L'articolo in esame, nel suo primo comma, intende definire la valorizzazione indicando le finalità che la qualificano e che, perciò, dovrebbero distinguerla dalle altre attività/funzioni di cui può essere oggetto il patrimonio culturale, mentre alle disposizioni contenute nel Titolo II, Capo II del Codice, e segnatamente all'art. 111, è rinviata una più puntuale individuazione degli interventi nei quali si estrinseca.
Quanto alle finalità che caratterizzano la valorizzazione, benché la formulazione di questa norma sia stata particolarmente dibattuta, come dimostrano le differenti versioni proposte nelle bozze del Codice, le indicazioni accolte nel testo definitivo non si discostano, sostanzialmente, da quelle del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 il cui art. 148, alla lett. e), ha cercato di offrire la prima identificazione normativa di questa attività che, benché già menzionata e riconosciuta, anche costituzionalmente, quale compito/finalità da perseguire in materia di beni culturali, era rimasta sino ad allora priva di una propria identità giuridica.
Sia pure con alcune variazioni lessicali, dovute essenzialmente ad un'esposizione più articolata e diffusa, la valorizzazione si caratterizza ancora, come lo era nel d.lg. 112/1998, per essere finalizzata alla promozione ed al sostegno della conoscenza, fruizione e conservazione del patrimonio culturale.
La norma in commento si presenta invece come disposizione "nuova" rispetto al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), il quale non riproduceva le scelte del d.lg. 112/1998, ma si limitava ad operare un unico riferimento testuale alla valorizzazione nell'intitolazione del Capo VI, dove compariva unitamente al godimento pubblico, e nella rubrica dell'art. 97, in un contesto normativo dedicato alla espropriazione, fruizione ed uso individuale dei beni, rendendo così difficile individuarne le connessioni con la valorizzazione definita dal decreto legislativo del 1998 [1].
Per il resto, il T.U. si limitava, nel suo art. 104, a rinviare non alla valorizzazione, nell'ampiezza di significato che le era attribuito dall'art. 148 del d.lg. 112/1998, ma ad uno dei contenuti che la qualificavano in base all'art. 152 del medesimo provvedimento, e cioè alla fruizione dei beni culturali, occupandosene, peraltro, al solo fine di prevedere "come", dal punto di vista organizzativo e procedimentale, dovessero essere effettuati i corrispondenti interventi da parte dei diversi livelli di governo [2].
A differenza del T.U., il cui intero impianto conservava numerose e significative distanze dai principi delle riforme amministrative e del settore già avviate dal legislatore ordinario, tanto che neppure veniva recuperata l'individuazione delle funzioni/attività in materia di beni culturali operata con la legge 15 marzo 1997, n. 59 e con il d.lg. 112/1998 [3], il Codice non ha potuto trascurare l'esigenza di collocarsi nel solco dei provvedimenti con i quali si è dato avvio al cd. federalismo amministrativo. La sua adozione nasce, infatti, dalla necessità, di cui si è resa interprete la legge delega 6 luglio 2002, n. 137, con il suo art. 10, di adeguare la disciplina in materia di beni culturali ed ambientali alla riforma costituzionale dell'ottobre 2001.
Il "nuovo" Titolo V, parte seconda, della Costituzione, nel suo art. 117, riprendendo e portando ad ulteriori sviluppi le soluzioni già accolte, per il solo piano delle funzioni amministrative, dalla l. 59/1997 e dal d.lg. 112/1998, ha scelto di fondare il riparto delle competenze normative fra stato e regioni sulle attività/funzioni di cui i beni culturali possono essere oggetto, identificando e conferendo rilevanza costituzionale alla tutela e alla valorizzazione: ascritte l'una (la tutela) alla potestà legislativa esclusiva dello stato; l'altra (la valorizzazione) alla potestà legislativa concorrente di stato e regioni.
Il legislatore costituzionale introducendo, in questo modo, quella che la lettera delle norme autorizza(-va) a considerare una separazione, quantomeno agli effetti delle competenze normative, tra tutela e valorizzazione, ha così conferito nuovo spessore all'esigenza di definire queste attività [4].
L'identificazione dei contenuti e dei confini che qualificano e distinguono la tutela dalla valorizzazione appariva, infatti, alla stregua delle indicazioni costituzionali, funzionale alla comprensione e alla definizione di quali fossero gli ambiti riservati all'intervento legislativo e regolamentare dello stato centrale e di quali fossero quelli disponibili alle autonomie territoriali.
Si comprende dunque perché la formulazione di questa norma sia diventata il terreno per la ricerca di una difficile composizione fra le istanze e le ragioni espresse dal centro e quelle di cui si sono rese interpreti le autonomie territoriali, che nella valorizzazione e nella individuazione degli interventi in cui si estrinseca riconoscevano l'ambito aperto alla loro azione.
Peraltro, la possibilità di pervenire ad una definizione di valorizzazione capace di identificare il ruolo spettante alle autonomie dipendeva anche dalla definizione che, contestualmente, si sarebbe data dell'altra funzione, riservata allo stato: ossia della tutela.
L'esigenza definitoria, così reintrodotta e rafforzata dal legislatore costituzionale, imponeva perciò di superare i limiti delle soluzioni accolte nel d.lg. 112/1998 le cui indicazioni, in merito ai contenuti che qualificavano le diverse attività, proponevano sovrapposizioni e rinvii tali da impedire di comprendere dove si collocasse la linea che distingueva le une dalle altre.
Queste difficoltà riguardavano tanto la distinzione della valorizzazione dalla gestione quanto e, principalmente, la distinzione della valorizzazione dalla tutela. In particolare, era l'accezione eccessivamente ampia in cui veniva assunta la tutela ad impedire di rintracciare il confine che ne delimitava l'ambito ed oltre il quale si sarebbero potute esplicare le attività di valorizzazione.
In effetti, per verificare se e quanto l'art. 6, nel suo primo comma, abbia superato le ambiguità e le incertezze delle definizioni proposte dalla normativa precedente, non è sufficiente considerare la sua sola formulazione letterale, ma è necessario tenere conto del contesto entro il quale essa si colloca per come risulta sia dai rapporti che intercorrono, o non intercorrono, con le "altre" attività di cui possono essere oggetto i beni culturali, sia dai termini in cui il Codice ha ritenuto di attuare le indicazioni costituzionali sul riparto delle competenze, intervenendo perciò stesso sul significato e sul rilievo che, a questi fini, assume l'esigenza di definire gli ambiti ed i contenuti degli interventi che i diversi livelli di governo effettuano nel settore.
A questo proposito, la scelta di non definire altre attività, diverse dalla tutela e dalla valorizzazione, superando in particolare ogni riferimento alla gestione dei beni culturali, che compare solo nella locuzione "forme di gestione", cui è intitolato l'art. 115 del Codice, ha indubbiamente contribuito ad eliminare le difficoltà che si opponevano ad una chiara individuazione di quali fossero gli ambiti che qualificavano la valorizzazione, distinguendola dalla gestione.
Quanto ai rapporti con la tutela, invece, pur dovendosi rinviare al commento della corrispondente disposizione, per un esame attento delle nuove indicazioni fornite dal Codice, qui sembra possibile rilevare che essa, quale "altra" attività inerente ai beni culturali, benché venga fatta oggetto, nell'art. 3, di una definizione che intende tipizzarne l'ambito, riducendo la genericità e la conseguente ampiezza della identificazione che ne veniva effettuata dall'art. 148 lett. c) del d.lg. 112/1998, continua ad essere configurata come funzione caratterizzata da una elevata pervasività, specie quando si considerino gli istituti nei quali si articola, e continua perciò a sovrapporsi a taluni degli interventi che qualificano anche la valorizzazione.
In particolare, queste sovrapposizioni si appalesano nell'essere entrambe funzionali alla conservazione dei beni, sia pure per garantirla, nel caso della tutela, e promuoverla e sostenerla, nel caso della valorizzazione.
Per il resto, la valorizzazione sembra trovare il suo proprium negli interventi volti a promuovere la conoscenza del bene e ad assicurarne l'utilizzazione e la fruizione pubblica: attività, queste ultime, che trovano nel Codice una disciplina separata, benché informata ai medesimi principi e modelli organizzativi.
Certo è che, con il Codice, è la stessa esigenza di definire la tutela e la valorizzazione che subisce modificazioni ed attenuazioni.
Se essa, infatti, alla stregua della lettera della Costituzione, poteva apparire funzionale alla individuazione delle aree di competenza dello stato (tutela) e delle regioni (valorizzazione), la scelta, esplicitata nell'art. 112 del Codice, comma 5, di non eleggere la valorizzazione ad ambito assegnato alle regioni, ma di ripetere, anche per questo profilo, il disegno, già delineato dal d.lg. 112/1998, facendone un compito che spetta al soggetto che ha la disponibilità del bene, salvo un rinvio privilegiato e preferenziale ad un suo esercizio coordinato e concertato tra i diversi soggetti pubblici, ha ridotto la necessità di fornire una definizione, di queste due attività, che valga a fondare un riparto delle competenze normative tra stato e regioni.
La valorizzazione, quando sia posta in essere da soggetti pubblici, diventa, infatti, compito che spetta alle regioni e come tale è sottoposta al loro intervento legislativo, solo se ed in quanto non abbia ad oggetto beni che siano di spettanza dello stato.
In sostanza, il Codice ha inteso mitigare quella separazione tra tutela e valorizzazione che, come da più parti si rilevò, all'indomani della riforma costituzionale, poteva generare difficoltà e conflittualità nell'effettuazione di interventi interessati da continuità ontologiche e funzionali e lo ha fatto proponendo un'interpretazione dell'art. 117, comma 3, che ne riduce il potenziale significato, quanto al ruolo spettante alle regioni in materia di valorizzazione.
Con questa scelta, il Codice ha, peraltro, accolto e riproposto orientamenti interpretativi che il governo già aveva iniziato a promuovere, mantenendo al centro statale una competenza agli interventi di (valorizzazione e) gestione che avessero ad oggetto i beni ad esso riconducibili [5] e che ha poi trovato avvallo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha ritenuto che, anche dopo l'entrata in vigore del Titolo V, debbano valere i criteri che, in merito all'esercizio dell'attività di valorizzazione, aveva dettato il d.lg. 112/1998 e che, appunto, procedono dall'idea che essa spetti al soggetto cui compete la disponibilità del bene [6].
Il primo comma dell'art. 6 diventa, pertanto, la norma con cui si definiscono le attività di valorizzazione che lo stato, per i propri beni, e le regioni, per gli altri beni, sono chiamati e legittimati a porre in essere, pur essendo anche la norma con la quale si identificano le attività di valorizzazione che possono essere poste in essere da soggetti privati, come si evince da altre disposizioni del Codice, in particolare dagli artt. 111, 113 e 120.
Il secondo comma della norma in esame, riprendendo quanto enunciato nell'art. 1, comma 6, ribadisce la subordinazione della valorizzazione alle prioritarie esigenze della tutela, la quale si conferma così parametro ed insieme limite capace di conformare l'estensione e le modalità degli "altri" interventi in materia di beni culturali.
Nel terzo comma ci si limita invece a recepire e a declinare, anche con riferimento alla valorizzazione, quel principio di sussidiarietà orizzontale che l'art. 118, comma 4, della Costituzione ha elevato a criterio che dovrà informare l'allocazione e l'esercizio delle attività di interesse generale. Un principio che trova ulteriori applicazioni nei medesimi artt. 111 e seguenti del Codice, ai quali si faceva prima riferimento.
[1] L. Nivarra, Commento all'art. 97, a cura di M. Cammelli, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, Bologna, 2000, 324 ss.; G. Sciullo, Le funzioni, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2003, 58.
[2] C. Barbati, Commento all'art. 104, a cura di M. Cammelli, in La nuova disciplina...., cit., 336 ss.
[3] M. Cammelli, La semplificazione normativa alla prova: Il testo unico dei beni culturali e ambientali, a cura di M. Cammelli, in La nuova disciplina..., cit., Bologna, 7 ss.
[4] C. Barbati, I soggetti, in Il diritto dei beni culturali, cit., 103 ss.
[5] Cfr. art. 10, decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 come modificato dall'art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 e dall'art. 80, comma 52, della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
[6] Sent. Corte cost. 19 dicembre-20 gennaio 2004, n. 26.