numerocorrentehome../indice../risorse%20web

I beni culturali e il paesaggio, dopo le ultime riforme / La valorizzazione

Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali:
una svolta dopo il d.lg. 156/2006?

di Girolamo sciullo

Sommario: 1. Generalità. - 2. Conferme e novità nei nuovi artt. 112 e 115. - 3. Fondazioni miste e gestione delle attività di valorizzazione. - 4. Valutazione della nuova normativa rispetto a: a) il quadro comunitario. - 5. (segue) b) l'assetto delle competenze dello Stato e delle autonomie territoriali. - 6. (segue) c) la politica legislativa sulla valorizzazione.

1. Generalità

La pressoché totale riscrittura degli artt. 112 e 115 del Codice dei beni culturali e del paesaggio da parte dell'art. 2, comma 1, lett. ff), del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156, è stata segnalata nella comunicazione istituzionale [1], nei mass-media [2] e nei primi commenti [3] come una delle novità più significative apportate dal decreto correttivo.

Obiettivo di questo lavoro è quello di verificare gli aspetti delle innovazioni introdotte come pure saggiare la nuova disciplina alla luce delle tre prospettive che avrebbero composto un'ipotetica Air (analisi impatto della regolazione) applicata alle disposizioni in esame: quadro comunitario, rapporti Stato-autonomie territoriali, politica legislativa sulla valorizzazione. All'interno delle innovazioni introdotte sarà considerato il problema, subito emerso all'attenzione degli operatori del settore, della possibilità che le fondazioni miste pubblico/private, costituite in vista della valorizzazione di beni culturali, possano provvedere alla gestione dei relativi servizi anche senza sottoporsi ad una procedura di evidenza pubblica.

2. Conferme e novità nei nuovi artt. 112 e 115

Secondo la lettura di cui si è fatto cenno all'inizio, le nuove disposizioni degli artt. 112 e 115 darebbero evidenza ai tre momenti che scandiscono idealmente il passaggio dall'indirizzo politico alla gestione operativa nel campo della valorizzazione dei beni culturali, e in particolare dei luoghi e istituti della cultura di cui all'art. 101 del Codice: la definizione delle strategie e degli obiettivi comuni della valorizzazione, riservata agli enti territoriali titolari dei beni da valorizzare; l'elaborazione e lo sviluppo della programmazione degli interventi da parte degli stessi enti, con l'eventuale concorso di soggetti privati non profit; la gestione, infine, dei servizi culturali ad opera degli enti pubblici proprietari ovvero di un terzo concessionario dei servizi, scelto mediante gara. Come dato significativo ulteriore si aggiunge che la gestione diretta riguarderebbe le ipotesi in cui i servizi culturali non presenterebbero un prevalente rilevanza economica, mentre quella indiretta supporrebbe l'opposta configurazione.

Per valutare tale quadro ricostruttivo va considerato, sia pure per punti salienti, quanto prevedono le due disposizioni, accompagnando l'illustrazione con un raffronto fra la nuova e la vecchia disciplina.

Lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali vengono anzitutto abilitati a concludere accordi per definire strategie e obiettivi comuni di valorizzazione e per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale relativamente ai beni di pertinenza pubblica. Gli accordi possono essere su base regionale o subregionale e promuovono l'integrazione, all'interno del processo di valorizzazione, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati. Gli accordi possono riguardare anche beni di proprietà privata, con il consenso dei loro titolari (art. 112, comma 4, primo e secondo periodo).

 Tali previsioni non segnano novità in assoluto: la possibilità di concludere accordi pubblico/pubblico e pubblico/privato era già contenuta nel precedente art. 112, commi 4 e 7. Nuova è la specificazione dell'ambito (anche subregionale) e dei contenuti (di integrazione, ad es. in tema di circuiti turistici, film production ecc.). Quanto ora espressamente consentito era peraltro praticabile anche in precedenza.

Per l'elaborazione e lo sviluppo dei piani strategici di sviluppo culturale gli enti territoriali - tra cui il Mibac, secondo modalità da definirsi in sede regolamentare - possono anche costituire appositi soggetti giuridici, "nel rispetto delle vigenti disposizioni". A tali soggetti sono ammessi a partecipare privati proprietari di beni culturali oggetto di valorizzazione e persone giuridiche private no profit (art. 112, commi 5 e 8).

Anche queste previsioni non rappresentano una novità in assoluto: la possibilità di costituire o di partecipare ad appositi organismi era prevista (per il Mibac cfr. art. 10 decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368) o comunque implicitamente consentita dalla normativa previgente (precedente art. 112, commi 4 e 7). Nuova è semmai la perimetrazione dei partner privati (proprietari dei beni coinvolti, soggetti no profit).

Analogamente è da dirsi per la disciplina di detti soggetti: la possibilità ora esplicitata di conferire loro l'uso dei beni culturali oggetto di valorizzazione (art. 115, comma 7, primo periodo) sussisteva già (precedente art. 115, comma 9), mentre veramente nuovo è il divieto che gli organi preposti istituzionalmente alla tutela partecipino alla gestione di tali soggetti (art. 116, comma 1, terzo periodo).

Risultano stipulabili altresì accordi di portata minore: per regolare servizi strumentali comuni (ad es. la creazione di 'carte musei') o per istituire forme consortili non imprenditoriali per la gestione di servizi comuni (ad es. del servizio biglietteria) (art. 112, comma 9), possibilità questa, di nuovo, in precedenza già praticabile e almeno in parte già testualmente prevista (precedente art. 112, comma 8).

Maggiori le novità per la gestione delle attività di valorizzazione, specificamente dei servizi culturali. Viene ribadita l'alternativa fra la gestione in forma diretta e quella in forma indiretta. Se ne precisano però i contorni: la prima è svolta da parte degli stessi enti titolari dei beni, eventualmente anche in forma consortile pubblica, attraverso strutture dotate di autonomia (art. 115, comma 2). La seconda è attuata tramite la concessione a terzi, selezionati mediante procedure di evidenza pubblica (art. 115, comma 3). Rispetto al passato le variazioni sono rappresentate dalla considerazione, come gestione diretta, di quella attuata in forma consortile pubblica (in precedenza qualificata come indiretta) e soprattutto dalla menzione, come gestione indiretta, solo di quella attuata tramite concessione a terzi (mentre in precedenza veniva indicato anche il ricorso a soggetti costituiti o partecipati in misura prevalente dall'amministrazione titolare dei beni, cfr. l'originario art. 115, commi 2 e 3). A ben vedere, come si avrà occasione di notare, il vero dato di diversità che si cela dietro tali variazioni sta nell'estensione dei casi di affidamento delle attività di valorizzazione mediante procedura ad evidenza pubblica. In particolare, poi, è venuta meno per province e comuni la preclusione del ricorso alla concessione a terzi, in precedenza sancita dall'art. 115, comma 6.

Risultano, inoltre, puntualizzati i rapporti con i concessionari: il contratto di servizio già previsto (precedente art. 115, comma 8) deve ora indicare i tempi e livelli dei servizi da erogare e la professionalità degli addetti. Inoltre, è specificato che l'inosservanza degli impegni assunti può comportare la risoluzione del rapporto concessorio (art. 115, comma 6, secondo periodo).

Viceversa, restano nella sostanza invariate la previsione secondo cui alla concessione delle attività di valorizzazione può essere collegata la concessione in uso "degli spazi necessari all'esercizio delle attività medesime" [prima "del bene culturale oggetto di valorizzazione"] (art. 115, comma 8) - evenienza questa da considerarsi del tutto 'normale' nel caso di concessione dei servizi culturali, cfr. anche art. 115, comma 6, secondo periodo -, nonché quella per la quale i beni culturali conferiti o concessi in uso rimangono assoggettati al regime loro proprio e in particolare alla tutela esercitata dal Mibac (art. 116, primo periodo).

Queste in breve le previsioni dei riformulati artt. 112 e 115. Le complessive continuità/discontinuità in rapporto alla preesistente disciplina emergono con chiarezza e sono articolabili in tre aspetti relativi a: quanto è consentito, quanto è precisato, quanto infine è limitato rispetto al passato. La possibilità che le norme ora esplicitamente consentono (conclusione di accordi, costituzione di soggetti, ecc.) erano già, come si è visto, in precedenza ammesse o risultavano ammissibili, sicché non possono considerarsi novità. In particolare la scansione in tre momenti del passaggio dall'indirizzo politico alla concreta gestione non ha guadagnato granché in termini di proiezione normativa: resta ad individuare momenti logici, ma non si traduce (irrigidendosi) in un'articolazione procedurale necessaria, con fasi dotate di individualità formale.

Di novità può parlarsi a proposito delle precisazioni introdotte (ambito degli accordi anche subregionale, contenuti del contratto di servizio) e della possibilità ora ammessa per gli enti locali di ricorrere alla concessione a terzi per lo svolgimento delle attività di valorizzazione. La relativa portata è però contenuta.

Viceversa, per le limitazioni poste dai nuovi testi si tratta di vere e proprie variazioni, che meritano di essere evidenziate.

In primo luogo, viene circoscritto il novero dei soggetti privati con i quali gli enti pubblici possono concludere accordi per la valorizzazione dei beni culturali di loro pertinenza, in particolare costituendo nuovi soggetti giuridici. Mentre in precedenza valeva solo il limite della "misura prevalente" della partecipazione pubblica ad entità costituite con i privati, ora i possibili partner privati sono rappresentati dai proprietari dei beni oggetto di valorizzazione insieme a quelli pubblici e ai soggetti non profit.

In secondo luogo, è posto il divieto, non esistente in precedenza, per "gli organi istituzionalmente preposti alla tutela" di partecipare agli organi di gestione dei soggetti giuridici appositamente costituiti per elaborare piani di valorizzazione. Il divieto, se può interessare marginalmente le (persone fisiche preposte a) strutture regionali (per gli aspetti in cui sono investiti ai sensi dell'art. 5 del Codice di compiti di tutela), sembra prevalentemente 'pensato' per le strutture del ministero. La presumibile ratio (assicurare, sul piano delle persone fisiche che esprimono le due funzioni, il 'ruolo' della tutela rispetto alla valorizzazione e viceversa) cresce di significato ove si ritenga che tali soggetti giuridici siano destinati non infrequentemente a provvedere anche alla gestione delle attività di valorizzazione.

Infine, vengono rimodulate le modalità di conferimento delle attività di valorizzazione, in particolare dei servizi culturali (compresi quelli aggiuntivi). Ammettendosi la gestione 'diretta' solo da parte degli stessi enti titolari dei beni, singolarmente o in "forma consortile pubblica" e quella 'indiretta' tramite concessione a terzi scelti tramite gara, viene operata una restrizione di rilievo rispetto al passato: gli organismi di collaborazione pubblico/privato, che in precedenza potevano risultare affidatari diretti dell'attività di valorizzazione (a condizione che risultasse prevalente la partecipazione delle amministrazioni titolari dei beni, cfr. art. 115, comma 3, lett. a)), ora non sono esclusi in assoluto dalla possibilità di svolgere dette attività, ma rientrano tra i "terzi" cui le attività possono essere conferite a seguito di procedure di evidenza pubblica. In particolare ciò vale per i soggetti costituiti ai sensi dell'art. 112, comma 5, in vista della elaborazione di piani di valorizzazione. Detto in altre parole, la novità introdotta - che si cela dietro la nuova dicotomia gestione diretta/indiretta - potrebbe essere riassunta in un''apertura alla concorrenza' delle attività di valorizzazione (e in particolare dei servizi culturali), la gestione diretta o l'affidamento senza gara risultando ammesso soltanto nei casi in cui il soggetto pubblico provveda a svolgere l'attività con la propria organizzazione o la gestisca con altri soggetti pubblici in forma consortile pubblica. Nello stesso segno può essere altresì letta l'estensione agli enti locali della possibilità di utilizzo della concessione a terzi.

3. Fondazioni miste e gestione delle attività di valorizzazione

Resta da considerare se tale quadro normativo richieda di essere completato con riferimento all'ipotesi in cui ai soggetti costituiti dagli enti pubblici per elaborare e sviluppare piani di valorizzazione (art. 112, comma 5) detti enti abbiano conferito in uso i beni culturali oggetto di valorizzazione, come ammesso dall'art. 115, comma 7. Il caso numericamente più rilevante è costituita da fondazioni miste (possibili ex comma 8 della medesima disposizione) e ad esso nel prosieguo si farà riferimento specifico, anche se quanto si dirà varrà anche per gli altri soggetti di diritto privato costituiti dalle amministrazioni titolari di beni culturali da valorizzare, vi partecipino o meno privati [4].

Facendo per chiarezza il punto di quanto fin qui emerso, ricordo che le fondazioni miste costituite per elaborare e sviluppare piani di sviluppo culturale (art. 112, commi 5 e 8) possono, ai sensi dell'art. 115, comma 3, risultare concessionarie da parte delle amministrazioni cui i beni pertengono delle attività di valorizzazione, previo espletamento di procedure di evidenza pubblica [5]. Il problema che si pone è se tali fondazioni, nel caso in cui siano divenute conferitarie dei beni da valorizzare ex comma 7 dell'art. 115, possano scegliere di gestire direttamente le attività di valorizzazione dei beni conferiti in alternativa all'affidarli in concessione a terzi, ipotesi quest'ultima espressamente prevista dall'art. 115, comma 3.

La lettera dei commi 2 e 3 dell'art. 115 non menziona tale possibilità. Sussiste però una serie di ragioni per ritenere che la non previsione non vada interpretata come esclusione, ma rifletta soltanto il caso ordinario della fondazione non conferitaria dei beni. Invero, la tesi secondo cui la fondazione conferitaria dei beni non possa provvedere in proprio alle attività di valorizzazione dei beni stessi incontrerebbe i seguenti rilievi:

- L'affidare in concessione un servizio (come del resto un bene), piuttosto che gestirlo direttamente, costituisce in genere una scelta discrezionale e nel campo specifico delle attività di valorizzazione dei beni culturali comporta una "valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia, sulla base di obiettivi previamente definiti" (art. 115, comma 4). In questo caso si tratterebbe di una scelta 'necessitata', anche in presenza di esiti contrari della valutazione operata.

- Il conferimento in uso comporta per il conferitario appunto la possibilità dell'uso del bene, comprensivo concettualmente anche della gestione delle attività inerenti al bene. In questo caso si avrebbe un conferimento con 'divieto d'uso' (nel senso appena detto), non esplicitato dalla norma e perciò in contrasto con il principio di segno opposto desumibile dall'art. 113, comma 3, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (d'ora in avanti Tuel), che vuole indicati tali casi.

- Risulterebbe incomprensibile la ratio della previsione del conferimento. Vero è che solo nel caso del conferimento il beneficiario può procedere ad affidare in concessione a terzi le attività di valorizzazione. Tuttavia tale obiettivo non avrebbe richiesto la previsione del conferimento, giacché sarebbe risultato sufficiente prevedere che gli enti pubblici potessero assegnare al soggetto costituito il compito di espletare la gara per la scelta del concessionario.

- Da ultimo, la fondazione, in quanto entità di diritto privato, è in una posizione di autonomia civilisticamente intesa. Quando sia conferitaria del bene culturale, incontra limiti nell'attività volta alla sua valorizzazione - attività che è espressione di tale autonomia - solo se questi si desumono univocamente dalle disposizioni normative. In questo caso manca un divieto non solo esplicito, ma anche inequivocabilmente desumibile dal sistema, in ordine alla possibilità di procedere alla valorizzazione del bene.

Per tutti questi motivi è da pensare che la formulazione dell'art. 115, comma 2, disciplinante le ipotesi di gestione diretta, sia da reputarsi non tassativa e perciò tale da non escludere una sua interpretazione estensiva in grado di comprendere anche il caso in cui alle fondazioni (e in genere ai soggetti costituiti ex art. 112, comma 5) sia stato conferito in uso il bene della cui valorizzazione si tratta [6].

Del resto che il nuovo art. 115 (e il connesso art. 116) richieda di essere 'interpretato', risulta anche per altri aspetti. La possibilità di chiedere la risoluzione del rapporto concessorio nel caso di grave inadempimento da parte del concessionario sembrerebbe dal comma 6, secondo periodo, riservata alle sole amministrazioni cui pertengono i beni culturali, ma è da pensare che essa valga anche per i soggetti giuridici di cui all'art. 112, comma 5, quando conferitari, giacché tali soggetti procedono all'affidamento in concessione ex comma 3 e a loro (in primis) il comma 6 riferisce la vigilanza sul rapporto concessorio.

Ancora, la risoluzione del rapporto concessorio determina, ai sensi sempre del comma 6 dell'art. 115, la "cessazione, senza indennizzo, degli effetti del conferimento in uso dei beni". Poiché in tale comma il conferimento è riferito ai soggetti di cui all'art. 112, comma 5, sembrerebbe che la risoluzione del rapporto concessorio in capo al terzo determini la risoluzione del conferimento dei beni in capo a detti soggetti. Il che sarebbe evidentemente privo di senso. E' da pensare, invece, che la norma si riferisca all'ipotesi in cui alla concessione delle attività di valorizzazione sia stata collegata la concessione in uso, come recita il comma 8, primo periodo, degli "spazi necessari all'esercizio delle attività medesime". Il che del resto risulta dallo stesso comma, secondo periodo, che collega in termini generali la sorte delle due concessioni.

Infine, il disposto dell'art. 116, secondo cui i beni culturali conferiti in uso restano soggetti "al regime giuridico loro proprio", è da pensare che valga non solo nel caso richiamato dai commi 6 e 7 dell'art. 115 (conferimento ai soggetti costituiti ex art. 112, comma 5), ma anche in quello previsto dal comma 8 (concessione all'affidatario delle attività di valorizzazione), giacché non si vedrebbe la ragione per cui se uno "spazio necessario all'esercizio delle attività" in questione rappresenta un bene culturale, la concessione in uso comporti una modifica del regime giuridico del bene.

In breve tutto si spiega (e si tiene) ove si abbiano presenti i vari (e un po' concitati) rimaneggiamenti subiti dall'art. 115 prima di pervenire all'attuale versione [7].

4. Valutazione della nuova normativa rispetto a: a) il quadro comunitario

La valutazione della nuova normativa rispetto al quadro giuridico comunitario non risulta agevole sia per le incertezze che prospetta il dato di riferimento sia per la pluralità delle fattispecie 'cumunitariamente rilevanti' che gli artt. 112, 115 e 117 (quest'ultimo perché collegato al secondo) consentono di ipotizzare.

Per linee sommarie, e omettendo i passaggi logici di supporto che si danno per noti, può assumersi che le attività di valorizzazione previste dall'art. 115 risultano in genere qualificabili come servizi pubblici [8] (nella terminologia comunitaria servizi di interesse generale) privi di rilevanza economica [9], mentre per servizi aggiuntivi di cui all'art. 117 (per le cui forme di gestione il comma 4 rinvia a quelle previste dall'art. 115) sembra più idonea, almeno di massima, quella di servizi pubblici con rilevanza economica [10]. A sua volta l'affidamento ad appositi soggetti giuridici dell'elaborazione e sviluppo di piani di valorizzazione ex art. 112 appare in astratto suscettibile di inquadramento come appalto pubblico di servizi.

Quanto al quadro della disciplina comunitaria, va solo ricordato che l'appalto pubblico di servizi è oggetto di diritto derivato (in passato precipuamente della direttiva 18 giugno 1992, 95/50/CEE ed ora della 31 marzo 2004, 2004/18/CE), mentre le concessioni di servizi pubblici, se sono escluse da detta normativa [11], sono considerate soggette ai principi fondamentali del Trattato, in particolare da quelli desumibili dagli artt. 43 e 49 (principi di non discriminazione sulla base della nazionalità, di parità di trattamento e di trasparenza) [12]. Principi questi peraltro affermati a proposito dei servizi economici [13], ma in parte (ad es., quello di non discriminazione) ritenuti valevoli anche per i servizi privi di tale carattere [14].

Aggiungasi che in ordine all'applicazione del diritto delle concessioni risulta decisiva la sussistenza almeno potenziale dell'interesse di imprese di altri Stati membri a concorrere [15] e che tanto in tema di appalti che di concessioni continua a giocare un ruolo l'istituto dell'in house providing [16].

Rispetto ad uno scenario che risultava pertanto per più profili accidentato, il decreto correttivo ha operato una scelta netta: salvo che nei casi di gestione da parte dell'ente titolare del bene culturale con strutture interne o in forma consortile pubblica, è stato sancito il ricorso a procedure di evidenza pubblica ai fini dell'affidamento delle attività di cui all'art. 115 (e conseguentemente dei servizi di cui all'art. 117). Si tratta di una scelta sicuramente in linea con i valori ispiratori dell'ordinamento comunitario e al tempo stesso rispettosa di quel principio di concorsualità sempre più di frequente applicato dal giudice amministrativo [17]. Come tale essa va salutata con favore, perché scongiura il pericolo che dietro la spesso invocata 'eccezione culturale' possa annidarsi l'opacità delle scelte amministrative [18].

Bisogna anche aggiungere, peraltro, che tale scelta non si sottrae ad alcune 'sbavature', tanto per eccesso che per difetto. La considerazione deve a questo punto essere però analitica.

Muovendo dall'art. 115 (e di conseguenza dall'art. 117) si può osservare che la gestione diretta tramite "strutture organizzative interne" e quella indiretta affidata tramite procedure di evidenza pubblica non sollevano questioni di sorta [19], mentre quella diretta attuata "in forma consortile pubblica" può ritenersi compatibile con il quadro comunitario nella misura in cui sia riconducibile all'in house, il che almeno in genere dovrebbe risultare possibile [20].

Piuttosto va rilevato che, in astratto, sarebbe risultato ammissibile anche l'affidamento diretto a un'entità di diritto privato a totale partecipazione pubblica [21] e che l'esclusione dalla concessione delle attività di valorizzazione, prevista dall'art. 115, comma 3, a carico dei privati che partecipino ai soggetti di cui all'art. 112, comma 5, non trova supporto nel formante comunitario [22].

L'impressione di 'rigore' che emerge dal nuovo art. 115 (e conseguentemente dall'art. 117) trova del resto conferma ove si comparino le soluzioni previste in tali disposizioni con quelle fissate dall'art. 113, comma 5, del Tuel: anche a supporre che le attività di valorizzazione e i servizi aggiuntivi rappresentino sempre servizi pubblici di rilevanza economica, è facile rilevare che, a fronte della possibilità della gestione diretta tramite strutture organizzative interne o in forma consortile pubblica - possibilità non prevista dalla seconda disposizione - l'altra (l'art. 115) non consente l'affidamento diretto né a "società a capitale interamente pubblico" né a "società a capitale misto pubblico privato" con socio privato scelto mediante procedure di evidenza pubblica (diversamente dall'art. 113, comma 5, lett. c) e b), Tuel). E' fuor di dubbio che quest'ultima forma sia da utilizzare con cautela (v. infra nel testo), ma resta il fatto che essa risulta tuttora prevista dall'ordinamento italiano.

Insomma, quanto basta per potere affermare che il favor espresso dal decreto correttivo verso la concorsualità nell'affidamento delle attività di cui all'art. 115 (e all'art. 117) avrebbe potuto esprimersi, mantenendo intatto il suo valore, in termini meno restrittivi, al limite utilizzando una formula generale del tipo: 'la scelta di gestione delle attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica è operata dalle amministrazioni previa valutazione comparativa in termini di sostenibilità economica-finanziaria e di efficacia, sulla base degli obiettivi previamente definiti, e nel rispetto delle regole fissate dall'ordinamento comunitario'.

Osservazione di segno opposto va condotta a proposito dell'art. 112. Le fattispecie rilevanti da un punto di vista comunitario sono rappresentate dall'affidamento a soggetti giuridici appositamente costituiti per l'elaborazione e sviluppo di piani strategici e dalla scelta dei partner privati chiamati a partecipare a detti soggetti (commi 5 e 8). Relativamente ad esse il decreto correttivo tace quanto alle modalità che dovrà seguire l'ente pubblico, autorizzando l'interpretazione che non sia richiesto l'impiego di meccanismi di evidenza pubblica.

Sennonché va osservato, anche alla luce del Libro verde sul partenariato pubblico-privato, che se la creazione di un soggetto misto (e a maggior ragione solo pubblico) "di per sé non è contemplata dal diritto degli appalti pubblici e delle concessioni" [23] e quindi non sottostà ad esso, l'affidamento di incarichi a tale soggetto (nella specie elaborazione e sviluppo di piani di valorizzazione) in astratto non sfugge allo schema dell'appalto pubblico o della concessione di servizi [24] e solo a certe condizioni risulta coperto dall'istituto dell'in house [25]. D'altro canto la scelta del partner privato risulta anch'essa non indifferente al diritto comunitario, dal momento che si raccorda alla creazione di tale soggetto e all'incarico che l'amministrazione intende a questo affidare, sicché il medesimo Libro verde richiede che l'effettuazione di tale scelta avvenga previa pubblicazione di un bando indicante i compiti che si desiderano affidare al partner privato [26].

In ambedue i casi, pertanto, il problema del rispetto delle modalità dell'evidenza pubblica emerge con chiarezza, ma il decreto correttivo, forse perché focalizzato nell'attenzione alle sole attività dell'art. 115 non l'ha avvertito. Come si è accennato, dunque, la valutazione del quadro comunitario è stata operata, per questi aspetti, per difetto.

Un cenno particolare richiede l'ipotesi, sopra presa in specifico esame, della fondazione mista cui l'ente pubblico partecipi conferendo l'uso dei beni da valorizzare. Si è sostenuto che tale soggetto è da ritenersi abilitato, sul piano del diritto interno, a gestire direttamente le attività di cui all'art. 115 (e dell'art. 117), pur nel silenzio del decreto correttivo. Si tratta ora di valutare se la gestione in forma diretta sia compatibile con il quadro comunitario.

Non si nasconde il dubbio che contro l'ammissibilità della gestione da parte della fondazione possa essere mosso il rilievo che, se la fondazione costituita per gli scopi di cui art. 112, comma 5, potesse provvedere, quando conferitaria dell'uso del bene culturale, alle attività di valorizzazione dello stesso bene e ai servizi aggiuntivi (ex artt. 115 e 117), si realizzerebbe a tappe successive un meccanismo di elusione delle regole comunitarie.

Tuttavia quanto poco sopra osservato vale a parare il possibile rilievo. La fattispecie è inquadrabile nel c.d. partenariato pubblico-privato istituzionalizzato (ossia in quello che si attua con la creazione di un'entità detenuta congiuntamente dal partner pubblico e da quello privato) [27]. La scelta del partner privato va operata attraverso il meccanismo dell'evidenza pubblica, perché prodromica alla creazione del soggetto misto e del conferimento ad esso di una missione duplice - elaborazione e sviluppo del piano (ex art. 112) e gestione delle attività di valorizzazione e dei servizi aggiuntivi (ex artt. 115 e 117) - e come tale in prevalenza riconducibile allo schema della concessione di servizio pubblico.

Il punto decisivo è costituito dal quesito se la scelta previa gara del partner privato dispensi l'amministrazione dal ricorrere alla procedura di evidenza pubblica ai fini del conferimento alla fondazione mista dell'anzidetta missione. Sul piano meramente formale, invero, tale soggetto risulterebbe beneficiario di un'affidamento diretto (sicuramente non inquadrabile nell'istituto dell'in house, trattandosi di organismo misto [28]) e quindi contrario al diritto comunitario.

Il quesito non è stato ancora affrontato dalla giurisprudenza comunitaria e ha trovato risposte contrastanti in quella italiana [29].

A mio avviso, se si muove dall'idea che la disciplina comunitaria in tema di appalti e concessioni persegue l'obiettivo della parità di trattamento fra gli operatori interessati degli Stati membri [30], sembra potersi pienamente condividere la tesi [31] che ritiene sufficiente il ricorso all'evidenza pubblica per la sola scelta del partner privato, in presenza di condizioni che assicurino il legame funzionale fra tale scelta e la missione da affidarsi all'organismo misto (focus del contenuto della gara sulla missione da realizzare, durata della partnership commisurata alla durata della missione, non modifiche alle condizioni di partecipazione del privato nel corso della vita dell'organismo).

5. (segue) b) l'assetto delle competenze dello Stato e delle autonomie territoriali

La valutazione delle nuove disposizioni con riguardo all'assetto delle competenze dello Stato e delle autonomie territoriali deve muovere da due dati di base, ampiamente già in circolo e che perciò sarà sufficiente richiamare sommariamente.

Anzitutto gli artt. 112 e 115, nella sistematica del Codice e per contenuti, si collocano nell'area della valorizzazione, materia questa che conosce un duplice riparto di competenze legislative, orizzontale (allo Stato la disciplina dei beni di sua appartenenza e disponibilità ex comma 2 degli artt. 102 e 112; cfr. anche Corte cost. 20 gennaio 2004, n. 26) e verticale (per gli altri beni riparto fra Stato e regioni secondo lo schema della legislazione concorrente ex art. 117, comma 3, Cost.) [32].

Il dato comporta che gli artt. 112 e 115 del Codice, nel disciplinare in termini generali la "valorizzazione" e la "gestione" dei beni culturali di appartenenza pubblica, pongono una disciplina destinata a valere, ad un tempo, integralmente per i beni dello Stato e nella sua disponibilità, e limitatamente ai soli principi fondamentali [33] - essendo il resto di spettanza regionale - per gli altri beni.

Da questo punto di vista la considerazione che le nuove disposizioni - non diversamente del resto dall'art. 115 originario [34] - presentino il carattere della normativa anche di dettaglio, se può suscitare dubbi in un'ottica di politica legislativa sulla valorizzazione [35], non può dar luogo a censure di incompatibilità costituzionale con riguardo al riparto delle competenze.

Come in passato, pertanto, si pone il problema - dalle soluzioni sempre altamente opinabili - della puntuale individuazione dei principi fondamentali espressi dalla normativa.

Al riguardo viene in rilievo il secondo dato di cui tener conto. L'art. 115, considerato con riguardo ai servizi culturali degli enti locali, si pone in rapporto di specialità con la disciplina sui servizi pubblici locali dettata dagli artt. 112 ss. del Tuel [36], dalla quale, come è noto, risulta ormai espunto - a seguito della pronuncia della Corte costituzionale 13 luglio 2004, n. 272 - l'art. 113-bis, relativo ai servizi "privi di rilevanza economica".

La specialità fa sì che la disciplina dell'art. 115, pur prevalendo su quella generale del Testo unico, trovi in questa la sua ambientazione e i dati di riferimento caratterizzanti. Inoltre, e in particolare, orienta l'individuazione dei principi fondamentali espressi dall'art. 115. Come ha chiarito, infatti, la pronuncia 272, in tema di servizi pubblici locali (e regionali) non si configurano per la legislazione statale se non specifici titoli di intervento [37]. L'interprete, pertanto, è indotto a valutare come principi nell'art. 115 solo i disposti normativi che si colleghino a caratteri propri dei beni culturali, ossia che considerino i servizi culturali locali (e per analogia regionali) non tanto o comunque non solo come servizi pubblici, quanto piuttosto come servizi culturali, servizi cioè segnati dalla specificità dei beni cui fanno riferimento. In altre parole, la competenza regionale di tipo residuale in tema di servizi pubblici locali [38] (e regionali) si riflette in una lettura 'restrittiva' dei principi desumibili dall'art. 115 [39].

Tenendo conto anche di questo criterio interpretativo si può procedere ad indicare i principi fondamentali contenuti nella nuova normativa.

Dall'art. 112 emergono:

- il principio della cooperazione fra soggetti pubblici e quello dell'accordo come sua traduzione operativa, come criteri guida nella progettazione e nello svolgimento delle funzioni e attività di valorizzazione dei beni culturali pubblici (ex commi 4, 6 e 9). Principi che possono essere declinati anche in forme istituzionalizzate (creazione di appositi soggetti) (ex comma 5 e 9);

- il principio della collaborazione fra il pubblico e il privato nella valorizzazione dei beni culturali pubblici (ex comma 8);

- il principio della integrazione degli interventi di valorizzazione, nel duplice senso che essi possono riguardare contestualmente beni culturali anche privati (ex comma 4 e 8) e che la politica di valorizzazione deve tendere a saldarsi con altre politiche territoriali (concernenti le infrastrutture e settori produttivi) (ex comma 4).

Accanto a tali principi può menzionarsi per stretta connessione, sebbene contenuto nell'art. 116, quello consistente nel divieto per gli organi istituzionalmente preposti alla tutela di partecipare agli organismi di gestione dei soggetti creati ex art. 112, comma 5.

Viceversa le altre previsioni hanno specifico riguardo all'organizzazione o all'attività dello Stato (ad es., il comma 7) oppure si presentano come svolgimento di tali principi (ad es., la qualità non profit delle persone giuridiche private coinvolte ex comma 8) e come tali sono da reputarsi di dettaglio.

Nell'art. 115 possono indicarsi come principi:

- la possibilità che il servizio culturale sia organizzato come servizio "a rilevanza economica" (la "concessione a terzi" di cui al comma 3 è forma tradizionale di gestione per servizi di tale natura) oppure come servizio "senza rilevanza economica" (secondo la prevalente configurazione, che l'art. 113-bis, comma 3, Tuel riprendeva). La possibilità comunque trova fondamento nell'autonomia organizzativa di regioni e enti locali (artt. 114, comma 2, e 117, commi 4 e 6, Cost.);

- la possibilità della gestione in forma diretta o indiretta (ex comma 2 e 3), quando il servizio culturale sia organizzato come servizio "privo di rilevanza economica" [40];

- nel caso di gestione in forma diretta, necessità che la struttura preposta sia dotata di autonomia scientifica, organizzativa ecc. e provvista di idoneo personale tecnico (ex comma 2).

Come disposizioni, poi, che trovano applicazione anche per i servizi regionali o locali devono considerarsi, nel caso di servizio organizzato "a rilevanza economica", quella che richiede la procedura di evidenza pubblica per la scelta del terzo concessionario (comma 3) e, nel caso di servizio "senza rilevanza economica", quella che impone che il contratto di servizio fra ente e concessionario indichi "i livelli essenziali che devono essere comunque garantiti per la pubblica fruizione del bene" (comma 5). Si tratta di previsioni che, a prescindere dal carattere di principio o di dettaglio presentato, trovano copertura nelle competenze costituzionali dello Stato in materia di servizi pubblici locali secondo la lettura contenuta nella pronuncia 272/2004.

Al contrario altre previsioni, in particolare quelle che individuano le forme organizzative in cui si realizzano la gestione diretta e quella indiretta (commi 2 e 3) e i relativi presupposti di utilizzo (comma 4), non sembrano configurarsi come norme-principio perché non risultano connesse a caratteri propri dei beni culturali. Per esemplificare, che la collaborazione pubblico-pubblico debba avvenire solo "in forma consortile pubblica" (e non possa realizzarsi con una modalità organizzativa di diritto privato) o che la collaborazione pubblico-privato non possa dar luogo alla creazione di organismi, che nel rispetto del quadro comunitario sopra delineato, possano risultare affidatari diretti di servizi culturali, appare scelta possibile per lo Stato a proposito dei suoi beni culturali, ma non in grado di vincolare il legislatore regionale. Invero essa non appare connessa a tratti peculiari dei beni culturali, anzi semmai non coglie appieno le potenzialità racchiuse nei principi di cooperazione, collaborazione e integrazione sopra indicati.

Alla luce di questo quadro ricostruttivo può considerarsi, per completezza, l'assetto dei servizi culturali degli enti locali in assenza di disposizioni di legge regionale che disciplini le relative forme di gestione.

L'ente anzitutto potrà configurare il servizio "privo di rilevanza economica" oppure "a rilevanza economica". Nel primo caso la scelta della forma di gestione potrà cadere fra quelle che sulla base del Tuel o del codice civile risultano idonee allo svolgimento di un servizio configurato con tale carattere (si pensi in particolare all'istituzione, al consorzio, all'associazione, alla fondazione pura e a quella di partecipazione). Il tutto nel rispetto, ai fini dell'affidamento del servizio del quadro comunitario e giurisprudenziale interno, che 'suggeriscono', quando si dia luogo alla creazione di organismi misti o si ricorra all'esternalizzazione, un momento di evidenza pubblica.

Nel secondo caso (servizio "a rilevanza economica") dovrà tener conto della connessione sussistente tra l'art. 115 del Codice e l'art. 113 del Tuel.

Dall'art. 113, comma 3, del Tuel si desume che un servizio con tale carattere può essere gestito solo da una società di capitali (a capitale privato, misto o pubblico), individuata in base a procedura di evidenza pubblica (lett. a)) oppure, a certe condizioni, direttamente dall'ente (lett. b) e c)).

L'art. 115, comma 3, del Codice, nello stabilire per la scelta del terzo la procedura ad evidenza pubblica [41] pone, sotto questo profilo, una deroga alla previsione del Tuel.

Ne deriva che come soggetto gestore del servizio culturale non potrà che fare ricorso a "terzi", intesi come società di capitali (quale che sia la composizione dei soci), in ogni caso scelti con procedura ad evidenza pubblica.

6. (segue) c) la politica legislativa sulla valorizzazione

Da ultimo consideriamo gli artt. 112 e 115 in chiave di politica legislativa sulla valorizzazione. Il tema è il seguente: la riformulazione pressoché completa delle due disposizioni ha agevolato le possibilità di interventi di valorizzazione sui beni culturali ad appartenenza pubblica?

Preliminarmente non può non osservarsi che il legislatore delegato, con una riscrittura ad ampio raggio, complessa e spinta anche al dettaglio, non ha colto l'occasione per mantenere stabile nel tempo la normazione primaria o almeno per innovarla in termini di chiarezza e sobrietà. Non ha optato cioè per quel tipo di regolazione che quanti con maggiore consapevolezza operano sul campo continuano a ragione ad invocare [42]: limitata ai soli principi indeclinabili da valere tanto per lo Stato che le autonomie territoriali e che per il resto (svolgimento ed implementazione) si affida all'autonomia organizzativa e tecnica degli enti nonché ai meccanismi di cooperazione istituzionale e di collaborazione pubblico-privato, funzionanti secondo moduli consensuali.

Viceversa si è scelta una regolazione fortemente 'conformativa', che a dispetto delle possibilità che schiude - nel complesso, come rilevato, non nuove in assoluto -, e a parte taluni profili senz'altro condivisibili - in particolare l'affermazione del criterio dell'evidenza pubblica a presidio della 'buona amministrazione' -, per altri profili suscita dubbi o quantomeno risulta oscura quanto alle ragioni che l'hanno determinata.

Anzitutto la cooperazione istituzionale, se viene promossa nel momento dell'indirizzo e della programmazione, risulta limitata in quello della attuazione degli interventi. Senza una ragione convincente nella c.d. gestione diretta essa deve svolgersi "in forma consortile pubblica", senza poter in alternativa utilizzare gli schemi del diritto privato. D'altra parte il rinvio alla decretazione ministeriale per la definizione di modalità e criteri in base ai quali il ministero parteciperà a soggetti giuridici (art. 112, comma 7) rischia di fungere da fattore di freno alla collaborazione istituzionale, in particolare quando interessi beni culturali statali.

Soprattutto non è incoraggiata la collaborazione pubblico-privato. La non previsione dei privati (neanche di quelli non profit) nella definizione delle strategie di valorizzazione (art. 112, comma 4) e la non previsione dei privati profit fra quanti possono partecipare ai soggetti appositamente costituiti per la elaborazione e lo sviluppo di piani di valorizzazione (art. 112, comma 8) [43], ancor prima che soffrire di un pre-giudizio 'culturale', si pongono in antitesi con quel principio di integrazione degli interventi, a ragione menzionato dall'art. 112, comma 4. Viene da domandarsi, infatti, se l'integrazione della politica di valorizzazione con altre politiche territoriali (delle infrastrutture e dei settori produttivi) - ad es., per la creazione di distretti culturali - possa davvero prescindere dal coinvolgimento anche di attori economici.

A livello della gestione delle attività di valorizzazione il rapporto pubblico-privato non è menzionato. E' ben vero che fra i "terzi" possibili concessionari di tale attività scelti con procedure ad evidenza pubblica possono ben figurare anche soggetti misti, ma il quadro comunitario, come si è detto, non escludeva l'affidamento diretto (di certo dotato di maggiore stimolo per l'istaurarsi di rapporti collaborativi) quando 'a monte', al momento cioè dell'individuazione dei partner privati, fosse stata spostata l'evidenza pubblica.

A suscitare però le maggiori riserve è il fatto che nel processo di valorizzazione il passaggio fra il momento iniziale, della formulazione degli indirizzi, e quello finale, della traduzione in fatti gestionali - si potrebbe dire il passaggio dall''area' dell'art. 112 a quella dell'art. 115 - è considerato riflettere momenti distinti non solo sul piano logico, ma anche su quello operativo. In realtà - dati di diffusa esperienza lo confermano - tali momenti costituiscono sovente una 'filiera' senza soluzione di continuità, nel senso che la formulazione degli indirizzi, le indicazioni programmatorie e le scelte della forma gestionale del servizio culturale (ma perfino dei servizi aggiunti, e soprattutto le scelte di integrazione delle politiche) sono negoziate e concordate, almeno per l'essenziale, in un unico 'tavolo', i cui partecipanti esauriscono la platea dei soggetti che verranno coinvolti negli aspetti principali del processo. In altre parole, spesso il 'progetto' per la valorizzazione e gestione di un bene culturale rappresenta un'entità unitaria in cui le scelte gestionali, lungi dal porsi come momento temporalmente staccato e terminale, orientano la stessa definizione degli indirizzi generali, secondo un processo di tipo circolare.

Da questo punto di vista la non previsione (almeno esplicita) che i soggetti costituiti ex art. 112, comma 5, possano gestire direttamente il bene, neppure quando siano affidatari dell'uso dello stesso, e il divieto per i privati partecipanti a detti soggetti di risultare, neanche se seguito di gara, concessionari delle attività di valorizzazione (ex art. 115, comma 3), rappresentano fattori di ostacolo in un percorso integrato di valorizzazione e gestione. Costringendo ad allargare la cerchia dei partner coinvolti e riducendo le convenienze ad entrare in partnership, quantomeno rallentano la definizione e realizzazione del progetto complessivo.

Che in sede ministeriale si siano sottovalutati tali profili può forse spiegarsi considerando che la creazione di organismi gestionali misti di beni culturali dello Stato è risultata in questi anni episodica. Molto più ricca è stata, invece, la prassi delle autonomie territoriali, che in particolare ha visto il fiorire di fondazioni miste, specie di partecipazione. In questa ottica si potrebbe perfino sostenere che il nuovo art. 115 rischia di porre un freno a queste esperienze di valorizzazione.

Al fondo, però, forse più che un difetto di consapevolezza ha giocato un ruolo decisivo una sorta di sfiducia nei confronti dell'amministrazione, che da una supposta o temuta incapacità di far fronte alle pressioni provenienti dalla società civile (il mercatismo?) si è inteso salvaguardare con la posizione di 'vincoli e paletti'. Ma questo - come si sa, anche se non consola - è un atteggiamento più generale, non limitato all'amministrazione dei beni culturali.

Note

[1] Comunicato del 3 aprile 2006 dell'Ufficio legislativo del ministero.

[2] A. Cherchi, Cambia la gestione dei musei, in Il Sole-24 Ore del 12 maggio 2006.

[3] P. Carpentieri, Ecco come è cambiato, in Leggi dell'arte. Rapporto annuale 2006, in Il Giornale dell'arte, 2006, n. 253, 2, Id., I decreti correttivi e integrativi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. e app., 2006, 628 ss. Per una approfondita analisi di tali disposizioni cfr. ora C. Barbati, Le forme di gestione, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, II ed., Bologna, Il Mulino (di prossima pubblicazione), par. 1, 2 e 4.

[4] Nel caso, invece, di organismi di diritto pubblico costituiti da soggetti pubblici è da pensare che si rientri nell'ambito della "forma consortile pubblica" (formula questa significativamente aspecifica), idonea, ex art. 115, comma 2, ad attuare la gestione diretta.

[5] E' appena il caso di rilevare che l'esclusione, posta dall'art. 115, comma 3, dalla possibilità di essere individuati come concessionari delle attività di valorizzazione è dettata per "i privati che eventualmente partecipano ai soggetti indicati all'articolo 112, comma 5" e non per i soggetti partecipati, né ad essi può essere estesa per via analogica trattandosi di una limitazione alla sfera di autonomia negoziale.

[6] Per una conclusione addirittura più ampia cfr. P. Carpentieri, I decreti, cit., 629, per il quale "resta impregiudicata la possibilità, nei limiti consentiti dal diritto comunitario, di affidamenti in house, al ricorrere di tutti i presupposti e con le condizioni stabiliti dalla Corte di giustizia della Comunità europea". Aldilà di quanto prescrive o consente il diritto comunitario (tema sul quale infra nel testo) e della circostanza che almeno la lettera dell'art. 115 non suffraga l'indicata possibilità, va preso atto che anche chi muove da una lettura restrittiva dell'art. 115, comma 2 ("si è dunque chiarito che la gestione diretta è costituita esclusivamente dall'esecuzione del soggetto titolare del bene, mediante strutture organizzative interne (ferma restando la generale capacità degli enti titolari di riunirsi in consorzio...) [corsivo mio]" (op. loc. cit.), finisce con l'uscire dalle strettoie imposte dalla lettera della disposizione.

[7] Può ricordarsi che nel testo del decreto legislativo correttivo sottoposto al parere della Conferenza unificata l'art. 115 subiva solo limitate modifiche e che nell'imminenza dell'approvazione definitiva del decreto sono circolate varie versioni della sua riformulazione.

[8] Del resto l'art. 101, comma 3, qualifica come "servizio pubblico" l'attività svolta dagli istituti e luoghi della cultura.

[9] Per la distinzione comunitaria fra servizi di natura economica e servizi di natura non economica (solo i primi implicanti l'offerta di beni o servizi su un dato mercato) - cui in genere è sovrapposta quella utilizzata nel testo, desunta dagli artt. 113 e 113-bis del Tuel- cfr. Commissione delle Comunità europee, Libro verde sui servizi di interesse generale, COM (2003) def., del 21 maggio 2003, punto 43; Id., Relazione al Consiglio europeo di Laeken, COM (2001) 598 def., del 17 ottobre 2001, punto 30; Corte di giustizia CE, 12 settembre 2000, cause C-180-184/98, Pavel Pavlov, punto 75; Corte cost., 27 luglio 2004, n. 272, punto 4 in diritto; TAR Lazio, Sez. Latina, 5 maggio 2006, n. 310. Per la relatività di tale distinzione (per il carattere dinamico ed evolutivo presentato, per la possibile coesistenza di servizi economici e non all'interno di uno stesso settore, per la possibile presenza di un mercato a monte della fornitura di servizi non economici, per le condizioni infine con cui il servizio viene prestato) cfr. lo stesso Libro verde, cit., punti 44-46; TAR Liguria, Sez. II, 28 maggio 2005, n. 527. Cfr. anche Corte di giustizia CE, 22 maggio 2003, causa C-18/2001, Taitotalo, punto 48, in tema di bisogni d'interesse generale aventi o meno carattere industriale o commerciale. Con specifico riguardo ai servizi in ambito culturale cfr. da ultimo P. Michiara, I servizi pubblici locali tra mercati protetti e libertà di iniziativa economica, in questo numero, par. 3. Pertanto, con riferimento a tali servizi -tradizionalmente considerati non economici (cfr. Libro verde, cit., punto 47) - potrebbe forse parlarsi di presunzione (di fatto) di non economicità.

[10] Contrariamente a quanto autorevolmente sostenuto (cfr. G. Corso, Artt. 112-113, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, a cura di M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2000, 360; S. Foà, Art. 117, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2004, 460) la triangolarità del rapporto (il fatto che il servizio sia prestato a favore del cittadino/utente), il pagamento del corrispettivo da parte di questo e non dell'amministrazione e, in particolare, la sopportazione del rischio di gestione da parte del fornitore del servizio -elementi questi che connotano la concessione rispetto all'appalto di servizi, cfr. Commissione delle Comunità europee, Comunicazione interpretativa sulle concessioni nel diritto comunitario, in GUCE 121 del 29 aprile 2000, punto 2.2.; Corte di giustizia CE, Sez. I, 13 ottobre 2005, causa C-458/03, Parking Brixen, punti 39-40; TAR Lazio, 310/2006, cit.. V. ora l'art. 1, par. 4, della direttiva 31 marzo 2004, 2004/18/CE) - depongono per la qualificazione indicata nel testo, almeno, si ripete, in linea di massima.

[11] Cfr. art. 18 della direttiva 2004/18/CE.

[12] Cfr. Corte di giustizia CE, Sez. I, 6 aprile 2006, causa C-410/04, AMTAB Servizio, punti 17-24, anche per i precedenti.

[13] Cfr. Libro verde, cit., punto 43, cui si richiama anche Corte cost., 272/2004, cit., punto 4 in diritto; Comunicazione interpretativa, cit., punto 2.4.

[14] Cfr. ancora il Libro verde, cit., punti 33 (3) e 43. Il principio di non discriminazione, secondo la giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia CE, 7 dicembre 2000, causa C-324/98, Teleaustria, punti 60-62), comporta un "obbligo di trasparenza", consistente in particolare nel vincolo di "garantire, in favore di ogni potenziale offerente, un adeguato livello di pubblicità".

[15] Secondo Corte di giustizia CE, Grande Sezione, 21 luglio 2005, causa C-231/03, Coname, gli artt. 43 e 49 del Trattato ostano ad un affidamento diretto di una concessione di servizi (punti 15 ss.), a meno che, "a causa di circostanze particolari [da apprezzarsi da parte del giudice nazionale], come un valore economico molto limitato, si possa ragionevolmente sostenere che un'impresa con sede in uno Stato membro diverso da quello cui appartiene [l'amministrazione concedente] non avrebbe interesse alla concessione controversa" (punto 20).

[16] Per gli sviluppi recenti della giurisprudenza comunitaria su tale istituto cfr. Corte di giustizia CE, AMTAB Servizio, cit., punti 24 ss.; Parking Brixen, cit., punti 56 ss.; Sez. I, 10 novembre 2005, causa C-29/04, Commissione/Austria, punti 45 ss.; Sez. I, 11 gennaio 2005, Stadt Halle e RPL Lochau, causa C-26/03, punti 49 ss.

[17] Cfr. di recente Cons. Stato, Sez. III, 25 gennaio 2005, n. 168, che ha affermato l'applicabilità dei principi del Trattato, oltre che alle concessioni di servizi, agli appalti sotto soglia, ai "contratti diversi dagli appalti tali da suscitare l'interesse concorrente delle imprese e dei professionisti e, infine, alle stesse concessioni di beni pubblici di rilevanza economica", punto 3.3, e sulla scia TAR Liguria, Sez. I, 26 gennaio 2006, n. 225. Ampi riferimenti in D. Casalini, L'organismo di diritto pubblico e l'organizzazione in house, Napoli, Jovene, 2003, 298 nt. 112 s.

[18] Pericolo non avvertito da TAR Lazio, Sez. II, 17 novembre 2005, n. 11471. Per pertinenti rilievi critici cfr. P. Michiara, I servizi, cit., spec. par. 3.

[19] Per la prima cfr. Corte di giustizia CE, Stadt Halle e RPL Lochau, cit., punto 48.

[20] Invero è da pensare che possa essere senza eccessive difficoltà soddisfatto il requisito del 'controllo analogo', per la cui nozione cfr. Corte di giustizia CE, Parking Brixen, cit., punto 65. Del resto, come nota la Corte nella pronuncia appena richiamata (punto 47), nella sentenza 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal (alla quale come è noto 'risale' l'istituto dell'in house), la controparte dell'amministrazione aggiudicatrice era un consorzio costituito da più amministrazioni, al quale partecipava l'amministrazione aggiudicatrice in questione.

[21] Cfr. Corte di giustizia CE, AMTAB Servizio, cit., punto 33, con riferimento ad una "società della quale [l'ente pubblico] detiene l'intero capitale", a condizione beninteso che ricorrano i requisiti dell'in house.

[22] Come agevolmente si evince da Commissione delle Comunità europee, Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati e al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, COM (2004) 327 def., del 30 aprile 2004, punto 64, secondo cui "se l'entità mista funge da organismo aggiudicatario, tale funzione implica anche il rispetto del diritto applicabile in materia di appalti pubblici e concessioni. (...) Il partner privato non può, infatti, approfittare della propria posizione privilegiata nell'entità mista per riservarsi alcuni compiti senza procedere preliminarmente a un bando".

[23]Libro verde relativo ai partenariati, cit., punto 57.

[24] In particolare l'affidamento deve essere "a titolo oneroso" (ex art. 1, par 2.a), della direttiva 2004/18/CE. L'incarico di elaborazione e sviluppo dei piani in discorso sembra riconducibile alla categoria 11 prevista nell'Allegato II A della stessa direttiva ("Servizi di consulenza gestionale e affini").

[25] Nel caso di organismo misto è senz'altro esclusa la configurabilità dell'in house, giacché non potrebbe ricorrere il 'controllo analogo', cfr. Corte di giustizia CE, AMTAB Servizio, cit., punto 31, e Stadt Halle e RPL Lochau, cit., punto 49.

[26] Cfr. Libro verde relativo ai partenariati, cit., punti 59 e 63.

[27] Cfr. Libro verde relativo ai partenariati, cit., punto 53.

[28] Cfr. supra la nota 24.

[29] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 1° luglio 2005, n. 3672, in Giorn. dir. amm., 2006, n. 3, 294 (con nota di T. Bonetti), che parla di modello costituito dall'"affidamento diretto a società mista (con socio privato individuato in base a pubblica gara)" e, in senso opposto, TAR Lazio, n. 310/2066, cit., che ravvisa un'"incompatibilità di siffatto [diretto] affidamento, ovvero di una tale deroga [quella prevista dall'art. 113, comma 5, lett. b), Tuel], (non già con le direttive comunitarie, bensì) con le norme fondamentali del Trattato".

[30] Cfr. Corte di giustizia CE, Stadt Halle e RPL Lochau, cit., 44, che indica la "libera circolazione dei servizi e l'apertura ad una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri" come obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici.

[31] Cfr. M. Giorello, L'affidamento dei servizi pubblici locali tra diritto comunitario e diritto italiano, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Com., 2004, 940 ss.

[32] Cfr., ad es., C. Barbati, I soggetti, in Il diritto, cit., par. 2.

[33] Per l'inammissibilità, almeno in linea generale, dopo la riforma del Titolo V di una normativa statale cedevole di dettaglio cfr. sentenza 1° ottobre 2003, n. 303, punto 16 in diritto.

[34] Cfr. M. Cammelli, Introduzione, in Il Codice, cit., 44; G. Sciullo, La gestione dei servizi culturali delle autonomie dopo la pronuncia 272 del 2004 della Corte costituzionale, in Aedon, 2004, n. 3, par. 4.

[35] Cfr. infra par. 6.

[36] Cfr. M. Cammelli, Introduzione, cit., 45; S. Foà, Art. 115, in Il Codice, cit., 454 ss.; G. Sciullo, La gestione, cit., par. 3.

[37] Ossia, per i servizi "di rilevanza economica", la competenza in tema di "tutela della concorrenza" (art. 117, comma 2, lett. e)), Cost.) e, per quelli "privi di rilevanza economica", la competenza in tema di "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali" (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.).

[38] Cfr. Corte cost., 1° febbraio 2006, n. 29, punto 7 in diritto.

[39] Si riprende quanto si sostenne in La gestione, cit., par. 4.

[40] Nel caso di servizio "a rilevanza economica" l'art. 113, comma 5, Tuel impone, invece, modalità di gestione in forma indiretta.

[41] La gestione in forma diretta non può venire in rilievo perché, alla luce dell'art. 115, comma 3, del Tuel, preclusa per i servizi organizzati "a rilevanza economica".

[42] Cfr. ad es. P. Petraroia, Intervento al Convegno 'Modelli di governance per i beni culturali' (Roma, 22 giugno 2006).

[43] L'unica eccezione è costituita dai privati proprietari di beni culturali considerati negli accordi di valorizzazione (at. 112, commi 4 e 8). Si tratta, però, di un'eccezione apparente, giacché in questo caso vengono in rilievo appunto beni culturali privati.



copyright 2006 by Società editrice il Mulino


inizio pagina