Città d'arte e centri storici
Le potenzialità economiche dei centri storici
Sommario: 1. Centri storici e commercio in Italia: la regolamentazione difficile. - 2. Liberalizzazione del commercio e rinascita dei centri storici: un nesso opinabile?. - 3. Perché il centro storico non è più un perno dello sviluppo economico urbano?. - 4. Quali configurazioni economiche per il centro storico?
The
Economics Potentiality of the Old Towns
The paper analyzes the economic
causes of the structural and historical decline of town centers in our italian medium-small
cities. The paper also highlights the ineffectiveness of the different national
regulations about the small retail localised in these historical centers.
Finally, the paper identifies five different economic trajectories for the
regeneration of the small retail in the historic centers of cities.
Keywords: Old Towns; Business; Urban Areas.
1. Centri storici e commercio in Italia: la regolamentazione difficile
Il rapporto tra la regolamentazione urbanistica e quella di tipo commerciale nell'ambito dei centri storici è apparso particolarmente dialettico nel nostro Paese. Sostanzialmente, nel corso degli ultimi trenta anni, sembra possibile identificare tre differenti fasi regolamentative.
A partire dall'inizio degli anni Settanta si registra un'impostazione fortemente proiettata ad un governo congiunto della politica commerciale nei centri storici, fondato sulle due leve rispettivamente urbanistica e commerciale. Peraltro, l'approccio complessivo esprime un'evidente differenziazione tra le logiche della normativa urbanistica e commerciale. I principi ispiratori, gli obiettivi perseguiti, i soggetti e le logiche sottostanti alle procedure decisionali appaiono diversi, con situazioni di palese e diffusa contraddizione tra i due ambiti regolamentativi e un'evidente assenza di una progettualità convergente e condivisa. Ad accentuare le possibilità di contrapposizione normativa sia sul piano interpretativo che applicativo concorre, inoltre, la presenza di logiche regolamentative estremamente penetranti, con caratteri dirigistici e vincolistici.
Quest'orientamento regolamentativo si manifesta sotto diverse forme [1].
Da un lato, diverse normative (quali quelle sulla tutela e conservazione del patrimonio storico immobiliare, sulla rilocalizzazione dei laboratori artigianali e sulle locazioni di immobili), nel perseguire propri obiettivi urbanistici e sociali, in modo indiretto vanno a condizionare l'assetto commerciale dei centri storici. Sul piano urbanistico, i centri storici delle città sono interpretati in un quadro di conservazione architettonica, preservando e tutelando gli edifici nelle loro configurazioni storiche originarie, tramite strumenti normativi restrittivi adottati da diverse istituzioni pubbliche deputate a autorizzare specifiche operazioni di recupero e di restauro [2].
Dall'altro lato, la normativa n. 426/1971, nel regolamentare specificatamente l'attività del commercio al dettaglio, ha istituito una differenziazione tra l'ambito decisionale urbanistico e quello commerciale, rafforzando la lunga stagione della "grave separatezza tra programmazione commerciale e programmazione urbanistica" [3].
Con tale normativa si è andata istituendo in modo formale una sorta di teoria del "doppio binario" per la quale, l'apertura di un punto di vendita era subordinato ad un doppio regime di autorizzazione: urbanistico e commerciale. Il primo valutava puntualmente la destinazione d'uso dell'immobile, le sue caratteristiche e i suoi vincoli architettonici al fine di rilasciare la concessione edilizia. Il regime commerciale operava nella logica della pianificazione, come previsto dai cosiddetti "piani di adeguamento e sviluppo della rete di vendita" [4].
L'inesistenza di una gerarchizzazione tra questi due livelli pianificatori - quello urbanistico e quello commerciale - e l'attribuzione di un ruolo decisionale a due diversi organi su scala municipale, hanno contribuito a dilatare i tempi delle procedure autorizzatorie, evidenziando in molti casi scarsi livelli di coordinamento istituzionale. Talvolta, infatti, le previsioni di sviluppo e adeguamento della rete commerciale, nell'ambito delle diverse aree urbane e sub-urbane, sono apparse contraddittorie rispetto a quelle previste in ambito urbanistico, con conseguente contrapposizione decisionale tra i due settori istituzionali di competenza.
L'introduzione della legge n. 426/71 (e di molte delle norme contenute in altre disposizioni urbanistiche e nei sopracitati piani comunali del commercio) si è rivelata, dunque, particolarmente perniciosa per i centri storici [5].
A partire dagli anni Ottanta, la regolamentazione commerciale assume nuove configurazioni in un senso meno restrittivo. Una spinta rafforzativa in questa direzione si è avuta grazie ad una serie di provvedimenti legislativi emanati in questo periodo (tra questi, le leggi n. 87/1982, n. 121/1987 e n. 375/1988), finalizzati ad introdurre maggiori dosi di liberalizzazione commerciale in materia di trasferimento, ampliamento e accorpamento dei punti di vendita di minori dimensioni. Successivamente, con il d.lg. n. 114/1998, "Riforma della disciplina relativa al commercio", si ha un'ulteriore accentuazione dei gradi di liberalizzazione per le aperture dei punti di vendita di minore dimensione, per i quali viene prevista sostanzialmente la sola comunicazione da parte dell'imprenditore da inviare al Comune nel quale si intende svolgere l'attività [6].
Si può parlare, dunque, di una "iniezione di liberalizzazione" [7] nel settore della distribuzione commerciale proiettata, almeno in linea di principio, nella direzione indicata dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che, in diverse occasioni, aveva segnalato l'evidente gap tra la struttura del commercio in Italia, comparativamente agli altri paesi europei [8]. Di fatto, però, con questa nuova politica commerciale si attribuisce una centralità nel governo del centro storico e dei piccoli insediamenti commerciali unicamente alla sola politica urbanistica. E' per questo che, talvolta, a livello locale, l'interpretazione ed applicazione delle norme urbanistiche hanno assunto logiche estremamente penetranti al fine di surrogare la mancanza di norme commerciali deputate ad istituire barriere all'insediamento o alla trasformazione di punti di vendita nei centri storici [9]. Questo ruolo sostitutivo ed estensivo della politica urbanistica ha mostrato molti limiti, compresa un'accentuazione dei livelli di incertezza operativa a carico delle imprese per effetto di interpretazioni ed applicazioni assai differenziate su scala locale [10].
E' indubbio che questo nuovo orientamento culturale e normativo, finalizzato a ridimensionare le barriere istituzionali all'entrata per il commercio di piccola dimensione, abbia generato discontinuità forti in diversi tessuti economici locali, generando espulsioni di attività marginali e inducendo positivi processi di riqualificazione della rete commerciale tradizionale. Peraltro, nell'ambito dei centri storici, esso ha generato anche specifiche esternalità negative.
In effetti, tali localizzazioni, nel confronto competitivo con quelli commerciali pianificati suburbani ed extra-urbani, subiscono in molti casi deficit di competitività. D'altra parte, le rendite immobiliari nel centro restano relativamente alte, contribuendo a marginalizzare, sul piano economico, la gestione delle attività commerciali ivi collocate. Contemporaneamente tende a venire meno il servizio sociale ed economico di prossimità, da sempre fattore peculiare del commercio tradizionale del centro storico, contribuendo specularmente a ridurre l'attrattività turistica e residenziale di molti centri storici. Si manifestano, perciò, evidenti contraddizioni tra l'auspicio di rivitalizzare socialmente, culturalmente e turisticamente il centro storico e la sua decadenza commerciale.
Ne consegue che tali dinamiche competitive nell'ambito del centro storico rischiano di generare situazioni di grave rarefazione dell'offerta, con una selettività evolutivamente proiettata a preservare e valorizzare solamente determinati operatori pre-esistenti. Da questo punto di vista, il modello "anglosassone" di centro commerciale naturale rappresenta, con le sue peculiarità, un possibile (ma pernicioso) risultato evolutivo, qualora l'iniezione di liberismo nel commercio tenda a divenire dominante anche nel nostro Paese [11]. Esso, in buona sostanza, poggia su tre tipologie di servizi commerciali collocati nel centro storico: a) i negozi finanziari, posseduti da banche, assicurazioni e altri soggetti operanti nell'intermediazione finanziaria; b) le catene di negozi in franchising, spesso espressione di grandi multinazionali delle calzature, dell'abbigliamento, delle attrezzature sportive o dell'arredamento; c) i piccoli negozi alimentari e di generi vari, posseduti spesso da cittadini di nazionalità orientale, che gestiscono attività economicamente marginali, con orari di vendita molto estesi, contribuendo a soddisfare un servizio commerciale di prossimità.
Per evitare l'affermarsi di una traiettoria evolutiva finalizzata alla realizzazione di un modello "anglosassone" nei centri storici dei nostri Paesi, occorre pertanto realizzare le condizioni per un governo della politica commerciale, integrando e coordinando in una progettualità strategica sia la dimensione urbanistica che quella commerciale [12]. In questa logica, vi è chi ha parlato della necessità di "(...) ripensare ai modesti e confusi rapporti tra urbanistica commerciale" e dell'opportunità "(...) di ridare unità e coerenza alla congerie di piani e strumenti settoriali che la recente legislazione è venuta affastellando senza criterio alcuno con riferimento ai centri urbani" [13]; inoltre, si doveva correggere una situazione nella quale "(...) gli strumenti urbanistici hanno continuato a considerare il commercio come uno dei tanti servizi privati, trascurando quasi completamente le valenze urbane e territoriali delle sue funzioni" [14].
Su questo piano, il d.lg. n. 114/1998 "Riforma della disciplina relativa al commercio" enuncia alcuni importanti principi, affidando poi alle singole regioni il compito di elaborare una propria specifica strategia per la valorizzazione commerciale e urbanistica dei centri storici [15]. Tra questi, le regioni devono "salvaguardare e riqualificare i centri storici anche attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti e il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ed ambientale" e "salvaguardare e qualificare la presenza delle attività commerciali e artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato, di tutelare gli esercizi aventi valore storico e artistico ed evitare il processo di espulsione delle attività commerciali e artigianali" (art. 6). Inoltre, è prevista "per i centri storici, aree o edifici aventi valore storico, archeologico, artistico e ambientale, l'attribuzione di maggiori poteri ai comuni relativamente alla localizzazione e alla apertura degli esercizi di vendita, in particolare al fine di rendere compatibili i servizi commerciali con le funzioni territoriali in ordine alla viabilità, alla mobilità dei consumatori e all'arredo urbano, utilizzando anche specifiche misure di agevolazione tributaria e di sostegno finanziario" (art. 10).
Per molti aspetti, questa riforma, pur valorizzando (e non disconoscendo) i principi e i valori della concorrenza quali gendarmi fondamentali dell'efficienza del commercio e del benessere del consumatore, rileva l'esigenza di intervenire, tramite adeguati incentivi, laddove essa non funzioni affatto oppure appaia distorsiva dell'interesse della comunità locale [16]. In altri termini, secondo tale orientamento, il mercato deve poter agire liberamente al fine di generare i suoi positivi effetti economici e sociali, ma in aree come i centri storici, dove si possono generare effetti negativi, il soggetto pubblico deve poter intervenire, tramite adeguati strumenti di incentivazione, al fine di contenerli. Inoltre, assai positivamente, questa normativa invita le regioni ad assumere un approccio integrato sul piano territoriale, urbanistico e commerciale rispetto al problema della valorizzazione dei centri storici, evitando regolamentazioni regionali e municipali differenziate nei metodi, nelle logiche e nei contenuti.
Il tenore dell'intero decreto legislativo evidenzia una notevole discrezionalità d'intervento riconosciuta alle regioni tanto da far parlare, anche in Italia, di "(...) un passo concreto verso il federalismo" (Mark Up, 1998) [17]. Si tratta sostanzialmente di un sistema che sposta in capo agli enti locali la determinazione del livello effettivo di liberalizzazione del settore distributivo, coerentemente con una visione secondo la quale la grande diversità delle nostre città non consente di pianificare un unico modello di sviluppo urbano e commerciale [18]. Le diverse normative regionali mostrano in non pochi casi un atteggiamento vincolistico [19] o di rinvio alle amministrazioni comunali, le quali hanno approvato, spesso, strumenti di tutela con l'impressione "(...) che, più che qualificare i centri storici, si sia cercato un meccanismo per ingessarli" (Mark Up, 1999b). Questo atteggiamento, per il vero, non è una novità, infatti, le amministrazioni locali hanno tradizionalmente mostrato "(...) una cultura della città di tipo protettivo, che ha portato di fatto ad ingessare i centri storici, portandone fuori i contenuti economici di rilevante valenza proprio per la loro vitalità e vivibilità sociale (...) ritenute incompatibili con la storia, la monumentalità o l'ambiente di queste aree urbane" [20].
E', dunque, evidente che l'approccio normativo che si va realizzando per i centri storici appare assai distante da una visione coordinata in cui tutti gli attori pubblici e privati mirano a mettere in atto una politica attiva di valorizzazione commerciale, tramite adeguati strumenti di incentivazione, promozione e di marketing urbano.
In questo contesto regolamentativo, è stata emanata di recente la cosiddetta Direttiva europea sui servizi, entrata a far parte del nostro ordinamento giuridico con il d.lgs. n. 59 del 26 marzo 2010. L'orientamento di fondo consiste nel "garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché per assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai servizi sul territorio nazionale" (art. 1). Tuttavia, le legislazioni nazionali e regionali possono operare - secondo l'art. 64 - introducendo specifiche regolamentazioni di particolare interesse per i centri storici. Infatti, i comuni, limitatamente alle zone da sottoporre a tutela, devono prevedere una programmazione delle aperture di tali esercizi, programmazione fondata su parametri oggettivi e indici di qualità del servizio. Si ritiene, pertanto, possibile far fondare tali esiti programmatori sulla base, ad esempio, di ricerche o indagini periodiche sulla qualità del servizio e di customer satisfaction tra i consumatori (residenti, turisti, pendolari, clienti occasionali, ecc.) oppure di rischi diretti e inequivocabili connessi alla sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità nella zona indicata. Infine, tali esiti programmatori possono poggiare anche su motivazioni e criteri legati alla tutela e salvaguardia delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale. Invece, una mera programmazione fondata su stime quantitative della domanda di mercato, come previsto dalla vecchia normativa nazionale n. 426/1971, non sono ammesse.
2. Liberalizzazione del commercio e rinascita dei centri storici: un nesso opinabile?
La lunga stagione della regolamentazione del commercio, sebbene con le sue differenziazioni (come abbiamo visto in precedenza), tende ad istituire un nesso logico con la rinascita dei centri storici. In particolare, si tende ad assumere che, con un maggiore orientamento a favore della liberalizzazione, possano essere favorite new entries da parte di operatori commerciali maggiormente innovativi sia in termini di format che di contenuti assortimentali e di servizi in generale. Si tratta cioè di teorizzare che il paradigma liberista esercita una funzione terapeutica, tra l'altro, anche sui centri storici. In estrema sintesi, i problemi contemporanei dei centri storici si affrontano intervenendo, sul piano regolamentativo, nell'ambito di un'economia urbana intesa unicamente e esclusivamente in termini di settore commerciale al dettaglio. I limiti di questa impostazione sono dunque evidenti: la natura complessa e articolata dei problemi del centro storico vengono ridotti ad un mero problema regolamentatorio del commercio al dettaglio. Si ritiene, cioè, che inducendo una rivitalizzazione del commercio nel centro storico, automaticamente si riescono ad attivare dinamiche virtuose di attrattività dei consumi, e per questa via dei turisti, dei residenti, dei pendolari per ragioni di lavoro e di altri soggetti, favorendo una rinascita di queste aree urbane pregiate.
In realtà, oggi appare assai dimostrato il fatto che la liberalizzazione nei centri storici non ha prodotto di per sé effetti positivi sui centri storici, per il semplice motivo che essa presuppone in primis l'esistenza di condizioni economiche sostenibili per l'accesso di nuove attività economiche. Se non vi è domanda aggregata da parte dei consumatori, la dinamica di formazione di nuove attività commerciali, nonché il rinnovamento di quelle preesistenti, resta fortemente marginale. Il commercio è una parte dell'economia urbana ma non è la sola: altri settori contribuiscono alla ricchezza complessiva locale. Non solo, il commercio è normalmente una domanda derivata e non una domanda primaria. Insomma, la ricchezza economica deve essere generata per poter essere consumata e su questo piano, nell'economia urbana, è necessario avere un driver della crescita, un locomotore dello sviluppo, e non un vagone derivato (quale è il commercio). Quindi, la tradizionale "ricetta" per il rilancio del centro storico, sul piano economico, ossia la liberalizzazione del commercio, da sola non basta affatto e anzi può generare addirittura ulteriore desertificazione di queste aree urbane. Pertanto, pensare che il problema del centro storico, sul piano economico, possa limitarsi ad interventi sul commercio è riduttivo e distorsivo.
Con queste premesse, allora proviamo a fare alcune deduzioni sul modello di economia urbana. La prima considerazione è che il centro storico si trova in una profonda interdipendenza con l'economia urbana presente nel territorio circostante. Non è possibile non vedere le interdipendenze tra la vitalità del centro storico e l'economia urbana e territoriale: se chiude una fabbrica nel territorio, ne risentono anche i consumi finali e, per questa via, aumenta la probabilità di cessazione di alcuni operatori del commercio al dettaglio. In secondo luogo, l'economia urbana e territoriale necessita in primis di attori per la generazione della ricchezza economica, e solo subordinatamente di operatori commerciali che soddisfano una domanda derivata, magari localizzati nel centro storico. Infine, la generazione della ricchezza, ovvero questa addizionalità, si fonda sulla capacità competitiva dell'economia urbana e territoriale di interagire con altri luoghi. Quindi, non un'economia chiusa ma aperta e competitiva capace di esportare i propri prodotti e servizi agricoli, manifatturieri, high tech e altro ancora in altri territori.
3. Perché il centro storico non è più un perno dello sviluppo economico urbano?
In una frase sintetica, potremmo dire che i locomotori dello sviluppo - il lavoro qualificato, il lavoro imprenditoriale, il lavoro dipendente, il lavoro innovativo e creativo, insomma il lavoro in senso lato - si è spostato storicamente dal centro storico ad altri territori e nel centro storico è rimasta solo la rendita fondiaria. Questo sdoppiamento è stato fatale. E, in questi casi, se il lavoro si dissocia dalla rendita, quest'ultima genera effetti distorsivi nel centro storico sotto vari profili [21], sino a portare ad un abbassamento della sua qualità, con impatti di lungo periodo sull'attrattività del centro storico ma anche, negativamente, sulla rendita stessa. Solo che la rendita per un lungo tempo può portare pay off positivi e interessanti sul piano economico, sacrificando investimenti di riqualificazione immobiliare, e ignorando il fatto che il lavoro produttivo se ne è andato fuori dal centro storico.
Nel corso della storia, l'Italia non ha solo generato importanti centri storici ma soprattutto ha generato due equilibri storicamente perfetti tra economia urbana e centro storico.
Il primo equilibrio storicamente realizzato ha riguardato la città rinascimentale. Si tratta di una città in cui le arti e mestieri artigianali (ossia lavoro produttivo) erano localizzati nel centro storico, mentre dal contado arrivavano i beni da trasformare (legno, prodotti agricoli, ecc...) e i mercanti e banchieri alimentano i flussi di scambi economici con altre aree, generando addizionalità economica a favore del centro storico. Il centro storico quindi unificava lavoro, consumo e rendita nello stesso spazio fisico, con una centralità assoluta rispetto alla funzione di produzione e a quella di allocazione della ricchezza economica.
Il secondo equilibrio si è storicamente realizzato in un'epoca successiva, con i processi di industrializzazione, tramite le modifiche urbanistiche delle città divenute manifatturiere, in particolare nel nostro Paese con i cosiddetti distretti industriali. Città medie e piccole, con addensamenti manifatturieri nella periferia si sono sviluppate, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, nel centro e nel nord-est del Paese. Tipicamente, la fabbrica si localizza fuori dal centro storico, grazie anche alle prime pianificazioni urbanistiche che danno luogo alle cosiddette aree attrezzate per gli insediamenti industriali e artigianali. Questo nucleo addensato di industrie diviene il locomotore dello sviluppo economico locale, generando prodotti che vengono esportati in altri mercati e, per questa via, si crea ricchezza addizionale nell'economia urbana e territoriale. Questo plusvalore economico si riversa nei consumi, alimentando una domanda locale di servizi commerciali di qualità, localizzati nel centro storico. Così, si realizza una divisione perfetta del lavoro tra centro storico (ove si localizzano i consumi degli individui e delle famiglie) e la periferia (dove si insedia il lavoro artigianale e manifatturiero). L'industrializzazione porta con sé non solo la fabbrica ma anche la nascita di nuovi quartieri periferici, dove molte persone risiedono. Così, il luogo del lavoro e della residenza vengono a coincidere in questi quartieri fuori dal centro storico. Ma la rendita del centro storico continua a restare attrattiva sul piano economico. Il centro storico, infatti, continua ad essere la location privilegiata sia del commercio qualificato che dei residenti appartenenti a ceti sociali medio-alti. In definitiva, i consumi che alimentano i servizi commerciali al dettaglio continuano a essere localizzati nel centro storico, alimentando un'attrattività di individui-consumatori da aree esterne ad esso.
Che cosa interrompe questo equilibrio storico perfetto?
Ci sono vari fattori che intervengono a interrompere quest'equilibrio tra centro storico e periferie in termini di generazione e allocazione della ricchezza economica. In primis, a partire dagli anni Novanta, molte fabbriche, con la globalizzazione economica, si rilocalizzano altrove, perfino in altri Paesi, sfruttando i differenziali esistenti nei costi di produzione. Di conseguenza, le periferie perdono lavoro produttivo e, per via indiretta, i centri storici perdono potenzialità di consumo da parte dei residenti. In secondo luogo, nel settore del commercio al dettaglio, emergono nuovi protagonisti imprenditoriali, nazionali ma anche esteri, capaci di realizzare grandi insediamenti con nuovi format distributivi (centri commerciali artificiali, ipermercati, cinema multisala, centri wellness, ecc.). Questi nuovi insediamenti necessitano di ampie superfici di vendita, nonché di ampi servizi per parcheggiare i mezzi di trasporto, e tendono a localizzarsi in aree periferiche (e non centrali), spesso in prossimità di arterie viarie principali [22]. Tra l'altro, le periferie presentano rendite fondiarie più basse rispetto al centro storico, contribuendo quindi a contenere i costi di questa localizzazione, magari anche tramite l'utilizzazione di edifici manifatturieri dismessi. Infine, le periferie - rispetto al centro storico - sono i nuovi spazi per la concentrazione demografica urbana. In queste aree, vivono moltissime persone che possono contribuire ad alimentare i consumi commerciali. Di conseguenza, il commercio di qualità localizzato nel centro storico subisce uno spiazzamento competitivo rispetto alla grande distribuzione commerciale: molte persone orientano i loro acquisti in questi format di grandi superfici non solo per convenienza economica o per l'ampiezza degli assortimenti o per facilità di raggiungibilità di queste aree con i propri mezzi di trasporto ma anche in quanto tali "luoghi" divengono i nuovi spazi della socializzazione e non solo del consumo. Per reazione all'affermazione competitiva delle periferie commerciali, i centri storici in taluni casi assumono logiche protezionistiche, pensando ai fasti del passato e inibendo la localizzazione di questi format innovativi nei centri storici (per esempio, preservando librerie di modesta superficie rispetto alle nuove ed emergenti catene a succursale specializzate nella vendita dei libri). Ma anche per questo, nel lungo periodo, si accentua il declino del centro storico: la gente vuole questi spazi di consumo e di socializzazione e li va a trovare nelle periferie perché nei centri storici essi non si possono localizzare, talvolta per ragioni di regolamentazione regionale e municipale.
4. Quali configurazioni economiche per il centro storico?
Che cosa diviene, allora, il centro storico, con le dinamiche di terziarizzazione economica in atto?
Fondamentalmente, il commercio del centro storico segue sentieri di differenziazione evolutiva in funzione di alcune caratteristiche economiche locali e della regolamentazione assunta dalle singole municipalità. Si possono in particolare configurare quattro diversi modelli economici di centro storico:
a) Il centro storico come contenitore di beni culturali, storici e artistici (musei, pinacoteche, mostre permanenti e temporanee, ecc...) per attrarre turisti. Dato che quest'area è storicamente dotata di edifici di particolare pregio artistico e architettonico, una parte di essi può essere funzionalmente deputata alla funzione di ospitare eventi e istituzioni culturali tali da generare un'attrattività turistica capace di alimentare e sostenere i servizi commerciali di qualità. E' di tutta evidenza che questa domanda commerciale è di tipo derivato e richiede un adattamento alle specificità dei consumi turistici (per esempio, prodotti alimentari tipici, manufatti artigianali legati al territorio, souvenirs). Questo modello porta ad una differenziazione del commercio al dettaglio solo limitatamente e parzialmente coerente con i bisogni dei residenti [23]. Purtroppo, però, questo modello di centro storico - per taluni aspetti assimilabile a quello configurato nella città di Venezia - non è facilmente sostenibile sul piano economico. Infatti, la consistenza dei turisti dovrebbe essere tale da giustificare questa specializzazione dell'economia commerciale del centro storico [24];
b) Il centro storico come contenitore di parti importanti della pubblica amministrazione (tribunale, sanità, penitenziario, comune, caserme, ecc...). Se in questa aree persistono, in modo diffuso e capillare, numerose istituzioni pubbliche, si genera di conseguenza un pendolarismo per ragioni di lavoro (sia diretto, ossia i dipendenti di tali istituzioni, che indiretto quali avvocati, notai, commercialisti, ecc.). La presenza di queste soggetti influenza inevitabilmente la presenza di un commercio al dettaglio capace di soddisfare le loro esigenza di consumo (dalla ristorazione all'acquisto di materiali di consumo sino all'assistenza e alla manutenzione tecnica di edifici pubblici). La sostenibilità economica del centro storico viene quindi a dipendere dalla presenza di parti rilevanti della pubblica amministrazione. E' di tutta evidenza che il settore pubblico si fa carico di preservare il centro storico, sostenendo maggiori oneri in termini di rendita fondiaria e di minore funzionalità dei servizi offerti (per esempio, per la frammentazione logistica dei servizi pubblici offerti). Tuttavia, in molte città del nostro Paese, questa dinamica appare insostenibile [25]. Si è proceduto così a rilocalizzare ospedali o penitenziari o altre parti della pubblica amministrazione in modo da migliore la qualità complessiva dei servizi erogati nonché la riduzione dei costi per la manutenzione degli edifici o per la locazione degli stessi;
c) Il centro storico come contenitore di istituzioni di formazione culturale e scientifica (quali università, accademie militari, accademie belle arti, conservatori musicali, ecc...). La popolazione studentesca aggregata diviene, con i suoi consumi, la base dell'economia del centro storico. Si tratta di un'economia relativamente povera fondata su consumi limitati e di bassa qualità (visto la capacità di acquisto di questi individui privi di una propria fonte di reddito). E' certo che se la sostenibilità economica del centro storico viene a dipendere dalle istituzioni culturali e scientifiche, è evidente che a queste ultime la comunità locale richiede di perseguire non tanto la qualità della ricerca scientifica ma piuttosto l'attrattività della popolazione studentesca, magari da aree sempre più estese. Ciò può spesso portare a generare servizi di particolare qualità per la popolazione studentesca ma di fatto si possono generare anche riduzioni del livello di selettività meritocratica degli studenti, pur di non impattare in modo negativo sulle esternalità economiche positive da essi generate a favore degli operatori del centro storico;
d) Il centro storico come contenitore di commercio e altre attività di servizi finalizzati alla re immissione di denaro proveniente originariamente da attività illecite. Le attività illecite hanno alti rischi e quindi talvolta alti profitti. Questi profitti possono essere reinvestiti in attività commerciali, turistiche e di servizio nei centri storici, dove normalmente la rendita fondiaria [26] è più elevata ma comunque sostenibile per questi operatori economici. Così, nuovi soggetti imprenditoriali aprono nuovi negozi nel centro storico, re immettendo queste risorse finanziarie originariamente generate da attività illecite. Sul piano economico, il centro storico non deve essere il garante del conseguimento dei profitti di queste attività commerciali ma solamente lo spazio grazie al quale gli alti profitti, generati illecitamente in altri settori, possono trovare sentieri leciti di re immissione nel circuito economico. Pertanto, questi operatori imprenditoriali possono persistentemente restare localizzati nel centro storico a prescindere dall'effettivo conseguimento di profitti economici nelle attività commerciali.
Questi quattro modelli offrono, pur con talune differenziazioni, alcune basi comuni in termini di policies per la loro rivitalizzazione economica [27]. Le logiche spesso perseguite nei centri storici si fondano su azioni di rivitalizzazione basate sulla moltiplicazione degli attrattori culturali (musei, teatri, ecc.) o degli eventi culturali [28], sull'attrazione di nuovi residenti oppure sull'insediamento di nuovi uffici della pubblica amministrazione. Per certi aspetti, queste azioni di rivitalizzazione si fondano sull'ascolto dei bisogni dei commercianti e residenti attuali, e si tramutano in un'attenzione all'arredo urbano, alla pulizia degli spazi pubblici e decoro architettonico e urbanistico. E, tuttavia, con questi interventi non muta la struttura fondante dell'economia urbana e quindi rischiano di apparire effimeri e strumenti contingenti nel fronteggiare il declino storico e strutturale del centro storico.
C'è un'altra strada non necessariamente alternativa che però i centri storici possono percorrere, unitamente ai precedenti. Si tratta di una terziarizzazione fondata su industria high tech, culturale e creativa, attribuendo un ruolo di "locomotore" alla scienza, alla tecnologia e alla cultura ai fini della crescita economica di un sistema urbano, mettendolo in sintonia con le trasformazioni epocali che la società sta vivendo [29]. Questa nuova industria presenta diverse coerenze con la location del centro storico. In primis, essa non necessita di ampi spazi come le vecchie fabbriche fordiste (costrette in passato a ubicarsi nelle periferie). In secondo luogo, il centro storico - come contenitore di istituzioni culturali nonché di storia architettonica e urbanistica - costituisce un'atmosfera sociale coerente con le esigenze di sviluppare e congiungere le dosi di creatività con quelle dell'high tech. Da questo punto di vista, la rigenerazione (e non la rivitalizzazione) dei centri storici passa per la capacità di stimolare la formazione di un nuovo sciame di piccole imprese, ad alto contenuto di intelligenza e di innovazione, fondate da giovani ad alta scolarità. Si tratta di creare le condizioni e gli spazi per un'high tech della cultura e della creatività nel centro storico, una sorta di nuovo artigianato stavolta connesso con il mondo digitale. In questo modo, si genera nel centro storico un locomotore economico che contribuisce a creare, distribuirla e consumare nel centro storico. Il made in Italy manifatturiero e i beni culturali e artistici possono divenire importanti drivers di domanda di questo "artigianato digitale" ad alto valore aggiunto.
Riferimenti bibliografici ulteriori
C. Bertozzi, Il quadro normativo, in La distribuzione commerciale in Italia, (a cura di) L. Pellegrini, Bologna, 1996
L. Zanderighi, Town Centre Management: uno strumento innovativo per la valorizzazione del centro storico e del commercio urbano, in Industria e distribuzione - Rivista di Economia e Gestione dei Rapporti di Canale, 2001, 2, pag. 27 ss.
Note
[1] L. Ferrucci, D. Porcheddu, Centri storici e regolamentazione regionale del commercio, in Economia e Diritto del Terziario, 2002, 3, pag. 875 ss.
[2] Questa visione culturale e regolamentativa dei centri storici ha, da un lato, indubbiamente contribuito a preservare gli edifici nelle loro originarie configurazioni storiche, evitando degradanti trasformazioni urbanistiche, dall'altro, ha inibito processi di trasformazione e ammodernamento delle strutture commerciali esistenti.
[3] R. Varaldo, La disciplina del commercio tra liberalizzazione e regolamentazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998, 4, pag. 983 ss., 991.
[4] Si tratta in sostanza di strumenti di programmazione dell'attività commerciale delle singole attività merceologiche a livello locale (G. Cuomo, A. Mattiacci, La disciplina del commercio in Italia e i suoi effetti reali, in Imprese commerciali e sistema distributivo, (a cura di) C. Baccarani, Torino, 2001) da redigersi a cura delle amministrazioni comunali che vincolano sostanzialmente le concessioni di nuove autorizzazioni commerciali "(...) non a compatibilità territoriali e ambientali, ma alla verifica di un criterio, l'esistenza di una domanda aggiuntiva insoddisfatta, che confinava il settore al di fuori dai meccanismi di funzionamento di un'economia di mercato" (L. Pellegrini, Concorrenza e regolamentazione: la distribuzione commerciale, in Atti del Convegno "Concorrenza e regolazione" organizzato dall'A.G.C.M., Roma, 22-23 novembre 1999.
[5] Ciò ha contribuito (congiuntamente ad altre cause) a realizzare una loro inferiorità competitiva rispetto ai centri commerciali pianificati suburbani ed extra-urbani (U. Girardi, Interventi integrati per la rete distributiva nei centri storici, in Disciplina del commercio, 2001, 1, pag. 1 ss.); in realtà, come sottolinea G. Cuomo Legislazione e competizione tra commercio extraurbano e commercio nei centri storici, in Commercio-Rivista di Economia e Politica Commerciale, 1996, pag. 53 ss. "(...) le manifestazioni di chiusura degli esercizi urbani, depauperamento del centro storico, flessione delle vendite nelle aree consolidate sono dovuti in gran parte a fenomeni endogeni allo stesso tessuto urbano e non tanto causati dalla concorrenza esterna, che al massimo è stato una concausa, ma non determinante" (58). I fenomeni appena ricordati vengono poi ricollegati alla conseguente "desertificazione" di "(...) un bene immateriale che tutti i cittadini riconoscono" (cfr. L. Pellegrini cit. in Varaldo, La disciplina del commercio tra liberalizzazione e regolamentazione, cit., pag. 998) e che "(...) ha svolto tradizionalmente un ruolo di aggregazione sociale e di identificazione collettiva" (cfr. U. Girardi, Interventi integrati per la rete distributiva nei centri storici, cit., pag. 4). Queste considerazioni hanno portato di recente alcuni studiosi (I. Rossi, Politiche urbane e commerciali, in Disciplina del commercio, 2001, 2, pag. 470 ss.) a parlare di una "caduta sociologica" del centro storico e di una rarefazione di "stili di vita plurimi e collettivi" all'interno dello stesso.
[6] R. Ravazzoni, Liberare la concorrenza. Lo stato dell'arte delle liberalizzazioni del terziario in Italia, Milano, 2011.
[7] R. Varaldo, La disciplina del commercio tra liberalizzazione e regolamentazione, cit., 984.
[8] F. Gobbo, F. Burelli, Distribuzione e concorrenza: l'attività dell'Antitrust, in Commercio-Rivista di Economia e Politica Commerciale, 1997, 60, pag. 3 ss.; U. Girardi, La legislazione commerciale italiana tra spinte alla deregulation e prospettive di integrazione comunitaria, in Economia e Diritto del Terziario, 1994, 1, pag. 107 ss., citando un Rapporto Cescom del 1991(cfr. Settimo rapporto Cescom sulla distribuzione commerciale in Italia, Milano), ricorda "(...) che nel Veneto (...) se si volesse raggiungere il livello di presenza della grande distribuzione rilevabile nella situazione francese, occorrerebbero con gli attuali ritmi 9 anni [mentre in] (...) Campania, dove si è registrato in questi anni un trend assai più ridotto di aperture di punti - vendita, il ritardo rispetto al percorso di modernizzazione della Francia ammonterebbe a ben 22 anni" (108). Per una disamina molto precisa relativamente ai fattori che aiutano a spiegare il livello attuale di modernizzazione del sistema distributivo francese si rimanda a C. Pepe, Integrazione europea e distribuzione commerciale: politiche comunitarie ed evoluzione del fenomeno, in Economia e Diritto del Terziario, 1989, 2, pag. 49 ss.
[9] "(...) tentazione dell'over regulation, vale a dire dell'eccesso di dirigismo. Attraverso le indicazioni di urbanistica commerciale, si imporrebbero in altri termini agli operatori le scelte sulla tipologia di rete e sulle dimensioni aziendali, invadendo la sfera delle decisioni imprenditoriali", cfr. U. Girardi La legislazione commerciale italiana tra spinte alla deregulation e prospettive di integrazione comunitaria, cit., pag. 122.
[10] E' per questo che, nel rapporto "Regolamentazione della distribuzione commerciale e concorrenza", la stessa Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (1993) auspica esplicitamente una modifica della strumentazione urbanistica per evitare che i vincoli alla destinazione d'uso delle aree siano utilizzati in modo improprio, al fine di ostacolare l'accesso all'attività commerciale.
[11] Per un'analisi degli effetti delle normative liberiste nel commercio in Olanda, cfr. M.A. Carree, J. Nijkamp, Deregulation in retailing: the Dutch experience, in Journal of Economics and Business, 2001, vol. 53, n. 2-3.
[12] Alcuni studiosi evidenziano molto bene che l'integrazione funzionale tra previsioni urbanistiche e sviluppo del commercio risulta un presupposto, come attesta "(...) l'esperienza di vari paesi esteri (...) per garantire uno sviluppo urbano equilibrato" (U. Girardi, Strumenti urbanistici e programmazione commerciale: un raccordo problematico, in Disciplina del commercio, 1990, 2, pag. 5 ss., 5.
[13] M.P. Chiti, Commercio e centri storici: i giudici sostengono il legislatore, in Disciplina del commercio, 1990, 2, pag. 31 ss., 38.
[14] G. Cuomo, Legislazione e competizione tra commercio extraurbano e commercio nei centri storici, cit. 55. Ciò è tanto più grave se si pensa a quella che è stata definita la "funzione urbana pioniera" del commercio, cioè la sua capacità di creare l'habitat per altre funzioni urbane (R. Aguiari, Le strutture commerciali come componenti dell'arredo urbano: i centri commerciali, le associazioni di via, l'ambulantato, in Imprese commerciali e sistema distributivo, cit.).
[15] Il d.lg. 114/98 abroga l'art. 4 della legge n. 15/1987 (che disponeva "misure urgenti in materia di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione") e attribuisce ai comuni maggiori poteri in tema di apertura e localizzazione di esercizi di vendita nei centri storici, conformemente agli indirizzi dettati dalle normative regionali. La legge n. 15/1987, com'è noto, introduce "(...) per la prima volta, in riferimento alle problematiche del commercio, una tutela specifica per i centri storici e per le aree di particolare pregio ambientale, culturale e monumentale" (U. Girardi, Strumenti urbanistici e programmazione commerciale: un raccordo problematico, cit., pag. 6). Di questa legge, purtroppo, si è "(...) fatto in genere un utilizzo in senso negativo, teso ad individuare ed evitare le 'attività incompatibili' con il centro della città, un utilizzo troppo raramente [invece] orientato ad evidenziare e favorire forme e tipologie di vendita armoniche rispetto al contesto ambientale di riferimento" (D. Silvi, Decreto Bersani e programmazione dei centri storici, in Disciplina del commercio, 1998, 3, pag. 669 ss. ed in particolare pagg. 672-673.
[16] L. Ferrucci, D. Porcheddu, Riforma del commercio, discrezionalità delle regioni e continuità con il passato, in Industria e distribuzione - Rivista di Economia e Gestione dei Rapporti di Canale, 2002, 1, pag. 19 ss.
[17] Alcuni autori, per il vero, paventano un rischio di iberizzazione (termine con il quale si designa una situazione di forte disomogeneità a livello locale per quanto riguarda il mercato distributivo, come appunto è accaduto di recente in Spagna) connesso alla completa autonomia normativa da parte delle regioni (G. Cristini, La politica commerciale in Italia: problemi reali, ritardi e strani silenzi, in Industria e distribuzione - Rivista di Economia e Gestione dei Rapporti di Canale, 2000, 2, pag. 5 ss.; quest'ultimo fenomeno sembra aver rallentato, almeno in parte, il rapido processo di modernizzazione del commercio segnalato in quella nazione fin dai primi anni '90 (cfr. C. Pepe, F. Musso, I processi di concentrazione nella distribuzione commerciale: il caso delle centrali d'acquisto francesi, in Economia e Diritto del Terziario, 1994, 1, pag. 129 ss.
[18] Tutto ciò apre la strada ad un contesto regolamentativo regionale assai vario in ragione soprattutto "(...) della diversa capacità e qualità programmatoria e gestionale che verrà espressa" (R. Varaldo, La disciplina del commercio tra liberalizzazione e regolamentazione, cit., pag. 988) dalle diverse amministrazioni regionali, le quali potrebbero mostrare il fianco in maniera più o meno ampia al pericolo di particolarismi e alla "cattura" da parte di gruppi di pressione locali (Centro Einaudi - Sisim, Un commercio a due velocità. Secondo rapporto Centro Einaudi/Sisim sulla distribuzione in Italia, novembre 2000). È possibile, in altre parole, che possano trovare conferma le cosiddette "teorie dell'interesse privato" in tema di regolamentazione sulle quali esiste una ormai copiosa letteratura economica a partire dagli originari contributi di G.J. Stigler, The Theory of Economic Regulation, in Bell Journal of Economics, 1971, 2, pag. 3 ss.; S. Peltzman, Toward a More General Theory of Regulation, in Journal of Law and Economics, 1976, 19, pag. 211 ss.; R.A. Posner, Theories of Economic Regulation, in Bell Journal of Economics, 1974, 2, pag. 335 ss.
[19] Con riferimento ai centri storici, "(...) la lettura delle prime proposte porta alla luce visioni costrette, in cui il settore del commercio è un comparto autonomo regolabile da parametri di superficie di vendita per numero di abitanti, da capacità di reddito per territorio comunale, da limiti tipologici ecc., avallando, quindi e ancora, la dimensione specialistica dell'abrogata 426/1971." (Mark Up, 1999a).
[20] G. Cuomo, Legislazione e competizione tra commercio extraurbano e commercio nei centri storici, cit., 62.
[21] P. Berdini, La città in vendita. Centri storici e mercato senza regole, Roma, 2008.
[22] G. Warnaby, A. Alexander, D. Medway, Town centre management in the UK: a review, synthesis and research agenda, in International Review of Retail, Distribution and Consumer Research, 1998, 1, pag. 15 ss.
[23] J. Allen, W. O'Toole, W. Harris e I. McDonnell, Festival and Special Event Management, Melbourne, 2005.
[24] B. Bracalente, L. Ferrucci, Eventi culturali e sviluppo economico locale, Milano, 2009.
[25] R. Camagni, T. Pompili, La rendita fondiaria come indicatore della dinamica urbana: un'indagine empirica sul caso italiano, in), Economie locali in ambiente competitivo, (a cura di) F. Boscacci, G. Gorla, Milano, 1991.
[26] R. Capello, Rendita Fondiaria e Dinamica Urbana: le Determinanti dello Sviluppo Urbano nel Caso Italiano, in Rivista di Politica Economica, 2002, 1, pag. 75 ss.
[27] L. Ferrucci, I centri storici delle città tra ricerca di nuove identità e valorizzazione del commercio. L'esperienza di Perugia, Milano, 2013.
[28] C. Chirieleison, A. Montrone, Measuring the impact of a profit oriented event on tourism: the Eurochocolate Festival in Perugia, Italy, in Tourism Economics, 2013, 12.
[29] N. Komninos N., Intelligent cities: innovation, knowledge systems and digital spaces, Londra, 2002; C. Landry, F. Bianchini, The Creative City, Londra, 1995; L. Ferrucci, L'industria high tech: un possibile sentiero per la "modernizzazione" economica?, in Agenzia Umbria Ricerche, Rapporto Economico e Sociale dell'Umbria, Perugia, 2012.