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Il coinvolgimento di beni culturali nel progetto di recupero
degli immobili non più utilizzati dalla Difesa: profili giuridici

di Angela Serra

Sommario: 1. Note introduttive. - 2. La valorizzazione degli immobili ex-militari. - 3. Gli strumenti di valorizzazione previsti dalla recente legislazione. - 4. La struttura e le tappe del progetto di valorizzazione degli immobili non più utilizzati dalla Difesa. La prima attuazione: il caso di Bologna. - 5. Il coinvolgimento di beni culturali nel progetto di valorizzazione. - 5.1. Innanzitutto, il diverso significato del termine valorizzazione. - 5.2. La fase preliminare necessaria: la verifica dell'interesse culturale. - 5.3. Il parametro di legittimità delle scelte sulla destinazione dei beni: il divieto di usi incompatibili con il carattere storico-artistico. - 5.4. Gli equilibri tra i soggetti coinvolti nel processo decisionale: il ruolo e i poteri delle soprintendenze. - 6. Riflessioni conclusive.

1. Note introduttive

Nel maggio 2007 ha preso il via l'attuazione dell'operazione denominata "Valore Paese", coordinata dall'Agenzia del demanio, che, sulla scorta di alcune importanti norme contenute nella finanziaria 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296), sta ponendo in essere un imponente progetto di valorizzazione del patrimonio immobiliare statale, all'interno del quale spiccano le strutture non più utilizzate dal ministero della Difesa per scopi istituzionali. La rimodulazione delle esigenze delle Forze armate, a seguito del processo di professionalizzazione, ha infatti consentito la liberazione di un grande numero di strutture, di notevole importanza per collocazione e caratteri architettonici: molte di esse sono ubicate a ridosso se non all'interno dei centri urbani e spesso presentano interesse storico-artistico. Così, caserme, arsenali, bunker, aeroporti, poligoni di tiro, forti, carceri, ospedali militari, depositi e terreni non più necessari per fini istituzionali alle Forze armate potranno essere riconvertiti a fini civili e inseriti in piani di sviluppo e riqualificazione urbana, secondo soluzioni urbanistiche che permettano nuove destinazioni d'uso utili per la collettività e le istituzioni cittadine in vista dello sviluppo e del benessere sociale del territorio. Il progetto prevede il passaggio dei beni ex-militari dal ministero della Difesa all'Agenzia del demanio, seguito dalla pianificazione del loro reimpiego attraverso accordi con gli enti locali e con l'utilizzo degli strumenti di valorizzazione previsti dalla finanziaria - su cui infra -.

Le azioni di valorizzazione rese possibili dalla normativa oggetto di questo lavoro si presentano di complessità e portata differenziate, da semplici operazioni di permuta con gli enti locali fino alla promozione di programmi unitari di valorizzazione aventi ad oggetto i beni ex-militari, cui possono aggiungersi altri immobili, presenti in grandi città. Il primo protocollo d'intesa per la promozione di un programma unitario di valorizzazione è stato firmato il 4 maggio tra Agenzia del demanio e regione Liguria e interessa una trentina di beni, in prevalenza militari (caserme, forti, terreni, poligoni e un'ex base Nato), che saranno trasformati in spazi di interesse sociale, culturale, ricreativo, didattico, per lo sviluppo di attività giovanili, spazi espositivi e commerciali. Il giorno successivo, il direttore dell'Agenzia ha concluso con il comune di Bologna un protocollo d'intesa avente ad oggetto diciotto immobili statali [1] e immobili comunali ancora da individuare puntualmente; l'accordo prevede il coinvolgimento nel programma unitario di valorizzazione di altri soggetti pubblici, che potranno intervenire con beni di loro proprietà, da valorizzare congiuntamente a quelli militari. Alcune delle strutture coinvolte presentano notevole rilevanza per la loro ubicazione, a ridosso del centro storico, e per i caratteri storico-artistici in essi presenti, in qualche caso già verificati (come, ad esempio, per la Caserma San Mamolo - inserito nell'antico complesso del convento e della chiesa della SS. Annunziata, già riconosciuta di particolare interesse storico-artistico, di oltre 5 mila mq - e per l'Area ex Sta.Ve.Co. - che, al di là degli spazi verdi, presenta particolare pregio per la qualità delle costruzioni, edificate a partire dall'Unità d'Italia, anch'essa dichiarata di particolare interesse artistico e storico, di oltre 87 mila mq -). La seconda tornata riguarda i comuni di Brescia, Fano e Ferrara. Quest'ultima città vede siglato un ampio progetto che coinvolge non solo dieci immobili della Difesa, ma anche ventitre beni del comune (soprattutto ex scuole) in vista di una riqualificazione omogenea della città, con la possibile adesione di altri enti pubblici (oltre agli altri enti territoriali, anche Camera di Commercio, Aziende sanitarie locali) con l'apporto di ulteriori beni. All'interno dell'accordo è ricompreso il progetto per la realizzazione del Museo nazionale dell'Ebraismo italiano e della Shoah nell'area delle vecchie carceri. Questi primi esempi di attuazione, che riguardano città del centro-nord, danno un'idea della rilevanza del progetto intrapreso dall'Agenzia, sulla scorta delle norme inserite nella finanziaria, come grande occasione di recupero alla vita sociale delle città di aree e strutture pubbliche, attraverso la loro riqualificazione in accordo con gli enti territoriali.

Da un punto di vista giuridico, diversi sono i momenti interessanti toccati dal progetto, ma l'aspetto che interessa questa Rivista è rappresentato dalle conseguenze del coinvolgimento di beni culturali nelle azioni di valorizzazione avviate, coinvolgimento che, come si può rilevare dai pochi esempi forniti, si presenterà ordinariamente (basti pensare che la maggior parte delle caserme costruite nell'800 presenta interesse storico-artistico in quanto testimonianza delle tecniche architettoniche militari dell'epoca). La presenza di beni culturali comporta infatti conseguenze rilevanti sulle modalità di rapportarsi giuridicamente ai beni da valorizzare e modifica la rosa dei soggetti coinvolti nei relativi processi decisionali. Vi è innanzitutto il dato di partenza del diverso contenuto della finalità stessa della "valorizzazione" a seconda che essa riguardi beni (anche ex-militari) "comuni" oppure beni culturali; viene poi in rilievo il rapporto tra le norme che disciplinano le operazioni di valorizzazione e la normativa speciale di tutela; infine vi sono le modalità con cui si delineano gli equilibri tra i soggetti coinvolti nei processi decisionali sulle destinazioni da imprimere ai beni e sulle opere materiali che si rendono necessarie alla riqualificazione, che vedono la necessaria presenza degli organi preposti alle funzioni di tutela dei beni culturali. La domanda di fondo che ci si pone è se la valorizzazione dei beni ex-militari possa essere considerata compatibile con la valorizzazione dei beni culturali in essa coinvolti e se esistano strumenti di controllo e garanzia che assicurino in ogni caso a questi ultimi la possibilità di dare attuazione alla propria vocazione.

2. La valorizzazione degli immobili ex-militari

Con il termine "valorizzazione" dei beni pubblici genericamente intesi si intendono quelle direttrici dell'azione pubblica che mirano a volgere le attività poste in essere su di essi da costo per l'amministrazione, come si sono storicamente declinate, in una fonte di reddito; vi rientrano diverse formule, dalla ricerca di strumenti che assicurino una gestione proficua di beni mal utilizzati economicamente alla rivalutazione dei canoni per la loro concessione, fino all'ipotesi dell'alienazione, in un crescente ricorso a moduli di matrice privatistica. In effetti, la gestione dei beni di appartenenza pubblica è da sempre uno dei settori ritenuti più improduttivi e dispendiosi dell'amministrazione, incapace non solo di gestire proficuamente le proprie risorse immobiliari, ma che solo di conoscerle. Le esigenze di valorizzazione del patrimonio immobiliare subiscono un'accelerazione verso la fine degli anni '90 per effetto dei vincoli posti alla finanza pubblica dalla partecipazione all'unione monetaria europea, divenendo vero e proprio obiettivo di politica economica. L'"utilizzazione del patrimonio immobiliare a fini correttivi della finanza pubblica" [2], così, diviene ordinaria modalità di risanamento dei conti pubblici; i moduli approntati dal legislatore per tale fine sono diversificati e paiono riassumibili nella ricerca di una più proficua gestione dei beni il cui mantenimento alla mano pubblica appare opportuno o non derogabile e nella generalizzazione della volontà di alienare i beni non strettamente necessari. Appartengono a questa stagione legislativa le normative del 2001-2002 sulle dismissioni e sulle cartolarizzazioni immobiliari; alcune di esse appaiono coerenti con il rispetto del lato funzionale presente in molti dei beni coinvolti - in particolare con riferimento a quelli culturali e ambientali -, mentre spesso, al contrario, la ricerca di una "gestione dinamica" del patrimonio e la necessità di vendere, accelerando i tempi di verifica degli aspetti funzionali dei beni, hanno portato a una notevole perdita di garanzia in tal senso [3].

Gli anni successivi vedono un attenuarsi delle policy più estreme riguardo le dismissioni, che forse non avevano dato i risultati immaginati dal legislatore, rivelando il maturare di un atteggiamento in parte diverso. La finalità di valorizzare il patrimonio pubblico non è più perseguita prioritariamente attraverso operazioni di dismissione della proprietà - opzione che pur permane -; vengono contemporaneamente pensati strumenti di valorizzazione non solo modulati sul mantenimento della proprietà, ma sopratutto sulla riqualificazione e riconversione dei beni, intesi come volano di sviluppo territoriale a favore della collettività. Il progetto di valorizzazione dei beni non più utilizzati dalla Difesa ne costituisce un rilevante esempio, che può oggi usufruire di innovativi strumenti giuridici che coniughino il mantenimento della proprietà allo Stato con una valorizzazione intesa in senso ampio, come creazione di valori per le comunità insediate nei vari contesti in cui i beni sono inseriti.

3. Gli strumenti di valorizzazione previsti dalla recente legislazione

La legge finanziaria per il 2007 [4] pone la valorizzazione del patrimonio pubblico tra le priorità dell'azione statale, orientando ancor più marcatamente che in passato il ruolo e la missione dell'Agenzia del demanio verso la riduzione della spesa e l'incremento degli introiti derivanti dai beni demaniali e potenziando gli strumenti di valorizzazione in vista di obiettivi di riqualificazione sociale e culturale; grande importanza viene poi attribuita al rapporto con le strategie di sviluppo locale promosse dagli enti territoriali. Questa rimodulazione delle policy sui beni pubblici risulta evidente con riguardo agli immobili della Difesa non più utili per fini istituzionali: dalla sola previsione di "programmi di dismissione" (secondo la norma del 2003) [5] si passa ora all'inserimento dei beni "in programmi di dismissione e valorizzazione ai sensi delle norme vigenti in materia" (art. 1, comma 263, legge 296/2006). La legge dispone il passaggio dei beni non più utilizzati dalla Difesa all'Agenzia del demanio, secondo scadenze temporali determinate dalla legge stessa (su cui infra, par. 4.1), finalizzato alla dismissione, da un lato, e alla "valorizzazione", dall'altro, da pianificare insieme agli enti locali interessati, con cui l'Agenzia può concludere accordi di programma. A questa norma si legano, con stretto nesso, altre disposizioni che disciplinano alcuni strumenti innovativi per la valorizzazione del patrimonio immobiliare statale (il "programma unitario di valorizzazione" - art. 1, comma 262, legge 296/2006 - e la cosiddetta "concessione di valorizzazione" - comma 259 -), che, pur risultando applicabili alla valorizzazione di qualsiasi immobile statale, assumono particolare importanza in vista della valorizzazione dei beni ex-militari.

Il programmi unitari di valorizzazione dei beni demaniali per la promozione e lo sviluppo dei sistemi locali (d'ora innanzi "puv").

Il comma 262 dell'art. 1, legge 296/2006, dispone che l'Agenzia del demanio, d'intesa con gli enti territoriali interessati, possa "individuare una pluralità di beni immobili per i quali è attivato un processo di valorizzazione unico, in coerenza con gli indirizzi di sviluppo territoriale, che possa costituire, nell'ambito del contesto economico e sociale di riferimento, elemento di stimolo ed attrazione di interventi di sviluppo locale", in una considerazione unitaria degli immobili coinvolti che ne orienti l'utilizzo allo svolgimento di funzioni di "interesse sociale, culturale, sportivo, ricreativo, per l'istruzione, la promozione delle attività di solidarietà e per il sostegno alle politiche per i giovani, nonché per le pari opportunità", funzioni che costituiscono elemento prioritario di individuazione dei beni insieme alla loro "suscettività di valorizzazione ... mediante concessione d'uso o locazione". Il puv è dunque una modalità di pianificazione e razionalizzazione degli interventi su un complesso patrimoniale pubblico sito nello stesso contesto territoriale, la cui programmazione viene gestita contestualmente, divenendo uno strumento di governance del territorio basato su condivisione e omogeneità degli obbiettivi di riqualificazione urbana e sviluppo locale.

La finalità perseguita dal puv è dunque da un lato è rendere disponibili immobili pubblici per destinarli ad attività di sviluppo territoriale, in coerenza con le strategie di programmazione economica, urbanistica e sociale locale (tali aree e strutture possono essere riconvertite in centri ricreativi, sportivi, spazi destinati all'istruzione, ai servizi sociali, o ancora ad aree verdi o zone commerciali..), contemperata dall'altro lato con la ricerca di una migliore collocazione degli uffici delle amministrazioni statali (perseguita attraverso la riduzione dei costi per gli affitti passivi e meccanismi di permuta di strutture appartenenti agli enti locali ma già utilizzate dalle amministrazioni stesse).

Punto centrale della previsione normativa appare la collaborazione tra gli enti territoriali. E' evidente infatti lo stretto rapporto che deve necessariamente unire l'Agenzia del demanio - ente cui la disposizione attribuisce il potere di promuovere i puv, nell'esercizio della sua attività straordinaria di gestione dei beni statali attuata sulla base di norme specifiche - e l'ente comunale, in particolare - a causa delle competenze in ordine alla pianificazione urbanistica spettanti a quest'ultimo, che con i propri strumenti di pianificazione può disporre la riutilizzazione di aree ad usi civili -. Non solo all'ente comunale, però, il puv si rivolge; ad esso possono infatti aderire gli altri enti territoriali. Gli enti promotori dei puv, poi, possono stabilire in sede di conclusione dello stesso che anche altri soggetti possano partecipare al progetto apportando ulteriori beni, da valorizzare nell'ambito dello stesso processo (ad es. le Camere di commercio, le Aziende sanitarie, le Università). Il puv, dunque, è un accordo "aperto" a favore del territorio, che può diventare volano di sviluppo per le comunità locali attraverso al creazione di sinergie tra le istituzioni coinvolte.

La concessione o locazione di valorizzazione.

Successivamente alla fase progettuale necessaria a definire le azioni e gli interventi di riconversione, gli strumenti di cui gli enti promotori del puv possono avvalersi sono rappresentati da permute, trasferimenti, concessioni d'uso, locazioni, cui si aggiunge l'altro strumento innovativo di valorizzazione proposto dalla finanziaria 2007 (art. 1, comma 259), la cosiddetta "concessione o locazione di valorizzazione". Si tratta di una concessione o di una locazione di durata massimo cinquantennale, che supera il precedente sistema delle concessioni ordinarie di immobili statali (la cui durata massima è prevista in diciannove anni [6]). Il nuovo strumento rende senz'altro più "appetibile" per gli investitori privati di lungo termine, necessariamente connotati da un'aspettativa di ritorno economico, l'incontro con i beni pubblici; si presenta quindi come utile strumento per favorire e facilitare la messa a reddito del patrimonio pubblico tramite una gestione economica e una riqualificazione poste in essere dal soggetto pubblico attraverso la partecipazione dei privati, con un conseguente rilevante risparmio di risorse pubbliche. La concessione o locazione "lunghe" hanno come finalità la "riqualificazione e riconversione dei medesimi beni tramite interventi di recupero, restauro, ristrutturazione anche con l'introduzione di nuove destinazioni d'uso finalizzate allo svolgimento di attività economiche o attività di servizio per i cittadini" (art. 1, comma 259). La norma dispone che la durata della concessione sia commisurata all'equilibrio economico/finanziario dell'attività che si svolge nell'immobile; la scelta dell'affidatario deve poi avvenire secondo procedure ad evidenza pubblica.

La concessione e la locazione cinquantennale, presumibilmente, saranno gli strumenti principali utilizzato dagli enti promotori dei puv per l'attuazione degli stessi, costituendo la "suscettività di valorizzazione ... mediante concessione d'uso o locazione" elemento prioritario di individuazione dei beni da inserire nei puv (comma 262). Se quindi nella fase della progettazione il modello del puv dà voce alle esigenze di collaborazione tra soggetti pubblici, nella fase della scelta su quali strumenti di valorizzazione utilizzare l'opzione per la concessione/locazione "lunga" fa prevedere da un lato un utile incremento della collaborazione tra pubblico e privato - cui si propone di investire per la valorizzazione di spazi urbani a favore della collettività -, dall'altro, ancora, un incremento della concertazione tra soggetti pubblici - dispone sempre il comma 262 che il Mef possa "convocare una o più conferenze di servizi o promuovere accordi di programma per sottoporre all'approvazione iniziative per la valorizzazione degli immobili tramite" tali concessioni/locazioni -.

4. La struttura e le tappe del progetto di valorizzazione degli immobili non più utilizzati dalla Difesa. La prima attuazione: il caso di Bologna

Il progetto di valorizzazione dei beni ex-militari prende necessariamente le mosse dall'individuazione dei beni "non più utili ai fini istituzionali" [7] al ministero della Difesa, da trasferire all'Agenzia del demanio perché siano dismessi, secondo le normative vigenti, oppure valorizzati. L'art. 1, comma 263, della finanziaria 2007 stabilisce tempi e modi del passaggio degli immobili. L'individuazione è demandata a decreti del ministero della Difesa adottati d'intesa con l'Agenzia del demanio; effetto dell'inclusione nei decreti è il passaggio al patrimonio disponibile dello Stato [8]. Quanto ai tempi, sono previste quattro tranches per l'individuazione e il relativo trasferimento dal ministero della Difesa all'Agenzia, a partire dal primo dm - da emanarsi entro il 28 febbraio 2007 - fino al quarto e ultimo - da emanarsi entro il 31 luglio 2008 -; la consegna in gestione all'Agenzia stessa segue nei mesi immediatamente successivi ai singoli decreti. Il tutto deve concludersi entro dicembre 2008. In attuazione della norma, il decreto 27 febbraio 2007 [9] sancisce il primo trasferimento, di 201 immobili, seguito dal decreto 25 luglio, che ne individua altri 198; in tutto i beni interessati dal processo saranno circa mille. I beni così individuati entrano a far parte del patrimonio disponibile dello Stato e la loro gestione è attribuita all'Agenzia del demanio.

La norma, poi, indica direttamente il valore dei beni da consegnare all'Agenzia (4 miliardi di euro per l'intero complesso di immobili), con una formulazione poco chiara circa il significato di tale attribuzione di valore. L'Agenzia stessa, poi, procederà a stimare i singoli beni in vista delle azioni di valorizzazione, operazione che, si prevede, non sarà priva di difficoltà; dare un "valore" a tali beni, infatti, presuppone un'opera di ricognizione piuttosto complessa, soggetta a variabili prevedibili come la dimensione e la qualità dell'edificio o ancora la posizione rispetto al centro urbano, ma dipende anche da elementi più difficilmente valutabili, come le nuove destinazioni d'uso, "l'utilità sociale" della riconversione. La risposta alla domanda "quanto vale una futura ex-caserma?", insomma, può essere tutt'altro che semplice [10].

Successivamente all'individuazione, gli accordi finalizzati all'elaborazione delle azioni di valorizzazione potranno modularsi secondo soluzioni differenti; potranno cioè limitarsi a concordare con gli enti locali le nuove destinazioni, co-decidendone i nuovi usi, che verranno poi recepiti all'interno della pianificazione urbanistica, oppure potranno dare vita a progetti più ampi, sfociando nella conclusione di progetti unitari di valorizzazione tra Agenzia ed enti locali. Nell'uno e nell'altro caso, come si rilevava, gli strumenti privilegiati previsti per la fase attuativa saranno la "concessione e la locazione di valorizzazione", cui si potranno affiancare la permuta, l'alienazione, l'affitto e gli usuali strumenti concessori.

Tra i primi protocolli di intesa per la promozione di puv su beni ex-militari vi è quello, già citato, concluso con il comune di Bologna il 5 maggio 2007; obbiettivo dell'accordo è la razionalizzazione, ottimizzazione e "valorizzazione unitaria, correlata e sinergica" di beni di appartenenza comunale e degli immobili statali ex-militari "in una visione organica di sviluppo del tessuto urbano". E' prevista la possibilità che altri enti pubblici (oltre agli altri enti territoriali, Università, Asl, Camera di commercio, associazioni di categoria) partecipino al progetto con beni di loro appartenenza, da valorizzare all'interno dello stesso processo e unitamente a quelli statali e comunali. Secondo il protocollo d'intesa richiamato - ed è presumibile che anche gli accordi per la valorizzazione dei beni ex-militari altrove ubicati prevederanno altrettanto -, gli enti promotori del puv (Agenzia del demanio e comune di Bologna) stabiliscono la costituzione di un organo di concertazione che governi i vari processi decisionali, un tavolo tecnico operativo, a composizione paritetica statale e comunale (tre rappresentanti dell'Agenzia e tre del comune). Responsabilità principali dell'organo di coordinamento sono da un lato individuare esattamente i beni da inserire nel progetto di valorizzazione (in particolare quelli di appartenenza comunale e quelli di altri soggetti partecipanti, essendo i beni statali ex-militari individuati dai dm sopra ricordati) e dall'altro individuare le azioni di valorizzazione da realizzare.

La fase progettuale finalizzata alla puntuale scelta di tali azioni passa attraverso la predisposizione di uno studio di fattibilità, richiesto dalla norma stessa [11], finalizzato all'elaborazione delle indicazioni concrete necessarie agli enti promotori del puv per poter decidere le modalità attraverso cui valorizzare i beni coinvolti nel progetto [12]. Il tavolo tecnico enuclea anche i criteri per l'individuazione del soggetto che predisporrà lo studio [13]; tale elaborazione sarà poi affidata da parte dell'Agenzia del demanio secondo le procedure concorsuali richieste per i contratti con la pubblica amministrazione [14]. Una vola elaborato lo studio, sui cui contenuti il tavolo tecnico potrà chiedere modifiche e integrazioni in corso d'opera, seguirà l'approvazione dello stesso da parte degli enti promotori. L'ultima fase precedente all'attuazione sarà quella del recepimento dei risultati dello studio all'interno della pianificazione urbanistica (piano strutturale, regolamento urbanistico, piani operativi).

5. Il coinvolgimento di beni culturali nel progetto di valorizzazione

5.1. Innanzitutto, il diverso significato del termine valorizzazione

Il termine "valorizzazione" applicato ai beni culturali presenta un significato profondamente diverso rispetto al significato che assume quando utilizzato a proposto di beni pubblici "comuni", ossia non funzionali alla soddisfazione di un interesse pubblico. Essa nasce come finalità dell'azione pubblica nei confronti dei beni culturali negli anni '80, quando il patrimonio culturale inizia ad essere considerato come una risorsa, come volano di sviluppo economico a causa delle esternalità che è capace di generare e di cui beneficia il tessuto imprenditoriale circostante - sul versante del turismo, dell'occupazione, dell'immagine delle imprese che ad esso vogliono "collegarsi" - [15], nel tentativo di superare la presunzione di improduttività dello stesso, teorizzata da Musgrave negli anni '50. La valorizzazione, utilizzata a proposito dei beni culturali, è un concetto che racchiude in sé due anime, alquanto diverse tra loro e potenzialmente configgenti: una di genere economico [16] e una che dà voce alla funzione culturale dei beni (l'arricchimento culturale, sociale, intellettivo dell'essere umano). Essa, in questa seconda accezione, è intesa come modalità di accrescimento della conoscenza e della fruizione dei beni.

Recependo tale secondo aspetto, nel 1998 il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, all'art. 148, descriveva i contenuti della funzione di valorizzazione come "ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ad incrementarne la fruizione"; valorizzare un bene culturale, dunque, nella prima definizione legislativa del termine, assume il significato di rendere conoscibile, orientare alla fruizione. Nello stesso solco, il Codice dei beni culturali definisce le funzioni e attività di valorizzazione come quelle "dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso", cui viene aggiunto, in sede di modifica del testo originario, un rivelatore "al fine di promuovere lo sviluppo della cultura" (art. 6, comma 1). Pare dunque questo orientamento alla promozione dello "sviluppo della cultura" il tratto saliente di distinzione tra la "valorizzazione" della generalità dei beni pubblici e la "valorizzazione" dei beni culturali, finalizzazione che fa prevalere sull'aspetto economico la conoscibilità del bene culturale, quindi la possibilità che la sua vocazione sia resa operante.

Quanto all'allocazione delle funzioni di valorizzazione di beni in oggetto, in linea di principio esse spettano allo Stato, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che lega la spettanza di tale funzione all'aspetto dominicale (Corte cost., sentenza 26/2004); la normativa oggetto del presente studio, invece, demanda la valorizzazione in parola all'accordo tra lo Stato e gli enti territoriali interessati, optando dunque per il principio di cooperazione (su cui si tornerà). Ora, considerando l'operazione di recupero del demanio militare non più utilizzato, la domanda fondamentale che sale alla mente dell'interprete è se tale operazione renda possibile "valorizzare" (in senso proprio) i beni culturali che ne sono coinvolti. La riposta non appare scontata. Il dato di partenza dice che tali beni, essendo stati precedentemente utilizzati per fini militari, già fin dall'origine non erano desinati alla fruizione pubblica; non si pone poi neppure la questione se la loro precedente destinazione alle funzioni militari fosse compatibile con il loro carattere storico-artistico, essendo tali beni in genere nati come beni militari e avendo solo successivamente acquisito interesse storico-artistico in quanto testimonianze architettoniche d'epoca.

E' dunque lecito pensare a un recupero dei beni in parola che li trasformi in centri commerciali o sedi di associazioni o ancora asili, ossia un recupero attraverso modalità che escludano la fruibilità generale, cui per principio essi sono sottoposti in quanto beni culturali pubblici [17]? Il punto di equilibrio e di tenuta del progetto predisposto dal legislatore appare il rispetto delle norme garantiste sulla destinazione dei beni culturali, garanzia del prevalere della valorizzazione del bene culturale sulla valorizzazione del bene ex-militare divenuto patrimoniale, e sul connesso controllo ministeriale. Prima di analizzare tale fondamentale aspetto, occorre soffermarsi un istante su una questione preliminare, disciplinata dalle norme esaminate: il diverso procedimento di verifica dell'interesse culturale dei beni ex-militari rispetto alla disciplina contenuta nel Codice dei beni culturali.

5.2. La fase preliminare necessaria: la verifica dell'interesse culturale

Il procedimento per la verifica dell'interesse culturale sui beni militari si diversifica a seconda che essi siano "in uso" al ministero della Difesa (cioè vi si svolgano le relative attività istituzionali - caserme in uso, circoli militari, magazzini, ospedali militari -) oppure essi facciano parte dell'operazione di riqualificazione disposta dalla legge 296/2006, art. 1, comma 263. Nel primo caso si procederà, ai sensi dell'art. 12, comma 3, del Codice dei beni culturali, alla trasmissione dei dati al Mbac secondo le modalità stabilite dal dm 22 febbraio 2007 [18]. Per gli immobili "non più utili" ai fini istituzionali, invece, il procedimento di verifica è disciplinato dalla nuova versione dell'art. 27 [19], comma 13-quater, del d.l. 269/2003, come modificato sempre dalla legge 296/2006, art. 1, comma 263. La norma prevede che il ministero della Difesa rediga l'elenco dei beni da trasferire all'Agenzia del demanio per le operazioni di riqualificazione, d'intesa con l'Agenzia stessa; tale elenco viene poi inoltrato al Mbac affinché compia la valutazione sull'esistenza o meno dell'interesse culturale. Il procedimento disposto prevede che la verifica si compia entro 90 giorni dall'emanazione di ciascuno dei quattro decreti ministeriali di individuazione dei beni, con uno scostamento davvero notevole rispetto alle previsioni contenute nel Codice, ove i 120 giorni previsti come termine per la conclusione del procedimento di verifica decorrono dalla trasmissione dei dati relativi ai beni, ossia dal momento in cui il ministero viene messo in condizione di conoscere le caratteristiche dei beni. Il termine di 90 giorni previsto per i beni ex-militari, peraltro, è configurato come fattispecie di silenzio-inadempimento (art. 2, comma 5, della legge 7 agosto 1990, n. 241), non già come silenzio significativo: la norma non prevede che il decorso del termine produca gli effetti di un provvedimento dichiarativo dell'insussistenza dell'interesse. Dunque, l'effetto del decorso del termine senza che il ministero si sia pronunciato sarà quello di bloccare la pianificazione delle operazioni di recupero, fino al momento in cui non sia sciolta l'incertezza sulla condizione dei beni interessati (a causa dell'applicazione cautelativa della disciplina di tutela che gli artt. 12, comma 1, e 54, comma 2, lett. a), del Codice dei beni culturali dispongono per tutti i beni pubblici che risalgano ad oltre 50 anni).

Successivamente alla verifica, l'Agenzia "apporta le conseguenti modifiche all'elenco degli immobili". Tale disposizione deve essere letta in coerenza con quanto stabilito dall'art. 12, comma 6, del Codice: se la valutazione sulla sussistenza dell'interesse storico-artistico ha esito negativo, è legittima la permanenza nell'elenco (quindi nei dm di individuazione), che comporta la sdemanializzazione e l'assunzione dello status di bene patrimoniale disponibile. Qualora invece l'interesse storico-artistico venga ravvisato, i beni (culturali) ne vanno espunti, in quanto facenti parte del demanio culturale ai sensi dell'art. 822, comma 2, cod. civ. e 53, comma 1, del Codice dei beni culturali. La presenza dei due elementi della sussistenza delle caratteristiche storico-artistiche e dell'appartenenza a un ente territoriale, infatti, anche qualora i beni non debbano più essere considerati parte del demanio o del patrimonio indisponibile a causa del loro asservimento alle esigenze militari, fa "riespandere" l'altra loro caratteristica, intrinseca e non conseguente al loro impiego, della culturalità, che ne implica l'assoggettamento al demanio.

In ogni caso, i beni ex-militari che vengano verificati come culturali dal Mbac potranno essere valorizzati o anche venduti (sul punto si tornerà tra breve), ma necessariamente nel rispetto delle regole poste dalla disciplina di tutela, che, in quanto disciplina speciale, prevale sulla norma generale (nel caso in esame, sulle norme finalizzate alla valorizzazione o alla dismissione).

5.3. Il parametro di legittimità delle scelte sulla destinazione dei beni: il divieto di usi incompatibili con il carattere storico-artistico

La garanzia che un bene culturale coinvolto nei processi di recupero dell'ex demanio militare non veda la propria valorizzazione "travolta" dalla diversa finalità della valorizzazione in senso economico applicabile alla generalità dei beni assoggettati allo stesso processo risiede nei limiti posti dalla normativa speciale e nei relativi poteri degli organi deputati alle funzioni di tutela. I punti salienti in cui si sostanzia la disciplina di garanzia della funzione culturale del bene si possono riassumere nei limiti inerenti la conservazione, nel principio della pubblica fruizione del patrimonio pubblico e nei limiti inerenti la destinazione del bene. Dando per scontati i poteri tesi al rispetto delle esigenze di conservazione, si rileva, quanto al principio della pubblica fruizione del patrimonio culturale pubblico (artt. 2, comma 4, e 101, comma 3, Codice dei beni culturali) che l'autorità pubblica può ordinariamente permettere che tale principio venga compresso, ad esempio autorizzandone la concessione (art. 106, nella versione novellata dal d.lg. 156/2006), che implica l'assoggettamento a un uso particolare; nulla di strano, dunque, se ciò avvenisse per consentire il recupero di un immobile storico ex-militare. Piò complesso appare il discorso sui limiti inerenti le destinazioni cui un bene culturale può essere adibito, limiti che vengono in rilievo in tutte le ipotesi di utilizzazione economica, ove la norma ha lo scopo di impedire che vengano minacciati, al di là della conservazione e dell'integrità, il decoro e la dignità del bene.

Tra le norme di tutela, spicca infatti, per la singolarità dell'oggetto protetto, il divieto di adibire i beni culturali "ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico" (art. 20, comma 1, Codice beni culturali). Mentre la seconda parte della stessa disposizione, nel vietare usi che possano rivelarsi pregiudizievoli per le esigenze di conservazione del bene culturale, appare del tutto in linea con la generalità degli istituti di tutela - che si occupano di proteggere la "fisicità" del bene e di conservare allo stesso le caratteristiche storico-artistiche che ne giustificano la sottoposizione al regime stesso -, la prima parte della norma presenta un oggetto di differente spessore e rilievo: la compatibilità tra la destinazione del bene e le sue caratteristiche culturali. La disposizione si inserisce infatti all'interno degli istituti di "tutela" (titolo I del Codice), tra le "misure di protezione" (sezione I del capo III, Protezione e conservazione). Non si parla qui, dunque, di valorizzazione-orientamento alla fruizione, bensì di tutela, di quegli istituti, cioè, che sono assunti come prioritaria linea di condotta e impegno nei confronti della tipologia di beni di cui ci si occupa e di fronte ai quali le esigenze inerenti la valorizzazione devono cedere il passo (ai sensi dell'art. 6, comma 2, Codice). Detto divieto, poi, già posto dalla norma del 1939 (artt. 11 e 12, legge 1 giugno 1939, n. 1089) appare particolarmente rigido, non ammettendone la norma la deroga neppure dietro autorizzazione ministeriale: la possibilità, infatti, di "porre mano" materialmente al bene è ammessa qualora autorizzata (art. 21), mentre l'ipotesi di uso incompatibile con il carattere storico-artistico non è neppure presa in considerazione. Quanto ai contenuti, il divieto è solo genericamente descritto dalla norma, restandone gli esatti contorni da definire ad opera del giudice, che ha proceduto a individuarne una casistica piuttosto varia [20]. Il divieto è poi assistito da sanzione penale (art. 170).

Occupandoci di riconversione degli immobili ex-militari, la verifica in alcuni di essi di caratteristiche storico-artistiche ne comporterà la sottoposizione al regime speciale dettato dal Codice e, all'interno di esso, al divieto di destinazione incompatibile. Qualsiasi azione, quindi, le pubbliche amministrazioni decidano di porre in essere per valorizzare o alienare (come si dirà tra breve) i beni in questione, non potrà sottrarsi al vaglio ministeriale sulla destinazione che si intende imprimere ai beni; la compatibilità tra la destinazione del bene e le sue caratteristiche storico-artistiche assurge così al rango di parametro di legittimità delle scelte degli enti promotori inerenti le azioni di valorizzazione [21].

Per meglio comprendere la portata della norma, occorre osservarne i contorni più da vicino. Il controllo ministeriale sulla destinazione è stato recentemente generalizzato per tutti i beni culturali, a prescindere dall'appartenenza, ma anche nella prassi amministrativa precedente all'adozione del Codice era invalso l'uso di predeterminare nel provvedimento di vincolo serie di usi consentiti e di usi vietati [22]; è stata invece esclusa dalla giurisprudenza la possibilità di imporre utilizzazioni specifiche [23]. Sul versante della normazione, per gli enti pubblici era già previsto un obbligo di denuncia al ministero sugli usi cui gli enti intendevano adibire gli immobili (culturali) di loro appartenenza (art. 51 del r.d. 30 gennaio 1913, n. 363); vi fu poi un intervento del 1965 [24] che dettava una serie di usi specifici cui i beni di proprietà dello Stato in uso al ministero (della Pubblica Istruzione) dovevano essere adibiti. Successivamente, un decreto dirigenziale del 1997 [25] delegava i soprintendenti al rilascio o al diniego delle autorizzazioni "ad utilizzare i detti beni secondo modalità compatibili con il loro interesse storico od artistico", sulla base del divieto contenuto nell'art. 11, comma 2, della legge 1089/1939 - che lo prevedeva solo per i beni degli enti pubblici -, divieto riprodotto testualmente, quanto a contenuto, dall'art. 21 del Testo unico. Pur in assenza di una norma che prevedesse un generalizzato vaglio ministeriale preventivo sulla compatibilità degli usi, dunque, era ritenuta "scontata" l'esistenza di un potere di consenso sull'uso del bene o almeno sulla sua modificazione, configurandosi il relativo potere come controllo ex post di genere repressivo.

Le modifiche al Codice introdotte nel 2006, invece, introducono un onere informativo generalizzato sul mutamento di destinazione ("il mutamento di destinazione d'uso dei beni medesimi è comunicato al soprintendente per le finalità di cui all'articolo 20, comma 1" - l'art. 21, comma 4). Tale comunicazione può essere intesa come richiesta di autorizzazione avente ad oggetto "il rispetto del divieto di usi incompatibili ex art. 20, comma 1"; "l'esito di questa valutazione se negativo inibisce il mutamento d'uso, se positivo lo assente [26]. La novella al codice, così, sembra fondare un potere ministeriale di controllo preventivo.

Le tipologie di azioni che gli enti territoriali possono pianificare per valorizzare l'ex demanio militare si possono ricondurre a due modelli: gli atti di valorizzazione che presuppongono il mantenimento della proprietà ai soggetti pubblici (concessioni, locazioni, affitti) oppure gli atti che implicano la perdita della proprietà, la mise en valeur unica e definitiva (alienazione, permuta).

Nel primo caso, qualora i beni debbano considerarsi culturali, essi potranno venire assoggettati all'"uso individuale" - ossia riservato ad un numero limitato di soggetti "e come tale destinato a comprimere (e, al limite, escludere) la pubblica fruizione" [27] - solo dietro concessione, ai sensi dell'art. 106 del Codice, che richiede inoltre il pagamento di un canone e il rispetto della condizione che le finalità della concessione siano compatibili con la destinazione culturale del bene. A seguito della modifica del 2006, poi, è previsto che gli enti territoriali, per poter dare in concessione i propri beni culturali, debbano chiedere l'autorizzazione ministeriale, che potrà essere rilasciata solo qualora, tra l'altro, "sia assicurata la compatibilità della destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del bene medesimo".

Se invece la volontà dell'Agenzia del demanio fosse di alienare (o permutare) i beni in questione, il procedimento che necessariamente dovrà seguire è quello indicato dagli artt. 54 ss. del Codice dei beni culturali, norma speciale e dunque prevalente rispetto alle norme generali sulle dismissioni immobiliari pubbliche - le quali non dispongono esplicitamente alcuna deroga alla normativa di tutela, che dunque rimane applicabile -. I beni potranno quindi essere venduti, ma solo qualora non rientrino nelle categorie di beni inalienabili ai sensi dell'art. 54, e in ogni caso lo potranno secondo le procedure, piuttosto garantiste, previste dagli artt. 55-57 del Codice. Le modifiche allo stesso introdotte nel 2006, infatti, rendono le condizioni richieste per l'autorizzazione ministeriale ad alienare davvero garantiste in ordine alla destinazione del bene, dovendo risultare esso, in seguito alla vendita, necessariamente orientato alla fruizione, anche qualora prima non vi fosse fruizione in essere. L'immobile culturale/ex-militare, dunque, anche se venduto, non fuoriesce dal proprio regime pubblicistico; non quanto alla tutela - e all'interno di essa si rammenta il divieto di destinazione incompatibile -, comunque assicurata anche per i beni culturali privati, se "vincolati", ma addirittura gli viene impresso un orientamento alla fruizione collettiva che precedentemente non vi era [28].

La garanzia sulla compatibilità delle attività che potranno essere impiantate all'interno delle strutture in parola con la dignità di cui i beni culturali chiedono il rispetto, così, sarà demandata alle valutazioni delle soprintendenze in sede di comunicazione sul mutamento di destinazione d'uso e, a seconda delle strade che si sceglieranno, in sede di rilascio delle autorizzazioni alla concessione, vendita o permuta.

5.4. Gli equilibri tra i soggetti coinvolti nel processo decisionale: il ruolo e i poteri delle soprintendenze

Come si rilevava, i soggetti che partecipano agli accordi inerenti la valorizzazione dei beni ex-militari sono l'Agenzia del demanio - in quanto ente cui è attribuita dalla norma la gestione anche straordinaria dei beni statali in oggetto, in vista del progetto di riqualificazione - e gli enti locali, con competenze e ruoli diversi.

La necessaria coerenza dei progetti di valorizzazione con gli indirizzi e le strategie di sviluppo urbanistico e territoriale conferisce agli enti locali, in particolare al comune, un potere di primo piano nelle scelte sulle azioni da porre in essere. E' infatti evidente come la gestione dei diversi procedimenti amministrativi necessari per l'attuazione delle iniziative di valorizzazione, soprattutto in riferimento alle procedure urbanistiche, attribuisca all'ente comunale un ruolo fondamentale di collante; inoltre il Piano strutturale comunale costituisce una sorta di primo filtro a monte per l'individuazione degli interventi da realizzare, contenendo indicazioni sull'utilità delle attività presenti sul territorio e sulla loro quantità. Dall'altro lato, la sottoposizione degli interventi a varie discipline settoriali di tutela (ambiente, beni culturali, paesaggio ecc.) conferisce alle amministrazioni statali poteri di conformazione e controllo con cui qualsiasi procedimento deve confrontarsi. Di importanza fondamentale, dunque, sarà la definizione di adeguati modelli di concertazione che riducano le interferenze e le sovrapposizioni tra le competenze dei numerosi soggetti istituzionali statali e locali coinvolti.

Quando i progetti di valorizzazione coinvolgano beni culturali, in questo equilibrio entrano con forza i poteri esercitati dal ministero per i Beni e le Attività culturali, che verranno in gioco in vari momenti.

Oltre ai già richiamati poteri in ordine alla verifica, le soprintendenze saranno chiamate a pronunciarsi nei casi in cui si progetti il compimento di lavori strumentali alla riconversione, che ricadranno sotto l'applicazione di due ordini di norme: saranno sottoposti alle regole di cui agli artt. 31 e 21, comma 4, del Codice in quanto interventi materiali su beni culturali e inoltre rientreranno nell'applicazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) per quanto riguarda la scelta dei soggetti esecutori, che si configurerà come appalto di lavori pubblici concernenti beni culturali [29]. Verranno in gioco i poteri del Mbac in ordine alle destinazioni d'uso dei beni culturali coinvolti nei processi di valorizzazione: la novella introdotta al comma 4 dell'art. 21, come già rilevato, stabilendo che qualsiasi mutamento di destinazione d'uso è comunicato al soprintendente per le finalità di cui all'art. 20, comma 1, sembra fondare un potere ministeriale di controllo preventivo. Tale potere entrerà dunque in ogni progetto di riqualificazione di beni che siano ex-militari e culturali insieme.

Viene poi da domandarsi che tipo di potere sia quello utilizzato dalle soprintendenze per compiere tali valutazioni. In effetti, il potere amministrativo di valutazione in ordine ai beni culturali viene generalizzatamente qualificato come discrezionalità tecnica, pur essendo tale qualificazione piuttosto semplicistica quando riferita al carattere del potere successivamente all'individuazione. Viene da chiedersi, cioè, se la valutazione sulla compatibilità della destinazione con il carattere culturale sia qualificabile come discrezionalità tecnica. L'alta opinabilità delle valutazioni che presiedono agli atti amministrativi che hanno ad oggetto beni culturali ha reso discussa l'applicazione della categoria giuridica della discrezionalità tecnica, valutazione nella quale le determinazioni dell'amministrazione vengono assunte in base all'applicazione di saperi scientifici e specialistici. Se nel momento, invero determinante, dell'individuazione dell'oggetto della tutela l'utilizzo di questo tipo di potere non è in dubbio, altrettanto forse non si può affermare quanto ai poteri che vengono in gioco successivamente, quando il bene è già stato riconosciuto come "culturale" (nelle valutazioni sulla conformazione dell'uso, di autorizzazione a comportamenti incidenti sui beni e in particolare nel momento della valutazione della compatibilità della destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del bene).

Il potere in parola sembra basarsi su un'attività conoscitiva della realtà - attività che evidentemente si compie in base a regole e conoscenze tecniche -, per procedere poi a una valutazione sulla "compatibilità" del comportamento del soggetto che ha la disponibilità del bene con la funzione del bene stesso. Vi sono ipotesi in cui questa valutazione sembra rientrare nell'alveo del potere tecnico-discrezionale a causa della mancanza di una ponderazione degli interessi in gioco (ad es. per gli interventi coattivi - art. 32, Codice -, che si basano sul mero accertamento dello stato di degrado e sulla necessità di porre in essere un'attività di ripristino o restauro, successivamente alla verifica dell'inerzia del privato proprietario). In altri casi sembra venire in gioco un potere vincolato (ad es. per l'autorizzazione alla demolizione, che l'amministrazione può concedere solamente qualora siano venuti meno i presupposti del vincolo [30], implicando la distruzione una rinuncia totale alla protezione del bene, non concepibile per un bene che presenti finalità pubbliche, in quanto tali, indisponibili). Altre volte l'inquadramento del potere appare più dubbio (ad es. per le autorizzazioni alle modifiche o per i progetti di opere sui beni, che si avvicinano senz'altro alle valutazioni tecnico-discrezionali in quanto comportanti l'applicazione di criteri tecnici, ma che sono state valutate dalla giurisprudenza come "esercizio del potere discrezionale dell'amministrazione" [31]). Ancora, vi sono fattispecie di interventi e atti che senza dubbio si sostanziano in un giudizio di opportunità, avente ad oggetto una comparazione, una ponderazione tra gli interessi coinvolti (così per l'autorizzazione a vendere beni di enti pubblici o per la concessione di contributi per l'esecuzione di lavori di restauro)

Di più difficile lettura appare il potere connesso al divieto di usi incompatibili con il carattere storico-artistico del bene. Se infatti il tipo di valutazione che la pubblica amministrazione effettua nel momento in cui valuta l'uso passibile di creare pregiudizio all'integrità e alla conservazione del bene pare assimilabile a una valutazione tecnico-discrezionale, nel momento in cui invece compie la valutazione della compatibilità dell'uso con il carattere culturale esso sembra presentare decisi tratti di discrezionalità amministrativa [32]. Forse il margine di discrezionalità potrebbe ridursi nell'ipotesi della predisposizione di una scheda regolativa, almeno indicativa, sugli usi che già in sede di riconoscimento del bene come culturale si possano ritenere incompatibili, elaborata contestualmente al provvedimento di riconoscimento dell'interesse, se non addirittura da una "scheda tecnica" [33] che orienti il proprietario positivamente in ordine agli usi cui potenzialmente il bene si possa adibire. Tale preventività della regolamentazione dell'uso, infatti, renderebbe le valutazioni dell'amministrazione svincolate dal caso concreto e dalla connessa ponderazione degli interessi in gioco, valorizzando maggiormente l'elemento della regolazione. Si può in conclusione notare come la qualificazione del potere attribuito all'amministrazione con riguardo alla destinazione d'uso dei beni culturali riveli una sorta di "compenetrazione di una discrezionalità amministrativa con una discrezionalità tecnica" [34], il cui tratto caratteristico risiede nella tecnicità delle competenze facenti capo ai soggetti deputati a tali "scelte", cui resta senz'altro estranea la politicità.

6. Riflessioni conclusive

La domanda di fondo che ci si poneva all'inizio di questo lavoro, se possano i (tanti) beni culturali inseriti nei programmi di valorizzazione degli immobili pubblici - e in particolare in quelli inerenti il recupero ad usi civili degli immobili militari non più necessari alle esigenze della Difesa - essere valorizzati in senso culturale, sembra poter ricevere risposta positiva. Esistono infatti strumenti di controllo e garanzia sufficientemente forti da assicurare ad essi la possibilità di dare attuazione alla propria vocazione.

Le soprintendenze detengono infatti poteri non superabili da parte delle altre amministrazioni né da logiche tendenti a utilizzare i beni culturali in senso incompatibile con la loro funzione. Così, nel momento dell'individuazione il silenzio-inadempimento all'interno del procedimento di verifica fa pendere la bilancia dei poteri in gioco decisamente a favore delle soprintendenze, capaci di "bloccare" qualsiasi operazione di valorizzazione/alienazione invocando l'applicazione cautelativa della disciplina di tutela (disposta dagli artt. 12, comma 1, e 54, comma 2, lett. a), del Codice dei beni culturali). In secondo luogo, la disciplina speciale dettata per i beni culturali pubblici (e all'interno di essa le disposizioni sul necessario orientamento alla fruizione pubblica e sui limiti inerenti la destinazione) prevale sulle norme che disciplinano i progetti di valorizzazione, dettati per la generalità dei beni statali [35]. Inoltre, il permanere dello status di demanio per gli immobili culturali non viene messo in discussione (se ne modifica solo il titolo di assoggettamento, da demanio/patrimonio indisponibile militare a demanio culturale), con rilevanti conseguenze in ordine alla loro disponibilità giuridica.

Indubbiamente positive, poi, appaiono le modalità previste dalla legislazione per la pianificazione del recupero dei beni, che danno grande risalto alla cooperazione, compiendo un deciso passo in avanti nella ricerca di modi e sedi di concertazione efficienti, ove la condivisione nell'elaborazione delle politiche di sviluppo territoriale assuma un'importanza primaria. Gli accordi per la valorizzazione dei beni ex-militari e i protocolli d'intesa per la valorizzazione unitaria dei beni rappresentano un'applicazione di tale principio, in coerenza con la parallela impostazione della disciplina sulla gestione dei servizi di valorizzazione dei beni culturali pubblici disegnata dall'art. 112, comma 4, del Codice dei beni culturali, gestione che risulta anch'essa esito di un processo programmato, concordato tra Stato ed enti locali.

La fase successiva, di attuazione dei progetti di recupero non potrà che incentrarsi sulla collaborazione e il coinvolgimento di soggetti privati, imprese e soggetti non profit. Le modalità di valorizzazione predisposte dal legislatore, dunque, mettono insieme dapprima i soggetti pubblici, nella costruzione di un processo integrato di sviluppo del territorio, e successivamente pubblico e privato. Esse appaiono quindi un modello di governance caratterizzato dalla capacità di confronto con gli enti locali, da un lato, per la pianificazione degli interventi di sviluppo locale, e con il contesto sociale e imprenditoriale, chiamato a contribuire alla realizzazione del processo, dall'altro, ove appare rispettata la necessaria distinzione di ruoli tra amministrazione regolatrice e controllore e quel mondo "privato" chiamato dall'art. 118, comma 4, della Costituzione a investire le proprie capacità e risorse in attività di interesse generale.

Il punto di criticità, per il quale occorrerà la collaborazione di tutte le parti coinvolte e sul quale realmente si potrà misurare la tenuta dell'impianto normativo predisposto, sembra rappresentato proprio dall'applicazione dei principi di cooperazione e di leale collaborazione anche nell'esercizio dei poteri di tutela sui beni culturali ricompresi nelle operazioni; anche i poteri conformativi esercitati dalle soprintendenze (in particolare il potere autorizzatorio sulle concessioni e il controllo sulle destinazioni d'uso, oltre alla preliminare verifica negli stretti tempi previsti) dovranno infatti improntarsi ad essi, nel superamento di un sistema di rapporti di genere competitivo caratterizzato dalla contrapposizione di ruoli. Il processo iniziato, dunque, potrà funzionare solo se gli attori coinvolti si attrezzeranno affinché gli accordi di valorizzazione non si fermino sui tavoli delle soprintendenze, il cui impegno dovrà rivelarsi all'altezza delle dinamiche in gioco.

 

Note

[1] I primi dodici erano stati individuati dal decreto del ministro della Difesa, d'intesa con l'Agenzia del demanio, 27 febbraio 2007, per una superficie di quasi 650 mila metri quadrati; gli ultimi sei sono stati aggiunti dal decreto ministeriale 25 luglio 2007.

[2] S. Foà, Il patrimonio immobiliare dello Stato e degli enti territoriali come strumento correttivo della finanza pubblica, in Giorn. dir. amm., 4/2004, 366.

[3] Sulle varie normative cui si fa riferimento, si consenta il rinvio ad A. Serra, Scip, Patrimonio spa e Infrastrutture spa: le società per la "valorizzazione" dei beni pubblici. L'impatto sul regime dei beni trasferiti, in Aedon, n. 2/2005.

[4] Legge 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007).

[5] Art. 27 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326.

[6] D.p.r. 13 settembre 2005, n. 296, Regolamento concernente i criteri e le modalità di concessione in uso e in locazione dei beni immobili appartenenti allo Stato. Il regolamento si applica alle concessioni ordinarie di immobili statali non destinati ad uso abitativo né interessati dai procedimenti di dismissione disciplinati dalle leggi emanate tra il '96 e il 2002; l'art. 4, comma 3, dispone che la concessione può durare al massimo 19 anni.

[7] Nuovo comma 13-bis dell'art. 27 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, come modificato dall'art. 1, comma 263, della legge 296/2006.

[8] Ai sensi del d.l. 269/2003, art. 27, commi 13-ter (come modificato dalla finanziaria 2007, art. 1, comma 263) e 13-quater. Quanto alla cessazione della demanialità e della condizione di patrimonio indisponibile, gli immobili militari sono divisi nelle due categorie delineate dal codice civile del demanio (le "opere destinate alla difesa nazionale", art. 822, comma 1) o del patrimonio indisponibile dello Stato ("le caserme", art. 826, comma 2). La cessazione della demanialità, e il passaggio al patrimonio dello Stato, è rimessa dall'art. 829 cod. civ. a un atto dichiarativo dell'autorità amministrativa che accerti la sopravvenuta mancanza in capo al bene dell'interesse posto alla base della qualificazione. I decreti di individuazione in parola ben possono considerarsi attuazione dell'art. 829, in quanto dichiarativi del venir meno della necessità alle esigenze militari. Per la cessazione della condizione di bene patrimoniale indisponibile, arbitro di tutto è l'effettiva destinazione all'utilizzo da parte dell'amministrazione, cui è inscindibilmente correlato lo status del bene. Momento iniziale e finale, quindi, non possono che coincidere con il dato dell'effettività della destinazione. A tale conclusione si arriva prendendo atto del consolidato indirizzo giurisprudenziale che richiede, per la permanenza dello status, che il bene sia effettivamente, concretamente impiegato nel servizio o ufficio pubblico.

[9] Ministero della Difesa, decreto 27 febbraio 2007, Individuazione dei beni immobili in uso all'amministrazione della Difesa, non più utili ai fini istituzionali, da consegnare al ministero dell'Economia e delle Finanze e, per esso, all'Agenzia del demanio, pubblicato in G.U. n. 155 del 6 luglio 2007.

[10] Le parti tra virgolette sono di G. Vaciago, Dismissione caserme: ora si possono creare i collegi universitari, in Il sole 24 ore, 6 maggio 2007. Per avere un'idea del valore attribuito dalla norma, se per i circa mille immobili interessati è previsto un valore complessivo di 4 miliardi di euro, il loro valore medio sarà di 4 milioni di euro ciascuno.

[11] Art. 1, comma 262, della finanziaria 2007, il quale stabilisce anche che gli studi di fattibilità possono essere finanziati dall'Agenzia del demanio, a valere sul capitolo di spesa "relativo alle somme da attribuire all'Agenzia del demanio per l'acquisto dei beni immobili, per la manutenzione, la ristrutturazione, il risanamento e la valorizzazione dei beni del demanio e del patrimonio immobiliare statale, nonché per gli interventi sugli immobili confiscati alla criminalità organizzata"; il protocollo d'intesa di Bologna prevede la possibile partecipazione al finanziamento dello studio da parte degli altri enti aderenti. I primi due bandi per la predisposizione degli studi di fattibilità, inerenti i puv di Bologna e della Liguria, sono stati emanati e sono reperibili sul sito www.demaniore.com.

[12] Il servizio messo a bando avrà ad oggetto il supporto tecnico-urbanistico, economico-finanziario e giuridico-amministrativo per la definizione da parte degli enti promotori delle scelte sulle migliori strategie di valorizzazione. Gli studi di fattibilità su cui si baseranno le operazioni di riconversione decise attraverso i puv si incentreranno preliminarmente sugli aspetti conoscitivi dei beni coinvolti (status giuridico e urbanistico di ogni singolo bene e di tutti i beni nel complesso, uso in atto, condizioni di conservazione, possibile riconvertibilità e trasformabilità) e dei loro contesti (situazione degli insediamenti e delle infrastrutture presenti o eventualmente carenti), passando poi alla ricognizione delle istanze di razionalizzazione e ottimizzazione degli usi pubblici e governativi dei beni, per valutare in seguito le potenzialità e la necessità di investimenti privati e pubblici (a livello nazionale e comunitario); occorrerà poi la ricognizione degli strumenti normativi a disposizione (in particolare quelli offerti dalla finanziaria 2007) e delle strategie di comunicazione e marketing. Ancora, lo studio di fattibilità dovrà contenere un'analisi della sostenibilità degli interventi, condotta da diverse angolazioni: sostenibilità tecnico-urbanistica (ad esempio l'individuazione delle possibili attività da insediare, l'indicazione delle opere necessarie per la realizzazione degli interventi), sostenibilità economico-finanziaria (ad esempio la quantificazione dei costi relativi agli interventi suggeriti, l'elaborazione di un piano economico-finanziario, la quantificazione del valore di mercato dei beni e del canone dovuto in caso di concessione) e sostenibilità giuridico-amministrativa (ad esempio la definizione delle tipologie degli interventi e la loro quantificazione, l'individuazione del più idoneo iter procedurale per le varie operazioni suggerite). In ultimo, al soggetto che predisporrà lo studio sarà chiesta assistenza tecnica per le fasi di attuazione dello stesso.

[13] Nel protocollo d'intesa di Bologna, a titolo di esempio, è richiesto come requisito per l'affidamento che i soggetti interessati abbiano già realizzato servizi analoghi nel triennio precedente e la presenza nel gruppo di lavoro di figure professionali specifiche (architetti, ingegneri, economisti, giuristi) aventi esperienze specifiche comprovate

[14] Ai sensi dell'art. 55, comma 5, decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.

[15] L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl. 3/2001, 651 ss.

[16] In ossequio alla quale sono state elaborate tutte le varie normative che si susseguono dagli ani '80 inerenti erogazioni pubbliche, incentivi fiscali alle erogazioni liberali da parte di privati, sponsorizzazioni, sfruttamento commerciale dei beni, gestione imprenditoriale, ricerca di fondi, fino al coinvolgimento dei privati dapprima nella gestione dei servizi aggiuntivi ai musei statali (l. Ronchey 4/1993) poi nella gestione complessiva dei servizi culturali.

[17] Ai sensi degli artt. 2, comma 4, e 101, comma 3, del Codice dei beni culturali.

[18] Decreto del ministero per i Beni e le Attività economiche 22 febbraio 2007, pubblicato in G.U. n. 54 del 6 marzo 2007.

[19] Verifica dell'interesse culturale del patrimonio immobiliare pubblico.

[20] Richiamata da M. Brocca, La disciplina d'uso dei beni culturali, in Aedon, n. 2/2006, nota 4.

[21] Coerentemente, il comma 259 dell'art. 1, legge 296/2006, disciplinando la "concessione di valorizzazione" richiama esplicitamente la sottoposizione alle norme di tutela nel mutamento di destinazione dei beni da valorizzare ("anche con l'introduzione di nuove destinazioni d'uso finalizzate allo svolgimento di attività economiche o attività di servizio per i cittadini, ferme restando le disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio").

[22] T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2005, 327.

[23] Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266, in Cons. Stato, I, 1998, 1346.

[24] Legge 30 marzo 1965, n. 340.

[25] Decreto 8 agosto 1997, pubbl. in G.U. 3 novembre 1997, n. 256; art. 1, lett. a).

[26] M. Brocca, La disciplina d'uso, cit.

[27] Sempre M. Brocca, La disciplina d'uso, cit.

[28] La novella al Codice dei beni culturali operata nel 2006, infatti, stabilisce che l'autorizzazione ad alienare possa essere rilasciata solo qualora la vendita "assicuri" "la fruizione pubblica e la valorizzazione" dei beni demaniali - art. 55, comma 2, lett. a) -, ove invece la stesura originaria richiedeva che non ne fosse pregiudicato il "pubblico godimento"; un "mancato pregiudizio" che implicava che un pubblico godimento dovesse essere in atto in costanza di proprietà pubblica. Oggi, in sostanza, la norma non chiede di "mantenere" le condizioni di fruizione e valorizzazione precedenti - che potevano esserci oppure no -, bensì impone di "assicurale" comunque. Sia consentito su questi aspetti, il rinvio a A. Serra, Art. 53-55, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, a cura di M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2007. (?)

[29] Sulla disciplina applicabile, C. Vitale, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali nel nuovo Codice degli appalti, in Aedon, n. 2/2006.

[30] T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali, cit., 318.

[31] Cons. Stato, sez. VI, 25 settembre 1995, n. 964, in Foro amm., 1995, 1922; Cons. Stato 27 dicembre 1994, n. 1079, in Cons. Stato, 1994, I, 1717. Ancora, negli stessi termini, T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 7 dicembre 1994, n. 908, in T.A.R., 1995, I, 623; T.R.G.A. Trento, 8 giugno 1993, n. 192, in T.A.R., 1993, I, 3090.

[32] Così anche T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali, cit., 326.

[33] M. Cammelli, Il quadro, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il Mulino, Bologna, 2003, 23.

[34] A. Catelani, Definizione e disciplina dei beni culturali nell'ordinamento vigente, in I beni e le attività culturali, a cura di A. Catelani e S. Cattaneo, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di G. Santaniello, Padova 2002, 126.

[35] Quand'anche poi la destinazione alla fruibilità dovesse risultare compressa dalle scelte degli enti di appartenenza, non bisogna dimenticare che tale ipotesi è contemplata dal Codice per tutti i beni culturali pubblici, che possono essere concessi dietro autorizzazione ministeriale, quindi adibiti ad usi particolari; tra l'altro, nel caso degli immobili ex-militari si tratta di beni che neppure in precedenza erano destinati alla fruizione. Non si può comunque escludere che in alcuni casi gli enti promotori delle azioni di valorizzazione stabiliscano di adibire gli immobili storici alla pubblica fruizione (per ospitare mostre, spettacoli ecc.). In ogni caso, anche qualora se ne decida l'uso individuale dietro concessione o addirittura la vendita, restano fermi i poteri di controllo ministeriali sulle modalità e condizioni di utilizzo e di destinazione, fulcro della disciplina di garanzia.



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