La finanza di progetto nei beni culturali
Sommario: 1. Premessa. - 2. I fatti. - 3. La finanza di progetto. - 3.1. Il dialogo tra le parti e gli interessi pubblici "responsabilizzati". - 3.2. I problemi. - 4. La finanza di progetto nei beni culturali. - 4.1. In generale. - 4.2. La discrezionalità. - 5. La sentenza. 5.1. La partecipazione e la legittimazione delle associazioni culturali. - 5.2. L'utilizzo del bene. - 5.3. Dalla conservazione alla fruizione. - 5.4. Dai divieti alla pianificazione "positiva". Il controllo delle attività economiche e la funzionalizzazione dei beni. - 6. Conclusioni.
Il partenariato pubblico-privato, la finanza di progetto e gli strumenti concessori in generale sono istituti necessari, anche se non sufficienti, per riuscire a convogliare risorse e competenze nell'ambito dei servizi di interesse generale di tipo culturale, servizi che, per svariati motivi che poi si accenneranno, altrimenti non saprebbero come "drenare" finanziamenti ed ausili di vario genere. Gli istituti in questione insomma, se si ritiene che il settore debba essere incrementato, sono destinati ad essere oggetto di un sensibile sviluppo e di un accresciuto interesse.
Prova ne è il fatto che anche le associazioni imprenditoriali, non solo per apprezzabile mecenatismo ma altresì per studiare la possibilità di promuovere originali iniziative economicamente sostenibili, stanno con dovizia di progetti interessandosi al fenomeno [1].
Sennonché, mentre lo strumento societario, pur essendo recessivo, è stato ampiamente studiato, così come è stato altresì esaminato l'istituto concessorio, scarsi sono i contributi ma soprattutto le iniziative concernenti la finanza di progetto nei beni culturali.
Si è ritenuto pertanto opportuno dedicare il presente contributo al project financing (di seguito p.f.), esaminando proprio una delle rare iniziative di p.f. nell'ambito dei beni culturali, o meglio, uno dei pochi casi che, essendo stato sottoposto all'attenzione del giudice, consente un'analisi problematica dell'istituto: la dialettica processuale molto spesso costituisce infatti un campo privilegiato per far emergere, se non la verità, i tanti punti di vista possibili di cui si compone il reale.
La vicenda ha quindi per oggetto un vero e proprio - quanto inedito - conflitto intervenuto tra una associazione di volontari, deputata alla tutela dei beni culturali, e un comune intenzionato ad esternalizzare la ristrutturazione e gestione, mediante una procedura di finanza di progetto, di un complesso monumentale. Il conflitto è stato necessariamente esteso, mediante una serie di motivi aggiunti, agli organi locali e nazionali deputati alla tutela del bene e al promotore (un raggruppamento temporaneo di costruttori).
L'associazione, come si vedrà, era nata proprio per contrastare l'iniziativa in questione o, meglio, per partecipare al dibattito concernente la valorizzazione del bene.
Gli argomenti decisi riguardano quindi, più o meno direttamente, la valorizzazione [2], i servizi aggiuntivi, l'uso individuale dei beni [3] e, soprattutto, la finanza di progetto nel settore dei beni culturali [4].
E' solo su quest'ultimo tema che, come accennato, ci si soffermerà, essendo gli altri argomenti, a seguito dei ripetuti interventi modificativi del Codice dei beni culturali che hanno riscritto per esempio gli artt. 115 e 117, già ampiamente esposti e commentati in varie sedi [5].
La vicenda e la sentenza che ha deciso il caso in questione (T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, n. 618/2007), costituiranno quindi lo spunto per accennare anche ad alcune questioni rimaste aperte in relazione all'istituto del project financing in generale [6], essendo le tematiche specificatamente decise strettamente correlate all'istituto in sé, a prescindere cioè dall'applicazione del p.f. nel settore culturale.
Si cercherà inoltre, trattandosi di questione complessa, coinvolgente aspetti tecnici e fattuali eterogenei, di soffermarsi essenzialmente sulle tesi che si sono sovrapposte, ragionando "in punta di penna" e senza prendere una posizione netta sul caso. Ciò che interessa non è infatti tanto il "pronunciato", quanto quello che potrà emergere dalla analitica scomposizione dei presupposti ideologici e culturali (impliciti, che si tenterà di far affiorare) che hanno "informato" le varie tesi in campo.
Si tratta insomma di un contributo necessariamente esplorativo (il settore infatti, notoriamente, è in continuo divenire) e, solo per comodità espositiva, per brevità, in alcuni tratti un po' semplificato e quindi provocatorio.
E' opportuno ora descrivere i fatti, che verranno poi ripresi in seguito quando si commenteranno, anche se in modo incidentale, alcuni aspetti della vicenda e la sentenza.
La sentenza affronta, come si è detto, alcune rilevanti questioni giuridiche inerenti alla valorizzazione e gestione degli "istituti e luoghi della cultura" di appartenenza pubblica. Si scontrano quindi nella vicenda due contrapposte visioni - forse entrambe un po' estreme ma comunque emblematiche e ben caratterizzate - circa il modo di gestire i beni immobili in questione.
Volendo di seguito riassumere i fatti oggetto di decisione, si rileva come il comune di Parma, al fine di destinare il complesso immobiliare (e monumentale) del cosiddetto "Ospedale Vecchio" a sede operativa di un progetto culturale riguardante i media e la comunicazione (denominato "Cittadella della Carta e del Cinema"), ha dapprima disposto una variante al piano operativo comunale - centro storico e, successivamente, ha avviato l'iter di realizzazione dei relativi lavori mediante ricorso allo strumento operativo del project financing, provvedendo quindi a scegliere il progetto presentato da un promotore.
Avverso gli atti tutti di cui sopra sono "insorti" l'associazione menzionata, denominata "Monumenta" e un cittadino proprietario di un appartamento nella zona limitrofa al complesso monumentale in questione.
In particolare, e per quanto di interesse in questa sede, le censure dei ricorrenti hanno riguardato, tra l'altro, il supposto contrasto esistente tra la variante urbanistica con la natura demaniale del bene e con il vincolo storico-artistico sullo stesso incombente, l'illegittimità del bando per essere in conflitto con il principio secondo cui il complesso monumentale sarebbe suscettibile solo di restauro scientifico e non di ristrutturazione, l'errata scelta del progetto poiché in contrasto con la necessaria pubblica fruizione del complesso monumentale, per inadeguata considerazione della rilevanza storico-artistica del bene, per mancato o insufficiente apprezzamento degli interessi pubblici coinvolti nonché per mancanza della necessaria analisi "storico critica".
Successivamente, sono stati presentati dai ricorrenti ulteriori e diversi ricorsi per motivi aggiunti con i quali sono stati impugnati, di volta in volta, gli atti e provvedimenti emanati nel corso dell'iter della procedura per la realizzazione dei lavori contestati. Tra questi si ricordano il parere della locale soprintendenza con il quale si era assentito al parziale utilizzo per scopi "privati" del complesso monumentale in questione, i vari atti con i quali si era proceduto all'analisi storico critica del complesso, il parere favorevole (anche se condizionato) reso dal Comitato tecnico scientifico per i beni architettonici e paesaggistici.
I ricorrenti hanno pertanto contestato, essenzialmente, l'indebita privatizzazione del 43,9% dell'intera superficie del complesso monumentale (per essere destinata ad attività alberghiera e ricettiva, commerciale, ad uso uffici semi-pubblici, a parcheggio interrato), l'incompatibilità dello strumento giuridico del project financing rispetto ad un bene culturale nonché l'inesistenza di un'utilità per il comune di Parma ad avvalersi di tale istituto giuridico [7].
Nonostante la molteplicità di atti impugnati e dei profili di censura sollevati, riassunti sinteticamente, il T.A.R., risolvendo preliminarmente alcune eccezioni tra le quali quella attinente alla legittimazione ad agire dei ricorrenti, si è concentrato, poiché ritenute assorbenti, solo su alcune specifiche questioni concernenti la fruizione pubblica dei beni culturali e, pertanto, di converso, i limiti all'uso privato dei medesimi.
In particolare (e rinviando ad una fase immediatamente successiva l'illustrazione sintetica delle citate questioni preliminari), il Giudice amministrativo ha concluso che per i beni in questione," non è consentita l'attribuzione in uso a soggetti terzi per lo svolgimento di attività che, ferma restando l'accessibilità da parte della generalità degli individui, abbiano il solo limite (in negativo) della non compromissione dell'integrità del bene e dei valori storico-artistici di cui lo stesso è espressione.
Quanto precede, in ragione del fatto che l'esplicita previsione dei servizi aggiuntivi di cui all'art. 117 d.lg. 42/2004 escluderebbe implicitamente ogni altra modalità di impiego del bene, identificando in modo tassativo le ulteriori attività compatibili con la sua natura".
In tal modo, a detta del T.A.R., viene pertanto confermata ancora una volta la "necessità di un uso che, per la parte principale, si caratterizzi per essere preordinato a finalità di interesse pubblico, per essere coerente con il valore culturale oggetto di tutela e per essere strumentale al pieno godimento di quest'ultimo da parte della collettività, in modo da preservare l'identità storico-artistica del bene e renderne partecipe la comunità attraverso la concreta adibizione ad una funzione che rispecchi la natura del bene, in ciò realizzandosi la destinazione alla pubblica fruizione e l'espletamento di un servizio pubblico".
Sulla base di questi principi, il Giudice adito ha quindi accolto il ricorso considerato che la riqualificazione del complesso monumentale del c.d. "Ospedale Vecchio" prevederebbe la destinazione di circa il 44% della superficie complessiva ad uso privato (attività alberghiera, esercizi commerciali e uffici). Trattasi, secondo l'organo giudicante, di un impiego del bene "che non risponde all'esigenza fondamentale di una destinazione d'uso coerente con il valore culturale protetto e strumentale al suo pieno godimento da parte della collettività e che, quindi, non ricopre la funzione di servizio pubblico prescritta".
Peraltro, nel caso di specie, l'uso del complesso monumentale neppure rientrerebbe, secondo quanto indicato in sentenza, nella categoria dei servizi aggiuntivi di cui all'art. 117 d.lg. 42/2004, non essendovi nessuna complementarietà delle attività previste nel progetto contestato (alberghiera, esercizi commerciali, uffici) rispetto alla destinazione principale del bene. In particolare, ritiene il T.A.R. adito, che debba escludersi categoricamente che l'attività ricettivo-alberghiera rientri nell'elencazione di cui all'art. 117, comma 2, mentre per quanto riguarda gli uffici, nel caso di specie non si sarebbe dimostrato il collegamento con la destinazione principale del bene. Infine, per quanto riguarda gli esercizi commerciali, il Giudice amministrativo ha valutato come si tratti in realtà di attività private completamente autonome e distinte, prive di un nesso di interdipendenza o comunque di un collegamento operativo con le funzioni espletate dal gestore pubblico nel complesso monumentale.
Si accennava peraltro anche alla risoluzione di alcune questioni preliminari, di cui si evidenziano ora gli aspetti di rilievo in relazione alla (sola) legittimazione ad agire.
Il ricorso, come detto, è stato presentato da un'associazione locale di volontariato culturale e da un privato cittadino, residente in zona limitrofa al complesso monumentale.
Per quanto riguarda l'associazione, l'organo giudicante ha riconosciuto la sua legittimazione ad impugnare gli atti poiché ricorrerebbero nel caso di specie tutti i presupposti indicati dalla giurisprudenza per ammettere siffatta legittimazione: vale a dire il perseguimento, previsto dallo statuto, di obiettivi di tutela in senso lato ambientale, la sussistenza di un adeguato grado di rappresentatività e stabilità, un'area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene la cui fruizione collettiva è pregiudicata. Ciò detto, il T.A.R. ha quindi equiparato alle associazioni a tutela di interessi "ambientali" (legittimate ex lege) quelle sorte per la salvaguardia di beni e complessi monumentali di interesse storico-artistico, ammettendo pertanto la legittimazione ad agire dell'associazione ricorrente che, dallo stesso nome e cioè "Monumenta", si qualifica come deputata alla salvaguardia dei monumenti.
Inoltre, tale legittimazione attiva è stata riconosciuta dal Giudice benché la costituzione dell'associazione in questione fosse successiva all'avvio del procedimento preordinato alla riqualificazione del complesso monumentale posto che, si legge in sentenza, in presenza dei presupposti richiesti dalla giurisprudenza sopra sintetizzati, non si può precludere a una formazione sociale di intervenire a tutela degli interessi connessi alla sua attività unicamente per tale ragione.
Non è invece stata riconosciuta la legittimazione ad agire al cittadino privato poiché non sono stati rilevati, in corso di causa, elementi idonei a differenziare la sua posizione da quella della comunità locale cui va indistintamente ricondotto l'interesse alla salvaguardia del patrimonio storico e monumentale della zona.
Ci si è dilungati nell'esposizione della sentenza al fine di far meglio comprendere la complessità della vicenda, che non sarebbe stata comprensibile con una massima riassuntiva o con un mero accenno alla (asserita) censurata privatizzazione di un bene culturale di appartenenza pubblica.
Si esporranno quindi di seguito, prima di analizzare i fatti e commentare la decisione, alcune brevi considerazioni (necessariamente preliminari, come si è detto in premessa) concernenti la finanza di progetto in generale e, in particolare, il p.f. applicato ai beni culturali.
A loro volta le considerazioni particolari, inerenti al caso di specie, serviranno per delineare un quadro generale dell'istituto (p.f. relativo ai beni in questione).
3.1. Il dialogo tra le parti e gli interessi pubblici "responsabilizzati"
La finanza di progetto, tecnica di finanziamento impiegata soprattutto nel settore degli investimenti internazionali di rilevanti dimensioni ed infrastrutturali, è uno strumento divenuto ora di gran moda anche nell'ambito di modesti interventi edilizi di rilievo locale, quali ad esempio impianti sportivi, case per anziani, asili ed altro (settori non economici) [8].
Gli enti locali hanno infatti da ultimo inteso ricorrere allo strumento in questione non solo per avvalersi delle maggiori competenze del privato, ma anche e soprattutto per evitare di indebitarsi secondo i metodi tradizionali e di incorrere nelle "strette" delle diverse finanziarie e dei vari patti di stabilità e similari.
Questo fine, non dichiarabile ma ai più noto, unitamente ad un utilizzo "coraggioso", massiccio, se non spregiudicato dello strumento, ha permesso di coinvolgere diversi soggetti ed attori (funzionari pubblici, progettisti, costruttori, esperti di finanza, esperti degli ambiti tematici oggetto dell'iniziativa) nella condivisione di progetti unitari, complessi, anche se non di rilevanti dimensioni.
Soggetti di differente estrazione, che altrimenti non sarebbero mai stati indotti a cercare di dialogare in una stessa "direzione", sono stati quindi obbligati a cercare di comprendere le ragioni degli uni e degli altri.
Soprattutto i privati hanno dovuto, in qualità di promotori, cercare di "convertirsi", di farsi carico degli interessi pubblici, diventando in questo modo parte di una amministrazione allargata e da intendersi ovviamente in senso oggettivo: il pubblico ed il privato si incontrano "in funzione" del raggiungimento di interessi (si auspica) di tipo comunitario [9].
Il dialogo tra promotore e amministrazione costituisce insomma indubbiamente un interessante banco di prova di come la discrezionalità [10], rinvenibile nella costruzione della proposta e nella successiva "dialettica" approvazione da parte del concedente, e gli interessi pubblici "responsabilizzati" [11], possano ora diventare elementi di un intenso rapporto, non necessariamente conflittuale, tra amministrazione e privati.
E' proprio grazie a questo proficuo rapporto che si è riusciti a dirottare risorse e a fornire risposte, non solo di tipo edilizio, anche in settori "non economici" o comunque considerati inidonei a produrre reddito: servizi alla persona, cultura, educazione, sport e tempo libero, beni culturali.
L'alta richiesta di servizi (pubblici locali) negli ambiti in questione, unitamente alla loro evidenziata scarsa remuneratività [12], ha prodotto però una serie di iniziative a dir poco "al limite": situazioni nelle quali il contributo pubblico era elevatissimo, snaturando lo strumento, iniziative che si poggiavano su piani finanziari pieni di ottimismo e buone intenzioni, progetti che, per mantenersi, "svendevano" il patrimonio pubblico.
Se insomma la dialettica pubblico privato, l'utilizzo di una discrezionalità "concertata" [13] e la progettualità condivisa hanno costituito, unitamente allo sviluppo di alcuni settori altrimenti destinati a non progredire, elementi di grande rilievo e positività, è anche vero che diversi sono stati, in queste finanze di progetto "di provincia", gli aspetti discutibili, quali ad esempio la riduzione della concorrenzialità, il mantenimento di situazioni di monopolio e la prevalenza, anche in settori "non economici", dei soggetti dotati del maggior numero di capitali investiti nel territorio.
Il soggetto economicamente e politicamente forte nel proprio territorio è insomma quasi sempre riuscito, oltre a presentare la proposta vincente, anche a vincere (con o senza prelazione) la successiva fase della procedura negoziata.
Molti sono stati i casi nei quali il tutto si sia risolto con un solo promotore che, a fronte della diserzione della gara di concessione bandita a seguito della proposta, sì è trovato ad essere unico interlocutore dell'amministrazione.
Lo strumento in sé è insomma scarsamente utilizzabile, se non costruito in modo adeguato, per favorire concorrenza e pluralismo: il vantaggio del dialogo rischia quindi di essere vanificato dal prevalere delle rendite di posizione dei soggetti maggiormente introdotti ed in grado di scoraggiare la presenza di competitori locali (non dotati di ingenti finanze) e di concorrenti esterni al territorio, anche se dotati di ingenti risorse economiche ed umane.
E' opportuno, non essendo questa la sede per ragionare se la concorrenza sia o meno un "bene pubblico", un valore, anche nei servizi non economici, soffermarsi comunque su quelli che sono i principali aspetti e fini problematici (riferibili al caso di specie) della finanza di progetto in generale, per passare poi ad esaminare le peculiarità della finanza di progetto nell'ambito dei beni culturali.
3.2. I problemi
Il dialogo tra pubblico e privato, all'interno della finanza di progetto, inizia già nella fase di programmazione delle opere e, per essere proficuo, richiede una elevata preparazione di tutti gli attori.
Lo strumento insomma, affinché sia utilizzabile e non ci si debba fermare al momento della mera proposta, presuppone non solo l'esistenza di un comune sentire, di una convergenza circa la necessaria sottomissione degli interessi del privato e della p.a. alla supremazia dell'interesse pubblico, ma anche una contemporanea ed omogenea competenza tecnica di tutti i soggetti.
Se per esempio il finanziatore è esperto ma non lo è il costruttore promotore, il tutto è destinato a fermarsi al primo passo (la proposta): difficilmente infatti la p.a. ha la possibilità (giuridica) e la propensione di andare a correggere gli errori commessi dal promotore (caso in cui la proposta o la bozza di convenzione siano assolutamente lacunose).
Lo stesso discorso vale ovviamente nel caso in cui la scarsità di nozioni ed informazioni faccia capo alla p.a.; il tutto si complica ulteriormente quando sia l'insieme dei diversi soggetti, nel complesso, a mancare, come capita in molte finanze di progetto di provincia, delle più elementari nozioni [14].
La problematica di cui sopra si riflette in modo evidente anche in un'ulteriore caratteristica del p.f. e cioè il fatto che la stesso possa incidere, in modo significativo, in un ambito ricollegabile all'attività pianificatoria dell'ente.
La proposta cioè, essendo presentata dal privato (il più delle volte costruttore, non pianificatore) in assenza di una previa progettazione preliminare da parte dell'ente, non sempre è redatta avendo la chiara percezione e preoccupazione di come debba essere coordinata con la programmazione - dell'uso del territorio, ma non solo - della p.a. Sono cioè i privati attenti "curatori" - o meno - dei pubblici interessi? [15].
Capita insomma che, legittimamente o meno, il privato, per consentire la redazione di un progetto equilibrato sotto il profilo economico, non tenga conto appieno dei vincoli urbanistici, chieda come corrispettivo la trasformazione (in termini di destinazione) e la conseguente "valorizzazione" di terreni od altro.
Questa spinta tende e tenderà certamente a favorire una "consumazione" del territorio ed una "svendita" di beni pubblici (alienazione consentita dall'art. 143, comma 5 del d.lg. 12 aprile 2006, n. 163) che, unitamente alla tentazione già rilevata a reperire fondi con gli oneri concessori [16] e alle incentivate tornate di dismissioni immobiliari [17], potrà alla lunga mettere a dura prova e rischio tanto l'assetto dei nostri territori quanto il patrimonio delle amministrazioni.
Le evenienze in questione possono paradossalmente essere scarsamente rilevanti e di minor impatto nella finanza di progetto afferente alle grandi infrastrutture strategiche, essendo stata dettata una normativa ad hoc (art. 175 ss. del Codice dei contratti), essendo promossa da soggetti aventi normalmente tutte le competenze anche "pianificatorie" del caso e trattandosi di iniziative che molto spesso, tranne che nei casi più eclatanti (si vedano gli scontri in Val di Susa per l'alta velocità ferroviaria), trovano in lauti indennizzi l'esito scontato del dibattito.
I medesimi accadimenti possono invece assumere una certa importanza e una maggiore "bellicosità" proprio negli interventi modesti degli enti locali, ove la possibilità di addivenire a dei compromessi da tutti condivisi è remota.
La scarsità di risorse degli enti locali e il maggior controllo che possono esercitare i cittadini con l'elezione diretta del Sindaco, rispetto all'indiretto controllo che può esercitarsi sul Governo (lontano) mediante l'elezione di parlamentari che, con l'attuale legge elettorale, rispondono più ai partiti nazionali che ai cittadini, inducono insomma ad una forse più elevata partecipazione "conflittuale".
Nelle iniziative strettamente ed unicamente locali vi è, infatti ed in proporzione, un maggior numero di persone direttamente coinvolte (in senso negativo, altrimenti non protesterebbero) dalla cementificazione e dalla commercializzazione forzate, rese necessarie per reperire fondi mancanti. Anche i rischi vengono concentrati necessariamente in un territorio ad alta densità di presenza umana, con l'impossibilità di suddividere in modo significativo, tra i molti appunto, le scarse risorse esistenti per iniziative di mitigazione degli impatti negativi.
In sintesi: il fatto che siano direttamente coinvolte e potenzialmente danneggiate in modo diretto molte persone, a fronte di scarsi investimenti possibili, tanto di ordine finanziario quanto di altro genere (se il territorio scarseggia o è densamente popolato mancano anche gli spazi per iniziative compensative), determina un'allocazione squilibrata dei rischi, degli oneri e delle opportunità tra (un ideale) centro e periferia.
I predetti fenomeni indesiderati nascono anche dalla caratteristica che, essenzialmente, differenzia la concessione [18] dalla finanza di progetto.
Nella concessione, tanto di servizi quanto di lavori e servizi, è il pubblico che concede al privato di espletare quello che spetta o spetterebbe alla p.a. Nella finanza di progetto è invece il privato che concede all'amministrazione la propria idea, munita dei necessari piani e programmi (la proposta), affinché venga poi (sempre dalla p.a.) bandita una nuova e diversa gara aperta a tutti.
La differenza non è priva di significative implicazioni.
Nel primo caso è l'amministrazione che si fa carico delle problematiche inerenti ai costi (non solo economici) dell'opera e della "partecipazione", nel secondo caso è invece il privato che, privo delle necessarie competenze e conoscenze di tipo politico-partecipativo, privo altresì di legittimazione al confronto con i cittadini e con gli organi tecnici quali soprintendenze od altro, redige il progetto preliminare e propone le modalità realizzative e gestionali del caso.
Questo significa che, pur con tutta la buona volontà del privato, quest'ultimo si trova, in un momento diverso da quello originario, ideativo, spesso addirittura in fase esecutiva, a dover discutere con cittadini e con gli organi "terzi" delle problematiche che avrebbero dovuto essere già risolte in sede di progettazione preliminare.
E' la relazione introduttiva del preliminare che, in base all'art. 93 del d.lg. 163/2006, dovrebbe infatti risolvere le problematiche di inserimento dell'opera in un determinato contesto, ambientale, culturale, economico e sociale [19]. Sennonché quando il promotore redige il preliminare non ha quasi mai le informazioni che servirebbero e, soprattutto, non ha la possibilità di discutere con i vari soggetti che dovrebbero fornire le delucidazioni del caso; non ha inoltre una veste qualificata per sollecitare le istanze partecipative che, se trascurate, tenderanno a sfociare in accesi dibattiti o in vertenze radicabili presso la giustizia amministrativa.
Non sempre insomma quello che proviene dal privato è più celere, efficace ed efficiente. Gli stessi problemi che avrebbe dovuto affrontare la p.a. con la concessione, nella finanza di progetto emergono, con più forza, trattandosi di procedura con più fasi (ad ogni cascata la velocità dell'acqua sembra aumentare), nei diversi momenti che vedono il progressivo unirsi di una pluralità di soggetti aventi competenze e interessi differenti e spesso confliggenti: banche e promotore prima, p.a. e cittadini dopo, unitamente al gestore e ad enti terzi ed altro.
La conferenza di servizi è del resto stata originariamente prevista essenzialmente con il concessionario (ex art. 14, comma 5, legge 7 agosto 1990, n. 241, ad aggiudicazione avvenuta), non con il proponente, che è quel soggetto, appunto, che redige la proposta - corredata del relativo progetto preliminare - che costituirà la base, se vittoriosa prima e approvata poi, della successiva gara di concessione [20].
In questa prospettiva riesce difficile comprendere come e dove possa essere risolto il nodo della partecipazione [21], partecipazione che dovrebbe assumere un rilievo non solo politico (i cittadini) ma anche meramente consumeristico (gli utenti consumatori), dal momento che la finanza di progetto è uno strumento rivolto (non solo e non tanto a soddisfare l'esigenza di realizzare un progetto, costruire un'opera, ma) essenzialmente ad assicurare l'espletamento di un pubblico servizio rivolto a soggetti terzi rispetto alla p.a. e cioè agli utenti [22].
La partecipazione [23], il "consenso informato" e le adeguate competenze di tutti gli attori costituiscono insomma le condizioni necessarie per ridurre l'elevato tasso di mortalità delle iniziative di cui trattasi [24].
Emerge quindi, da quanto esposto, come vi sia un rinnovato interesse per la finanza di progetto e per i contratti di tipo complesso come sono ad esempio il dialogo competitivo, l'accordo quadro, i sistemi dinamici di acquisizione. Si tratta di un interesse positivo che ha visto un proficuo confronto tra tecnici, economisti e giuristi in relazione all'individuazione e correzione di problematiche insite nelle procedure in questione quali sono la cronica debolezza informativa della p.a., che alimenta fenomeni di opportunismo precontrattuale (informazioni nascoste) o postcontrattuale (collegate all'incompletezza della convenzione originaria) da parte del contraente privato [25]. Occorrerebbe però forse anche un ulteriore approfondimento dei profili più propriamente pubblicistici, quali ad esempio la partecipazione [26].
Gli studi in tal senso potrebbero, unitamente al giusto sviluppo delle analisi delle tecniche e delle buone pratiche, aumentare anche il grado di efficienza ed efficacia dei procedimenti, diminuendo i contenziosi derivanti da asimmetrie informative o da difetto di partecipazione; è all'interno di un percorso condiviso che possono essere meglio risolti i problemi afferenti allo scontro di interessi, pubblici e privati, altrimenti confliggenti usque ad vitam [27].
Questo significa che un'adeguata istruttoria andrebbe forse fatta, dall'amministrazione appaltante, ben prima della pubblicazione dell'avviso indicativo. Ciò al fine di far emergere subito tutti gli interessi rilevanti. Chi ha un minimo di esperienza di finanze di progetto "locali" sa che questo non avviene praticamente mai, ed è per questo che molte iniziative, come si è detto, languono a lungo in attesa di un intervento (esterno) di "eutanasia".
Riassumendo: la necessaria compresenza di diversi attori aventi differenti competenze, le asimmetrie informative, una difficile allocazione dei rischi e degli oneri, l'esistenza di una pluralità di interessi confliggenti, il nodo irrisolto della partecipazione e la tendenza a "sfruttare" oltre modo i beni pubblici, oltre a evenienze tecnico-normative quali l'abolizione della prelazione per il promotore [28], costituiscono, nel loro insieme, fattori problematici atti a "raffreddare" l'interesse degli operatori per l'istituto e a rallentare comunque l'iter di realizzazione delle iniziative in questione.
Alla luce di quanto sopra (si tratta di aspetti che ritroveremo quando verrà commentata la sentenza) è quindi ora possibile scendere nello specifico degli aspetti problematici riguardanti proprio i beni culturali o similari.
4. La finanza di progetto nei beni culturali
4.1. In generale
Le iniziative di cui trattasi, bandite in relazione ai beni oggetto di tutela, scontano, se così si può dire, tutte le incertezze e le contraddizioni sopra evidenziate, con l'aggiunta di ulteriori difficoltà riconducibili alla specificità dei beni stessi.
La specialità della normativa inerente la cultura (d.lg. 42/2004 con le successive svariate modificazioni) si riflette insomma anche nella singolarità delle questioni da risolvere e deriva appunto dalle caratteristiche dei beni, dalla "sensibilità" degli stessi [29].
I beni in questione cioè non sono meri mezzi, come potrebbero essere un immobile pubblico destinato ad uffici, avendo anche e soprattutto un valore intrinseco, da tutelare e valorizzare al di là dell'appartenenza (pubblica o privata), dell'utilità pratica ed economica del bene, al di là del suo apprezzamento o meno da parte della collettività potenzialmente fruitrice.
Si potrebbe anche affermare - e non si tratta di una contraddizione ma del mero disvelamento dell'altra faccia della medaglia - come i beni pubblici, in specie quelli culturali, siano degni di considerazione ed investimenti se ed in quanto siano riconosciuti ed amati dai cittadini, siano funzionali e "serventi" rispetto alle esigenze, alle idealità ed all'identità della collettività (beni identitari), al progresso (economico, morale e culturale) della stessa.
Ma se è cosi, ne deriva come ogni considerazione inerente alle modalità d'uso e di sfruttamento del bene possa essere oggetto di una complessa discussione tra i vari attori che, mai come nel settore di cui trattasi, sono numerosi e fieramente portatori di interessi pubblici di rilievo.
Si pensi al caso di una piazza di pregio avente valore "identitario" per essere stata oggetto di uno storico mercato popolare, ancora attivo. Il bene in questione potrebbe essere potenzialmente di interesse di diverse soprintendenze [30], considerato identitario per i cittadini, di indiscutibile valore per i commercianti stanziali e per quelli (ambulanti) che potrebbero transitare; dovrebbero avere voce in capitolo anche le associazioni degli operatori - magari in conflitto tra di loro - e le associazioni volontarie di tutela dei beni culturali.
In relazione ai tempi ristretti concessi per presentare la proposta, e considerato che quando l'ente locale bandisce l'avviso indicativo il più delle volte non fa altro che palesare un mero desiderio, si può comprendere la difficoltà per il promotore (la maggior parte dei casi un costruttore) di formulare un'ipotesi credibile prima e approvabile poi.
Il tutto non potrà che trasformarsi, in assenza di una stazione appaltante particolarmente competente e decisa, in una sorta di work in progress, in un dinamico e continuo mutamento di prospettive, di proposizione di continue varianti destinate ad accompagnare l'intero iter (approvazione condizionata della proposta, successiva gara di concessione, negoziazione tra p.a., vincitore della concessione e promotore) della procedura in esame.
Con quali competenze (il problema delle informazioni, simmetriche o meno) e con quale legittimazione (il nodo della partecipazione) del resto il promotore potrebbe farsi carico, anche in senso lato politico, di tutto ciò? Con quale autorità l'ente locale, a sua volta molto spesso poco competente nel settore tecnico-specialistico in questione, potrebbe indire una conferenza di servizi, e con chi indirla e quando?
Si tratta, come è agevole comprendere, di interrogativi di non facile soluzione, che coinvolgono non solo questioni meramente tecniche, di tecnica del diritto della negoziazione, ma anche di diritto amministrativo in senso stretto, riguardando l'utilizzo più o meno corretto di una discrezionalità ampiamente esercitabile (quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando?).
4.2. La discrezionalità
Il problema della discrezionalità richiama un'altra caratteristica della finanza di progetto che può essere vissuta in modo conflittuale nell'ambito dei beni culturali.
Si tratta di questo. Nelle opere "calde" [31] il piano economico finanziario normalmente può essere congruo anche senza che si debba stravolgere il normale utilizzo del bene, senza che si debba violare la naturale vocazione (dignità e decoro) dello stesso. Lo stesso dicasi per il servizio afferente: se il servizio pubblico è già di per sé sufficientemente remunerativo, non occorre esasperare l'incremento di servizi ulteriori, appunto aggiuntivi, che potrebbero compromettere il carattere culturale del bene e del servizio. Fuori i mercanti dal tempio, si direbbe.
Che cosa accade invece quando il servizio è già di per sé obiettivamente - per vocazione intrinseca - in perdita, come accade normalmente nelle opere/servizi di cui trattasi, considerati appunto freddi?
Le possibilità, in termini appunto di discrezionalità, sono svariate.
Si può, in primo luogo, decidere di non porre in essere l'iniziativa (an). Si tratta di una scelta difficile e controcorrente ma che ha il pregio di salvaguardare l'integrità - in senso meramente conservativo - del bene, che verrebbe altrimenti utilizzato per fini impropri, non dignitosi e consoni al carattere intrinsecamente culturale del bene stesso.
Un'altra possibilità, di fronte a tale evenienza, consisterebbe nel decidere i tempi dell'iniziativa (quando), magari attraverso il frazionamento dell'iniziativa o un mero rinvio a tempi migliori, nei quali il fortuito ritrovamento di uno sponsor o di fondi pubblici residui possano permettere la corresponsione di un contributo al concessionario, in modo da rendere appetibile l'iniziativa. Il rinvio potrebbe altresì essere determinato per consentire un ampio coinvolgimento di tutti i soggetti potenzialmente interessati.
Da ultimo si può ragionare di modalità e contenuti dell'iniziativa (quid e quomodo).
Al fine cioè di rendere economicamente sostenibile la commessa, l'ente locale potrebbe consentire, da subito e cioè nell'avviso indicativo, la possibilità di un uso diffuso del bene per finalità di tipo commerciale/aggiuntivo (visione "aperta" e dinamica). Si potrebbe, per esempio, prevedere il fatto di poter utilizzare ampi spazi - non la maggioranza però - di un bene immobile per finalità ed attività ad alto tasso di redditività, in modo da lasciare il resto (la maggioranza) degli spazi adibiti ad una fruizione esclusivamente culturale.
Il rapporto tra quantità degli spazi destinati a fruizione puramente culturale, pubblica e locali sfruttabili, in modo più o meno inteso, per attività commerciali ed aggiuntive, dovrebbe essere proporzionale e graduabile in relazione a qualità e caratteristiche tanto del bene in sé, quanto del servizio pubblico e dei servizi lucrativi.
Se il bene, ad esempio, consistesse in una antica chiesa, non si potranno usare gli spazi della stessa per un ostello, inibendo oltretutto la fruizione dello stesso tempio a coloro che non abbiano interesse a soggiornare, ferma restando la possibilità invece di aprire un punto vendita e ristoro in locali limitrofi adibiti a canonica. Se invece l'iniziativa consistesse nella ristrutturazione e gestione di un antico convento, non sarebbe in astratto incompatibile con il carattere del bene adibire a funzione ricettiva-alberghiera una parte dell'immobile, ferma restando la possibilità per tutti di fruire, seppure in modo limitato (circoscritto a delle visite guidate) di tutti gli spazi, anche di quelli destinati alla ricettività.
Così pure se si dovesse provvedere alla sistemazione di un bene avente rilievo culturale "minore" [32], da tempo abbandonato e recante ampi spazi di scarso pregio, ebbene, non vi è dubbio che i locali "di servizio" ben potrebbero essere ampiamente sfruttati per fini lucrativi.
Le decisioni da assumere, come si visto, tutte estremamente varie e complesse, sono il più delle volte assunte, nell'ambito degli enti locali, da soggetti non muniti di specifica preparazione, che, non avendo dei parametri normativi certi, matematici, non esistendo una norma per esempio che determini il rapporto tra spazi di pura fruizione e spazi "aggiuntivi", saranno indotti ad assumere le decisioni più convenienti (lucrative) per l'amministrazione, non necessariamente per il bene immobile in sé e per la collettività.
La complessità, sempre inerente al quid e al quomodo, consiste altresì nel fatto che non è facile coordinare mezzi, fini e visione strategica.
Una visione estremamente prudente, negativa e conservativa, che negasse appunto la presenza di mercanti nel tempio, avrebbe infatti - e paradossalmente - lo svantaggio di poter minare, come eventualità, le basi stesse del tempio, vivendo in periodi nei quali come è noto è difficile, per gli enti locali, reperire fondi anche per semplici ed indispensabili opere di consolidamento statico.
A volte può essere meglio, al fine di permettere comunque una fruizione ed un godimento da parte della collettività (e lo si dice provocatoriamente), forzare un poco ed a termine, quanto all'uso, la dignità ed il decoro del bene stesso (ferma restando la sua conservazione fisica), essendo in fondo quest'ultimo servente rispetto alle esigenze culturali dei cittadini.
Lo stesso non potrebbe dirsi di beni aventi un contenuto intrinseco assoluto ed intoccabile: in tal caso le esigenze finanziarie e della fruizione dovrebbero essere recessive rispetto alla conservazione del carattere culturale del bene, da salvaguardare in sé e per sé, oltre che per i posteri.
Come si è visto l'esercizio della discrezionalità (pura, tecnica, in tutte le sue forme) non potrà essere mai limitata in modo stringente da norme di dettaglio ed assolute, essendo la natura, l'apprezzamento e la classificazione del bene affidata anche al divenire, alla storia e ai vari accadimenti contingenti [33].
Ma se è così, ne consegue come la conflittualità circa l'utilizzo di detti beni, non essendo chiaramente e in ogni particolare circoscrivibile l'esercizio della discrezionalità, non potrà che aumentare. Ciò in quanto si è passati da una visione conservativa, negativa (il bene deve essere essenzialmente salvaguardato dall'arrivo dei Barbari, dei Vandali), ad una considerazione attiva e positiva [34] della tutela e della conservazione, ad un'impostazione dinamica che vede, conformemente alla concezione aperta di cui all'art. 9 della costituzione, nella valorizzazione/fruizione il centro e l'obiettivo di una normativa specialistica di settore.
E' possibile ora, riassumendo, riscontrare come la partecipazione e la conflittualità, stante le caratteristiche e gli aspetti problematici evidenziati circa l'uso della discrezionalità in relazione ai diversi passaggi potere-funzione-procedimento, possano costituire quindi elementi di rilievo a partire dalla prima delle fasi di cui si compone la finanza di progetto e cioè dalla programmazione (la decisione della p.a. di valutare la possibilità di realizzare un'opera mediante p.f.), per poi accompagnare tutto il percorso e le successive fasi della procedura, sino al completamento dell'opera e alla conseguente gestione del servizio.
Gli utenti, del resto, singoli o associati, come riscontrabile dalla ripetuta enfasi che viene posta sulle varie carte dei servizi, hanno la possibilità di manifestare le proprie lamentale dall'inizio dell'iter sino alla fine della gestione.
In ogni punto del percorso si annidano insomma possibili doglianze tra i svariati soggetti ed attori comunque coinvolti nell'iniziativa, tanto in senso orizzontale (varie e diverse componenti della società civile, tra di loro, come nel sopra riportato esempio della piazza-mercato), quanto in senso verticale (enti sotto ordinati che contestano le decisioni degli enti superiori o in ogni caso più autorevoli per competenza funzionale).
Fatte queste dovute premesse, è ora possibile svolgere qualche considerazione in relazione alla complessa fattispecie concreta sottoposta all'esame del Collegio giudicante, fattispecie nella quale sono rinvenibili anche altre tre problematiche, ulteriori rispetto a quelle evidenziate, e cioè: a) se la finanza di progetto sia, in assoluto, praticabile nel settore dei beni culturali; b) se le associazioni culturali siano "legittimate" a far valere le istanze del caso anche nell'ambito del contenzioso giudiziale (sul punto si farà solo un breve accenno); c) chi debba, da ultimo, decidere dei conflitti circa l'utilizzo del bene.
5.1. La partecipazione e la legittimazione delle associazioni culturali
La rilettura della sentenza e, soprattutto, l'analisi della vicenda oggetto della decisione, resa possibile dall'acquisizione dei documenti sui quali il conflitto si era radicato, consente ora di confrontarsi - in modo non solamente teorico - con la concretezza delle problematiche sopra evidenziate in via generale.
Occorre quindi riscontrare come, attraverso il processo, non essendo stato possibile un coinvolgimento preventivo, l'associazione culturale si sia posta, da subito, in una posizione di partecipazione oppositiva. L'associazione del resto, pur avendo successivamente proposto dei percorsi alternativi a quelli presentati dal promotore, non poteva far altro, in ragione dei ben noti termini decadenziali brevi per ricorrere, che impugnare gli atti - a partire dagli atti pianificatori - dinnanzi al tribunale competente.
Questo ha comportato però un conseguente e comprensibile irrigidimento degli altri attori e cioè dell'amministrazione locale e del promotore.
Non essendo insomma stato possibile, forse per la natura stessa della finanza di progetto (che "parte" dal proponente, il più delle volte costruttore, non dall'ente locale) promuovere la partecipazione, più o meno diffusa, di cui al comma 3 del d.lg. 42/2004, lo scontro si è naturalmente radicalizzato. Si è arrivati a far decidere all'autorità giurisdizionale una questione tecnicamente e politicamente complessa circa il corretto utilizzo di un bene della collettività.
Ma non è forse la collettività, trattandosi di beni afferenti al demanio locale, che dovrebbe decidere, in questo orientata dalla competenza tecnica della Soprintendenza, come pianificare la valorizzazione e l'utilizzo degli immobili di cui trattasi?
A questo proposito si ricollega un'altra censura formulata dai ricorrenti e cioè quella concernente la compatibilità o meno della finanza di progetto con i beni in questione.
Se gli immobili aventi rilevanza culturale sono, come si è detto, sensibili, quindi naturalmente vocati a "dialogare" con i cittadini fruitori, è possibile utilizzare uno strumento che, per la sua strutturazione (la proposta proviene da un imprenditore commerciale, non dall'ente pubblico) impedisce ab origine la partecipazione?
Se è vero che, in astratto, il confronto potrebbe avvenire al momento dell'approvazione o meno della proposta, è anche vero che, in concreto ed in base al dato normativo, i possibili adattamenti della proposta dovrebbero essere minimi (vanificando la partecipazione), pena la violazione del principio della par condicio, della trasparenza ed altro. Il promotore soccombente nella prima fase potrebbe infatti lamentare, a torto o a ragione e nel caso in cui il contributo dei cittadini fosse incisivo, il fatto che il progetto del vincitore sia stato stravolto e che quindi dovrebbe essere esplicata una nuova gara [35].
In altre parole, sviluppando e interpretando la censura formulata in giudizio, si può affermare che se in astratto è consentito, in base al mero dato normativo, utilizzare lo strumento in questione per i beni culturali, ebbene, non è detto che la tecnica di cui trattasi debba essere necessariamente utilizzata. Tutto è lecito ma non tutto giova, si direbbe.
Forse è per questo che il Giudice ha un po' "forzato" [36], ammettendo la legittimazione dell'associazione culturale ad hoc costituita, quelli che sono i principi generali in materia di legittimazione ed interesse ad agire.
Si è inteso forse rimediare ad una lacuna normativa, alla particolarità di uno strumento che poco si presta all'apporto collaborativo dei cittadini, equiparando l'interesse (diffuso) a partecipare con l'interesse e la legittimazione ad agire, facendo coincidere o comunque creando un "continuum" tra interesse sostanziale e interesse processuale, tra legittimazione sostanziale e legittimazione processuale [37].
In questo emblematico conflitto tra pubblico (ente locale) e privato (i cittadini attivi, organizzati) si è forse perso, è rimasto sullo sfondo, il ruolo di altri fondamentali soggetti e cioè la Soprintendenza prima e il Comitato tecnico scientifico presso il Mibac poi.
Se è insomma plausibile che l'interesse dell'ulteriore parte privata e cioè il costruttore-promotore sia stato sacrificato, essendo indennizzabile ed essendo recessiva l'esigenza dello stesso di produrre reddito rispetto all'interesse pubblico consistente nella salvaguardia del bene, non è comprensibile come non si sia tenuto conto dell'apporto "partecipativo" ed autorevole del Comitato tecnico scientifico per i Beni Architettonici e Paesaggistici. Il Comitato aveva infatti, da ultimo, fornito un parere favorevole, anche se condizionato, all'iniziativa.
5.2. L'utilizzo del bene
E' più agevole ora esaminare, alla luce delle premesse generali e delle evidenziate particolarità, quello che è forse il "cuore pulsante" della sentenza e cioè i ragionamenti ed i principi riferibili all'uso, alla consistente destinazione "privata" (anche se non maggioritaria) dell'immobile, alla asserita tipicità dei servizi aggiuntivi, alla nozione di servizio pubblico (qui inteso come necessariamente rivolto a tutti i potenziali fruitori, senza limitazioni), al rapporto tra servizi aggiuntivi e finanza di progetto, in questo caso ridotta ad un mero strumento rispetto alla fruizione, senza tener conto della funzione anche "conservativa" del p.f.
Si tratta, come è agevole constatare, dell'essenza, del cuore del dibattito attuale circa la valorizzazione, ad opera dei privati, dei beni culturali di appartenenza pubblica ed è in questa prospettiva che si esaminerà il caso.
Ebbene, l'interessante ed originale modo di argomentare del Collegio giudicante, che ha avuto modo di confrontarsi con una tematica non facile e nuova, essendo rare le iniziative similari sfociate in contenzioso, si può così riassumere ed interpretare.
Ogni iniziativa volta ad intervenire e ad incidere, in qualsiasi modo, su di un bene vincolato, deve assolutamente tener conto, in modo uguale, tanto dell'identità storico-artistica del bene quanto del necessario godimento dello stesso ad opera dei cittadini. Questo significa che la dignità del bene è assoluta, così come indiscutibile deve essere la piena fruibilità da parte dei cives.
Che fare quindi nel caso in cui dovessero mancare i fondi per un'eventuale ristrutturazione dello stesso o per permettere un'apertura continuativa nei confronti del pubblico?
Interpretando alla lettera la massima ed il contenuto della sentenza, si dovrebbe esercitare un tipo di discrezionalità rigorosa, sino ad arrivare alla decisione (l'an) di non effettuare l'iniziativa, non potendosi umiliare la dignità intrinseca del bene - consentendo usi non consoni per rendere redditizio il bene - e non essendo consentita una limitazione del godimento pubblico per aumentare lo sfruttamento dello stesso bene a fini economici.
Quanto sopra deriverebbe, come si è accennato: a) dalla natura intrinseca del bene, assoluta, non "dimidiata" né svalutabile per esempio a causa della degradazione della struttura conseguente al mancato utilizzo della stessa o ad un utilizzo da tempo "non culturale"; b) dalla caratteristica del servizio di valorizzazione, inteso, anche nella sua versione "minore", strumentale (i servizi aggiuntivi), come servizio pubblico (il pubblico non sarebbe in alcun modo escludibile e solo pochi limitatissimi spazi potrebbero essere asserviti ad utilizzo "speculativo", purché servente).
Ma se così è, ne consegue anche come l'uso, nel nostro caso - e diversamente da come accennato in sentenza - da intendersi come mero sfruttamento e non come uso privato ai sensi dell'art. 106 del Codice, debba essere ricollegabile interamente al (servizio) pubblico di valorizzazione tanto sotto il profilo qualitativo quanto quantitativo. La p.a. dovrebbe cioè consentire lo sfruttamento del bene ad opera del privato solo per fini decisamente culturali e non sarebbero consentite, negli spazi ricavabili nell'immobile, altre opportunità di utilizzo, specie se "esclusive" e non accessorie.
In tale prospettiva è comprensibile il fatto che i servizi aggiuntivi siano stati considerati tipici in quanto a classificazione e meramente strumentali alla valorizzazione/fruizione (non anche alla conservazione).
Corollario dell'assunto è l'aver considerato tutti gli usi non riconducibili in senso stretto ai servizi aggiuntivi come vietati, in quanto non rispondenti al modello normativo e quindi per definizione - almeno in potenza - lesivi del carattere culturale del bene da una parte e delle ragioni del mercato dall'altra [38].
Il tutto nasce dalla circostanza che si è optato per una visione "rigida", anche se ovviamente ammissibile, di servizio pubblico e di cultura e non si è ragionato circa la peculiarità della finanza di progetto rispetto agli altri istituti (concessione di valorizzazione ed altro).
5.3. Dalla conservazione alla fruizione
La sentenza, come è facile riscontrare dalla lettura del testo integrale, non dice esattamente questo. Si è cercato infatti, partendo dall'esame della fattispecie concreta e considerato che sono stati annullati gli atti impugnati (nonostante il parere favorevole del Comitato tecnico scientifico per i Beni architettonici e paesaggistici presso il Mibac), di ricostruire, come idealtipo, quella che poteva essere la premessa ideologica del giudicante. Si è altresì individuato in una teoria di tipo conservativo, oggettiva, rivolta alla assolutizzazione del valore del bene in sé, lo sfondo culturale che ha illuminato la visione - tipica e legalitaria (quindi necessariamente riduttiva) - della valorizzazione e dei servizi aggiuntivi [39].
E' ora interessante vedere come si sarebbe potuti arrivare forse ad una diversa conclusione, in assenza di parametri normativi certi e considerato il conseguente ampio grado di discrezionalità utilizzabile, adottando una differente impostazione concettuale.
Occorre, a questo proposito, partire da una concezione positiva e "interventista" e cioè dal convincimento che un bene culturale, se abbandonato per troppo tempo, rischia di perdere la propria dignità, l'identità che ne consente appunto l'identificazione come bene "sensibile". Un prolungato disuso è peggio di un temporaneo e parziale uso non conforme, dal momento che allontanerebbe i cittadini dalla percezione della valenza intrinseca e identitaria del bene, con il rischio di far perdere, nel tempo, la cognizione dello stesso valore del bene.
Questa impostazione di tipo soggettivo, che dà rilievo appunto al soggetto che vede e fruisce, è affetta dall'ansia della ristrutturazione, dalla necessità di intervenire cioè non solo per mantenere in essere il bene (in questo caso basterebbero meri consolidamenti statici), ma anche per renderlo effettivamente utilizzabile, in modo tale, magari, da inventare dei modi di fruizione nuovi ed ulteriori rispetto a quelli originari, che aggiungano valore culturale al bene mediante singolari "addizioni", attraverso una sedimentazione di diversi e plurimi usi che si susseguano nel tempo.
E' la dinamica visione che ha consentito e prodotto, a volte, degli "incroci" migliori delle opere originarie. In che cosa consiste del resto la bellezza e peculiarità del nostro paesaggio urbano se non nella sovrapposizione di diversi stilemi e modelli (architettonici e di utilizzo) che si susseguono nel tempo?
Ma che fare di fronte alla cronica carenza di fondi, al fatto che, se riesce difficile trovare risorse per servizi alla persona indispensabili (si pensi all'aumento degli anziani, all'incremento di domanda di servizi all'infanzia, alle nuove povertà), non è forse possibile impiegare ingenti fondi per ristrutturare beni che, differentemente dalle persone, possono aspettare? Primum vivere deinde philosophari, ci ricorda il filosofo ed è il motto che potrebbe informare il convincimento di molti dirigenti pubblici che, come è noto nei piccoli comuni, hanno la competenza congiunta nei servizi sociali e nella cultura.
Come non creare un conflitto, all'interno delle attività considerate non economiche (cultura e servizi alla persona), tra esigenze culturali (da ricchi, si direbbe, anche se tutelate costituzionalmente) e imprescindibili necessità di giustizia e solidarietà ricollegabili, fra gli altri, agli artt. 2 e 3 della Costituzione?
Ebbene, al fine di fornire una seppur parziale e provocatoria risposta alle predette domande, è pertanto forse possibile argomentare nel senso di ritenere praticabili, nel solco di una tesi interventista, iniziative che gravino lo stesso bene degli oneri, non solo finanziari, necessari per contemperare l'interesse conservativo del bene e la fruizione collettiva dello stesso.
In altre parole, se non è possibile o giusto, in base al quadro costituzionale e al sentimento diffuso, onerare i soggetti disagiati, dai malati ai disabili, dei costi inerenti alle prestazioni agli stessi erogate, se non è giusto, come non è, ridurre la spesa per i predetti soggetti compromettendone la dignità, è invece forse possibile addossare ai beni culturali (in relazione alle caratteristiche specifiche degli stessi) dei pesi e delle diminuzioni - anche se lievi ed a termine - che, senza comprometterne l'utilizzo futuro a fini "puri", ne aumentino la redditività.
Con questo si vuole affermare che una visione purista può essere forse contemperata, proprio al fine di recuperare il bene, da una visione che forzi i concetti "liquidi" [40] di cui all'articolato (artt. 20, 106, 115 ss.) del Codice, che declini i concetti di valore culturale protetto, di carattere storico artistico (la quidditas [41]) e di dignità del bene in relazione alla dinamicità del concetto stesso di cultura.
Si consideri del resto che non è completamente corretto affermare che i servizi aggiuntivi siano un unicum interamente riconducibile al concetto di pubblico servizio, posto che alcune attività espressamente citate, per esempio i servizi di pulizia, sono chiaramente scorporabili e quindi riconducibili alla consistenza di un mero servizio [42]. Le attività aggiuntive, fin dai loro esordi, sono quindi state concepite per mettere a reddito il bene, per "forzare" una visione purista e meramente conservativa che, alla lunga, avrebbe pregiudicato la stessa sopravvivenza materiale dei beni, oltre che la loro fruizione.
In questa prospettiva non è necessario e forse esaustivo parlare di tipicità, quanto all'elencazione, dei servizi aggiuntivi, anche in considerazione del fatto che l'art. 117 del Codice sembra consentire una visione aperta, teleologica (il fine è di "rianimare" il bene) delle attività in esame e che, nell'ambito dei servizi, lo stesso carattere delle tipicità è ormai messo in discussione.
La visione non ristretta, non tipizzante delle prestazioni in questione è resa possibile anche dalla circostanza che, come è noto, ogni aggiunta al nucleo centrale del pubblico servizio deve ora essere reperita tramite procedura concorsuale, non solo per i principi generali dell'evidenza pubblica comunitaria, applicabile in modo residuale stante la sottrazione delle attività in questione al diritto comunitario, ma anche e soprattutto per un dato di diritto positivo che non lascia più alcun margine ad interpretazioni protezioniste (il nuovo art. 115, 117 ed altri del Codice).
Il fatto cioè che un uso/prestazione ricada nel novero degli artt. 115 e 117 o meno, ora non rileva ai fini dell'attribuzione di privilegi quali ad esempio l'esonero dalla messa in concorrenza. Non c'è pertanto più una ragione stringente per interpretare in senso letterale, legalitario e quindi tipizzante l'elenco di cui al predetto art. 117, ragione che vi sarebbe invece qualora l'elenco potesse essere utilizzato per sottrarre alla libera competizione ed all'imprenditoria privata una fascia di mercato.
Una visione più liberale, per così dire, e meno conservatrice, circa le modalità di utilizzo dei beni in questione, può derivare anche dalla circostanza che nel Codice non vi sono particolari divieti neppure per l'alienazione [43], richiedendosi solo una conformazione della nuova proprietà alle finalità codicistiche. Si tratta di un onere di derivazione costituzionale che, entro certi limiti, grava sulla proprietà privata tout court anche se, nel caso dei beni culturali, si tratta di una vocazione (di diritto naturale) del bene, di diritti e doveri incorporati nello stesso.
Lo stesso discorso può farsi con l'uso individuale. Se cioè è possibile, per rendere il bene redditizio, conferire un immobile di pregio ad un singolo, limitando - pur senza escludere - la fruizione, non sarà forse possibile "sacrificare" per un po' di tempo l'immobile attraverso uno strumento come la finanza di progetto?
Si consideri che il p.f. ha il pregio, rispetto all'alienazione, di far ritornare interamente il bene in mano pubblica, una volta scaduto il termine. Lo strumento concessorio che è alla base del p.f. quindi, diversamente dall'attribuzione dell'uso individuale, attribuisce al privato non tanto un'utilità quanto un onere. Se la concessione di un bene demaniale non obbliga, nella generalità dei casi, il privato ad un facere, allo svolgimento di una attività, nel p.f. invece il concessionario è obbligato in modo continuativo a svolgere un pubblico servizio. Come non vedere nello strumento in questione una missione più alta?
Ma se è così, ne consegue anche come, in ragione di questo mandato impegnativo, il p.f. possa essere visto con maggior bonomia, non ci si dovrebbe scandalizzare di utilizzi necessariamente un po' "forzati" del bene. Come si potrebbe pensare di trasformare un costruttore o un imprenditore in un mecenate, imponendo allo stesso di ristrutturare, gestire a fini culturali l'immobile senza utilizzarlo per altri scopi, tenendo bassi i prezzi degli ingressi ed organizzando mostre di elevato spessore e quindi necessariamente molto costose e poco appetibili? Ad impossibilia nemo tenetur, potrebbe reclamare il concessionario e, se ancora in tempo, potrebbe censurare il cattivo esercizio, ad opera dell'ente, della discrezionalità propria della fase di costruzione dell'iniziativa.
Del resto come considerare, come è avvenuto nella sentenza, inconciliabile - in assoluto - la destinazione alberghiera con la natura culturale del bene? La destinazione è stata insomma considerata non possibile a prescindere: a) dalla residualità dell'utilizzo ricettivo in questione; b) dal fatto che si poteva imporre un obbligo al concessionario di "sopportare" e consentire l'accesso all'albergo per visite varie; b) dalla storia e dalle caratteristiche del bene.
Si è probabilmente enfatizzato il concetto di fruizione pubblica di cui al Codice in questione, senza permettere un'interpretazione "evolutiva" o in linea con il nuovo istituto del p.f.
Occorre quindi, per cercare di riflettere in modo critico sulla questione, riprendere ulteriormente i ragionamenti svolti nella sentenza e riportarci - ancora una volta - ai fatti.
5.4. Dai divieti alla pianificazione "positiva". Il controllo delle attività economiche e la funzionalizzazione dei beni
Al fine di riprendere in modo analitico la vicenda e per poter poi svolgere qualche considerazione di ordine più generale, si evidenzia come la proposta consistesse nel ristrutturare un immobile denominato Ospedale vecchio, all'interno del quale, un tempo lontano, veniva espresso lo spirito caritativo ed accogliente della città (chiunque sta male, qui deve essere accolto, diceva lo stendardo ospedaliero). Negli anni l'immobile aveva subito varie destinazioni, quali ad esempio archivio storico, abitazioni e molte parti erano state abbandonate, ritoccate, ristrutturate.
Il promotore, per mantenere in equilibrio il piano economico finanziario, ferma restando la prevalente destinazione dell'immobile ad usi culturali (pubblico servizio), aveva pensato di creare spazi alberghieri, commerciali (artigianato gastronomia) ed uffici. Le ultime due destinazioni in parentesi - per così dire private - non avrebbero in nessun modo superato il 43% della superficie dell'immobile e sarebbero state ricavate, in gran parte, da parti dell'edificio da tempo abbandonate o comunque non destinate a pubblici servizi necessariamente collegati al bene.
Il giudice ha quindi considerato la destinazione alberghiera incompatibile con la nozione di servizio aggiuntivo, non trattandosi di struttura d'accoglienza meramente accessoria alla fruizione del bene e non potendosi comunque qualificare l'albergo come pubblico servizio.
Il ragionamento, di per sé potenzialmente corretto, sconta però nel caso di specie forse un'eccessiva rigidità interpretativa: così argomentando ben difficilmente si riuscirebbe a recuperare immobili di rilievo minore, o non interessanti per il grande pubblico, in centri "minori". Le opere ed i centri minori devono, in base alle varie circolari ministeriali in materia, essere ricompresi nei progetti di valorizzazione delle realtà più importanti. Ma che fare quando detti centri siano naturalmente - per distanza e vocazione - al di fuori dei circuiti maggiori?
Abbiamo, per accreditare una tesi meno rigida, rilevato come i servizi aggiuntivi non siano propriamente un numero chiuso, non tutti siano ascrivibili alla nozione di pubblico servizio e, probabilmente, alcune delle prestazioni aggiuntive possano essere interpretate in senso lato.
Non è infatti scontato, anche perché non è controllabile e sanzionabile, che la struttura ricettiva di cui all'art. 117 debba essere ad esclusivo servizio dell'immobile e dei servizi culturali in esso presenti. Si diceva del resto, non molto tempo addietro, che le municipalizzate in forma di impresa, una volta espletato il pubblico servizio e pur godendo di privilegi, potevano prestare servizi al di fuori del proprio territorio in regime di concorrenza.
Come non permettere, nel caso di specie, la destinazione alberghiera tout court, considerato altresì che l'imprenditore privato in questione non godrebbe di privilegi, non sottrarrebbe indebitamente (non essendo ente pubblico) ad altri privati quote di mercato? Se insomma l'albergo è naturalmente e doverosamente aperto per coloro che fruiscono del bene culturale, in questo assoggettandosi alla funzione e alle condizioni del pubblico servizio (è simile la condizione dei punti ristoro ospedalieri), perché non permettere allo stesso di fornire servizi ulteriori, non meramente accessori?
Discorsi analoghi potrebbero essere effettuati per le botteghe artigianali.
Per qual motivo considerare quindi compatibile con il carattere storico artistico del bene, come normalmente avviene, la destinazione ad uffici pubblici [44] e non quella per spazi (sempre aperti al pubblico, come nel caso dell'albergo) di tipo commerciale?
In realtà occorre rilevare come la questione dovrebbe essere risolta caso per caso, come del resto consentito dalle norme e non in modo assoluto, come invece sembra essere stato effettuato dalla sentenza, che non ha specificatamente motivato, per esempio, in quale misura le destinazioni di cui alla proposta avrebbero compromesso la dignità dell'immobile (non si trattava del resto di un luogo di culto).
Se insomma anche il Comitato tecnico scientifico del Mibac aveva fornito un parere favorevole, pur se condizionato, significa come uno sforzo istruttorio avrebbe forse consentito un esito diverso.
Ecco, è probabilmente nella condizione (la condizione, il termine ed il modo sono strumenti per esercitare una discrezionalità pianificatoria puntuale e positiva) che può rintracciarsi la "chiave di volta" idonea ad aprire un più largo godimento dei beni culturali.
Se cioè si facesse più largo uso di poteri istruttori accurati e di autorizzazioni condizionate, previsti dall'ordinamento anche specifico ed in grado di seguire l'utilizzo del bene in modo continuativo, ci si potrebbe "spingere" non solo ad incrementare la ristrutturazione di beni di pregio, ma anche ad aumentare la fruibilità degli stessi. In che cosa consistono d'altronde il pubblico servizio e l'attività pianificatoria [45] se non nell'assoggettare (come si dovrebbe fare) beni ed attività, pubbliche e private, ad adeguati controlli funzionali e all'apposizione di condizioni, termini e modi [46]?
Occorre quindi ora formulare qualche rilievo conclusivo.
La sentenza, a ben vedere, si basa su di un presupposto forse non interamente corretto.
Il ragionamento viene condotto infatti sulla base di un "continuum" identitario fra concessione dell'uso individuale, concessione di valorizzazione, concessione di servizi aggiuntivi e finanza di progetto.
Così facendo identifica per quest'ultima gli stessi vincoli ascrivibili agli altri strumenti. Sennonché, non essendo questa le sede per una disamina dei predetti istituti, è sufficiente rilevare come il fatto stesso che siano diversamente nominati dal legislatore significa che, pur avendo delle similitudini, avranno sicuramente anche delle differenze, strutturali e funzionali. Se è così, pur essendo vero che è il bene in sé, la sua intima natura, a chiedere un'adeguata tutela, è altrettanto possibile pensare che il limite generale, in negativo e statico, di cui all'art. 20 del Codice, potrebbe essere interpretato in modo più largo e dinamico nel p.f., vista la positività e progettualità attiva dello strumento finanziario in questione.
E' proprio sull'elemento finanziario/progettuale che ci si vuole, da ultimo, soffermare.
Il p.f., diversamente dall'uso individuale e dall'alienazione, forme di privatizzazione (anche se moderate da vincoli conformativi e funzionali) aventi il mero obiettivo di reperire risorse economiche, è invece uno strumento decisamente pubblicistico ed orientato all'ideazione prima e gestione poi di un pubblico servizio.
Il promotore quindi "pianifica" e finanzia la progettazione di un'attività pubblica in senso oggettivo rispetto alla quale potrebbe rimanere, alla fine del procedimento, estraneo, potendo risultare soccombente tanto nella prima fase (la comparazione delle proposte) quanto nell'ultima fase della procedura negoziata. Si impegna altresì a ristrutturare il bene, non solo a gestirlo, come invece nella concessione di servizi (di valorizzazione, aggiuntivi ed altro).
Lo stesso si carica insomma di oneri tipicamente pubblicistici e afferenti alla stessa sopravvivenza fisica del bene in sé, altrimenti destinato, prima o poi, al crollo, non avendo la p.a. le capacità e le risorse economiche e personali non solo per la valorizzazione dello stesso, ma neppure per la progettazione e la messa in sicurezza (altrimenti non si utilizzerebbe lo strumento in questione).
Ciò premesso, non sarebbe quindi logico che anche il bene in sé si facesse carico di detti problemi cedendo un poco, ed a tempo determinato, della propria "sovranità" e delle proprie prerogative? Se il bene può essere alienato per "far cassa", non potrebbe quindi, per tempi e spazi limitati (nel caso esaminato il 43%), essere destinato a finalità "non pure", al fine di ammortizzare i rilevantissimi costi delle ristrutturazioni, non addebitabili ai concessionari di servizi aggiuntivi?
La risposta, a modesto avviso di chi scrive, è affermativa, tanto sotto il profilo logico ermeneutico, quanto in termini di "dover essere". Si può cioè dare un'interpretazione dei limiti all'intervento dei privati un po' meno rigida.
Si consideri infatti che la finanza di progetto, anche per i beni culturali, è prevista - quasi per sottolineare l'aspetto costruttivo ed economico dell'istituto - proprio nel d.lg. 163/2006 (artt. 197), non propriamente nella disciplina relativa ai beni culturali e che il decreto in questione non pone dei vincoli allo strumento in questione.
Lo stesso si potrebbe argomentare rovesciando la predetta impostazione, rilevando cioè come i limiti ed i vincoli (artt. 20 ss. di cui al d.lg. 42/2004) non siano previsti nel Codice dei beni culturali per la finanza di progetto, neppure inizialmente prevista.
Se insomma i limiti di cui al Codice potessero essere considerati applicabili indirettamente e non direttamente, essendo la "Finanza di progetto nei beni culturali" ascrivibile alla normativa sui lavori pubblici vincolati e costituendo quindi un istituto nominato (a disciplina carente) diverso dalla concessione ex art. 115 del Codice, ne consegue come, nel caso di specie, si sarebbe forse potuti arrivare ad una diversa conclusione.
In questa prospettiva insomma poteva consentirsi, sotto il profilo ermeneutico (l'interpretazione degli artt. 20, 115 e 117 del Codice) e pur con tutte le prescrizioni e le condizioni del caso, anche la funzione-destinazione in senso lato commerciale di spazi minoritari.
Qualora così non fosse, si potrebbe arrivare al medesimo risultato anche ragionando in termini "evolutivi" o, in prospettiva, di dover essere, de iure condendo.
Se infatti, come si è detto e ragionando in termini allocativi solidaristici (senza con questo voler sottrarre alla politica le decisioni del caso), le esigenze ed i bisogni sociali (la cura delle persone, molto spesso affidata allo stesso dirigente che segue la cultura) [47] sono prioritari ed indilazionabili, anche perché nessuna collettività locale accetterebbe di perdere i diritti acquisiti, ne consegue come, in epoca di risorse esigue, dovrebbero necessariamente essere promosse una linea ermeneutica e una produzione in senso lato normativa che andassero nella direzione sopra indicata.
I beni culturali, soprattutto quelli minori, dovrebbero insomma "maturare" e farsi carico del loro mantenimento, non essendo del resto pensabile l'utilizzo di meccanismi "compensativi" (tali da permettere l'esborso delle ingenti somme necessarie per la ristrutturazione) quali potrebbero essere la concessioni di diritti edificatori in aree "diverse" o la cessione di beni in permuta.
Quanto al primo strumento, al di là della sua legittimità o meno, lo stesso andrebbe a porsi in netto contrasto con la tutela dell'integrità dei centri urbani, consisterebbe nell'incentivo alla cementificazione, alla modificazione del paesaggio e quindi sarebbe confliggente con lo spirito stesso del Codice.
Per quanto concerne il secondo strumento e cioè l'alienazione, occorre rilevare come gli enti pubblici, dopo una fase iniziale di entusiasmo per la cessione degli "asset" non strategici, dovrebbero forse ora pensare a valorizzare i beni, vincolati od ordinari che siano [48]. Chi aliena, effettuando una depauperazione irreversibile del patrimonio, rischia infatti, alla lunga, di porre il pubblico nella condizione di non aver più le risorse non solo per i servizi culturali ma anche per i servizi pubblici solidaristici ed essenziali.
Note
[1] Si pensi all'attività svolta dall'associazione Civita, della quale fanno parte alcuni dei più grandi gruppi imprenditoriali italiani, alle frequenti convenzioni tra Confindustria e Mibac per lo studio della valorizzazione dei beni culturali tramite l'apporto dei privati ed altro.
[2] La definizione dell'attività/funzione di valorizzazione di cui all'art. 6 del Codice dei beni culturali (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42) è illustrata da C. Barbati, in AA.VV., Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, con il coordinamento di C. Barbati, G. Sciullo, Bologna, 2007,74 ss.; si veda altresì, della medesima Autrice nell'opera citata, pp. 432 ss., il commento all'art. 111 del Codice dei beni culturali, nel quale sono indicati gli interventi "caratterizzanti" le attività di valorizzazione e introdotti gli elementi di disciplina poi approfonditi negli articoli successivi (in particolare, 112, 113, 114 e 115), al cui commento peraltro si rinvia.
Le disposizioni normative citate possono essere analizzate anche, fra le tante, sui seguenti trattati: M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2006; A.L. Maccari e V. Piergigli, Il codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi, Milano, 2006; N. Assini e G. Cordini, I beni culturali e paesaggistici, Padova, 2006.
Sulla valorizzazione in generale si vedano anche: L.Casini, Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2004, 479 ss.; C. Barbati, La valorizzazione del patrimonio culturale, in Aedon 1/2004; P. Bilancia (a cura di), La valorizzazione dei beni culturali. Modelli giuridici di gestione integrata, Milano, 2006; M. Dugato, Fruizione e valorizzazione dei beni culturali come servizio pubblico e servizio privato di utilità sociale, in Aedon 2/2007. Per quanto riguarda un'analisi delle differenze tra valorizzazione e tutela, si rinvia a N. Aicardi, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon 1/2003, 1; D. Amirante, V. De Falco (a cura di), Tutela e valorizzazione dei beni culturali. Aspetti sovranazionali e comparati, Torino, 2005.
Per l'esame di alcune pronunce giurisprudenziali in siffatta materia ci si permette di rinviare a P. Michiara, Considerazioni sulla nozione di valorizzazione dei beni culturali, in Aedon 1/2007, 1, commento alla sentenza T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 23 agosto 2006, n. 7373; si veda altresì G. Sciullo, Valorizzazione e dintorni, in Aedon 3/2007, 3, il quale ha commentato, evidenziando tutte le diverse problematiche emergenti, la sentenza del Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514 che ha confermato la predetta sentenza 7373/2006.
[3] Uso individuale consentito, secondo quanto previsto dall'art. 106 d.lg. 42/2004 (e, a contrario, dall'art. 20 relativo agli "interventi vietati"), purché abbia ad oggetto finalità compatibili con la loro destinazione culturale, con il carattere storico-artistico dei beni medesimi. Si rinvia, per una sintetica illustrazione del contenuto della norma citata ai commento di G. Corso e M. Brocca in AA.VV., Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, cit., 421 ss.
Per un'analisi circa l'uso individuale dei beni culturali si vedano anche: G. Pastori, Uso e godimento dei beni culturali: ambito di applicazione della disciplina, in Aedon 1/2000; W. Cortese, I beni culturali e ambientali, Padova, 2002, 203 ss.; A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Padova, 2004 (in particolare il capitolo XXVI: Uso, godimento e fruizione dei beni culturali); T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2005; M. Brocca, La disciplina d'uso dei beni culturali, in Aedon 2/2006, e A. Serra, Il coinvolgimento di beni culturali nel progetto di recupero degli immobili non più utilizzati dalla Difesa: profili giuridici, in Aedon 2/2007.
[4] L'"applicazione" del p.f. al settore in questione è analizzata, tra gli altri, da AA.VV., Project financing e opere pubbliche - Problemi e prospettive alla luce delle recenti riforme, a cura di G. Ferrari e F. Fracchia, Milano, 2004, e in particolare da L. Gili, Finanza di progetto e beni culturali, cit., 135 ss.
Si veda altresì, per un approccio di tipo economico-finanziario, la monografia di F. Perrini e E. Teti, Project financing per l'arte e la cultura, Milano, 2004, nella quale vengono analizzate dagli Autori le opportunità fornite dalla finanza e dal management per valorizzare e tutelare i beni culturali senza gravare totalmente sul bilancio statale.
[5] Circa la nuova "formulazione" dell'articolo 115 cfr. G. Sciullo, Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006, in Aedon 2/2006; L.Casini, La disciplina dei beni culturali dopo il d.lg. n. 156/2006, in Giorn. dir. amm., 2006, 10, 1072 ss. e P. Carpentieri, I decreti correttivi e integrativi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. e app., 2006, 6, 625 ss.
Più in generale si vedano, sull'art. 115 come anche sull'art. 117, i relativi commenti nelle opere già citate in precedenza, e in particolare in AA.VV., Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, cit., 456 ss.
[6] A questo proposito si rinvia per un approfondimento, nella consapevolezza di non poter citare l'infinita bibliografia riguardante tale materia, a C. Malinconico, Il Project Financing, in AA.VV., Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli, Vol. IV, Le tipologie contrattuali, Milano, 2008, 2610 ss. e alla monografia di S.M. Sambri, Project financing - La finanza di progetto per la realizzazione di opere pubbliche, Padova, 2006.
[7] Circa il rapporto tra mezzi, forma e fini in relazione ai beni pubblici, si rinvia in generale a M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004 e a M. Dugato, Il regime dei beni pubblici: dall'appartenenza al fine, in Valori e principi del regime repubblicano, 2. Diritti e libertà, a cura di S. Labriola, Bari, 2006.
[8] Circa la nozione di attività economica o meno in relazione ai beni/servizi culturali si rimanda ad A. Iunti, Il "nodo gordiano" della gestione dei servizi culturali locali: il riconoscimento del carattere dell'economicità, in Serv. pubbl. e app., 2006, 2, 489 ss. e A. Serra, Gestione dei Servizi - 1. I servizi culturali tra "economicità" e "non economicità", in Autonomie territoriali e beni culturali dopo il Codice dei beni culturali e del paesaggio (studio commissionato dalle regioni Lombardia, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto), in Aedon 2/2006. Ci si permette altresì di rinviare a P. Michiara, Considerazioni sulla nozione di valorizzazione dei beni culturali (nota a T.A.R. Lazio, Roma, 23 agosto 2006, n. 7373), cit. ed ivi, in particolare, al paragrafo 3 relativo al rilievo economico del servizio (pubblico) di valorizzazione.
[9] In relazione al ruolo dei soggetti privati promotori, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha avuto modo di rilevare, ad esempio, che l'attività di asseverazione svolta dagli istituti di credito in relazione al piano economico-finanziario di cui alla proposta del promotore "è esercizio di una funzione di rilevanza pubblicistica mediante la quale si accerta, in luogo dell'amministrazione, la coerenza del piano economico finanziario con gli elementi di cui agli articoli 18, comma 3, e 85, comma 1, del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554. In presenza di un mancato o incompleto asseveramento l'Amministrazione, al fine di ritenere la proposta ammissibile e poterla compiutamente valutare, è tenuta a richiedere le necessarie integrazioni al promotore ed all'istituto di credito asseverante" (cfr. Atto di regolazione n. 34/2000 del 18 luglio 2000).
Più in generale, sul tema della funzionalizzazione, si rimanda a G. Napolitano, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, 2003,159 ss
Per quanto riguarda la "funzionalizzazione" dell'attività di diritto privato della P.A., cfr. altresì, fra i tanti lavori monografici, G. Greco, I contratti della pubblica amministrazione tra diritto pubblico e privato, Milano, 1986; A. Masucci, Trasformazione dell'amministrazione e moduli convenzionali, Napoli, 1988; E. Bruti Liberati, Consenso e funzioni nel contratto di diritto pubblico, Milano, 1996; M. Dugato, Atipicità e funzionalizzazione nell'attività amministrativa per contratti, Milano, 1996; S. Civitarese, Contributo allo studio del principio contrattuale nell'attività amministrativa, Torino, 1997; P. Michiara, L'appalto di opere pubbliche tra diritto comune e diritto speciale, Padova, 1997; A. Benedetti, I contratti della pubblica amministrazione tra specialità e diritto comune, Torino, 1999; E. Sticchi Damiani, La nozione di appalto pubblico, Milano, 1999.
In relazione agli interventi che hanno affrontato il problema con un taglio di tipo economico si veda: M. D'Alberti, Lo Stato e l'economia in Giannini, in Riv. trim. dir. pubbl., 4, 2000, 1087 ss.
La funzionalizzazione dell'attività amministrativa è inoltre esaminata, in generale, da F.G. Scoca, Autorità e consenso, in Dir. amm., 2002, 438 ss. e, nello specifico (contrattualistica pubblica) da R. Dipace, Partenariato pubblico privato e contratti atipici, Milano, 2006, 95 ss.
[10] In merito al ruolo della discrezionalità, ed alla sua intensità, in relazione al mercato di opere e servizi, si rinvia a M. Ricchi, Negoauction, discrezionalità e dialogo competitivo (una teoria per l'affidamento dei contratti complessi di PPP), in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] La pluralità dei soggetti e degli interessi pubblici richiede un contemperamento delle varie aspettative ed esigenze, senza procedere ad assolutizzazioni che non tengano conto della realtà e delle effettive possibilità. Non si progetta del resto un servizio e non si costruisce il bene relativo strumentale se non vi sia una adeguato studio costi-benefici e un piano economico-finanziario. In questo consiste il principio di responsabilità (artt. 28 e 97 della Costituzione). L'interesse pubblico, astratto, diventa insomma effettivamente "realizzabile" (dalla potenza all'atto) nel momento in cui venga coniugato con il principio - pure costituzionale - della "copertura finanziaria", da intendersi in senso lato anche come relazione tra oneri e vantaggi e come comparazione tra i vari interessi in gioco.
[12] La scarsa convenienza finanziaria degli interventi nel campo della gestione dei beni culturali è messa in luce da C. Barbati, Esternalizzazioni e beni culturali: le esperienze mancate e le prospettive possibili (dopo i decreti correttivi del Codice Urbani), in Riv. Giur. Edil., 2006, 4-5, 173, che a tal fine riporta anche le risultanze di una indagine effettuata dalla Corte dei Conti in merito alla gestione dei servizi aggiuntivi.
Si veda altresì A.L. Tarasco, L'esternalizzazione delle funzioni dei beni culturali alla luce del diritto dell'economia, in Urb. e app., 2007, 10, 1203. Del medesimo Autore, per un approfondimento in merito alla gestione del patrimonio culturale italiano più in generale e alla conseguente utilizzazione economica dello stesso si rinvia a La redditività del patrimonio culturale - efficienza aziendale e promozione culturale, Torino 2006. In particolare, quest'ultimo contesta, tra le altre cose, la tesi secondo la quale sarebbe da escludere qualsivoglia redditività nella gestione del patrimonio culturale, tesi secondo la quale pertanto debbono essere valorizzati "pressoché esclusivamente i profili della tutela e/o della fruizione indipendentemente dalla produzione di un'utilità economica, dall'attenzione per il diritto di concorrenza e libertà di iniziativa economica privata nel settore. Tale concezione tende a sostenere l'intollerabilità di uno sfruttamento economico del patrimonio culturale, sia perché in potenziale contrasto materiale con le esigenze della tutela sia perché avvertito come ripugnante, in quanto capace di degradare moralmente la cultura a leva di guadagno" (cfr. op. cit., 21 ss.).
[13] Sull'utilizzo della discrezionalità "concertata" ci si permette di rimandare a P. Michiara, Le convenzioni tra pubblica amministrazione e terzo settore - Considerazioni sulle procedure selettive a concorrenza limitata nell'ambito dei rapporti a collaborazione necessaria, Roma, 2005, 377 ss.
[14] In questi casi si spera, per non dover ammettere i propri errori, che il tutto venga bloccato, anche se per motivi diversi da quelli che hanno veramente impedito l'iniziativa, dalle Sopraintendenze (abituali capri espiatori) o da altri organi tecnici (Vigili del fuoco, enti vari preposti alla tutela dell'ambiente) o ancora da comitati di cittadini affetti dalla sindrome "nimby"; soggetti tutti che, per non essere direttamente ricollegabili alla maggioranza che governa l'ente locale, possono essere facilmente additati come i responsabili della "stasi" o del fallimento dell'iniziativa.
[15] Per tale motivo, come osservato, posto che "... il diritto pubblico, per sua natura, garantisce soprattutto le posizioni di tutti i consociati e, dunque, anche dei cittadini che potranno fruire dei servizi collegati all'infrastruttura, ovvero essere coinvolti dalla sua realizzazione in quanto portatori di interessi ambientali o urbanistici" sono stati accentuati, nelle disposizioni normative relative al p.f. a partire dal testo dell'art. 37-bis legge 109/1994, il "profilo della rispondenza al 'pubblico interesse' della proposta ..., l'attenzione marcata al momento soggettivo della vicenda (definizione dei caratteri che deve esibire chi presenta le proposte: art. 37-bis, comma 2), viceversa meno evidente nel modello generale di finanza di progetto, e la preoccupazione di coordinare gli interventi con la programmazione dell'uso del territorio. La disciplina della finanza di progetto contenuta nella legge 109/1994 e successive modificazioni, dunque, è il tentativo di far convivere due istanze apparentemente confliggenti tra di loro; la necessità - che esige l'attenuazione di vincoli e di rigidità - di introdurre notevoli incentivi a favore dei privati e l'esigenza di rispettare quei principi che costituiscono la ragion d'essere della presenza di soggetti pubblici in un ordinamento e di un corrispondente corpo di regole, compresa quella della costante rispondenza dell'attività amministrativa all'interesse pubblico ..." (cfr. F. Fracchia, Finanza di progetto: i profili di diritto amministrativo, in AA.VV., Project financing e opere pubbliche - Problemi e prospettive alla luce delle recenti riforme, a cura di G.F. Ferrari e F. Fracchia, cit., 39 ss.).
[16] Si rinvia, per un'analisi di queste tematiche, a P. Urbani, Territorio e poteri emergenti - Le politiche di sviluppo tra urbanistica e mercato, Torino, 2007 il quale correttamente evidenzia (per poi esaminare ed approfondire tale tematica) che "lo sviluppo territoriale, la determinazione degli assetti urbani, la pianificazione del territorio, la fissazione delle regole giuridiche delle trasformazioni urbanistiche ed edilizie, la tutela degli interessi ambientali e naturalistici, la sostenibilità ovvero la 'sensibilità' dei beni pubblici a non sopportare usi impropri ... sia sempre più 'condizionata' dall'imporsi - in modi ancor più marcati che negli anni precedenti - di una 'particolare' questione economica su quella territoriale ..." (pp. 4 ss.).
[17] Si pensi alla dismissione del patrimonio dello Stato e degli altri enti pubblici attraverso S.C.I.P. s.r.l. (Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici), società costituita dal Ministero dell'economia e delle finanze, ai sensi della legge del 23 novembre 2001, n. 410, avente quale unico fine quello di realizzare una o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti, appunto, dalla dismissione del patrimonio in questione. In particolare, con riferimento alla prima di queste operazioni (denominata SCIP 1), si legge, nella presentazione agli investitori, che oggetto della operazione stessa è "il più grande Portafoglio immobiliare mai cartolarizzato nell'Europa continentale (circa 5 miliardi di euro)".
[18] Per un'analisi sull'istituto della concessione si rinvia, fra i tanti, a F. Trimarchi, Profili organizzativi della concessione di pubblici servizi, Milano, 1967; M. D'Alberti, Le Concessioni amministrative, Napoli, 1981; N. Assini-Marotta, La Concessione di opere pubbliche, Padova, 1981; F.G. Scoca, La Concessione come strumento di gestione dei servizi pubblici, in Le concessioni di Servizi Pubblici, Rimini, 1988, 35 ss.; D. Sorace e C. Marzuoli, Concessioni amministrative, in Digesto Discipline Pubblicistiche, IV Ed., Torino, 1988; G. Leone, Opere pubbliche tra appalto e concessione, Padova, 1990; A. Romano Tassone, La concessione a terzi dei servizi pubblici locali, in Regione e Governo locale, 1/2, 1992, 85; A. Romano, Profili della concessione di pubblici servizi, in Dir. amm., 1994, 462 ss; A. Pioggia, La Concessione di pubblico servizio come provvedimento a contenuto convenzionalmente determinato. Un nuovo modello per lo strumento antico, in Diritto Pubblico, 1995, 612; R. Cavallo Perin, La struttura della concessione di servizio pubblico locale, Torino, 1998; AA.VV. (Mastrgostino, Greco, Cammelli, Righi, Depretis, Linguiti, Cancrini, Piselli, Pellizzer, Florenzano), Appalti Pubblici di Servizi e Concessione di Servizio Pubblico, Padova, 1998; B. Mameli, Servizio pubblico e concessione, Milano,1998; G. Greco, Le concessioni di lavori e di servizi nel quadro dei contratti di diritto pubblico, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., n. 5, 2000, 993 ss.;
Per un'analisi delle differenze tra concessione e appalto si rinvia, con particolare riguardo ai servizi, a F.Bassi e P. Michiara, Considerazioni sulle differenze intercorrenti tra concessione di servizio pubblico e appalti di servizi, in Rivista amministrativa degli appalti, n. 4, 1996, 441.
Per un recentissimo approfondimento dell'istituto si rinvia a G. Montedono, V. Talienti e F. Pellizzer, Le concessioni di lavori pubblici, in AA.VV., Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli, cit., 2457 ss.
[19] L'art. 128 d.lg. 163/2006 (e prima l'art. 14 legge 109/1994), relativo alla programmazione triennale dei lavori pubblici da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, stabilisce al comma 2 che "il programma triennale costituisce momento attuativo di studi di fattibilità e di identificazione e quantificazione dei propri bisogni che le amministrazioni aggiudicatrici predispongono nell'esercizio delle loro autonome competenze e, quando esplicitamente previsto, di concerto con altri soggetti, in conformità agli obiettivi assunti come prioritari. Gli studi individuano i lavori strumentali al soddisfacimento dei predetti bisogni, indicano le caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed economico - finanziarie degli stessi e contengono l'analisi dello stato di fatto di ogni intervento nelle sue eventuali componenti storico - artistiche, architettoniche, paesaggistiche, e nelle sue componenti di sostenibilità ambientale, socio - economiche, amministrative e tecniche. In particolare le amministrazioni aggiudicatrici individuano con priorità i bisogni che possono essere soddisfatti tramite la realizzazione di lavori finanziabili con capitali privati, in quanto suscettibili di gestione economica". Si tratta di un documento fondamentale e particolarmente impegnativo, che purtroppo però molto spesso non viene adeguatamente considerato.
[20] Potrebbe essere forse oggetto di conferenza di servizi ai sensi dell'art. 14-bis della legge 241/1990 (conferenza di servizi preliminare) anche la valutazione della proposta del promotore, disciplinata ora dall'art. 154 d.lg. 163/2006. L'art. 14-bis citato prevede infatti al comma 2 che, in relazione alle procedure di realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico, la conferenza di servizi convocata su richiesta dell'interessato si esprima sul progetto preliminare al fine di individuare le condizioni alle quali ottenere, in sede di progetto definitivo, le intese, i pareri, le autorizzazioni ecc. richiesti dalla normativa. Nel medesimo comma è altresì previsto che in sede di conferenza di servizi "le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico ... si pronunciano, per quanto riguarda l'interesse da ciascuna tutelato, sulle soluzioni progettuali prescelte" (cfr. F. Mattasoglio, La tutela dell'ambiente nel p.f., in AA.VV., Project financing e opere pubbliche - Problemi e prospettive alla luce delle recenti riforme, a cura di G. Ferrari e F. Fracchia, cit.,158 ss).
[21] Con riferimento alla partecipazione dei privati al procedimento amministrativo si rinvia, per un approfondimento sull'elaborazione della dottrina che, negli anni settanta, ha posto l'accento su tale questione, a: G. Barone, L'intervento del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1969; S. Cassese, Il privato e il procedimento amministrativo - Un'analisi della legislazione e della giurisprudenza, in Arch. Giur., 1970, 169; G. Bergonzini, L'attività del privato nel procedimento, Milano, 1975; M.P. Chiti, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pisa, 1977; E. Casetta La partecipazione dei cittadini nell'attuale ordinamento dello Stato italiano, in La partecipazione popolare alla funzione amministrativa e l'ordinamento dei consigli circoscrizionali comunali. Atti del XXII Convegno di studi in scienza dell'amministrazione di Varenna, 23-25 settembre 1976, Milano, 1977, 65 ss.
Fra gli interventi più recenti, post legge 241/1990, si veda, per una disamina puntuale anche se sintetica, M. Occhiena, voce Partecipazione al procedimento amministrativo, in S. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, vol. V, 4128 ss., ove si rinviene la distinzione della partecipazione in collaborativa "indotta" (a seguito della comunicazione di avvio del procedimento), collaborativa volontaria (quindi spontanea) e partecipazione-contraddittorio (propria dei procedimenti ad istanza di parte e "attivata" dalla comunicazione di preavviso di rigetto ex art. 10-bis legge 241/1990).
Più in generale si veda anche A. Zito, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996; G. Virga, La partecipazione al procedimento amministrativo, Milano, 1998; M. D'Alberti, La 'visione' e la 'voce': le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 1, 1; R. Ferrara, Procedimento amministrativo e partecipazione: appunti preliminari, in Foro It., 2000, III, 27 ss.; AA.VV., Procedimento amministrativo e partecipazione, a cura di A. Crosetti e F. Fracchia, Milano, 2002; S. Cassese, Per una nuova disciplina dei diritti dei privati nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in Giorn. dir. amm., 2007, 1; U. Allegretti, Procedura, procedimento, processo. Un'ottica di democrazia partecipativa, in Dir. amm., 2007, 4, 779 ss.
[22] E' stato correttamente rilevato da F. Fracchia, Finanza di progetto: i profili di diritto amministrativo, cit, 45 ss., che "... gli utenti sono i grandi esclusi dal legislatore, atteso che la legge [109/1994], pur facendo, ad esempio, cenno alla necessità di valutare prima la reale consistenza del bisogno (art. 14) e, poi, la fruibilità dell'opera e la sua accessibilità al pubblico (art. 37-ter), non garantisce alcun ruolo ai cittadini nella programmazione, nella scelta amministrativa o nella precisazione dei contenuti del progetto, che può direttamente incidere sui caratteri del servizio. Si scorge qui forse un'eco del principio racchiuso nell'art. 13, legge 241/1990, che esclude l'applicabilità della disciplina sulla partecipazione ai procedimenti di programmazione. Per altro verso, se la cifra essenziale dell'istituto è rappresentata dal momento gestionale dell'opera, ... è curioso che la disciplina sia allocata all'interno di un corpo normativo - la legge 109/1994 - che, anche sotto il profilo dell'individuazione dei soggetti privati, è tutto percorso dall'urgenza di affrontare il profilo realizzativo".
[23] Si veda, per il rapporto tra partecipazione nell'ambito dei beni culturali e comunicazione tra soggetti pubblici e soggetti privati, M. Cammelli, La comunicazione nei beni culturali. Una funzione in cerca di autore, sul sito internet dell'Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna.
Circa il fondamentale ruolo della comunicazione, si osserva che, in materia ambientale, è stato emanato il d.lg. 195/2005 (Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale) e che, prima ancora, era stata approvata nel 1998 la Convenzione di Arhuus (Danimarca) sull'accesso all'informazione, la partecipazione pubblica alle decisioni e l'accesso alla giustizia in materia ambientale, entrata in vigore nel 2001 e sottoscritta dalla Comunità Europea a seguito della Decisione 2005/370/CE del Consiglio del 17 febbraio 2005.
Si vedano anche, sempre a tale proposito, il Libro Bianco su una politica europea di comunicazione della Commissione CE del 1° febbraio 2006, COM (2006) 35, che sottolinea l'importanza di avvicinare le istituzioni (in questo caso europee) ai cittadini affinché questi ultimi possano conoscere, esprimere le proprie idee, essere ascoltati.
[24] Tra le ragioni della riferita "mortalità" dei procedimenti - che quindi ne determinano la fine anticipata (vale a dire senza un risultato finale positivo) o una più o meno lenta sospensione - sono state individuate: la mancata presentazione di proposte ed offerte in relazione a progetti poco credibili, o comunque economicamente insostenibili; la mancata dichiarazione di pubblico interesse dell'opera o la sospensione di tale dichiarazione a tempo indeterminato a causa di carenze, incongruenze, errori delle proposte medesime; l'esistenza di "condizioni sospensive" (quali ad esempio; necessità di variazioni alla pianificazione urbanistica, o di attivazione di procedure ablatorie); il difetto di programmazione in capo alle Amministrazioni (che, magari, si rendono conto in un secondo momento di non poter sostenere finanziariamente il progetto o comunque di non poterlo monitorare); la presentazione di ricorsi giurisdizionali in ogni fase. In tal senso, cfr. M. Ricchi, Project financing: le ragioni dell'exploit e le ragioni della prudenza, in AA.VV., Project financing e opere pubbliche - Problemi e prospettive alla luce delle recenti riforme, cit., 99 ss.
[25] Si veda, per un'illustrazione di queste problematiche, M. Cafagno, Lo Stato banditore - Gare e servizi locali, Milano, 2001. L'autore conduce nella sua opera un'analisi critica delle procedure formali, in favore di procedure competitive flessibili, affrancate "da regole e criteri erroneamente assolutizzati nella prassi" (p. 16).
[26] Per un nuovo modo di concepire la partecipazione nell'ambito del diritto amministrativo (ma non solo) cfr. G. Arena, Cittadini attivi, Bari, 2006 che, partendo dall'introduzione nella Costituzione del principio di sussidiarietà orizzontale avvenuto con legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3, evidenzia come i cittadini siano ora in grado di attivarsi autonomamente nell'interesse generale poiché dotati di capacità tali da poter essere impiegate per la risoluzione di problemi attinenti anche alla collettività.
[27] Di "blocco del sistema, tra contenziosi e gare deserte ...", in relazione ai rapporti tra pubblico e privato nei beni culturali e sotto il profilo fattuale, parla M. Cammelli, Pubblico e privato nei beni culturali: condizioni di partenza e punti di arrivo, in Aedon 2/2007.
[28] Abolizione ad opera dell'art. 1, comma 1 lett. s), d.lg. 31 luglio 2007, n. 113, contenente ulteriori disposizioni correttive e integrative del d.lg. 12 aprile 2006, n. 163, recante il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
[29] E' cosa nota che i beni culturali rientrino nei servizi privi di rilevanza economica (cosiddetti "settori sensibili"), per i quali è difficile ipotizzare un mercato veramente concorrenziale. Sul punto cfr. le acute osservazioni di C. Barbati, Esternalizzazioni e beni culturali: le esperienze mancate e le prospettive possibili (dopo i decreti correttivi del Codice Urbani), cit. L'Autrice richiama la documentazione emanata a livello comunitario e precisamente la Relazione sui servizi di interesse generale, presentata al Consiglio Europeo di Laeken il 17 ottobre 2001, COM-2001-598 e il Libro Verde sui servizi di interesse generale, 21 maggio 2003, COM-2003-270.
[30] Si pensi al caso di Piazza Ghiaia di Parma, iniziativa in concessione oggetto di diversi apprezzamenti e valutazioni, per competenza, da parte della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio e della differente Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico (i Soprintendenti sono diversi).
[31] Le "opere calde" sono quelle che consentono di realizzare, per mezzo dei ricavi di utenza, un reddito capace di ripagare gli investimenti sostenuti e di remunerare il capitale di rischio; si tratta delle classiche opere infrastrutturali a domanda rigida, caratterizzate da tariffe tali da permettere notevoli flussi di cassa e, in ultima battuta, ricavi di gestione (a titolo esemplificativo gas, energia elettrica, metropolitane reti di distribuzione dell'acqua). A queste opere si contrappongono quelle cosiddette "fredde" per le quali, in considerazione della funzione sociale perseguita, non si può applicare tariffe remunerative (si pensi, ad esempio, alla scuola, alla giustizia, alla sanità, ecc.). Per un approfondimento della distinzione tra opere calde e opere fredde si rinvia a M. Gentile, Project financing - La nuova disciplina, Roma, 2005, 34 ss.
[32] Le varie circolari in materia di servizi aggiuntivi si sono sempre preoccupate di suggerire la valorizzazione dei centri minori con oneri a carico dei centri più importanti.
[33] In questa prospettiva diventa sempre più importante per gli operatori del diritto (in particolar modo funzionari amministrativi e, in ultima istanza, giudici) tener conto delle scienze non giuridiche, come evidenziato anche da M. Cocconi, La scienza del diritto amministrativo e l'utilizzo delle altre scienze sociali, in L. Torchia, A. Sandulli, E. Chiti, R. Perez, La scienza del diritto amministrativo nella seconda metà del XX sec., Napoli, 2008. L'Autrice, in particolare, sottolinea (cfr. pp. 253 ss.) come si imponga, in ragione dello sviluppo delle amministrazioni e del superamento del loro distacco dalla società, l'adozione di un'indagine del fenomeno amministrativo nella quale i concetti delle scienze non giuridiche, necessari a cogliere in profondità l'esperienza giuridico amministrativa e a risolvere i problemi ad essa intrinseci, entrano dall'interno e con pari dignità nel procedimento conoscitivo del giurista, il quale dovrà verificare di volta in volta "la rilevanza e la congruità rispetto alla concreta soluzione della fattispecie che è oggetto della sua indagine". Naturalmente, come rilevato nell'opera citata, non si può con ciò negare l'autonomia e la specificità della scienza giuridica e, all'interno della stessa, del diritto amministrativo, rispetto alle altre scienze sociali: tale specificità è infatti data dal particolare punto di vista dal quale, al suo interno, sono considerati i fenomeni storici, sociali e politici in relazione alla peculiare funzione cui essa tende. "Tale funzione consiste nell'individuare i valori giuridici che vigono nella concreta vita amministrativa e le qualificazioni che vi si collegano e infine nell'impostare e risolvere, attraverso la loro ricognizione, i problemi giuridici".
[34] Una concezione positiva del rapporto tra ambiente, inteso in senso lato, e fruitori, è rinvenibile in C. Barbati, G. Endrici, Territorialità positiva - Mercato, ambiente e poteri subnazionali, Bologna, 2005.
Si veda da ultimo AA.VV. (a cura di M. Cammelli), Territorialità e delocalizzazione nel governo locale, Bologna, 2007.
[35] Per un approfondimento circa i conflitti in materia di gare pubbliche nel nostro ordinamento giuridico si veda l'interessante ricostruzione operata da G.D. Comporti, Lo Stato in gara: note sui profili evolutivi di un modello, in Il diritto dell'economia, 2, 2007.
[36] Il Consiglio di Stato, Sez. VI, reg. dispositivi 340/08 (reperibile nel sito della giustizia amministrata), ha del resto accolto l'appello contro la sentenza dichiarando inammissibile il ricorso di primo grado. Sembra che sia stata accolta l'eccezione circa il difetto di legittimazione ma, sino a che non sarà uscita la sentenza, il dubitativo è d'obbligo.
[37] Nell'impossibilità di illustrare, con riferimento ad interesse e legittimazione ad agire, l'ampia elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, si rinvia tra gli altri, per un approfondimento relativo all'interesse a ricorrere, a L. Perfetti Diritto di azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2004.
Con riferimento, invece, alla legittimazione ad agire, si osserva brevemente in questa sede che, per quanto riguarda gli interessi diffusi, è stato come è noto riconosciuta la possibilità di agire in giudizio, ai sensi dell'art. 18 legge 349/1986, alle associazioni ambientali riconosciute con decreto ministeriale.
Ebbene, a questo proposito la giurisprudenza (così come la dottrina) ha espresso vari e differenti orientamenti: da un lato, infatti, vi è la posizione "rigorosa" della giurisprudenza tradizionale la quale riconosce la legittimazione giurisdizionale unicamente alle associazioni individuate dalla legge; dall'altro lato, invece, vi è la giurisprudenza (sostenuta dalla dottrina maggioritaria) meno formalista (e più recente), secondo la quale il "riconoscimento ministeriale" di alcune associazioni ambientaliste comporta unicamente che il Giudice sia esentato dal dover accertare, mediante i criteri indicati dalla giurisprudenza stessa ed elencati da ultimo nella sentenza del T.A.R. Emilia-Romagna, sez. Parma, 618/2007 che si commenta, l'effettiva rappresentatività delle altre associazioni. In sostanza, la giurisprudenza recente ha ammesso la possibilità per il Giudice di individuare e riconoscere caso per caso la legittimazione ad impugnare atti amministrativi da parte di associazioni ambientaliste (cui peraltro il T.A.R. citato ha equiparato quelle per la tutela dei beni culturali), previa verifica della sussistenza dei criteri richiesti dalla giurisprudenza stessa.
Si fa presente infine che il dibattito ha avuto anche come oggetto la definizione del concetto di ambiente (e quindi di associazioni ambientaliste). Deve infatti intendersi come ambiente quello strettamente naturalistico, o si può sostenere - come la sentenza predetta - che in tale "concetto" rientrino appunto i beni culturali, l'assetto del territorio, o altri aspetti ancora?
Per un approfondimento su queste tematiche si rinvia a M. Brocca, Le associazioni ambientaliste al cospetto del giudice amministrativo: questioni di legittimazione processuale (commento alla sentenza Cons. Stato n. 7246 del 9 novembre 2004), in Riv. giur. ambiente, 2005, ove sono rinvenibili i riferimenti di dottrina e giurisprudenza concernenti quanto sopra illustrato. Si vedano altresì M. Calabrò, Sui presupposti della legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste, in Foro Amm. TAR, 2002, 412 ss.; S. Marchese, Legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste riconosciute nel processo amministrativo e concetto giuridico di ambiente, in Riv. giur. ambiente, 2002, 3-4, 527 ss.; A. Gandino, Legittimazione delle associazioni ambientaliste e natura del provvedimento impugnato: gli incerti confini del " valore ambiente ", in Foro amm. TAR, 2003, 3, 876; L. Lanfranchi (a cura di), La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, Torino, 2003; A. Maestroni, La legittimazione di associazioni locali all'impugnazione di provvedimenti di natura urbanistica, in Riv. giur. ambiente, 2004, 2, 310 ss.
[38] In realtà, con riferimento ad esempio all'ambiente, è stato autorevolmente rilevato che, appunto, l'ambiente ed il mercato non sono necessariamente due "entità" in conflitto tra loro, ben potendo quest'ultimo essere usato per finalità aventi ad oggetto la protezione del primo; in tal senso, M. Clarich, La tutela dell'ambiente attraverso il mercato, in Diritto Pubblico, 2007, 1, 219 ss.
[39] Per quanto concerne, più in generale, la tipicità nei servizi pubblici si rimanda a G. Piperata, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano, 2005 e, in relazione alla materia dei contratti, a AA.VV., Tipicità e atipicità nei contratti pubblici, a cura di F. Mastragostino, Bologna, 2007. In quest'ultima opera si veda, tra gli altri, l'intervento di M. Dugato, I contratti misti come contratti atipici tra attività e organizzazione amministrativa. Dal "global service" all'"in house providing", pp. 69 ss.
Un'ampia ed acuta ricostruzione del rapporto tra legalità e tipicità è quindi rinvenibile da ultimo in F. Merusi, Sentieri interrotti della legalità, Bologna, 2007.
[40] Secondo Z. Barman, autorevole analista della condizione post-moderna esaminata attraverso una metafora più volte riproposta (la liquidità), ciò che è liquido è altamente instabile, assume forme differenti, si scompone e ricompone continuamente; ""Liquido" è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita "liquido moderna" se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Il carattere liquido della vita e quello della società si alimentano e si rafforzano a vicenda. La vita liquida, come la società liquido-moderna non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo" (cfr. Vita Liquida, Roma-Bari, 2005, introduzione, p. VII).
Lo stesso discorso può essere effettuato per quanto riguarda i concetti giuridici, in particolar modo per quelli sfumati di cui al Codice dei beni culturali.
[41] Quidditas è la sostanza ultima di cui sono composte le cose. Il termine deriva dalle traduzioni latine (dall'arabo) dei testi aristotelici.
[42] Ci si permette di rinviare - sul tema della scorporabilità di alcune prestazioni che, seppur non direttamente rivolte agli utenti / cittadini, si pongono in una relazione dinamica con la nozione di servizio pubblico - a P. Michiara, Considerazioni sulla nozione di valorizzazione dei beni culturali, cit., paragrafo 5.
[43] A tale proposito, si osserva che recentemente il Consiglio di Stato, con sentenza n. 2984 del 5 giugno 2007 (cui si rimanda per l'analisi delle motivazioni), ha annullato (riformando la sentenza di primo grado) il provvedimento con il quale il Soprintendente Regionale per i Beni e le Attività Culturali dell'Emilia-Romagna aveva subordinato, in sede di autorizzazione ai sensi dell'art. 55 d.lg. 490/1999 (ora artt. 53 ss. d.lg. 42/2004), l'alienazione di un bene culturale al rispetto di specifiche destinazioni d'uso (uso per strutture ricettive di tipo socio-assistenziale, sanitario e di tipo residenziale speciale, uffici pubblici, scuole).
[44] Come rilevato da G. Corso commentando l'art. 106 d.lg. 42/2004 (in AA.VV., Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, cit., 422), compatibile con la destinazione "culturale" del bene sarà quindi "la concessione di un immobile ad una università perché ne faccia sede di conferenze e di studio; o ad un comune perché lo adibisca a sede di rappresentanza; o ad una fondazione privata perché lo adibisca a finalità analoghe".
[45] La programmazione, o pianificazione, è costituita, come rilevato da M.S. Giannini, Diritto pubblico dell'economia, Bologna, 1985, 297, da "disegni ordinati di condotte future composte di più elementi combinati, e aventi una durata temporale non breve".
[46] La nozione di servizio pubblico in senso oggettivo è desunta dalla "sussistenza di un'attività economica pubblica o privata che risulti sottoposta dalla legge a programmi e controlli idonei a un indirizzo ed ad un coordinamento della stessa a fini sociali" (cfr. F. Bassi, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1995, 33 ss., vedi anche l'edizione del 2008 in corso di pubblicazione); tale nozione, nella quale rilievo determinante ha "il carattere economico insito sull'attività resa all'utenza", si contrappone a quella soggettiva, incardinata sulla figura (pubblica o privata) erogatrice del servizio.
In generale, in tema di servizi pubblici si vedano fra i tanti e di recente: M. Cammelli, Concorrenza, mercato e servizi pubblici: le due riforme, in Riv. trim. app., 2003, 517; G. Caia, I servizi pubblici nell'attuale momento ordinamentale (note preliminari), in Serv. pubbl. e app., 2005, 137 ss.; R. Villata, Pubblici servizi, Milano, 2006; A. Police, Spigolature sulla nozione di "servizio pubblico locale", in Dir. amm., 2007, 1, 79 ss.
[47] E' frequente, come si è detto, che nei piccoli comuni sia il dirigente che segue i servizi alla persona a doversi occupare anche della cultura. Si tratta del resto di servizi trattati in modo unitario dal codice dei contratti pubblici.
[48] Come peraltro ora indicato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), il cui art. 1, comma 313, prevede la formazione di un Piano di valorizzazione dei beni pubblici per la promozione e lo sviluppo dei sistemi locali, costituito dal complesso dei programmi di valorizzazione individuati dalle Amministrazioni pubbliche; sulla base di tale piano, ai sensi del successivo comma 315, "... la regione e gli enti territoriali e locali interessati, d'intesa con il Ministero dell'economia e delle finanze di concerto con il Ministero per i beni e le attività culturali, promuovono la formazione dei programmi unitari di valorizzazione, individuando gli interventi, le modalità di attuazione, le categorie di destinazioni d'uso compatibili, l'entità e la modalità di attribuzione agli enti territoriali di quota parte del plusvalore da realizzare, nonché ogni altro elemento significativo per l'attuazione di quanto previsto nei programmi medesimi".