libera secondo i precetti costituzionali" [10].
Se ogni tentativo delle soprintendenze di valorizzare e proteggere le attività tradizionali attraverso le leggi di tutela dei beni culturali è stato vanificato tanto dalla Corte costituzionale [11] quanto dagli stessi giudici amministrativi [12], la materia ha trovato collocazione solo nell'ambito della disciplina del commercio di raccordo con quella urbanistica, senza tuttavia che vengano menzionate norme di tutela del paesaggio e/o dei beni culturali, né che venga in alcun modo menzionato espressamente l'intervento della soprintendenza. Nella legislazione più recente, infatti, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, all'art. 6, lett. d), stabilisce che tra gli obiettivi della programmazione della rete distributiva devono essere inclusi anche la salvaguardia e la riqualificazione dei centri storici "anche attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti e il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ed ambientale" e che, nel definire tali indirizzi, le regioni devono tener conto anche delle caratteristiche anche dei "c) i centri storici, al fine di salvaguardare e qualificare la presenza delle attività commerciali e artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato, di tutelare gli esercizi aventi valore storico e artistico ed evitare il processo di espulsione delle attività commerciali e artigianali". Le regioni sono altresì chiamate a fissare i criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale affinché gli strumenti urbanistici comunali individuino, tra l'altro "b) i limiti ai quali sono sottoposti gli insediamenti commerciali in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali e ambientali, nonché dell'arredo urbano, ai quali sono sottoposte le imprese commerciali nei centri storici e nelle località di particolare interesse artistico e naturale" (art. 6, comma 2) [13].
Ai fini che in questa sede rilevano, la vicenda getta una lunga ombra sulla possibilità di adottare una nozione soddisfacente di centro storico, utile a consentire l'utilizzo di una sicura (e unica) disciplina di riferimento. Proprio la "vitalità" del centro storico, infatti, ossia l'elemento qualificante per antonomasia di tali realtà, non riesce a trovare una sua collocazione (né evidentemente una sua rilevanza) all'interno di quella disciplina naturalmente destinata a tutelarne appunto il valore culturale.
3. Incertezze definitorie e problemi di sovrapposizione di discipline all'esterno e all'interno del Codice dei beni culturali e del paesaggio
Le incertezze definitorie e la complessità degli interessi convergenti nei centri storici proiettano naturalmente la loro ombra sulla disciplina concretamente applicabile, generando notevoli problemi di coordinamento e, a monte, di individuazione delle competenze.
Si è parlato sino ad ora, volutamente, di tutela del "patrimonio culturale", utilizzando la locuzione onnicomprensiva coniata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio nel 2004, per evidenziare le problematiche di sovrapposizione con la disciplina urbanistica.
Tuttavia, nel nostro ordinamento, beni culturali e beni paesaggistici trovano percorsi di protezione affatto differenti che, proprio nei centri storici, mostrano convergenze critiche di difficile soluzione.
In particolare, dopo la novella del 2008, ogni discorso sui centri storici deve essere necessariamente ricostruito considerando la prospettiva dei beni paesaggistici.
Come si è già accennato, va prima di tutto rilevato come la novella non sembra aver risolto il problema definitorio, finendo per risolversi in una sorta di rivendicazione (rectius, riaffermazione) della competenza della disciplina paesaggistica a occuparsi della materia [14].
In effetti, come già si è accennato, l'art. 136, come modificato dal d.lg. 63/2008, ascrive i centri storici all'elenco dei beni paesistici tutelati dal Codice, qualora singolarmente individuati, con un provvedimento di notevole interesse pubblico. Si genera così un problema di sovrapposizione tra normative, posto che la riforma del Codice dei beni culturali va a sovrapporsi alle norme urbanistiche, che da sempre hanno costituito l'unico (o, comunque, il prevalente) riferimento per la tutela dei centri storici in quanto tali. La nozione di centro storico di cui al Codice dei beni culturali, infatti, non può coincidere logicamente con quella urbanistica che emerge dai Prg, posto che l'art. 136 ne richiede una specifica individuazione a seguito dell'espletamento del procedimento regolato dagli artt. 138 e ss.; diversamente argomentando, "ci troveremmo di fronte ad una tutela ex lege con rinvio alla zonizzazione urbanistica" con conseguente vanificazione degli strumenti di individuazione e tutela apprestati dal Codice [15].
In ogni caso, il Codice stabilisce che i centri storici siano assoggettati a tutela in quanto possano configurarsi come "complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale" (art. 136), qualificazione ove sembra comporsi la portata di testimonianza storico-culturale ("tradizionale") e - da notarsi la congiunzione "e", che impone la compresenza dei due fattori - la componente estetica, attributo di un'ampissima discrezionalità (stante, tra l'altro, la sua insindacabilità di fronte al giudice amministrativo), che ben potrebbe consentire all'amministrazione di escludere dalla tutela parti di realtà urbane, definite "centri storici" dai Prg, ma prive di tali caratteristiche [16].
Si tenga poi conto che l'art 136 non garantisce criteri di identificazione uniformi sul territorio nazionale giacché l'art. 158 riconosce alle regioni facoltà di prevederne di differenti (ancorché teoricamente coerenti con quelli ex art. 136).
Sotto altro profilo, per quanto riguarda i problemi di coordinamento all'interno del Codice, resta, poi, il nervo scoperto del difficile rapporto tra la disciplina paesaggistica e la disciplina dei beni culturali.
Si è già accennato all'inadeguatezza delle norme di cui alla parte seconda del Codice a occuparsi in modo esaustivo di una realtà composita come quella dei centri storici, destinata inevitabilmente a sfuggire ad una disciplina concepita per dirigersi solo a beni individuali, singolarmente identificati [17].
Tra l'altro, per inciso, va rilevato come le stesse prescrizioni c.d. di tutela indiretta, le uniche norme del testo considerato che possono essere applicate anche con riferimento ad aree ovvero a gruppi di immobili, risultino, ora come allora, inadeguate allo scopo. Il primo limite, infatti, riguarda il profilo oggettivo della norma, nel senso che tali prescrizioni, ancorché non sia stabilito espressamente, possono evidentemente applicarsi ad insiemi di immobili, a patto che essi presentino caratteristiche analoghe tali da renderli assoggettabili appunto alle medesime limitazioni. Ancora sotto tale profilo, va osservato come non tutti i centri storici abbiano i requisiti per essere oggetto di misure di tutela indiretta dal momento che queste presuppongono l'esistenza di un vincolo diretto su un bene culturale, che tuttavia potrebbe anche non essere presente, poiché l'esistenza di un bene siffatto non è requisito essenziale per ascrivere una parte di tessuto urbano alla categoria dei centri storici [18]; dal punto di vista della tutela fornita, infine, le misure di tutela indiretta sono dettate a fini di mantenimento di uno status quo e non consentono di imporre obblighi di facere (es. obblighi conservativi di recupero) sul bene assoggettato a tale tipo di vincolo, come invece avviene nel caso in cui un bene sia vincolato "in modo diretto".
Ciò detto, va tuttavia rilevato come ben possano porsi problemi di sovrapposizione tra le due parti del Codice considerate. In effetti, ancorché la parte seconda mal si presti a disciplinare l'intero centro storico e che, comunque, per ascrivere un'area urbana a tale categoria, non occorre necessariamente che in esso siano ricompresi beni direttamente vincolati in quanto immobili "culturali" (in questo senso, convergono sia la disciplina urbanistica sia quella paesaggistica),è, tuttavia, anche vero che essi ben possono essere presenti (e possono addirittura risultare determinanti a svelare quei valori estetici e tradizionali che fanno di una porzione di tessuto urbano, un bene paesaggistico). Il riferimento va non solo, ovviamente, agli edifici storici (eventualmente vincolati anche ai sensi dell'art 10, comma 3, lett. d), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma anche a "le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico" (art. 10, comma 4, lett. f) ovvero, soprattutto, a "le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico" (art. 10, comma 4, lett. g). Da notare, in proposito, come solo per i beni ex art. 10, comma 4, lett. f), l'art. 136 specifica che essi siano considerati beni paesaggistici (e come tali protetti) solamente ove "non tutelati dalle disposizioni della Parte seconda del presente Codice" (art. 136, lett. b); viceversa, nulla di simile viene detto per quel che riguarda i beni di cui all'art. 10, comma 3, lett. g), che dunque, ben possono "cadere" sotto entrambe le discipline. In questo caso, il problema dello sdoppiamento delle discipline è tanto più delicato se si considera che tali beni sono in generale pubblici e, dunque, il carattere di culturalità si presume (fino ad eventuale espletamento di una procedura di verifica che dia esito contrario), con conseguente applicazione della disciplina vincolistica anche in assenza di un procedimento di verificazione [19].
4. Qualche riflessione conclusiva
Considerando unitariamente i vari aspetti problematici esposti, pare senz'altro possibile affermare che la materia dei centri storici costituisce un punto di snodo in cui convergono e devono necessariamente convergere, varie branche disciplinari, diverse ma inevitabilmente complementari.
Il quadro normativo di riferimento tuttavia, pare opporsi ad una impostazione unitaria dei problemi che ai centri storici sono appunto riconnessi.
Basta pensare alla confusione di competenze che emerge fin dalla lettura dell'art. 117 Cost. in cui - a tacere dei problemi generati dall'assenza della materia "paesaggio"- ambiente, beni culturali e governo del territorio si collocano ad un crocevia in cui si intersecano confuse competenze statali e regionali, ulteriormente rimescolate dall'irrisolta questione della definizione dei campi di applicazione delle funzioni di tutela e di valorizzazione [20]. A ciò va necessariamente aggiunto, relativamente al tema de quo, che le problematiche riguardanti la vitalità dei luoghi, segnatamente sotto il profilo della tutela delle attività tradizionali, parrebbero, a loro volta, contese tra la materia del commercio, da ascriversi alla competenza legislativa esclusiva delle regioni [21], e quella dei beni culturali, con la conseguenza che, se fosse la materia del commercio a doversene occupare, ogni regione ben potrebbe legiferare in piena autonomia dallo Stato e, quindi, anche da qualunque principio eventualmente posto in materia di valorizzazione di beni culturali e paesaggistici.
Quanto, poi, all'esercizio delle funzioni amministrative, non pare da sottovalutare l'impatto del d.lg. 63/2008 e cioè della nuova collocazione dei centri storici tra i beni paesaggistici.
Ben è vero, certamente, che la novella si pone in linea con una rinnovata nozione di paesaggio (peraltro coerente con la Convenzione europea del paesaggio ratificata in Italia con legge 9 gennaio 2006, n. 14 [22]) che valorizza l'aspetto antropico dello stesso; tuttavia, il mancato coordinamento con la disciplina che tradizionalmente si è occupata della materia genera qualche perplessità. In effetti, la prima e più evidente conseguenza è che la funzione di individuazione del bene da tutelare passerebbe, in forza del novellato art. 140, alla regione, risultando, così, quasi del tutto obliterato il ruolo dei Comuni, che per lungo tempo hanno costituito l'ente di riferimento in materia (le cui competenze, comunque, restano immodificate nelle norme urbanistiche) e che, in base al principio di sussidiarietà verticale, parrebbero oggi costituire il livello territoriale naturale (prima ancora che ottimale) cui allocare le funzioni di cui si tratta [23].
Invero, tuttavia, va rilevato come la disciplina del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico di cui agli artt. 138 ss. del Codice, avrebbe altresì la funzione di recuperare al centro, ossia al Mibac, la valutazione circa la sussistenza dell'interesse culturale del bene stesso, ossia di quei valori "storici, culturali, naturali, morfologici, estetici espressi dagli aspetti e caratteri peculiari degli immobili o delle aree considerati ed alla loro valenza identitaria in rapporto al territorio in cui ricadono" che, ai sensi dell'art. 138 comma 1, ne costituiscono espressione. In effetti, il provvedimento regionale è emanato "sulla base della proposta"(art. 140, comma 1) della Commissione di cui all'art. 137 di cui fanno parte di diritto il direttore regionale, il soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio ed il soprintendente per i beni archeologici competenti per territorio, nonché due responsabili preposti agli uffici regionali competenti in materia di paesaggio. La norma avrebbe l'effetto di ribadire come la valutazione circa la qualificazione culturale di una res, spetti al livello ministeriale, coerentemente, peraltro, con quanto previsto nella parte seconda del Codice in relazione ai beni culturali. Il recupero, parrebbe, tuttavia, più apparente che reale a fronte dell'ampia discrezionalità lasciata comunque alla regione in sede di decisione finale [24].
Molti, dunque, i problemi da risolvere, da riconnettersi in larga misura ad un carente coordinamento tra le discipline nonché, a monte, da una concezione anacronistica di centro storico, la cui caratteristica peculiare, cioè il suo essere vivo, non riuscendo a trovare tutela nella legge specificamente preposta alla tutela del nostro patrimonio culturale (specie, come si è visto, per l'incompatibilità dei vincoli in essa previsti col principio di libertà economica sancito dall'art. 41 Cost.), diventa oggetto di normative ispirate a logiche del tutto differenti (quelle di regolazione del commercio appunto), con conseguente ulteriore complicazione del quadro di riferimento.
Note
[1] Dichicarazione XL, Centri storici e loro tutela, in Atti della commissione Franceschini: "In particolare sono da considerare centri storici urbani quelle strutture insediative urbane che costituiscono unità culturale o la parte originaria e autentica di insediamenti, e testimonino i caratteri di una viva cultura urbana. Per essi la legge dovrà prevedere adeguati strumenti, sia finanziari, sia operativi. A fini operativi, la tutela dei centri storici si dovrà attuare mediante misure cautelari (quali la temporanea sospensione di attività edilizie ad essi inerenti), e definitive mediante piani regolatori. Si applichino, in proposito, i principi della Dich. XLVI. I Piani regolatori relativi ai centri storici urbani dovranno avere riguardo ai centri medesimi nella loro interezza, e si ispireranno ai criteri di conservazione degli edifici nonché delle strutture viarie e delle caratteristiche costruttive di consolidamento e restauro, di risanamento interno igienico sanitario, in modo che, come risultato ultimo, i centri stessi costituiscano tessuti culturali non mortificati. Si dovranno anche prevedere opportuni incentivi della iniziativa privata, di ordine tributario e finanziario".
[2] Dichiarazione XLVI, Piani regolatori, in Atti della commissione Franceschini: "Quando il comune sia già provvisto di piano regolatore, la dichiarazione di bene ambientale obbliga il comune ad adottare, secondo il procedimento e nei termini che saranno stabiliti dalla legge, una variante del piano esistente. Quando il Piano regolatore sia in formazione, le soprintendenze chiedono ai comuni che sia in esso inserito il complesso delle prescrizioni attinenti alle aree dichiarate bene ambientale, e sia coordinato con le altre determinazioni del piano allo studio. Quando il comune non possieda piano regolatore o il procedimento per l'adozione di esso ritardi, in modo da pregiudicare gravemente la conservazione dei beni ambientali, e in caso di perdurante inerzia interviene sostitutivamente con le cautele che stabilirà la legge. I conflitti che possono eventualmente sorgere tra le soprintendenze e i comuni, vanno risolti secondo i procedimenti che, a tal fine, dovranno essere previsti dalla legge urbanistica generale".
[3] La Carta di Gubbio è stata approvata in seno al Congresso ANCSA) Associazione Nazionale Centri Storico Artistici) tenutosi appunto a Gubbio dal 17 al 19 ottobre 1960 (il testo è disponibile su http://www.ancsa.org).
[4] Sul punto, sia consentito rinviare a C. Videtta, I "centri storici" nella riforma del Codice dei beni culturali, in Riv. Giur. Edil., 2010, fasc. 1, pag. 47 ss.
[5] Sul punto, v. infra, par, 2.
[6] Sul punto, A. Roccella, Governo del territorio: rapporti con la tutela dei beni culturali e l'ordinamento civile, in Le regioni, 2005, pag. 1259 ss.
[7] Così, F.G. Scoca, D. D'Orsogna, Centri storici, problema irrisolto, in La tutela dei centri storici: discipline giuridiche, a cura di G. Caia, G. Ghetti, Torino, 1997, pagg. 45-46. In dottrina si è inoltre unanimemente rilevato come gli stessi strumenti urbanistici si siano limitati a promuovere una "protezione statica dell'esistente", mentre sono sostanzialmente mancate azioni di vero e proprio recupero e riqualificazione dei centri storici. Sul punto, N. Grasso, I centri storici, in Diritto dei Beni Culturali e del Paesaggio, a cura di M.A. Cabiddu, N. Grasso, Torino, 2004, pag. 309.
[8] A. Serra, Riflessioni in tema di governo delle città d'arte: esigenze, obiettivi, strumenti, in Aedon 1/2008. Difficile altresì la distinzione tra centri storici e città d'arte, su cui, in particolare, M. Ainis, M. Fiorillo, L'ordinamento della cultura, Milano, 2008, pagg. 325 ss. Secondo gli A. "ogni aggregato urbano ha un centro storico - nel senso urbanistico o socio-politico del termine - che va tutelato perché vi si conserva, per così dire, la memoria storica del luogo, e quindi la sua identità; taluni inseduiamenti dispongono poi d'un centro storico ricco di testimonianze artistiche del passato, e v'è allora, più propriamente, un centro antico; altrove, infine, il cosiddetto centro antico finisce grosso modo per coincidere con tutto il centro abitato, ed affiora pertanto la nozione di città d'arte" (pag. 332).
[9] Così significativamente, Corte cost., sentenza 30 luglio 1992, n. 388, a proposito dell'art. 4 del decreto legge 9 dicembre 1986, n. 832, convertito, con modificazioni, in legge n. 15 del 1987, che consentiva all'autorità comunale di precludere nel proprio territorio l'esercizio di determinate attività imprenditoriali, limitatamente agli esercizi commerciali, agli esercizi pubblici e alle imprese artigiane, ritenute incompatibili con la finalità di tutelare le tradizioni locali e le aree di particolare interesse e di accertare le attività svolte nei suddetti esercizi compresi nelle aree di cui trattasi e di confermare le autorizzazioni commerciali nei limiti delle attività effettivamente in atto alla data dell'entrata in vigore dello stesso decreto: "La disposizione censurata rappresenta un ulteriore tentativo del legislatore di assicurare la tutela delle tradizioni locali e delle aree di particolare interesse site nei territori comunali, caratterizzati da un nucleo edilizio ed abitativo riconducibile al concetto di centro storico il quale rappresenta l'immagine della città ed esprime anche l'essenziale della nostra storia civile ed artistica e della nostra cultura" e con la norma censurata, quindi, si è voluto porre freno al degrado delle aree di particolare interesse impedendo il moltiplicarsi di esercizi commerciali che, sostituendo quelli tradizionali, per l'attività che vi si svolge, producono effetti dannosi e distorsivi del loro assetto, mentre, invece, meritano protezione le particolari caratteristiche acquisite per lunga tradizione".
[10] Corte cost., sentenza 9 marzo 1990, n. 118. La stessa Corte costituzionale ha chiarito, nel solco della costante giurisprudenza amministrativa, che i provvedimenti di vincolo (sia per interesse culturale diretto sia per interesse "relazionale") non possono applicarsi alle attività che si svolgono nell'immobile vincolato: l'"utilizzazione non assume rilievo autonomo, separato e distinto, ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene. (...) Pertanto, il vincolo di destinazione non può mai riguardare l'attività in sé, considerata separatamente dal bene, ma questa "deve essere libera secondo i precetti costituzionali (artt. 2, 9 e 33)". Sul punto, M.A. Sandulli, N. Sandulli, Valori culturali e ambiente storico nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in La questione dei centri storici. Gli strumenti normativi di tutela e di intervento nello stato di cultura, a cura di S. Cattaneo, Milano, 1997, pagg. 74 ss.; G. Clemente di San Luca, L'attività di trasformazione dei beni culturali, in Il diritto urbanistico in 50 anni di giurisprudenza della Corte Costituzionale (Atti del Convegno AIDU, Napoli 12 e 13 maggio 2006), a cura di M.A. Sandulli, M.R. Spasiano, P. Stella Richter, Napoli, 2007, pagg. 211-212. La vicenda ha avuto alterne fortune (ed ancor oggi se ne ritrovano tracce nella giurisprudenza più recente), ma non ha trovato un'adeguata risposta normativa. Sulla vicenda, cfr. per tutti le ricostruzioni di D. Vaiano, L'ordinamento dei beni culturali, in Beni culturali e paesaggistici, a cura di A. Crosetti, D. Vaiano, Torino, 2009, pag. 38; A. Crosetti, Tutela dei beni culturali attraverso vincoli di destinazione: problemi e prospettive, in Riv. Giur. Ed., 2002, pag. 257 ss.; N. Aicardi, Centri storici e disciplina delle attività commerciali, in G. Caia, G. Ghetti (a cura di), op. cit., pag. 110.
[11] Sul punto, il riferimento è naturalmente anche a Corte cost. n. 388/1992, cit.
[12] Tra le pronunce più recenti, cfr. Cons. St., sez. VI, 28 agosto 2006, n. 5004.
[13] Per completezza, sul punto, pare opportuno citare i recenti provvedimenti del governo Monti. Il decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214), art. 31, stabilisce infatti che "costituisce principio generale dell'ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali. Le regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
[14] Come peraltro dimostrato anche dall'art. 145, comma 3 del Codice, come modificato dall'art. 15 del d.lg. 157/2006 poi dall'art. 2 del d.lg. 63/2008: "Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette". D'altro canto, una sorta di riaffermazione delle scelte di protezione del patrimonio culturale sull'urbanistica possono essere rinvenute anche in altre parti del Codice, come, per es., accade nell'art. 45, comma 2, ai sensi del quale le prescrizioni di tutela indiretta "adottate e notificate ai sensi degli articoli 46 e 47, sono immediatamente precettive. Gli enti pubblici territoriali interessati recepiscono le prescrizioni medesime nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici".
[15] Sul punto, v. M.A. Quaglia (con l'aggiornamento di A. Rallo), sub art. 136, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2012, pagg. 1030-1031.
[16] Non incide sull'assoggettamento a tutela il livello di degrado dell'area considerata (Cons. St IV, 5 luglio 2010, n. 4246; d'altro canto anche la giurisprudenza sui beni culturali è ferma su questa posizione), anche se è innegabile il condizionamento che l'eventuale degrado di un'area può poiettate sulla valutazione delle qualità estetiche del centro. Nel senso di un parziale ritorno ad una nozione di bene avente valore paesaggistico improntata sul valore estetico culturale, cfr. P. Marzaro, L'amministrazione del paesaggio. Profili critici ricostruttivi di un sistema complesso, Torino, 2011, pag. 8. Sul binomio estetica/tradizione, cfr. altresì. G. Crepaldi, Sub art. 136, Commentario breve alle leggi di urbanistica ed edilizia, a cura di R. Ferrara, G.F. Ferrari, Padova, 2010.
[17] Sul punto anche M. Sanino, Discipline urbanistiche e centri storici, in G. Caia, G. Ghetti (a cura di) op. cit., pag. 72.
[18] Cfr. Cons. giust. Amm. Sic., 22 marzo 2006, n. 107 afferma significativamente che "la tutela dei centri storici (come anche dei minori agglomerati storici), prescinde dal carattere eccelso dei medesimi: più che il valore dei singoli manufatti architettonici, assume in essi rilievo la compattezza dell'insieme, e quindi: l'assetto viario preesistente, le altezze, i caratteri figurativi degli edifici, e soprattutto le sapienti gerarchie di volumi e di altezze tra edifici religiosi, civili e di comune fruizione abitativa, che costituiscono la vera insuperata essenza dell'urbanistica degli antichi ivi compresa quella contadina".
[19] La questione ha generato perplessità interpretative. In giurisprudenza, sembrano infatti su opposti fronti Tar Friuli, sez. I, 19 dicembre 2011, n. 574 e Cons. St., sez. VI, 24 gennaio 2011, n. 482.
[20] Sul punto, per tutti, C. Barbati, Governo del territorio, beni culturali e autonomie: luci e ombre di un rapporto, in Aedon, n. 2/2009.
[21] Sulla questione cfr. Corte cost., sentenza 13 gennaio 2004, n. 9.
[22] P. Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, pag. 387: "Il paesaggio come percezione culturale, come sfondo comune di orientamento di identità delle popolazioni che vi sono stanziate, comprende tutte le aree del territorio, ivi incluse quelle urbane e degradate, in quanto capaci di un loro carattere identitariamente apprezzabile".
[23] In effetti, nella disciplina attuale ai comuni residua unicamente "il potere di iniziativa (art. 138, comma 1), a cui si aggiunge una funzione consultiva (art. 138, comma 1) e un eventuale apporto partecipativo (art. 139). Come si è avuto già modo di evidenziare in altra sede, nessuna di queste norme garantisce che il comune interessato (ossia di quello nel cui territorio è incluso il centro storico un "intervento") prenda effettivamente parte al procedimento (in una qualunque delle vesti evidenziate). Il comune è infatti solo uno dei soggetti a cui spetta l'iniziativa e al quale è consentito partecipare, e al suo contributo non è riconosciuta alcuna valenza particolare (né d'altro canto potrebbe forse esserlo). Per altro verso, neppure a livello consultivo, il parere del Comune ha una valenza particolare in rapporto alla decisione, posto che, se è vero che pare da ravvisarsi un vero e proprio obbligo di consultazione (posto che nei casi in cui essa è facoltativa, l'art. 138 lo specifica espressamente), tuttavia, visto il silenzio della legge, al parere dei comuni parrebbe da applicarsi la disciplina generale stabilita dall'art. 16, comma 2, della legge 241/1990, come novellato dalla legge n. 69/2009, in forza del quale resta in facoltà dell'amministrazione procedere qualora il parere obbligatoriamente richiesto non sia stato reso nei tempi previsti, con conseguente possibile obliterazione dell'apporto consultivo comunale in caso di inerzia di questi (in effetti, il comune non può certamente essere considerato amministrazione preposta alla tutela di un interesse sensibile, nella specie quello paesaggistico) (C. Videtta, op. cit., pag. 58).
[24] Sul punto, chiaramente, M.A. Quaglia (aggiornato da A. Rallo), Sub art. 140, in M.A. Sandulli, op. cit., pag. 1052 ss.