Sommario: 1. Premessa. - 2. Il soprintendente regionale. - 3. L'autonomia delle soprintendenze. - 4. Conclusioni.
L'organizzazione periferica di un ministero che si occupa del patrimonio culturale è importante e problematica. È importante perché la concreta fisionomia dell'intervento pubblico in questo settore non può che derivare dalle specifiche scelte condotte sul terreno. Ma è anche problematica perché non è affatto detto che lo stato debba amministrare i beni culturali con una propria struttura periferica (soprattutto quando si sta avviando verso un processo di federalismo amministrativo). E se lo fa, deve coordinarsi con le politiche delle regioni e degli enti locali. L'Italia, con la l. 59/1997, non ha scelto - come avrebbe potuto - di rinunciare ("alla tedesca") a una propria longa manus in periferia, dal momento che la legge ha riservato allo Stato le competenze amministrative in materia di tutela. Ed ha preferito dunque di mantenere in piedi una struttura dualistica in cui in periferia operano "sugli stessi beni" sia gli organi dello stato che quelli degli enti territoriali (sia pure ampliando la sfera d'azione di questi ultimi). Si tratta di un assetto instabile che ha dato problemi nel passato e potrà darne nel futuro.
Ora, con il decreto che istituisce il ministero per i beni e le attività culturali (d.lg.368/1998) l'organizzazione periferica del ministero (per quel che attiene ai beni culturali) è stata parzialmente modificata. Le due innovazioni più importanti sono:
Esaminerò separatamente le due innovazioni cercando di vedere a quali problemi esse intendono far fronte e se esse siano compatibili con il processo di federalismo amministrativo varato pochi mesi prima con il d.lg. 112/1998.
2. Il soprintendente regionale
Il problema di partenza è abbastanza semplice. La presenza periferica del ministero è attualmente assai frammentata. Ci sono vari tipi di soprintendenze (archeologiche; per i beni artistici e storici; per i beni ambientali e architettonici; soprintendenze miste e speciali) che operano su circoscrizioni territoriali di estensione variabile (spesso più piccole della regione). Nelle 17 regioni poste sotto il controllo del ministero [1] operano ben 69 soprintendenze diverse. Solo due regioni (Friuli e Molise) dispongono di un'unica soprintendenza (mista). L'Umbria, la Puglia, la Basilicata, la Calabria e l'Abruzzo ne hanno due. La Liguria e le Marche tre. Il Piemonte e la Sardegna quattro. La Lombardia cinque. Il Veneto e l'Emilia sei. La Toscana e la Campania otto. Il Lazio addirittura dieci.
I rapporti tra queste entità non sono sempre facili. Ognuna di loro è padrona assoluta dei "propri" beni che tuttavia sono spesso intrinsecamente mischiati con quelli "altrui": i reperti archeologici, i dipinti e le strutture architettoniche si trovano normalmente a convivere negli stessi monumenti e negli stessi contesti. Ognuna di loro è retta da un soprintendente che è un dirigente dello stato ed ha quindi lo stesso grado degli altri soprintendenti. Ciascuna soprintendenza è composta da un unico tipo di esperti (archeologi, storici dell'arte, architetti) che fanno riferimento a diversi saperi disciplinari e spesso si trovano in attrito sui metodi e le priorità. Va aggiunto che le regioni più affollate sono anche quelle che ospitano i monumenti e le collezioni più importanti. Il coordinamento è più difficile proprio là dove sarebbe più utile..
Come superare questa frammentazione? Negli anni passati sono circolate proposte diverse: istituire soprintendenze provinciali con competenza onnicomprensiva oppure fondere tutte le soprintendenze esistenti in ogni regione in un'unica soprintendenza regionale (come già avviene in Friuli e in Molise). Quest'ultima soluzione era stata proposta, in un primo tempo, dalla stessa commissione Cheli (che doveva stendere il testo del decreto legislativo).
Alla fine il legislatore delegato ha preferito ripiegare su una soluzione meno radicale, ossia lasciare le cose come stanno mettendo però al di sopra delle diverse unità periferiche una sorta di "super-soprintendente" a livello regionale. Egli sarà scelto tra gli attuali soprintendenti della regione, avrà uno stipendio da direttore generale e svolgerà funzioni di supervisione e coordinamento. Sarà lui a presentare al ministero il programma annuale degli interventi per tutte le soprintendenze della regione, a formulare le proposte di vincolo e di prelazione e potrà ridistribuire il personale tra le soprintendenze. Farà parte di diritto della commissione regionale che, secondo il d.lg. 112/1998, avrà il compito di regolare gli interventi tra stato e regione
Si tratta di una soluzione agile e poco costosa, dal momento che evita una completa riorganizzazione delle soprintendenze. L'apparto centrale del ministero avrà il vantaggio di tenere i rapporti con 17 soprintendenti invece che con 69, a patto che i nuovi dirigenti sia veramente in grado di rappresentare gli organi che fanno loro capo.
E qui sta un primo nodo. Quando si devono coordinare più unità indipendenti la soluzione più ovvia e più frequente è quella di istituire un coordinatore. Peccato che essa funzioni molto di rado. Se quelle unità fanno fatica a coordinarsi tra di loro significa che le risorse di cui dispongono sono mal distribuite e che mancano incentivi alla cooperazione.
Il coordinatore può addirittura trasformarsi in un impaccio qualora non abbia l'autorevolezza necessaria o compia mosse sbagliate e imprudenti. Dal momento che la riforma non sposta in modo significativo l'assetto delle competenze, non c'è alcuna garanzia che il nuovo soprintendente regionale riesca a svolgere una funzione positiva.
Molto dipenderà dalle doti delle persone che verranno scelte (e dal criterio che verrà usato per sceglierle: l'anzianità?). In alcune regioni la collaborazione tra le soprintendenze aumenterà (è già qualcosa), ma in altre potrebbero generarsi conflitti e recriminazioni di ogni tipo.
Ma il vero nodo, alla periferia, è un altro. È quello del rapporto che si vuole stabilire tra gli organi decentrati dello stato e il sistema regioni - enti locali. Se infatti le relazioni che le soprintendenze intrattengono tra di loro sono spesso difficili, quelle che esse intrattengono con le regioni e i comuni (a parte qualche eccezione) sono quasi sempre pessime.
Le due sfere tendono, per loro natura, a presidiare interessi diversi e contrapposti: conservazione contro sviluppo; filologia contro fruizione, difesa dello status quo contro innovazione. In un settore così delicato come quello dei beni culturali è di importanza cruciale che entrami i tipi di interessi siano rappresentati e difesi. Il problema è quello di ottenere che le due sfere imparino a dialogare tra di loro e a costruire soluzioni accettabili per entrambi.
L'attuale assetto istituzionale non pare particolarmente adatto a promuovere l'apprendimento reciproco e la cooperazione (che infatti si realizza solo in casi eccezionali). Ciò dipende dal fatto che le risorse a disposizione dello stato e degli enti territoriali sono distribuite in modo troppo squilibrato.
Le soprintendenze sono padrone assolute dei beni di proprietà statale. Le regioni hanno una competenza (un po' meno assoluta) sui beni degli enti locali. Le soprintendenze vantano una posizione di superiorità sulle regioni in quanto depositarie dei poteri autoritativi di tutela (che possono far valere anche sui beni di competenza regionale) e di conoscenze specialistiche. Ma le regioni possono a loro volta far leva sui poteri di pianificazione del territorio e sulla disponibilità di competenze connesse o affini (ambiente, paesaggio, turismo, parchi). Le soprintendenze dispongono di poteri forti ma circoscritti e caratterizzati da un'estrema rigidità. Le regioni e i comuni hanno al contrario poteri assai più generali, godono di una flessibilità incomparabilmente maggiore, ma le loro competenze sono meno puntuali.
In tale situazione il principale ostacolo alla cooperazione risiede nellesistenza di sfere dazione troppo nettamente separate, ossia nel basso grado di interdipendenza reciproca. Le soprintendenze sono fondamentalmente autosufficienti nel proprio ambito dintervento e sono in grado di agire - sia pure con risultati sub - ottimali - utilizzando esclusivamente le proprie risorse: dispongono di propri fondi (pochi) per aprire e gestire propri cantieri; dispongono di proprio personale (poco qualificato e inquadrato in strutture normative molto rigide) per gestire i propri musei. Le soprintendenze non hanno bisogno delle regioni e dei comuni per svolgere la loro azione. Le regioni e i comuni hanno invece bisogno delle soprintendenze per qualsiasi iniziativa. L'interdipendenza, in altre parole, non è reciproca.
Questo è il nodo da sciogliere. L'istituzione di strutture di coordinamento come le commissioni regionali (d.lg. 112/1998) o il soprintendente regionale (d.lg. 368/1998) rischia di servire a poco se non è accompagnata da un significativo spostamento di risorse (fondi, competenze, personale) dalle soprintendenze alle regioni. Da questo punto di vista la nascita del soprintendente regionale fornisce un messaggio contraddittorio. Esso può facilitare e semplificare i rapporti tra regioni e soprintendenze. Ma può anche dare l'impressione che si voglia rafforzare la posizione del ministero in periferia che è proprio il contrario di quello che servirebbe.
3. L'autonomia delle soprintendenze
Le soprintendenze sono attualmente inquadrate in un'organizzazione gerarchica. Nel corso degli anni i soprintendenti hanno visto aumentare la propria capacità di spesa, ma nel complesso la loro situazione di dipendenza dal centro non è stata visibilmente modificata. Questo schema è stato rotto per la prima volta - dopo numerosi tentativi andati a vuoto - dalla l. 352/1997 che ha conferito un particolare statuto di autonomia alla soprintendenza archeologica di Pompei.
Ora il d.lg. 368/1998 dà la possibilità di estendere il modello Pompei a qualsiasi altro organi periferico del ministero purché abbia "competenza su complessi di beni distinti da eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico". Questa disposizione apre un'opportunità nuova e interessante, perché consente di spezzare l'impalcatura rigida e uniforme del ministero e offre nuove chances a quelle soprintendenze che lo desiderano e sono mature per compiere il salto. L'autonomia è concessa infatti caso per caso con decreto del ministro e il suo contenuto non è predeterminato dalla legge. Di volta in volta potrà esserne definito l'ambito tenendo conto delle esperienze fin qui maturate. Volendo, si potrebbe fare di più di quello che è stato fatto a Pompei.
Ma a che cosa dovrebbe servire l'autonomia? Attualmente le soprintendenze svolgono tre funzioni principali:
La prima funzione è esercitata in via esclusiva. La seconda è condivisa con le regioni e gli enti locali. La terza dovrebbe diventare residuale dal momento che la gestione dei musei statali dovrebbe essere trasferita, secondo il principio di sussidiarietà, ai comuni e alle regioni.
Ora è evidente che l'autonomia non ha senso per le funzioni di tutela. Può aver senso invece per la valorizzazione e, soprattutto, per la gestione. Ma si tratta, come abbiamo visto, di funzioni il cui baricentro dovrebbe essere spostato a livello regionale e locale.
Si apre quindi una potenziale contraddizione tra il processo di decentramento varato nel marzo 1998 e la promessa di autonomia per le soprintendenze statali offerta nell'ottobre dello stesso anno. Intendiamoci, non è irragionevole pensare che alcuni grandi musei statali siano scorporati dalle soprintendenze e configurati come istituzioni statali autonome. E forse l'esistenza di strutture statali decentrate e flessibili potrebbe anche facilitare i rapporti con le regioni e gli enti locali, dal momento che la rigidità delle attuali soprintendenze è uno dei principali impedimenti alla cooperazione locale.
Ma questa soluzione dovrebbe essere limitata, in via del tutto eccezionale, a quei casi in cui non esistono le condizioni per un trasferimento della gestione di un museo al comune i o alla regione. Del resto, in passato, l'autonomia delle soprintendenze era stata proposta proprio per evitare un decentramento troppo spinto alle regioni [2].
È ormai passato un anno dall'emanazione del d.lg. 112/1998 e da allora non si è mosso un gran che. Non si è ancora riunita la commissione nazionale che dovrebbe indicare i musei statali da trasferire. Non sono ancora in funzione le commissioni regionali che dovrebbero dare il loro parere sulle proposte di trasferimento. Il processo di decentramento stenta insomma a decollare.
In questa situazione la riorganizzazione degli organi periferici del ministero, disposta con il d.lg. 368/1998, potrebbe suonare come un'inversione di marcia. Sul piano formale non c'è contraddizione tra i due interventi legislativi che potrebbero vivere benissimo l'uno accanto all'altro. Ma, di fatto, il rafforzamento della periferia statale, tentato attraverso l'istituzione del soprintendente regionale e la promessa di autonomia per alcune soprintendenze e musei, rischia di porsi in contrasto con il processo di decentramento.
Non possiamo accusare esplicitamente il legislatore delegato di aver cambiato idea in soli sei mesi. Possiamo però dire che non ha fatto molti sforzi per favorire il cammino promesso dal decreto 112. In tali condizioni, in assenza una forte iniziativa da parte delle regioni e degli enti locali lo stallo appare più probabile del movimento.
[1] La Valle d'Aosta, il Trentino-Alto Adige e la Sicilia hanno competenza esclusiva in materia di beni culturali e quindi non ospitano alcuna soprintendenza statale.
[2] Si veda: G. Chiarante, La tutela dei beni culturali tra centralizzazione e autonomia, in Beni culturali, tutela, investimenti, occupazione, Annali dell'Associazione Bianchi Bandinelli, n. 1, 1994, 109-118.