Il riordino del ministero nel sistema dei beni culturali
(giornata di studio, 25 novembre 2004, Roma, Musei capitolini)
Sommario: 1. Il riordino del ministero e le istanze del decentramento istituzionale: un dialogo ancora difficile, tra deboli conferme ed incerte innovazioni. - 2. Autonomie e articolazioni periferiche: le "nuove" direzioni regionali. - 3. Autonomie e strutture centrali. - 4. Il contesto funzionale e delle competenze. - 4.1. ... una consensualità "senza luoghi": i beni culturali. - 4.2. ... con "alcuni luoghi": i beni paesaggistici. - 4.3. ... e con "luoghi da ripensare": lo spettacolo.
1. Il riordino del ministero e le istanze del decentramento istituzionale: un dialogo ancora difficile, tra deboli conferme ed incerte innovazioni
In questa sede, dedicata all'analisi del riordino di cui è stato oggetto il ministero per i Beni e le Attività culturali, la prima domanda che ci si potrebbe/dovrebbe porre, sul punto dei rapporti tra l'apparato ministeriale e le autonomie, consiste nel chiedersi "se e che cosa sia cambiato", rispetto alle soluzioni e alle indicazioni offerte dai precedenti provvedimenti che ne disciplinavano la struttura e l'organizzazione, a seguito della valorizzazione del principio autonomistico operata, anche con riguardo a questo settore, dalla riforma costituzionale del 2001.
La domanda, che di per sé rischia di apparire tecnicamente impropria, dal momento che le istanze del "nuovo" decentramento non possono considerarsi il parametro alla cui stregua valutare provvedimenti adottati nell'esercizio di una delega, qual è conferita con l'art. 1 della legge 6 luglio 2002, n. 137, che persegue altre finalità, viene ad essere autorizzata, quasi introdotta, dalla circostanza che le esigenze del decentramento definiscano, ancora una volta, come già avveniva nel disegno della legge 15 marzo 1997, n. 59, ma nei termini oggi rafforzati dalla copertura costituzionale, il contesto istituzionale e funzionale entro il quale il ministero va ad operare.
Le interdipendenze tra assetti dell'amministrazione statale ed istanze del decentramento comportano infatti che così come il decentramento, per poter essere realmente tale, implica una corrispondente ridefinizione degli apparati ministeriali che ne riduca la taglia o quantomeno li renda interlocutori delle autonomie, allo stesso modo la struttura dei ministeri condiziona il destino dei decentramenti che riguardano i settori di riferimento, suggerendo perciò di valutare le scelte organizzative anche in questa loro idoneità a dialogare con le ragioni delle autonomie e con i nuovi ruoli che ad esse si intendano riconoscere.
L'altra domanda che, sul medesimo punto, ci si potrebbe/dovrebbe porre consiste nel chiedersi "se e che cosa sia cambiato" con l'approvazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Si tratta di una domanda che, benché sostanzialmente equivalente alla prima, dal momento che il Codice è stato adottato nell'esercizio della diversa delega, conferita con l'art. 10 della l. 137/2002 anche al fine di consentire l'adeguamento della normativa alle nuove disposizioni costituzionali, introduce la necessità di andare oltre la lettura dei soli dati organizzativi, per verificare quali siano i termini del dialogo tra questo piano e quello delle soluzioni funzionali-sostanziali.
Procedendo dall'esame delle sole scelte organizzative/ordinamentali, per considerare, successivamente, il contesto funzionale con il quale esse si misurano ed interagiscono, occorre dire che, per quanto concerne il settore dei beni culturali, oltre che dello sport e dello spettacolo (altre considerazioni possono esprimersi, come si avrà modo di vedere, con riguardo ai beni paesaggistici, almeno per le attenzioni che a questi aspetti dedicano le norme codicistiche) "poco o nulla" è cambiato sul versante dei rapporti tra ministero ed autonomie e quel "poco" non sembra leggibile, almeno sulla base delle indicazioni fornite da questi primi atti normativi, nel senso del potenziamento delle sedi e dei momenti del raccordo; semmai, per taluni di essi, sembra delinearsi un possibile indebolimento, quantomeno per le incertezze che gravano sulla loro sorte [1].
Il ministero "rivisitato" dal decreto legislativo 8 gennaio 2004, n. 3 e dal d.p.r. 8 giugno 2004, n. 173 continua, infatti, a possedere una struttura pesante, anche nelle sue articolazioni periferiche, tanto da porsi come apparato quasi autosufficiente e, per molti aspetti, autoreferenziale. La valorizzazione del principio autonomistico, operata dalla carta costituzionale, non solo non ha comportato alcuna riduzione nella taglia del ministero, ma non si è neppure tradotta nell'adozione di soluzioni che appaiano immediatamente capaci di fare del ministero un interlocutore delle regioni o, il che è lo stesso, di riconoscere alle regioni il ruolo di interlocutrici del centro-statale [2].
L'analisi del d.lg. 3/2004 e del d.p.r. 173/2004, con il quale è stato approvato il "nuovo" regolamento di organizzazione del ministero, consente infatti di rintracciare, quanto ai raccordi tra ministero ed autonomie, alcune conferme, sia pure deboli o parziali, ed alcune innovazioni ma dall'esito e dalle ricadute ancora incerte.
Quanto alle conferme, queste si risolvono essenzialmente nella partecipazione di "rappresentanti" delle autonomie al "nuovo" Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, quale "organo consultivo a carattere tecnico-scientifico in materia di beni culturali", istituito dall'art. 3 del d.lg. 3/2004 e destinato a sostituire il precedente "Consiglio per i beni culturali e ambientali", di cui all'art. 4 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 .
L'art. 17, comma 2, del d.p.r. 173/2004, occupandosi della sua composizione, conserva infatti la presenza in esso, fra le 8 "eminenti personalità del mondo della cultura nominate dal ministro", di tre membri (e non più quattro, come prevedeva l'art. 4 del d.lg. 368/1998), designati dalla Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
Viene, invece, meno, e con ciò già ci si avvicina al novero delle innovazioni, la presenza, all'interno di quegli altri organi consultivi del ministero che sono i "comitati tecnico-scientifici", ripensati nella configurazione, nelle attribuzioni e nella composizione, dell'esperto designato dalla Conferenza unificata (in questo senso l'art. 18 del d.p.r. 173/2004, che poi nel suo art. 23, comma 13, lett. f) dispone l'abrogazione della differente previsione contenuta nell'art. 11 del d.p.r. 6 luglio 2001, n. 307, "Regolamento di organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del ministro per i Beni e le Attività culturali").
2. Autonomie e articolazioni periferiche: le "nuove" direzioni regionali
Quanto alle altre innovazioni, quella più significativa dovrebbe (-deve) rintracciarsi nelle modifiche che hanno interessato l'organizzazione periferica del ministero, confluendo fra l'altro, e principalmente per quanto riguarda gli aspetti che qui interessano, nella istituzione delle direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici configurate, dall'art. 7 del d.lg. 368/1998, comma 2, come modificato dall'art. 5 del d.lg. 3/2004, quali "articolazioni territoriali, di livello dirigenziale generale, del dipartimento per i beni culturali e paesaggistici", in sostituzione delle preesistenti soprintendenze regionali, e pensate, almeno nelle intenzioni dichiarate da parte ministeriale e riprese dal parere interlocutorio che il Consiglio di Stato ha reso sullo schema di regolamento, come "efficiente punto di riferimento per i rapporti con le istituzioni regionali" [3].
In effetti, queste sono le uniche articolazioni periferiche delle quali il regolamento di organizzazione si diffonda a descrivere le attribuzioni e dunque sono le uniche in relazione alle quali sia possibile operare una prima valutazione del loro grado di idoneità ad operare come "efficienti", o vorrebbe da dire "efficaci", momenti di raccordo con le autonomie territoriali.
Non ci si soffermerà qui sulle complessità proposte dalle scelte che attengono a questa "nuova" articolazione, e che si può prevedere ricadranno anche sull'andamento dei rapporti con le autonomie, essendo descritte nella relazione dedicata all'organizzazione periferica [4]. Di conseguenza, volendo considerare le sole indicazioni circa il ruolo che esse sono chiamate ad assolvere, il primo dato da evidenziare è che l'art. 20 del d.p.r. 173/2004, al comma 2, si limita ad attribuire alle direzioni regionali il medesimo compito che il precedente regolamento di organizzazione, approvato con d.p.r. 29 dicembre 2001, n. 441, ed oggi integralmente abrogato, attribuiva alle soprintendenze regionali, ossia "curare i rapporti del ministero con le regioni, gli enti locali e le altre istituzioni presenti nella regione medesima".
Nulla si dice, come nulla si diceva allora, sugli strumenti ai quali affidare la "cura" di questi rapporti o, meglio, vi è qualche cosa che più non si dice, a questo proposito. E cioè, mentre l'art. 7 del d.lg. 368/1998, nel suo comma 4, prevedeva che il soprintendente regionale fosse, di diritto, componente delle commissioni regionali per i beni e le attività culturali, di cui all'art. 154 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e come tale rientrasse tra i membri delle stesse di designazione ministeriale, nulla dispone né il d.lg. 3/2004, né il d.p.r. 173/2004 in merito alle direzioni regionali o allo stesso direttore regionale che, perciò, appaiono privi di collegamenti strutturali con questi organismi: un silenzio, o comunque una omissione, che introduce un elemento di ulteriore incertezza, e perciò di debolezza, sia in merito al "come" le direzioni regionali intendano curare i rapporti con le autonomie, sia in merito alla sorte ed al funzionamento di questi organismi misti.
Con riserva di dedicare a questo aspetto qualche ulteriore considerazione più avanti, quando si considererà il contesto funzionale, vi è da dire che, quanto alle direzioni regionali la loro idoneità a porsi quali "efficienti punti di riferimento" per le autonomie regionali si riduce a ben pochi altri interventi, stando a queste prime previsioni normative.
Sempre in base all'art. 20 del d.p.r. 173/2004, al direttore regionale, il cui incarico, ai sensi dell'art. 5, comma 3, del d.lg. 3/2004 viene conferito previa comunicazione al presidente della regione, sentito il capo del Dipartimento, spetta (e salva la possibilità che gli è riconosciuta dal medesimo art. 20, ai commi 5 e 6, di delegarle ai titolari delle soprintendenze di settore comprese nella direzione regionale):
a) proporre al capo del Dipartimento "gli interventi da inserire nei programmi annuali e pluriennali e nei relativi piani di spesa, individuando le priorità anche sulla base delle indicazioni delle soprintendenze di settore e degli uffici" in esso compresi (art. 20, comma 4, lett. a)).
- previsione che trova un proprio corrispondente in quella che, all'art. 3 del d.p.r. 173/2004, assegna al Capo del dipartimento per i beni culturali e paesaggistici il compito, fra gli altri, di elaborare, sulla base delle proposte dei direttori regionali e dei pareri espressi dai direttori generali, "il programma annuale e pluriennale degli interventi nei settori di competenza" e trasmetterlo al "capo del Dipartimento per la ricerca, l'innovazione e l'organizzazione" (comma 2, lett. g)).
Dunque, se il direttore regionale, in quanto non più membro di diritto delle commissioni regionali, non sembra potersi rapportare, a questi fini, alla loro azione, resta la possibilità di riconoscere un possibile momento di raccordo nell'azione del Capo del dipartimento che, attualmente- come si ricorderà anche più avanti- presiede la Conferenza dei presidenti delle commissioni.
b) proporre al direttore generale competente i programmi concernenti studi, ricerche ed iniziative scientifiche in tema di catalogazione e inventariazione dei beni culturali, definiti in concorso con le regioni ai sensi della normativa in materia (art. 20, comma 4, lett. t)).
- attribuzione che va a richiamare quanto previsto nell'art. 17 del Codice al cui comma 3 si prevede che "il ministero e le regioni, anche con la collaborazione delle università, concorrono alla definizione di programmi concernenti studi, ricerche ed iniziative scientifiche in tema di metodologie di catalogazione ed inventariazione".
c) promuovere "l'organizzazione di studi, ricerche ed iniziative culturali, anche in collaborazione con le regioni, le università e le istituzioni culturali e di ricerca" (art. 20, comma 4, lett. t)).
- anche questa attribuzione può essere letta in raccordo con quanto previsto nell'art. 118 del Codice in cui si afferma che "il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali, anche con il concorso delle università e di altri soggetti pubblici e privati, realizzano, promuovono e sostengono, anche congiuntamente, ricerche, studi ed altre attività conoscitive aventi ad oggetto il patrimonio culturale".
Inoltre e, sia pure con riguardo agli interventi riferiti ai "beni paesaggistici", al direttore regionale spetta:
d) predisporre, d'intesa con le regioni, i programmi ed i piani finalizzati all'attuazione degli interventi di riqualificazione, recupero e valorizzazione delle aree sottoposte alle disposizioni di tutela dei beni paesaggistici (art. 20, comma 4, lett. s)).
e) promuovere, in collaborazione con le università, le regioni e gli enti locali, la formazione in materia di tutela del paesaggio, della cultura e della qualità architettonica ed urbanistica (art. 20, comma 4, lett. t)).
Altre attribuzioni, rispetto alle quali si evidenzia un collegamento con gli interessi regionali, hanno una valenza solo marginale, quale quella di:
f) proporre al direttore generale competente, sentite le soprintendenze di settore, l'esercizio della prelazione da parte del ministero, ai sensi dell'articolo 60 del Codice, ovvero la rinuncia ad essa e trasmettere al direttore generale medesimo le proposte di prelazione da parte della regione o degli altri enti territoriali, accompagnate dalle proprie valutazioni, cui si affianca il compito di comunicare all'ente, che ha formulato la proposta di prelazione, la rinuncia dello Stato all'esercizio della medesima, ai sensi dell'articolo 62, comma 3, del Codice (art. 20, comma 4, lett. o)).
3. Autonomie e strutture centrali
Il regolamento contempla, poi, alcuni momenti di raccordo tra le autonomie e le strutture centrali del ministero. Ciò è quanto avviene con riguardo al Dipartimento per la ricerca, l'innovazione e l'organizzazione, la cui "missione", occorre anche dire, comprende compiti ed interventi condivisi dalle regioni o in relazione ai quali si riconosce un ruolo alle autonomie, essendo chiamato, tra l'altro, a promuovere "la ricerca finalizzata agli interventi in materia di tutela dei beni culturali" e a curare "la diffusione della conoscenza del patrimonio culturale". (art. 5, comma 1, d.p.r. 173/2004).
Inoltre, è al capo di questo dipartimento che compete predisporre le intese istituzionali di programma Stato-regioni e gli accordi di programma-quadro in materia di beni culturali, ai sensi dell'articolo 112, comma 6, del Codice, sulla base degli elementi forniti dai dipartimenti per le materie di rispettiva competenza (art. 5, comma 3, lett. b) d.p.r. 173/2004).
Allo stesso modo, si può rilevare come siano gli organi centrali, ossia il capo del dipartimento per i beni culturali e paesaggistici (cfr. art. 3, comma 4, lett. d)), ed il direttore generale per i beni archeologici (cfr. art. 7, comma 2, lett. e)), nonché il direttore generale per i beni architettonici e paesaggistici (cfr. art. 8, comma 2, lett. f)), ad esprimere la volontà dell'amministrazione nelle conferenze di servizi per gli interventi dei quali si occupa l'art. 25 del Codice [5].
Vi sono poi, altri momenti, sia pure marginali, di raccordo immaginati tra le direzioni generali e le regioni, come avviene con riguardo alla "direzione generale per l'architettura e l'arte contemporanee", al cui direttore spetta:
a) promuovere la qualità del progetto e dell'opera architettonica e urbanistica, anche mediante ideazione e d'intesa con le amministrazioni interessate, consulenza alla progettazione di opere pubbliche di rilevante interesse architettonico, con particolare riguardo alle opere destinate ad attività culturali, ovvero che incidano in modo particolare sulla qualità del contesto storico-artistico e paesaggistico-ambientale (art. 10, comma 2, lett. c) d.p.r. 137/2004).
b) promuovere la formazione, in collaborazione con le università, le regioni e gli enti locali, in materia di conoscenza della cultura e della qualità architettonica ed urbanistica (art. 10, comma 2, lett. f)).
4. Il contesto funzionale e delle competenze
Come si diceva, queste scarne indicazioni sul punto dei rapporti con le autonomie, offerte dai provvedimenti di riordino degli apparati, appalesano la loro debolezza soprattutto quando dal piano delle soluzioni ordinamentali, presenti o assenti, si passa a considerare il piano delle soluzioni funzionali o sostanziali oggi delineate, in prevalenza, dal Codice.
Così, è guardando a questo contesto che si evidenzia l'indebolimento che ne sembra derivare a carico delle commissioni regionali per i beni e le attività culturali, aggravando la marginalità che sembrava connotarne il ruolo, già nel disegno della loro istituzione, dovuto al d.lg. 112/1998, e che la prassi successiva non si è incaricata di smentire.
Non essendo le norme che le prevedono tra quelle interessate dalle abrogazioni esplicite disposte dal Codice (art. 184), esse sono ormai gli unici "organi statali" a composizione mista e rappresentativa degli interessi statali, regionali e di altri soggetti operanti nel settore dei beni culturali [6]. Vedono, infatti, la presenza di 13 membri, dei quali 3 designati dal ministro per i beni culturali (componente nella quale entrava anche il soprintendente regionale), 2 dalla regione, 2 dall'Anci, 1 dall'associazione regionale delle province, 1 dalla conferenza episcopale regionale, 2 dal Cnel fra le forze imprenditoriali locali e con un presidente scelto, tra i suoi componenti, dal presidente della giunta regionale, d'intesa con il ministro per i beni culturali, operanti attualmente nel settore dei beni culturali.
Una sorte diversa, dunque, da quella che ha riguardato la commissione paritetica istituita con l'art. 150 del d.lg. 112/1998 e da questo chiamata ad individuare "i musei o altri beni culturali statali la cui gestione rimane allo Stato e quelli per i quali essa è trasferita, secondo il principio di sussidiarietà, alle regioni, alle province ed ai comuni". La differente disciplina che si è dettata di questi compiti ha infatti comportato l'abrogazione, ad opera del Codice (art. 184), della norma in cui si prevedeva questa "altra" sede concertativa.
Delle commissioni regionali, tuttavia, nulla "di nuovo" si dice, né negli atti normativi di riordino del ministero, né tantomeno nelle disposizioni codicistiche.
Della loro azione continua a farsi menzione nell'art. 3 del d.lg. 368/1998 che, in questo, non è stato modificato dal d.lg. 3/2004. Al comma 3 si opera infatti un riferimento al loro ruolo propositivo, laddove si dispone che il ministro approva il programma triennale degli interventi nel settore dei beni culturali, sentito il Consiglio (oggi "superiore per i beni culturali e paesaggistici"), "sulla base delle proposte delle commissioni di cui all'articolo 155" del d.lg. 112/1998, oltre a disporsi che, con le medesime procedure, si proceda all'aggiornamento annuale del programma.
Sempre l'articolo 3 del d.lg. 368/1998, al comma 2, conserva la menzione, tra gli organi di consulenza del ministro, per l'esercizio delle funzioni di indirizzo, della Conferenza dei presidenti delle commissioni di cui si prevede, per effetto delle modifiche apportate sul punto dall'art. 2 del d.lg. 3/2004, che sia presieduta dal "Capo del dipartimento per i beni culturali e paesaggistici", anziché dalla figura, superata con la riforma, del segretario generale del ministero.
Certo è che, per effetto dell'abrogazione che l'art. 23, comma 13, lett. f) del d.p.r. 173/2004 ha disposto dell'art. 9 del d.p.r. 307/2001 ("regolamento di organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del ministero per i beni e le attività culturali") e della nuova identificazione che di questi organi consultivi ha operato l'art. 4 del d.lg. 368/1998 (come modificato dall'art. 3 del d.lg. 3/2004), la Conferenza dei presidenti delle commissioni non compare più, nominativamente, in questo elenco, così che la sua presenza può, al più, ritenersi recuperata nel riferimento generale e residuale che l'art. 4 del d.lg. 368/1998 modificato, alla sua lett. d), effettua agli "altri organi (consultivi) istituiti in attuazione delle vigenti disposizioni di legge" e se la scarsa attenzione legislativa dice qualcosa, certo questo qualcosa non va nel senso di un suo riconoscimento "forte".
Guardando dunque a "come" esse si collochino nel nuovo contesto funzionale e delle competenze, occorre ricordare che, in base all'art. 155 del d.lg. 112/1998, le commissioni regionali, chiamate ad esprimersi soprattutto in relazione alle funzioni/attività sulle quali poteva, già da allora, e può, anche ora, esprimersi l'azione delle autonomie territoriali, ossia la "valorizzazione dei beni culturali" e la "promozione delle relative attività", e solo marginalmente coinvolte in interventi che siano anche di tutela dei beni, assolvono ad un ruolo propositivo, di monitoraggio/controllo e consultivo.
Ad essere maggiormente definiti, dalla disposizione del d.lg. 112/1998, sono i loro compiti propositivi, quelli che si esprimono nell'istruire e formulare, ai fini della definizione del programma nazionale e regionale, una proposta di piano pluriennale e annuale di valorizzazione dei beni culturali e di promozione delle relative attività, "perseguendo lo scopo di armonizzazione e coordinamento, nel territorio regionale, delle iniziative dello Stato, della regione, degli enti locali e di altri possibili soggetti pubblici e privati".
Ed è a questo proposito che emergono, con nettezza, le interferenze funzionali tra l'azione delle commissioni e le previsioni che l'art. 112 del Codice dedica alla "valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica". In un contesto che assegna alle regioni la competenza ad intervenire, nel rispetto dei soli principi fondamentali posti dalla legge statale, per la valorizzazione dei beni "non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità", si prevede che al medesimo scopo "di coordinare, armonizzare ed integrare le attività di valorizzazione dei beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica, lo Stato per il tramite del ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi su base regionale, al fine di definire gli obiettivi e fissarne i tempi e le modalità di attuazione".
In sostanza, si assiste, come si è rilevato, ad una "codificazione" del principio consensuale che assegna ad uno strumento differente - l'accordo - [7] il conseguimento delle medesime finalità proprie dei piani e dei programmi alla cui formulazione sono chiamate a contribuire le commissioni regionali. Di conseguenza, pur potendosi anche immaginare che gli accordi si collochino in un contesto definito dai programmi o dai piani annuali e pluriennali di valorizzazione, in realtà, specie se si considera la scarsa redditività dello strumento programmatorio a carattere generale, il sistema delineato dal Codice può ulteriormente vanificare il ruolo e l'opera delle commissioni al cui intervento, tra l'altro, non si opera alcun riferimento.
Una vanificazione che, peraltro, ed è bene sottolinearlo, sarebbe la vanificazione di questi organismi e non già del ruolo regionale o locale che, comunque, interviene nell'accordo; se un sacrificio chiaro vi è questo è, semmai, quello degli "altri interessi" che trovano rappresentanza nelle commissioni.
4.1. ... una consensualità "senza luoghi": i beni culturali
Queste considerazioni, sin qui occasionate dalla "difficile" sorte che si (ri-)annuncia per l'operato delle commissioni regionali, hanno, in realtà, una portata più ampia ed ancor più incidente sugli sviluppi e sulle potenzialità che si riconoscano ai raccordi tra ministero ed autonomie, quando ci si sposta a considerare gli scenari complessivi delineati dal Codice.
Con riferimento al complesso delle funzioni/attività che possono avere ad oggetto i beni culturali, il Codice sceglie, infatti, di operare un costante e reiterato rinvio a momenti e a forme di concertazione tra lo Stato (qui identificato nel ministero) e le regioni.
Il principio ed il metodo della collaborazione, ai quali il ministero, già in base a quanto previsto nell'art. 1 del d.lg. 368/1998, è chiamato ad orientare l'esercizio delle proprie funzioni, sono stati, in più occasioni, riconosciuti ed invocati dalla stessa giurisprudenza costituzionale come insieme di criteri che devono governare l'intervento dei diversi soggetti pubblici nella materia, per poi essere richiamati dal Codice.
Quanto alla valorizzazione/fruizione, il principio della cooperazione dà forma e contenuto al modo "tipico" o comunque "ordinario" immaginato, già dal d.lg. 112/1998, per il suo esercizio, pur possedendo un carattere anche e soltanto "eventuale", il cui mancato utilizzo comporta che ogni soggetto valorizzi i beni dei quali abbia comunque la disponibilità.
Esso viene, poi, richiamato anche con riferimento alla funzione che la stessa Costituzione dichiara riservata allo Stato e cioè la tutela, in relazione alla quale si prevede che il ministero possa conferirne l'esercizio alle regioni, tramite forme di intesa e di coordinamento, previste dall'art. 4 e poi richiamate, oltre che più diffusamente descritte, anche nei loro oggetti, dall'art. 5, commi 3 e 4 del Codice [8].
In termini ancora più garantiti e procedimentalizzati, il richiamo al "concorso" tra il ministero e le autonomie territoriali, connota, da sempre, l'esercizio della attività di catalogazione (cfr. art. 17, commi 2 e 3 del Codice), quali attività tipicamente condivise da Stato e regioni.
Inoltre, si prevedono espressamente "forme di intesa e di coordinamento" tra ministero e regioni, per l'esercizio della vigilanza sui beni culturali (art. 18), "accordi" tra il ministero ed il soggetto pubblico interessato per le autorizzazioni all'effettuazione degli interventi sui beni culturali pubblici (art. 24); forme di concorso tra Stato e regioni ed altri soggetti per la definizione delle "linee di indirizzo, norme tecniche, criteri e modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali" (art. 29, comma 5, Codice). Accordi o intese sono poi previsti per l'istituzione congiunta di centri, anche a carattere interregionale, cui affidare attività di ricerca, sperimentazione, studio, documentazione ed attuazione di interventi di conservazione e restauro su beni culturali (art. 29, comma 11); tramite accordi si procede anche agli interventi conservativi sui beni delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali (art. 40 Codice).
Sempre tra i casi più significativi, si prevedono intese tra ministero, regioni ed altri enti pubblici territoriali anche per coordinare l'accesso agli istituti e luoghi di cultura (art. 103), così come al concorso di questi soggetti è attribuita la fissazione dei livelli uniformi di qualità della valorizzazione, oltre che il loro aggiornamento periodico (art. 114). Allo stesso modo, si contempla una loro azione congiunta finalizzata alla realizzazione, promozione e sostegno di ricerche, studi ed altre attività conoscitive aventi ad oggetto il patrimonio culturale (art. 118, comma 1), così come si riconosce la possibilità di accordi tra il ministero e le regioni per istituire, a livello regionale, centri permanenti di studio e documentazione del patrimonio culturale (art. 118, comma 2) e per diffondere la conoscenza e favorire la fruizione del patrimonio culturale da parte degli studenti (art. 119).
Ci si confronta, dunque, e limitandoci per ora al solo settore dei beni culturali, con una cascata di accordi, intese, momenti di concorso, azioni congiunte la cui previsione era stata sollecitata dalle stesse regioni, come si evince dal documento approvato dalla conferenza dei presidenti delle regioni l'8 maggio 2003, in vista dell'approvazione del Codice, ed in cui si vedeva in questi "momenti di raccordo" lo strumento per favorire una reale politica concordata in materia di beni culturali, capace di portare alla definizione congiunta di standard che perciò stesso abilitassero le regioni a numerosi interventi [9].
Peraltro, ciò che subito viene in evidenza, è che questi momenti di accordo/raccordo sono affidati dal Codice a soluzioni soltanto procedimentali, senza che sia costituita alcuna sede deputata alla loro definizione.
Queste sedi non soltanto non sono previste o richiamate all'interno del Codice, ma non compaiono in alcun modo neppure nei provvedimenti di riordino organizzativo del ministero, tant'è che anche il Consiglio di Stato, nel parere interlocutorio reso sul regolamento, aveva suggerito al ministero di valutare "se, nella piena salvaguardia dei rispettivi ambiti di competenze, non ritenga utile la costituzione di eventuali luoghi istituzionali (conferenze, organismi o altre figure organizzative) volti a favorire - collateralmente rispetto all'azione dei direttori regionali prevista dall'art. 20, comma 2, dello schema di regolamento - il raccordo ed il coordinamento fra l'azione dei diversi organi del ministero e quella delle autorità regionali e locali" [10].
Indicazioni che il ministero, secondo quanto si legge nel parere definitivo reso dal Consiglio di Stato sullo schema del regolamento di organizzazione si riserva di accogliere agendo, allo scopo, sulle commissioni regionali per i beni culturali, come si evince dal riferimento all'iniziativa "in studio" per la modifica degli artt. 154 e 155 del d.lg. 112/1998 [11].
A questi futuri interventi dovrebbe dunque essere affidata l'introduzione di quel dialogo fra il piano ordinamentale e quello funzionale oggi assente e la cui mancanza apre al "rischio", peraltro noto all'esperienza del nostro ordinamento, che la concertazione-collaborazione come "metodo" venga ad essere vanificata nelle sue potenzialità e nei suoi effetti, per diventare poco più che una formula o clausola di stile, utile soprattutto ad assorbire le mancate o ridotte aperture del Codice all'azione delle autonomie territoriali, alle quali verrebbe, in via quasi compensativa, assegnata una "possibilità" di espressione che, nei fatti, non trova un proprio luogo, né idonei supporti o attenzioni organizzative.
Quanto all'efficacia ed al significato sostanziale che verranno a contraddistinguere il principio/metodo consensuale, nel settore dei beni culturali, vi è, poi, un altro rischio connesso ai "silenzi" del legislatore: la mancata previsione, tanto ad opera del Codice, quanto, ed ancor di più, ad opera dei provvedimenti organizzativi, sino ad ora adottati, di sedi o di organismi di concertazione sposta sul piano solo amministrativo la garanzia della effettività di questi raccordi che la legge si limita così a menzionare, ma non a disciplinare-garantire, rendendo anche complesso, in taluni casi, immaginare a "chi" sia demandata l'azione di impulso che porti all'avvio ed alla conclusione di queste procedure.
Ed è sotto questo profilo, allora, che il tanto auspicato "nuovo" ruolo delle regioni potrebbe forse trovare un'occasione, ma ancor più una ragione per esprimersi, sollecitandole a configurare e ad attivare quelle sedi e quei momenti di coordinamento interno che, sino ad ora, sono stati molto deboli, ma che potrebbero trovare una "nuova" ragion d'essere come luoghi propositivi e di impulso per un'azione che, "dal basso", conduca ad una collaborazione i cui contenuti e le cui scelte siano realmente co-determinati, e non lasciati, come spesso è avvenuto, alla determinazione unilaterale del centro. Certo, si tratta di un passaggio il cui compimento richiederebbe da parte delle stesse regioni, impegnate oggi in una nuova fase costituente, un ripensamento della propria organizzazione amministrativa e delle risorse oltre che delle competenze dedicate o da dedicare a questo settore, sino ad ora gravemente lacunose, per non dire mancanti [12].
L'unico organo collegiale e rappresentativo dello Stato e delle autonomie che, al momento, viene coinvolto, dal Codice, in queste procedure consensuali è la conferenza Stato-regioni o la sua variante istituzionale della conferenza unificata, indicate, per molte ipotesi, come sedi in cui definire le linee delle azioni che si decidano di concertare tra stato ed enti territoriali [13].
Indubbiamente, si tratta di una soluzione che obbedisce alle istanze e alle ragioni della semplificazione organizzativa che da tempo sconsigliano e allontanano dalla costituzione di organismi ad hoc, sebbene sia anche da dire che, sotto il profilo della efficacia e della semplificazione procedimentale, questi "altri" compiti spostati in capo alle conferenze Stato-regioni/ o unificata vanno ad appesantire ulteriormente l'azione di queste, che sono ormai costituite come il luogo su cui si sposta la definizione dei rapporti Stato-autonomie per tutti i settori che vedano la presenza anche di interessi territoriali-locali.
4.2. ... con "alcuni luoghi": i beni paesaggistici
Resta da precisare che parzialmente diverse sono le considerazioni che possono svolgersi con riguardo alle forme di raccordo tra ministero ed autonomie nel settore dei beni paesaggistici. A fronte del silenzio serbato dai provvedimenti di riorganizzazione dell'apparato ministeriale, è dal Codice che si conferma l'attenzione, già presente nel Testo unico del 1999, alla costituzione di organismi collegiali che vedano la presenza congiunta del ministero e di rappresentanti delle regioni: questo, peraltro, in linea con il ruolo più ampio che le autonomie sono legittimate ad esplicare nel settore.
Per limitarci qui ad alcuni riferimenti, esemplificativi e di sintesi, si può ricordare che l'art. 137 del Codice] opera un nuovo riferimento all'istituzione, per atto regionale, della commissione provinciale avente il compito di "formulare proposte per la dichiarazione di notevole interesse pubblico" delle cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; delle ville, giardini e parchi, non tutelati dalle disposizioni della parte seconda del Codice, che si distinguono per la loro non comune bellezza (lett. a) e b) art. 136 Codice), e dei "complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale", delle "bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze" (lett. c) e d) art. 136).
Della commissione, come si legge nel comma 2 dell'art. 137, che anche in questo modifica l'art. 140 Tu, fanno parte di diritto il direttore regionale, il soprintendente per i beni architettonici e del paesaggio ed il soprintendente per i beni archeologici competenti per territorio, mentre i restanti membri, in numero non superiore a sei, sono nominati dalla regione tra soggetti con particolare e qualificata professionalità ed esperienza nella tutela del paesaggio.
In relazione all'operato di queste commissioni provinciali, l'art. 20, comma 4, del d.p.r. 137/2004, alle lett. q) e r) richiede che spetti al direttore regionale richiedere ad esse, su iniziativa delle soprintendenze di settore, l'adozione della proposta di dichiarazione di interesse pubblico per i beni paesaggistici, e cioè attivarne l'intervento, con la possibilità, sempre affidata al direttore regionale, di proporre al direttore generale competente l'adozione in via sostitutiva della dichiarazione che non sia resa dalla commissione.
Inoltre, l'art. 148 del Codice prevede che entro un anno dalla sua entrata in vigore, "le regioni promuovono l'istituzione della commissione per il paesaggio presso gli enti locali ai quali sono attribuite le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica", ma soprattutto, per quanto qui interessa, contempla la possibilità che alle attività della commissione possa partecipare il ministero, sulla base di accordi stipulati con le regioni.
Anche per questo settore si prevedono, poi, forme di accordo o intese. Basti qui ricordare, in via esemplificativa, il caso previsto dall'art. 156 del Codice, con riferimento alla "verifica e all'adeguamento dei piani paesaggistici". Nel comma 2 si dispone che, entro centottanta giorni dall'entrata in vigore del Codice, il ministero, d'intesa con la conferenza Stato-regioni, predisponga uno schema generale di convenzione con le regioni in cui vengono stabilite, fra l'altro, le metodologie e le procedure di ricognizione, analisi, censimento e catalogazione degli immobili e delle aree oggetto di tutela. Soprattutto, si prevede che le regioni ed il ministero possano stipulare accordi per disciplinare lo svolgimento d'intesa delle attività volte alla verifica e all'adeguamento dei piani paesaggistici, sulla base dello schema generale della convenzione (cfr. comma 3, art. 156 del Codice).
Insomma, qualche luogo concertativo che merita di essere ricordato in quanto attenua il "silenzio" che, altrimenti, connota le scelte ordinamentali e le soluzioni funzionali per la nuova disciplina dei beni culturali e del paesaggio.
4.3. ... e con "luoghi da ripensare": lo spettacolo
Il ministero per i Beni e le Attività culturali è anche il centro di imputazione delle competenze in materia di spettacolo. Di conseguenza, è opportuno ricordare, sia pure con alcuni rapidi riferimenti - i soli consentiti dall'attuale incertezza del quadro normativo di riferimento - che il profilo dei rapporti tra ministero ed autonomie rappresenta uno dei "fronti aperti" anche di questo settore che, tra l'altro, quanto ad assetti centrali, è fra quelli privi di una propria organizzazione periferica. Anzi, è proprio con riferimento allo spettacolo che si appalesa quanto la definizione di questi aspetti intersechi strettamente la più ampia questione del decentramento istituzionale e, con esso, del ruolo che si intenda riconoscere alle autonomie territoriali.
Anche il settore dello spettacolo, d'altro canto, è stato interessato dalla delega conferita con l'art. 10 della l. 137/2002 per una codificazione della disciplina legislativa che ne garantisse l'adeguamento ai nuovi principi costituzionali di riparto delle competenze, nonché alla normativa comunitaria e agli accordi internazionali (commi 1 e 2, lett. b) e c)) e per un riordino degli assetti organizzativi e di taluni profili procedimentali informato, fra le altre, alle istanze della semplificazione (comma 2, lett. e)).
Peraltro, la delega è stata esercitata solo per quella sua espressione costituita dalle attività cinematografiche, conducendo all'approvazione del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 di riforma della disciplina in materia, oggetto di numerose censure di legittimità costituzionale, all'attenzione della Consulta.
Così, è per opera dell'art. 4 di questo decreto che si è prevista l'istituzione, presso il ministero, della "consulta territoriale per le attività cinematografiche", presieduta dal capo del Dipartimento per lo spettacolo e lo sport o dal direttore generale competente appositamente delegato, e composta dal Presidente del centro sperimentale di cinematografia, dal presidente di Cinecittà holding spa, da quattro membri designati dalle associazioni di categoria maggiormente rappresentative nel settore cinematografico, dei quali due designati dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore dell'esercizio, da tre rappresentanti delle regioni, designati dalla conferenza Stato-regioni, e da tre rappresentanti degli enti locali, designati dalla conferenza Stato-città.
Ad essa spettano compiti consultivi, che consentono perciò di ascriverla al novero degli "altri organi (consultivi) istituiti in attuazione delle vigenti disposizioni di legge", dei quali fa menzione l'art. 4 del d.lg. 368/1998, come modificato dall'art. 3 del d.lg. 3/2004, oltre che compiti propositivi. Essa è, infatti, chiamata, fra le altre attribuzioni, alla "predisposizione di un programma triennale, approvato dal ministro per i Beni e le Attività culturali...", contenente: "a) l'individuazione, per ciascuna regione, delle aree geografiche di intervento" per la realizzazione di nuove sale, il ripristino di quelle inattive o la loro ristrutturazione e adeguamento strutturale e tecnologico, nonché per gli altri interventi indicati all'art. 15, comma 2, lett. a) e b) del d.lg. 28/2004; "b) l'individuazione, sul territorio nazionale, delle aree privilegiate di investimento di cui all'articolo 16, comma 3" del medesimo decreto; c) l'individuazione degli obiettivi per la promozione delle attività cinematografiche di cui all'articolo 19, comma 3, lettere b), c) e d)" del d.lg. 28/2004.
Questa soluzione, ossia la scelta di garantire il ruolo delle regioni, assicurando loro la presenza in un organo centrale, è stata peraltro oggetto di una segnalazione resa dall'Antitrust l'11 dicembre 2003 e riferita a quello che, al momento, era lo schema del decreto legislativo, poi approvato senza che in esso si sia tenuto conto dei rilievi e delle osservazioni formulate, i quali possono perciò essere riferiti anche al provvedimento adottato in via definitiva.
Per quanto interessa ai fini di questa analisi, a giudizio dell'Autorità garante, la scelta di costituire la "consulta territoriale per le attività cinematografiche", con le attribuzioni ricordate, equivale ad assegnare al livello statale il compito di individuare le aree geografiche per lo sviluppo delle diverse attività della filiera cinematografica, limitando con ciò l'ambito di autonomia delle amministrazioni locali ed ostacolando, di conseguenza, anche la definizione di "assetti maggiormente rispondenti alle effettive esigenze della domanda, così come espressa nei diversi ambiti locali" [14]. In sostanza, un richiamo alla necessità di immaginare per gli enti territoriali un ruolo che non sia riducibile alla sola loro presenza in organi consultivi e propositivi che sono e restano espressione dell'amministrazione centrale e che, di conseguenza, evoca anche la necessità di pensare ad altre forme di raccordo, procedimentale ed organizzativo, per l'esercizio di funzioni e di competenze che implicano il riconoscimento di ruoli più forti e connotati in capo alle autonomie.
In effetti, l'unico altro riferimento che il decreto di riforma effettua alle regioni ed agli enti locali si risolve in una previsione di tenore analogamente debole, ossia nel contemplare la partecipazione di un rappresentante delle regioni, uno delle province ed uno dei comuni, designati dalla conferenza unificata, alle sedute, relative alla promozione delle attività cinematografiche, della sottocommissione per la promozione e per i film d'essai, quale articolazione della commissione per la cinematografia, istituita con l'art. 8 del d.lg. 28/2004, e chiamata ad intervenire anche in materia di concessione di contributi al settore.
Molto altro, come si anticipava, vi sarebbe da dire sulle complesse vicende che interessano il decentramento del settore, riflettendosi sulle soluzioni funzionali ed ordinamentali-organizzative dello stesso. In questa sede, e per il momento, può essere sufficiente ricordare come ormai lo spettacolo nel suo complesso, comprensivo anche di quelle sue forme rappresentate dallo spettacolo "dal vivo", attenda provvedimenti idonei a valorizzare la presenza e l'intervento delle autonomie, specie nelle prospettive aperte dalle recenti sentenze 255 e 256 del 21 luglio 2004 della Corte costituzionale.
Se la direzione, indicata da queste pronunce e verso la quale si deve andare, è nel senso di un effettivo coinvolgimento delle regioni in quella che è la modalità tradizionalmente più incidente di intervento pubblico nel settore, specie dello spettacolo dal vivo, ossia nelle funzioni amministrative di erogazione dei finanziamenti pubblici, delle quali, a giudizio della Corte, devono essere superate, per conformità ai principi costituzionali, enunciati in primo luogo nell'art. 118 Cost., le attuali forme accentrate, è evidente che ciò si tradurrà anche nella necessità di ripensare il ruolo delle regioni e con esso le modalità e le forme dei raccordi fra ministero ed autonomie, attualmente lasciate a poche e deboli sedi consultive e/o propositive.
A questo riguardo, scaduta la delega conferita con l'art. 10 della l. 137/2002, per interventi di riforma che riguardassero lo spettacolo dal vivo, l'art. 2, comma 3, della legge 27 luglio 2004, n. 186, ha nuovamente autorizzato il governo ad adottare, entro dodici mesi dalla sua entrata in vigore, uno o più decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni legislative in materia di teatro, musica, danza ed altre forme di spettacolo dal vivo, da approvarsi sentita la Conferenza unificata e previo parere delle commissioni parlamentari competenti: provvedimenti ai quali non può che rinviarsi per un'ulteriore valutazione di quello che verrà a definirsi, per il settore, come l'assetto dei rapporti tra il ministero e le autonomie [15].
[1] Per una lettura delle soluzioni originariamente accolte, su questi versanti, dal d.lg. 10 ottobre 1998, n. 368, istitutivo del Mbac, cfr. G. Pitruzzella, L'organizzazione periferica del ministero e gli attori istituzionali locali, e L. Bobbio, Lo stato e i beni culturali: due innovazioni in periferia, in Aedon, 1/1999.
[2] Per una prima lettura d'insieme delle scelte operate in occasione del riordino dell'apparato ministeriale, cfr. M. Cammelli, La riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3), in Aedon, 3/2003. Sul punto, si rinvia inoltre a G. Pastori, Le funzioni del Mbac, in questo numero di Aedon.
[3] Cfr. Cons. Stato, sez. cons. per gli atti normativi, 8 marzo 2004, n. 2490, parere interlocutorio, premessa, ove si legge che il decreto legislativo ha "istituito gli uffici dirigenziali generali territoriali, gerarchicamente sovraordinati alle esistenti soprintendenze di settore, allo scopo di ottimizzare il rapporto tra le varie strutture e di creare un efficiente punto di riferimento per i rapporti con le istituzioni regionali, anche in considerazione della recente revisione del Titolo V della Costituzione".
[4] Cfr. G. Sciullo, L'organizzazione periferica del Mbac, in questo numero.
[5] Sul punto, si rinvia alle considerazioni di ordine più generale che ne effettua G. Sciullo, L'organizzazione periferica del Mbac, cit.
[6] Su di esse, cfr. G. Corso, Commento all'art. 154, in G. Falcon (a cura di), Lo stato autonomista, Bologna, Mulino, 1998, pp. 511 s.
[7] Sul punto, cfr. L. Zanetti, Commento all'art. 112, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2004, 437 ss.
[8] Su queste previsioni, cfr. G. Pastori, Commento agli artt. 4 e 5, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., pp. 79 ss.
[9] Cfr. il commento di G. Sciullo, Politiche per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e ruolo delle regioni, in Aedon, 2/2003.
[10] Cfr. parere interlocutorio, cit., punto 2.6 del considerato.
[11] Cfr., in proposito, punto 2.6 del considerato, parere n. 2490/04, cit.
[12] Sulle limitate azioni regionali, nel settore, cfr. C. Tubertini, L'organizzazione regionale per i beni e le attività culturali, in Aedon, 3/2000.
[13] Cfr. in proposito, ed esemplificativamente, l'art. 112, comma 6, ove in tema di "valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica" si stabilisce che "Lo Stato, per il tramite del ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali possono definire, in sede di Conferenza unificata, indirizzi generali e procedure per uniformare, sul territorio nazionale, gli accordi indicati al comma 4".
[14] Per il testo della segnalazione, cfr. www.agcm.it.
[15] Su questo e sulle sentenze della Corte costituzionale, cfr. C. Tubertini, La disciplina dello spettacolo dal vivo tra continuità e nuovo statuto delle autonomie, in Aedon, 3/2004.