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I percorsi della valorizzazione

Novità sul partenariato pubblico-privato nella valorizzazione dei beni culturali

di Girolamo Sciullo

Sommario: 1. La sentenza Acoset della CGCE. - 2. I suoi riflessi sulle forme di gestione: a) dei servizi culturali. - 3. (segue) b) dei servizi di assistenza culturale.

Public-private partnership and cultural heritage valorization: the latest change
This study discusses the impact of European Court of Justice, C-196/08, Acoset, sentence on cultural services and cultural assistance services. Arguing from this sentence, the study concludes that both types of services would benefit from broader use of public-private partnerships.

1. La sentenza Acoset della CGCE

"Finalmente!" verrebbe da dire, se l'affermazione non suonasse troppo enfatica. E' certo, però, che la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 15 ottobre 2009, causa C-196/08, Acoset, è destinata a lasciare una traccia nella, per più aspetti faticosa, costruzione del diritto comunitario degli appalti e delle concessioni.

La questione affrontata è ampiamente nota e dibattuta: può una pubblica amministrazione affidare senza gara l'esecuzione di un appalto o lo svolgimento di un servizio (anche di interesse generale di carattere economico) ad un'entità mista, da essa costituita con un privato, quando la scelta del partner sia avvenuta a seguito di una procedura ad evidenza pubblica?

Ad inquadramento della questione può ricordarsi che, secondo il diritto comunitario, le autorità pubbliche sono libere di esercitare un'attività economica (in particolare anche un servizio di interesse generale) oppure affidarlo a terzi, ma in questa ipotesi rispettando le direttive 2004/17 e 2004/18, nel caso di appalti pubblici, e gli artt. 43 e 49 del Trattato CEE, nel caso di concessioni, detto in breve, rispettando i principi della pubblicità e del confronto concorrenziale [1].

A questa regola generale, ribadita del resto dalla accennata pronuncia [2], la giurisprudenza della Corte europea aveva posto, fino ad ora, un unico temperamento, costituito dal ricorrere della figura dell'in house providing, nel senso di ammettere l'affidamento diretto dell'appalto o della concessione a quell'entità, formalmente distinta dall'amministrazione appaltante o concedente, ma da essa costituita e nella sostanza mera proiezione operativa della stessa amministrazione [3].

A tale figura non era però riconducibile il caso dell'entità (ad es. una spa) costituita dall'amministrazione con un soggetto privato, la presenza del quale essendo di ostacolo alla configurabilità del "controllo analogo" - controllo esercitabile dall'amministrazione sull'entità analogo a quello dalla stessa esercitato sulle proprie strutture interne - previsto come requisito per l'in house [4].

Era emerso peraltro l'interrogativo se l'affidamento diretto dell'appalto o della concessione potesse ritenersi nondimeno ammesso quando la scelta del socio privato fosse avvenuta tramite gara, se quindi in sostanza la gara effettuata ex ante (per la scelta del socio) esentasse dalla gara ex post (per l'affidamento dell'appalto o della concessione all'entità costituita con il privato).

Il legislatore italiano aveva dato al quesito una risposta affermativa (nel senso di non richiedere la doppia gara) con l'art. 113, comma 5, lett. b), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come riformulato dall'art. 35, comma 1, della legge 20 dicembre 2001, n. 448. Tuttavia dubbi sulla compatibilità di tale disposizione con il quadro comunitario, che non forniva una risposta "certa", erano stati ripetutamente prospettati e variamente risolti dagli organi di giustizia amministrativa italiana [5].

Ora la questione è stata per la prima volta affrontata dal giudice comunitario e risolta, avvalorando un orientamento già prospettato, tra gli altri, dalla Commissione europea [6] e sostenuto nelle conclusioni di causa dall'Avvocato Generale [7]. Quando la scelta del socio privato sia avvenuta nel rispetto dei principi comunitari (di libera concorrenza, trasparenza e parità di trattamento) e sia stata operata previa verifica della sussistenza in capo al privato dei requisiti finanziari, tecnici operativi e gestionali riferiti all'attività da svolgere (in breve quando si tratti di un socio "d'opera" e non meramente finanziario) l'affidamento diretto dell'appalto o del servizio non trova ostacoli nell'ordinamento comunitario.

Si tratta di un'affermazione di principio importante, con rilevanti riflessi sugli appalti e sulle concessioni nel nostro Paese.

In questa sede peraltro si può non spingere oltre il commento alla sentenza, mentre pare opportuno prospettare le ricadute della sentenza sulla disciplina dei servizi legati alla valorizzazione dei beni culturali.

2. I suoi riflessi sulle forme di gestione: a) dei servizi culturali

All'indomani dell'entrata in vigore del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156, a cui si deve l'attuale versione degli artt. 112 e 115 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, si diffuse la convinzione che la vicenda giuridica della "Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino" non sarebbe stata più ripetibile: alla costituzione di una fondazione mista (nella specie Stato, enti territoriali e enti privati) destinata a gestire, senza previa gara, un bene culturale (nella specie il Museo Egizio) conferito in uso alla stessa fondazione era ormai di ostacolo la previsione delle forme di gestione indicate dal novellato art. 115, commi 2 e 3: gestione "diretta" da parte dell'ente pubblico titolare del bene, anche in forma consortile pubblica, e gestione "indiretta" tramite concessione a terzi selezionati tramite gara.

Vero è che non mancò chi sostenne che la disposizione lasciasse "impregiudicata la possibilità, nei limiti consentiti dall'ordinamento comunitario, dell'affidamento in house" [8], e chi, riconducendo la vicenda delle fondazioni miste nello schema del partenariato pubblico-privato istituzionalizzato (PPPI) - promosso dall'ordinamento comunitario - prospettò l'idea che la scelta del privato, se avvenuta previa gara e in legame funzionale con la missione affidata all'organismo misto, rendesse possibile l'affidamento diretto del servizio culturale allo stesso organismo [9].

Il riferimento al quadro comunitario contenuto in ambedue le tesi non risultò però risolutivo della questione, nel primo caso, perché la fondazione mista non era (e non è, come si è ricordato) riconducibile alla figura dell'in house, nel secondo, perché era incerta sul punto la disciplina comunitaria.

La pronuncia Acoset ha diradato però quest'incertezza. La sua importanza, con riguardo al regime delle forme di gestione dei servizi culturali, risiede fondamentalmente nell'aver inserito l'anello di collegamento fra l'art. 112 e l'art. 115 del Codice, prima mancante.

D'ora in avanti il quadro comunitario, come precisato dalla sentenza, non osta a che ad un'entità mista possano essere assegnati compiti non solo di elaborazione di piani e programmi culturali (ex art. 112, commi 4, 5 e 8), ma anche (o solo) di gestione di beni culturali ad essa conferiti in uso (ex art. 115, comma 7), sempre che il partner privato sia stato scelto previa gara e alle condizioni indicate dalla sentenza, ossia in quanto partner "d'opera".

In tal modo risulta di nuovo giuridicamente possibile, sia pure su basi di trasparenza e concorsualità, ricostituire quella filiera fra programmazione strategica, programmazione operativa e gestione nella valorizzazione dei beni culturali, che la novella del 2006 aveva segmentato, bloccando esperienze, "eccezionali" nel caso di beni statali, ma assai più diffuse nel caso di beni delle autonomie territoriali.

Si potrà obiettare che la pronuncia non incide sulla lettera dell'art. 115, che resta immutata. E tuttavia il primato dell'ordinamento comunitario (cfr. art. 117, comma 1, Cost.) ne impone una lettura "comunitariamente orientata".

Alle forme di gestione testualmente previste dall'art. 115 del Codice devono aggiungersi, perché consentite dall'ordinamento comunitario, la gestione in house tramite figura soggettiva privata (quella con figura soggettiva pubblica non è niente altro che la "forma consortile pubblica", menzionata dal comma 2) ed ora la gestione tramite entità mista con partner "d'opera" privato, scelto mediante gara.

Si tratta, infatti, di possibilità ormai chiaramente ammesse e contro le quali non si saprebbero ipotizzare ragioni ostative fondate su presunte peculiarità dei servizi culturali rispetto agli altri servizi di interesse generale, anche ammettendo - come assume con non poca forzatura l'art. 115 - una loro connotazione "sempre e comunque" economica.

3. (segue) b) dei servizi di assistenza culturale

Ancor più di rilievo, se possibile, sembrano i riflessi della sentenza sui servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico. La pronuncia consente ora l'incardinamento di quelle "relazioni di durata", di tipo strutturale, fin ad ora incerte quanto ad ammissibilità.

La Sottocommissione Cammelli, all'interno della Commissione Montella sulla valorizzazione che ha operato la scorsa legislatura, nel delineare il modello del Global service, cercò attraverso la previsione di una commissione paritetica (amministrazione concedente e gestore) di dar corpo ad una struttura che accompagnasse e guidasse lo svolgimento dei servizi affidati. Di tale previsione è rimasta traccia (per la verità assai tenue) nella commissione prevista con compiti fondamentalmente di vigilanza dall'art. 7, comma 2, del d.m. 29 gennaio 2008.

La messa in campo di una "relazione di durata" di tipo strutturale, ossia di un rapporto fra amministrazione e gestore che non si esaurisca quanto alle scelte strategiche dei servizi negli elementi fissati dal bando di gara e dal relativo capitolato, ma, appunto perché di tipo organico, che si sviluppi lungo tutta la durata della concessione, sembra offrire una risposta a due esigenze di fondo presentate (almeno attualmente) dai servizi di assistenza culturale: far sì che il soggetto pubblico, concorrendo alla gestione sia pure in un ruolo codecisorio ma non strettamente operativo, venga coinvolto in una logica di valorizzazione che si affianchi a quella, più consueta e sperimentata, di tutela; far sì che l'operatore privato abbia un arco di riferimento temporale più ampio da quello ipotizzabile in un appalto o concessione.

La costituzione di un organismo misto, con una durata ad es. di dieci-quindici anni, con compiti operativi affidati al privato (scelto con gara), ma in un quadro di codecisioni di indirizzo pubblico-private da assumersi nel tempo, sembra poter soddisfare al meglio le due esigenze: mantiene la presenza del pubblico nella gestione e ne favorisce la crescita in termini di know-how, offre al privato un orizzonte di investimento (e di ritorno economico) di interesse, tale da stimolarlo anche nella direzione del miglioramento dei servizi.

Per concludere, non può che esprimersi la speranza che le istituzioni pubbliche, a cominciare dalla neo costituita Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale, e i privati operatori, profit e non profit, valutino con attenzione le possibilità che la pronuncia Acoset schiude. E' del tutto ovvio che la sentenza non risolve i problemi della valorizzazione dei beni culturali, ma da oggi fra gli "attrezzi" giuridici disponibili c'è un elemento in più per affrontarli.

 

Note

[1] Cfr. Comunicazione interpretativa della Commissione delle Comunità europee (sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI)), 5 febbraio 2008, C(2207)6661, par. 1.

[2] Punti 44 ss.

[3] Punti 51 e 52 della medesima pronuncia.

[4] Punto 53 ancora della pronuncia.

[5] Cfr. in particolare C.S., Sez. V, 3 febbraio 2005, n. 272, C.G.A.R.S., 27 ottobre 2006, n. 589, C.S., Sez. II, 18 aprile 2007, 456, C.S., Sez. V, 23 ottobre 2007, n. 5587, C.S., Ad. Pl., 3 marzo 2008, n. 1, C.S., Sez. V, 4 marzo 2008, n. 889.

[6] Cfr. Comunicazione, cit. par. 2.2.

[7] Conclusioni dell'Avvocato Generale Dàmaso Ruiz-Jarabo Colomer, Causa C-196/08, del 2 giugno 2009, punti 83-85.

[8] Cfr. P. Carpentieri, I decreti correttivi e integrativi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. e app., 2006, 629.

[9] Sia consentito rinviare al mio scritto Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006?, in questa Rivista, n. 2/2006, par. 3 e 4.

 



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