Parte seconda
Gestione dei servizi
1. I servizi culturali tra "economicità" e "non economicità", di Angela Serra
Per chiarire i contorni del possibile intervento normativo regionale in merito alla gestione dei beni culturali non statali, occorre preliminarmente dar conto di come tali spazi possano sensibilmente variare a seconda dell'inquadramento della gestione dei musei regionali e locali in categorie giuridiche nate in altri contesti. In particolare, si è avvertito nel terzo paragrafo della parte prima di come la materia oggetto del presente studio possa intersecarsi con altre che giustificano un intervento legislativo statale diverso e ulteriore rispetto a quello avente ad oggetto la tutela o la valorizzazione dei beni culturali.
A tal fine è necessario rilevare che i servizi di gestione di beni culturali si possono astrattamente configurare come servizi pubblici locali aventi "rilevanza economica", oltre che come servizi privi di tale "rilevanza" [1]. La teorica possibilità che i servizi culturali si configurino secondo entrambe queste modalità e la distinzione tra esse assume un ruolo centrale sul piano nella disciplina applicabile, ma prima ancora per stabilire chi sia titolare della relativa potestà normativa; dall'inquadramento nell'una o nell'altra categoria discende infatti una differente spettanza della potestà legislativa.
L'individuazione della nozione di "rilevanza economica" è però lasciata all'interprete [2]; proprio con riguardo ai servizi culturali, è stato notato come la distinzione in parola abbia un "carattere dinamico ed evolutivo: non sarebbe cioè possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura "non economica"" [3]. Anche secondo l'impostazione contenuta nel Libro verde sui servizi di interesse generale della Commissione europea, del 21 maggio 2003 [4], i servizi culturali vengono orientativamente inquadrati nei servizi non economici, ma si rileva come la definizione di tale categoria non possa essere netta e definitiva, bensì presenti appunto "carattere dinamico ed evolutivo"; la Commissione ritiene poi che servizi economici e non possano coesistere nell'ambito di un medesimo settore ed essere erogati dallo stesso soggetto. Anche la giurisprudenza comunitaria affida tale determinazione al giudice nazionale, che valuterà le circostanze in cui il servizio viene svolto, considerando in particolare l'assenza dello scopo di lucro, la mancanza di assunzione del rischio connesso all'attività e l'apporto finanziario pubblico [5]. E' poi caduto l'unico appiglio normativo che inquadrava i servizi culturali tra quelli privi di rilevanza economica [6].
Non si può quindi escludere a priori che i servizi culturali possano assumere connotazioni economiche; tale circostanza deve dunque essere valutata caso per caso.
Così, il significato che conviene accogliere della nozione di rilevanza economica attiene in parte alle caratteristiche dell'attività svolta - se può essere gestita in forma imprenditoriale e trovare sul mercato i propri finanziamenti, potenzialmente raggiungendo l'equilibrio tra costi e ricavi -, ed è quindi in parte dato oggettivo immanente all'attività, in parte invece attiene alla sfera politica della scelta organizzativa dell'ente territoriale - scelta sugli strumenti attraverso cui gestire e sulle modalità di finanziamento dell'attività -.
L'attività priva di rilevanza economica, allora, appare come quella che in sé e per come è regolata e organizzata non può essere svolta in equilibrio tra costi e ricavi.
Per individuare le due categorie, dunque, occorre adottare un criterio misto, oggettivo e che guardi alla scelta organizzativa al contempo, ove assume un rilievo fondamentale non tanto la scelta del modello gestorio posto in essere quanto la scelta del finanziamento.
Stabilite le modalità attraverso cui tentare un inquadramento dei servizi culturali nell'una o nell'altra categoria prospettata dalla normativa sull'ordinamento degli enti locali, ci si deve chiedere a chi spetti la potestà di normare le due fattispecie, innanzitutto, e quale sia la disciplina applicabile, poi.
Come già si accennava, nel caso il servizio culturale sia organizzato nelle forme del servizio a rilevanza economica è giustificato l'intervento statale in base alla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza [7]; tale competenza coesiste con il potere dello Stato di dettare i principi fondamentali in materia di valorizzazione dei beni culturali delle regioni e degli enti locali. La disciplina allora dovrà rinvenirsi nell'art. 113 del Tuel, norma generale, unitamente alla disciplina speciale dettata dall'art. 115 del Codice dei beni culturali, nelle sole parti di principio [8].
Quando invece il servizio risulti organizzato nelle forme del servizio privo del carattere dell'economicità, non si ravvisano le esigenze di tutela della concorrenza che fondano il potere statale di legiferare presente nel primo caso; la disciplina generale dei servizi privi di rilevanza economica - l'art. 113-bis Tuel -, infatti, è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza 272/2004, non ravvisando la Corte in essa neppure il titolo per un intervento statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni.
Venuta meno la disciplina generale dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica, rimane fermo il potere statale di dettare i principi fondamentali in materia di valorizzazione dei beni culturali. La disciplina applicabile, dunque, si rinviene nel solo art. 115 del Codice e solo quanto ai principi che esso pone; la normativa di dettaglio è spazio che spetta alle regioni. Ciò sempre facendo salvo il dato, già ricordato e che meglio si specificherà subito sotto, secondo cui i servizi culturali inerenti i beni statali sono oggetto di normazione piena statale (Corte cost. 26/2004): per essi quindi l'art. 115 vale anche nelle parti di dettaglio.
2. Individuazione dei contenuti "di principio" dell'art. 115 (e dintorni) del Codice e degli spazi per la normazione regionale, di Angela Serra
L'art. 115 del Codice è norma che legittimamente disciplina per l'intero i servizi culturali aventi ad oggetto beni di proprietà e nella disponibilità dello Stato, secondo il principio dominicale che la giurisprudenza costituzionale pone alla base della potestà legislativa statale piena in tema di valorizzazione dei beni culturali statali (sentenza 26/2004); vale invece per i servizi culturali regionali/locali solo per i principi fondamentali che esso pone, che possono poi essere sviluppati dalla normazione regionale.
Va rilevato innanzitutto che il nuovo art. 115 appare più aderente al proprio "ruolo", ossia un'individuazione di principi, essendo venute meno alcune disposizioni presenti nella stesura originaria che andavano senz'altro oltre a tale confine, disciplinando aspetti di dettaglio (uno per tutti: le tipologie di forme di gestione utilizzabili).
L'individuazione dei principi contenuti nell'art. 115 e nelle altre disposizioni sulla gestione-valorizzazione, poi, risulta cruciale per comprendere i limiti posti alla normazione regionale (legislativa e regolamentare) di dettaglio o di sviluppo e della normazione (regolamentare-organizzativa) degli enti locali.
Come si diceva, i principi vanno ricavati in via interpretativa, non essendo necessariamente vincolante l'autoqualificazione delle norme in tal senso. Per compiere detta operazione si utilizzeranno le stesse modalità interpretative utilizzate dalla Corte costituzionale nella sentenza del 2004 sui servizi culturali, ossia il parametro del collegamento con le esigenze e la funzione proprie dei beni culturali [9].
Sembrano quindi possedere un contenuto di principio le seguenti disposizioni:
a) al di là del dettato del solo art. 115 è rilevabile innanzitutto un principio, o addirittura un super-principio, di "consensualità della valorizzazione": tale funzione risulta cioè attuabile in maniera ottimale attraverso un percorso volontario. E ciò vale tanto per la parte pubblica - principio di leale collaborazione, di cooperazione (su cui si rinvia al secondo paragrafo, parte prima, di questo studio), che viene posto a fondamento non dei soli rapporti tra livelli di governo per l'attuazione delle attività di valorizzazione-gestione, ma diviene punto di raccordo e di tenuta dell'intero sistema delle competenze in materia di beni culturali, in particolare nella riscrittura degli artt. 112 e 115 del Codice - quanto per la parte privata - coinvolta attraverso diverse modalità e declinazioni a seconda delle caratteristiche che essa presenti (su cui si rinvia al paragrafo 4 della presente parte seconda).
Gli spazi della legislazione regionale sul punto, di fondamentale importanza, possono riguardare "la parte alta" della programmazione, dare cioè indirizzi e finalità piuttosto che procedimentalizzare le modalità della programmazione stessa - si rileva infatti che ciò che ancora risulta deficitario ai fini dell'applicazione del principio in esame non è certo la strumentazione normativa, quanto semmai una diffusa "cultura della collaborazione", ossia la generalizzazione dell'utilizzo degli strumenti di cooperazione nella programmazione regionale e locale degli interventi di valorizzazione dei beni culturali -;
b) altri due principi sembrano "pervadere" la disciplina della gestione-valorizzazione, entrambi desumibili dal dettato del nuovo art. 112: innanzitutto il principio della programmazione degli interventi di valorizzazione, programmazione da effettuarsi tramite accordi fra enti territoriali che abbiano ad oggetto "strategie ed obbiettivi comuni di valorizzazione, nonché" l'elaborazione di "piano strategici di sviluppo culturale e i programmi" relativi (comma 4); sulla rilevanza e sul possibile declinarsi di tale principio si rinvia alla parte terza del presente studio;
c) il secondo principio desumibile dall'art. 112 è quello dell'integrazione della valorizzazione su base territoriale tra beni di differente titolarità: gli accordi di cui al punto b) possono infatti riguardare anche beni culturali privati; privati titolare di beni possono poi partecipare ai soggetti giuridici che elaborano e sviluppano i piani di valorizzazione (commi 4 e 5). L'aspetto soggettivo della titolarità dei beni, dunque, sembra perdere rilievo a favore dell'assetto oggettivo del loro collegamento territoriale e culturale, che suggerisce una programmazione integrata delle attività di valorizzazione inerenti beni che fanno parte dello stesso contesto storico-artistico-culturale. Sul coinvolgimento dei privati si veda il paragrafo 4 di questa parte dello studio;
d) si ravvisa poi un principio di qualità delle attività di valorizzazione-gestione. I "livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione" prescritti dall'art. 114 riguardano infatti la generalità delle attività di valorizzazione poste in essere nei confronti dei beni "di pertinenza pubblica", ciò tanto nel caso di gestione diretta degli stessi quanto nel caso di concessione a terzi del relativo servizio (art. 115, commi 4 e 5);
e) ancora, carattere di principio assume la possibilità di scelta sulla gestione in forma diretta o indiretta dei servizi culturali, unitamente a un principio che impone la necessità che la scelta venga effettuata sulla base di una "valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia, sulla base degli obiettivi previamente definiti".
Ancora: il ricorso a tale modalità di gestione viene, nella riscrittura del comma 4 dell'art. 115, condizionata alla finalità di assicurare un "miglior" livello di valorizzazione, ove nella stesura del 2004 compariva invece il termine "adeguato", riferito a tale livello. Il senso da attribuire alla modifica della locuzione sembra indicare che il modulo della gestione indiretta vada prescelto solo ove presenti un vantaggio rispetto alla gestione diretta; dubbia, peraltro, appare la natura di principio fondamentale di tale vincolo alla scelta in favore della gestione indiretta;
f) nel caso di opzione per la gestione diretta, è senz'altro rilevabile il principio di autonomia: un'autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile delle strutture organizzative che gestiscono i beni. La normazione regionale ha la possibilità di dare un contenuto a tale principio, sviluppandone le potenzialità e regolandone le modalità di attuazione (ad esempio indicando criteri di preferenza per le forme di gestione che più si prestino a realizzare questo principio). Si noti, poi, che le norme di principio non sono derogabili da parte della normazione regionale e locale, ponendo un vero e proprio dovere in capo alle realtà locali di adeguarvisi, secondo modalità che le regioni possono stabilire. La nuova formulazione dell'art. 115, comma 2, introduce anche la possibilità che la gestione diretta sia svolta "in forma consortile pubblica", modalità di gestione dei servizi su cui si rinvia a quanto scritto nella parte terza, sull'aggregazione degli enti locali;
g) è rilevabile poi un principio di professionalità e preparazione tecnica degli addetti alle attività di valorizzazione: ciò tanto per le strutture interne alle amministrazioni, nel caso di gestione diretta, che devono essere dotate di "idoneo personale tecnico" (art. 115, comma 2), quanto per il caso di concessione a terzi, ove si enuncia che le "professionalità degli addetti" devono essere determinate attraverso il contratto di servizio tra amministrazione e concessionario (comma 5). Il punto è strettamente legato alla questione della formazione degli addetti, sulla quale si rinvia alla parte quarta del presente studio;
h) nel caso invece di gestione indiretta, il principio che risulta dal tenore letterale del comma 3 sembra essere quello della esternalizzazione tramite concessione "terzi", ossia soggetti estranei alle amministrazioni cui i beni pertengono; data la mancanza di altre specificazioni, si ritiene possa trattarsi sia di privati non profit che di soggetti che perseguono scopo di lucro - sulla soppressione dell'ipotesi di esternalizzazione tramite affidamento a organismi misti, si veda oltre in questo paragrafo -. Alle regioni sembra spettare lo spazio di specificare i poteri e gli strumenti di controllo del soggetto titolare dei servizi culturali nei confronti del privato concessionario;
i) è rilevabile poi il principio concorsuale per la scelta del terzo concessionario del servizio: la scelta deve cioè avvenire tramite una selezione adeguata, che implica la valutazione comparativa di "specifici progetti" di valorizzazione presentati dagli aspiranti concessionari (art. 115, comma 3);
l) sempre in caso di gestione indiretta, altro principio appare quello dell'utilizzo del contratto di servizio per regolare i rapporti fra titolare del servizio e concessionario, contratto che contiene, come si specifica nel paragrafo 3.b, i fondamentali elementi di regolazione del servizio. La legislazione regionale può senz'altro intervenire individuandone contenuti-tipo nonché definendo gli strumenti di vigilanza sul rispetto dello stesso;
m) in ultimo, sembra sussistere un principio che impone il ritorno in capo all'ente proprietario della disponibilità del bene culturale al verificarsi di una causa di estinzione del rapporto sottostante che ne giustificava il conferimento in uso. Ciò sia nel caso di risoluzione del rapporto concessorio - che può avvenire su richiesta delle amministrazioni proprietarie dei beni in caso di grave inadempimento degli obblighi derivanti dalla concessione o dal contratto di servizio (art. 115, comma 6) - che nel caso di cessazione della partecipazione dell'ente pubblico proprietario dei beni all'interno dei soggetti misti di cui all'art. 112, comma 5, oltre che nell'ipotesi di estinzione di questi ultimi (comma 7).
Non sembrano invece presentare carattere di principio fondamentale i seguenti punti:
a) la stesura originaria dell'art. 115 precludeva agli enti locali la possibilità di gestire i servizi culturali attraverso la concessione a terzi [10]. La nuova formulazione, in una completa inversione di rotta, fa venir meno la disposizione descritta, sostituendola con la generalizzazione del ricorso alla concessione a terzi nel caso le amministrazioni optino per la gestione indiretta e, prima facie, con la preclusione invece dell'affidabilità a organismi misti (nuovo comma 3).
Nel disposto del riformulato comma 3 si possono distinguere due elementi di riflessione.
Innanzitutto l'esser venuta meno la preclusione per la concessione a terzi dei servizi culturali degli enti locali. Sul punto occorre rilevare come, anche vigente il testo approvato nel 2004, la disposizione in parola non si ritenesse comunque norma di principio in quanto la concessione risultava invece percorribile da parte dello Stato e delle regioni: dunque tale strada non poteva certo ritenersi in contrasto con le esigenze proprie dei beni culturali. La norma appariva quindi derogabile da parte della legislazione regionale, che avrebbe potuto rendere tale modalità di gestione percorribile anche per le amministrazioni locali.
Ma il punto centrale oggi è un altro: l'introduzione della preclusione della possibilità di ricorrere alla costituzione di organismi misti cui affidare la gestione dei servizi culturali, opzione ormai del tutto consolidata, prima nella prassi locale poi nella norma.
La disposizione, però, che enuncia come la gestione indiretta "è attuata tramite concessione a terzi", si può prestare anche a un'interpretativa diversa. La disposizione che vede i soggetti giuridici costituibili in base all'art. 112, comma 5 (misti, ma aperti solo a privati non profit o proprietari di beni da valorizzare insieme a quelli pubblici), poter essere "conferitari dei beni" da valorizzare (art. 115, commi 2 e 5) sembra adombrare l'ipotesi che detti soggetti giuridici possano anche, oltre che esternalizzare la gestione attraverso la concessione a terzi, gestire in proprio. Siffatta modalità di gestione risulterebbe peraltro di incerto inquadramento, alla luce del nuovo art. 115 - che con una certa rigidità definisce gestione "diretta" solo quella attuata tramite strutture organizzative interne alle amministrazioni e gestione "indiretta" la sola concessione a terzi -, ma senz'altro più assimilabile alla prima che non alla seconda [11].
L'esclusività della possibilità di gestione indiretta attraverso concessione a terzi, dunque, non solo non appare norma di principio - l'esperibilità dell'affidamento a organizzazioni miste non pare certo contrastare con le esigenze proprie dei beni culturali -, ma non appare neanche con certezza statuita, in base alla lettura combinata dei nuovi artt. 112 e 115 del Codice, sempre che si ritenga plausibile l'interpretazione sopra data delle norme in oggetto. In quest'ipotesi, dunque, le regioni sembrerebbero poter disciplinare la possibilità la cui menzione esplicita è venuta meno nell'art. 115, comma 3, e dunque l'esternalizzazione dei servizi culturali di regioni ed enti locali attraverso l'affidamento a organismi misti costituiti ad hoc o partecipati dalle amministrazioni proprietarie dei beni. Per avere certezze in tal senso, in ogni caso, occorrerà attendere l'interpretazione che delle norme in oggetto darà, una volta adita, la Consulta;
b) ancora, nella stesura del 2004 l'art. 115 indicava i tipi e i presupposti specifici di utilizzo delle forme di gestione, determinazioni che non parevano rivestire carattere di principio. Nella nuova formulazione tali riferimenti vengono meno, con maggior rispetto quindi da un lato di quegli spazi di autonomia organizzativa spettanti agli enti locali, sanciti costituzionalmente, che erano stati compressi, dall'altro del potere delle regioni di dettare norme di dettaglio in merito. D'altro canto, la fissazione di una "tassonomia" delle forme di gestione - facendo salva l'applicazione della normazione statale (Tuel) nel caso il servizio sia organizzato con caratteristiche di economicità - non pare strada consigliabile alla normazione regionale.
3. Verifica circa un possibile intervento volto a rimarcare uno "statuto oggettivo", anziché un regime soggettivo/organizzativo, dei servizi culturali
3.a. La definizione dei livelli di qualità della valorizzazione, di Claudia Tubertini
Si è già anticipato come uno dei contenuti non solo possibili, ma, soprattutto, consigliabili della legislazione regionale sia rappresentato dalla definizione di livelli di qualità della valorizzazione.
Si tratta, peraltro, di un obiettivo certamente non nuovo della legislazione in materia, come è dimostrato, in primo luogo, dal percorso che ha condotto all'elaborazione dell'atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, approvato con d.m. 10 maggio 2001 ad esito di una intensa attività istruttoria che ha coinvolto a pieno titolo le regioni [12]. Tale atto, che nell'impostazione originaria dell'art. 150 del d.lg. 112/1998 doveva indicare alle regioni ed agli enti locali i criteri e gli standards da osservare nell'esercizio delle attività di gestione trasferite, ha assunto un ambito di applicazione ben più ampio proprio grazie al percorso concertato che è stato seguito per la sua adozione.
Sulla scorta di questo atto, peraltro, molte regioni si sono già adoperate per recepire e tradurre le indicazioni generali in esso contenute in concreti obiettivi di qualità, ed hanno esteso tale metodologia dalla gestione dei musei agli altri servizi culturali locali (es. servizio bibliotecario) [13]. Sotto questo profilo, si può dire che per molte regioni il raggiungimento di un livello uniforme di qualità della valorizzazione nel proprio territorio abbia rappresentato il principale obiettivo della passata legislatura, e si appresta ad avere un ruolo centrale anche in quella apertasi nella primavera del 2005 [14].
Non è necessario né richiesto in questa sede operare un raffronto del percorso scelto da ciascuna regione per l'attuazione dei predetti standard, né dello stato di avanzamento della loro concreta applicazione. Va sottolineato, tuttavia, come il grande impegno sinora profuso non abbia impedito il crearsi di una divaricazione tra le diverse realtà regionali nell'individuazione ed applicazione dei predetti standards, solo in parte giustificata dalla diversa distribuzione sul territorio dei musei di enti locali (concentrati, come è noto, per la maggior parte nelle regioni settentrionali e centrali).
Sul tema entrano ora in gioco le disposizioni del Codice che, pur nella loro sinteticità (se non, in alcuni punti, indeterminatezza), hanno tenuto in considerazione l'esigenza di assicurare livelli minimi di qualità e dalle quali è ora necessario trarre le indicazioni di principio a cui le regioni devono attenersi.
Preliminarmente, occorre analizzare l'espresso riferimento operato dal Codice a "livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione dei beni dei beni di pertinenza pubblica" da osservarsi da parte di tutti i soggetti cui è affidata la gestione delle attività di valorizzazione (art. 114, commi 1 e 3).
L'interpretazione di tale articolo è particolarmente difficile, a partire dall'identificazione, prima ancora del contenuto di questi livelli di qualità, dei titolari della relativa competenza e delle modalità procedimentali da osservare. Infatti, il primo comma prevede che i livelli siano individuati e periodicamente aggiornati dai soggetti istituzionali (il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali, anche con il concorso delle Università), evidentemente competenti, di volta in volta, a seconda della titolarità dei beni oggetto del servizio di valorizzazione; il secondo comma prevede però che i livelli siano adottati con decreto del ministro (dei Beni culturali), previa intesa in sede di Conferenza unificata (e quindi con gli stessi soggetti investiti della loro individuazione).
Appare evidente, in questa seconda previsione, l'influsso del percorso seguito per l'emanazione dell'Atto di indirizzo del 2001, e, probabilmente, anche la volontà di salvaguardare l'efficacia giuridica di tale atto riproducendo in una norma del Codice il procedimento seguito concretamente per la sua adozione. Altrettanto chiaro è che il legislatore ha voluto in qualche misura tenere conto anche delle esperienze di individuazione degli standards compiute a livello ministeriale e regionale in attuazione del citato atto di indirizzo. Non è per nulla chiaro, invece, quale rapporto temporale e giuridico esista tra l'individuazione, effettuata (sembrerebbe) preliminarmente ed in forma separata da ciascun livello di governo, e la fissazione a livello nazionale attraverso il decreto ministeriale dei livelli; peraltro, non è pensabile che i livelli definiti con decreto ministeriale di cui al comma 3 si applichino solo ai beni di cui il ministero è responsabile, sia perché questo non si evince dalla norma, sia perché apparirebbe sproporzionata la necessità di una previa intesa in sede di Conferenza unificata.
E' plausibile, quindi, ritenere che i livelli di qualità adottati con d.m. abbiano una efficacia che si estende a tutto il territorio nazionale ed a tutti i soggetti titolari del servizio pubblico di valorizzazione, ma che non esauriscano, al contempo, il novero delle fonti di determinazione degli standards, che possono essere autonomamente individuati da ciascun ente territoriale; essi rappresentano, quindi, il livello-base (o minimo, ma senza alcuna connotazione riduttiva [15]) che deve essere garantito da ciascun soggetto gestore, destinato ad essere ulteriormente specificato e/o elevato a livello sub-nazionale. Correttamente, quindi, la dottrina ha ritenuto di individuare il fondamento della potestà riconosciuta in capo al ministero dall'art. 114, comma 3, nella competenza legislativa statale in materia di "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m) Cost.).
Nonostante le citate incongruenze, la norma è dunque tutt'altro che priva di interesse e di effetti, e contiene importanti indicazioni di principio, sia per il legislatore statale che per quello regionale.
Per quanto concerne il livello statale, la riconduzione dei predetti livelli di qualità alla citata competenza legislativa ex. art. 117, comma 2 lett. m) Cost. ne accresce l'importanza ed il significato, ed ha inoltre l'effetto di responsabilizzare il livello statale circa la necessità di assicurare alle regioni ed agli enti locali un quadro di risorse congruo, effettivamente idoneo a garantire il concreto raggiungimento di tali livelli. E' vero che i "livelli minimi uniformi di qualità" hanno, probabilmente, un contenuto diverso e più penetrante in termini di obblighi di servizio rispetto alle "prestazioni essenziali" a cui si riferisce la norma costituzionale (che dovrebbero interpretarsi, nel settore della valorizzazione dei beni culturali, più limitatamente come categorie o tipologie di servizi da assicurare su tutto il territorio nazionale): il loro raggiungimento non può che impegnare finanziariamente tutti i livelli di governo. Resta, tuttavia, importante, in linea di principio che, secondo la dottrina, per lo Stato sia doveroso garantire meccanismi finanziari idonei alla copertura finanziaria dei livelli essenziali.
Il nuovo quadro costituzionale e legislativo comporta quindi non solo la possibilità, ma anzi l'opportunità di una ulteriore specificazione, aggiornamento ed integrazione degli standard dettati nell'atto di indirizzo del 2001 (senz'altro tuttora valido e legittimato nella sua portata dall'art. 114 del Codice, anche in quadro costituzionale ormai privo della funzione di indirizzo e coordinamento), operazione necessaria per estenderne la portata, per superare le attuali divaricazioni tra le diverse realtà regionali, ed anche per avviare un ragionamento sulle risorse necessarie alla loro copertura.
Se si condivide questo ragionamento, è evidente che le regioni, facendo leva sulle esperienze già consolidate, debbono farsi soggetti promotori di tale operazione anche anticipando l'iniziativa statale, e, soprattutto, garantendo che di tali livelli non prevalga una concezione uniformante, ma siano invece concepiti come livelli "essenziali" (ovvero appropriati, non necessariamente minimi), da specificare, integrare ed eventualmente elevare in ambito regionale. A tal fine, le regioni che si trovano ad uno stato di maggiore avanzamento nell'applicazione degli standards potrebbero partire da una ricognizione degli criteri già individuati e/ o applicati da parte di ciascuna di esse nei diversi settori della valorizzazione (musei, raccolte, biblioteche, etc.).
L'individuazione di questo livello "nazionale" di qualità della valorizzazione, pur se concettualmente preliminare, non è comunque di ostacolo (come non lo è stato sinora) all'intervento autonomo di ciascuna regione, che può senz'altro, su questo punto, avvalersi della propria potestà legislativa in materia di valorizzazione: anzi, dall'art. 114 può evincersi un principio fondamentale della materia ai sensi del quale le regioni debbono provvedere ad individuare livelli di qualità del servizio di valorizzazione. Sotto quest'ultimo profilo, la disciplina del Codice ha un contenuto innovativo, in quanto, a differenza del quadro normativo previgente, può ritenersi che l'individuazione di livelli di qualità della valorizzazione costituisca ora un contenuto necessario della legislazione regionale in materia.
Un percorso di questo tipo, peraltro, richiede il necessario apporto di esperti e rappresentanti del settore, nonché il coinvolgimento delle autonomie locali, sia in relazione alla costruzione di nuovi standard, sia per l'eventuale adattamento di quelli già individuati. A tal fine possono essere utilmente valorizzate le sedi di concertazione generali (Consiglio delle autonomie e, prima ancora, conferenze regione/enti locali) o quelle specifiche del settore già previste in numerose leggi regionali, ovvero, infine, le commissioni regionali per i beni culturali (se rappresentative del livello locale).
A tale ultimo proposito, va rilevato infatti che, anche se il d.lg. 156/2006 correttivo del Codice ha disposto l'abrogazione degli artt. 154-155 del d.lg. 112/1998, che prevedevano appunto l'istituzione presso ciascuna regione delle predette commissioni e ne disciplinavano i compiti, da ciò non può certo desumersi alcuna conseguenza diretta per le commissioni istituite dalle relative leggi regionali di attuazione [16]. Nel nuovo impianto della disciplina statale della valorizzazione, come si è visto, il legislatore prevede quale strumento principe per il raggiungimento di tale finalità la conclusione di accordi tra i livelli territoriali di governo (ed eventualmente i privati, proprietari di beni o non profit) e la eventuale costituzione di appositi soggetti giuridici per la elaborazione ed attuazione dei piani. Saranno le regioni, pertanto, a dover valutare, alla luce dei principi desumibili dalla nuova formulazione dell'art. 112 del d.lg. 42/2004, se mantenere le proprie Commissioni, adeguandone i compiti e la composizione al mutato quadro normativo nazionale, o prevederne il superamento.
Quanto ai contenuti dei "livelli di qualità", il Codice non fornisce particolari indicazioni: sul punto soccorre, tuttavia, l'esperienza sinora maturata in materia di standards, nonché i principi che si sono desunti dall'art. 115 del Codice in materia di gestione. Va da sé che essi possono ovviamente essere intesi in senso stretto come requisiti di qualità del servizio e fare quindi riferimento a parametri gestionali, dotazionali, organizzativi, di funzionamento delle strutture museali e delle altre strutture deputate ai servizi culturali; ma possono anche riferirsi ad altri aspetti più istituzionali, come il raggiungimento di un livello adeguato di autonomia delle strutture stesse, o incidere sul versante dei finanziamenti (es. necessità trovare finanziatori privati, o pubblici, ma diversi dalla regione [Ue, Cipe]; necessità di operare il rights management), e così via.
Il potenziamento della funzione regolativa della regione che deriva dall'applicazione dell'art. 114 del Codice pone peraltro il problema dell'individuazione di strumenti idonei a tradurre in realtà gli obblighi di comportamento che incombono sui soggetti attuatori. Con ciò non si vuol dire che gli strumenti di tipo volontaristico (fondati, ad es., sull'adesione ad un "sistema regionale" quale condizione per l'accesso a finanziamenti), già percorsi da molte regioni, non siano utili; piuttosto, si tratta di verificare se esistano percorsi tali da garantire l'effettività degli standards da applicare eventualmente in via successiva o in caso di evidente insufficienza dei meccanismi fondati su base volontaria e incentivante.
L'enucleazione di uno "statuto oggettivo" della gestione dei servizi culturali non può insomma prescindere dall'individuazione di adeguate forme di controllo. Così, ad esempio, potrebbe ipotizzarsi la costituzione di corpi ispettivi, semmai di tipo misto, e comunque tali da risultare lontani dagli interessi in gioco. Il controllo potrebbe articolarsi, ad esempio, come segue:
a) oggetto: controllo sui risultati, sui livelli di erogazione delle prestazioni, ma non solo: anche su parametri gestionali, dati finanziari, fund raising, utilizzo delle strutture regionali di supporto giuridico-amministrativo, raggiungimento di adeguati livelli di autonomia delle strutture museali, ecc. Potrebbe eventualmente conformarsi quale controllo "successivo", anche ai fini della possibilità di continuare ad utilizzare un certo marchio e/o a godere dell'avvenuto accreditamento;
b) metodo: schede di autovalutazione con obbligo di aggiornamento periodico, senza cui si esce dal sistema; analisi periodica della veridicità delle dichiarazioni;
c) sanzioni: scontata l'esclusione dai benefici regionali; eventualmente, potere sostitutivo attraverso commissario ad acta per compimento determinati adempimenti/attività (anche di genere organizzativo/gestionale, ad esempio, per raggiungere l'autonomia da parte delle strutture di gestione diretta); nei casi più gravi, esclusione dal sistema.
Ad una forte azione di regolazione e controllo devono ovviamente accompagnarsi adeguate misure di sostegno - aggiuntive rispetto ai finanziamenti - al fine di garantire l'effettività agli standards. Sotto questo profilo, potrebbe farsi riferimento, ad esempio, a:
a) la creazione di strutture organizzative regionali (o comuni a più regioni) di supporto e consulenza tecnico-giuridico-amministrativa agli enti locali e ai loro musei, ovvero di nuclei operativi misti che diano loro la strumentazione per adeguarsi agli standards o per adottare gli atti fondamentali di organizzazione;
b) il distacco di personale amministrativo dalla regione agli enti che lo richiedano, anche per periodi determinati o per compiere operazioni specifiche (ad esempio per giungere a livelli adeguati di autonomia o per la creazione di organismi misti). La ratio è quella mettere in grado gli enti locali di capire come svolgere con efficacia loro funzioni senza appesantirli dei relativi costi di preparazione (studi di fattibilità, cambiamenti giuridici e organizzativi nonché gestionali);
c) la creazione di strutture (anche con in concorso di altre regioni, o degli stessi enti locali) per l'erogazione di servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e valorizzazione, secondo il modello di recente fatto proprio dall'art. 112, comma 9 del Codice. Tale comma prevede che possano essere stipulati accordi tra lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali e i privati interessati, per regolare servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali. Con gli accordi medesimi possono essere anche istituite forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni. La previsione va letta, in senso ampio, come tendente a promuovere l'esercizio associato anche delle attività strumentali alla gestione vera e propria dei beni, e ad ammettere (e qui sta senz'altro l'aspetto più innovativo) anche la partecipazione dello Stato, per il tramite del ministero [17].
3.b. La disciplina dei contenuti dei contratti di servizio tra enti locali e istituzioni deputate alla gestione, di Angela Serra
Una delle modalità di regolazione dello svolgimento dei servizi culturali è l'utilizzo dei contratti di servizio. Il contratto di servizio è l'atto che disciplina il rapporto fra l'ente titolare del servizio e il soggetto erogatore dello stesso, nonché i diritti e i doveri delle parti; è dunque uno strumento di programmazione strategica del servizio da parte dell'ente locale e anche strumento di verifica dei risultati della gestione.
Si è detto come il suo utilizzo nel caso di esternalizzazione del servizio sembri essere uno dei principi fondamentali posti dall'art. 115 del Codice.
Il comma 5 stabilisce che esso debba contenere:
a) l'indicazione dei "livelli qualitativi delle attività da assicurare e dei servizi da erogare";
b) la determinazione "delle professionalità degli addetti";
c) la nuova stesura dell'art. 115 vi aggiunge i "contenuti del progetto di gestione delle attività di valorizzazione ed i relativi tempi di attuazione";
d) ancora, la riformulazione del Codice avvenuta nel 2006 aggiunge l'indicazione dei "servizi essenziali che devono essere comunque garantiti per la pubblica fruizione del bene".
La regione, in base alla potestà legislativa concorrente sulla valorizzazione, può stabilire che gli enti locali debbano fare riferimento a un contratto-tipo di cui la regione stabilisca i contenuti, preferibilmente in altra fonte (come una delibera di giunta). Tra tali contenuti, ad esempio, possono esservi indicazioni e specificazioni circa quei "poteri di indirizzo e controllo" sull'esecuzione dello stesso "spettanti al titolare dell'attività o del servizio", che nella stesura originaria dell'art. 115 comparivano come uno dei contenuti del contratto.
I contenuti del contratto di servizio devono poi essere determinati nel rispetto degli standard minimi qualitativi adottati in base all'art. 114 del Codice (come si evince dal comma 4 dell'art. 115).
4. L'incidenza della potestà legislativa regionale nei confronti dei soggetti privati, di Angela Serra
La partecipazione di soggetti privati alla valorizzazione dei beni culturali è contemplata e favorita fin dalle disposizioni generali del Codice (art. 6, comma 3); meglio specificata poi nella parte contenente i principi sulla valorizzazione, nelle forme del concorso, della cooperazione e della partecipazione (art. 111, comma 1). L'iniziativa privata nelle attività "di interesse generale", ancor prima, è principio riconosciuto dalla Costituzione (art. 118, comma 4).
Se il declinarsi del principio di "sussidiarietà orizzontale" si può ravvisare in più norme della disciplina sui beni culturali, il punto oggetto di analisi è la verifica di quale possa essere l'incidenza della regolazione regionale in materia di valorizzazione nei confronti di soggetti privati proprietari o detentori di beni culturali, in particolare di musei.
Il Codice prende in considerazione in più di un momento la gestione di beni culturali privati. Innanzitutto stabilisce che, mentre la gestione di beni culturali pubblici costituisce un servizio pubblico, la valorizzazione di beni culturali privati non è qualificabile nello stesso modo; essa viene definita come un'"attività socialmente utile" e di cui "è riconosciuta la finalità di solidarietà sociale" (art. 111, comma 4).
Conformemente a quanto stabilito dal Codice, la dottrina aveva da tempo chiarito come l'attività museale posta in essere da un soggetto privato sia una attività libera a tutti gli effetti. Inoltre è noto come nell'impostazione della legge di tutela, dal 1939 ad oggi, a fronte di un potere fortemente conformativo del comportamento dei privati quanto alle esigenze di tutela, non è mai stato posto in essere un complesso normativo che imponga al privato proprietario alcunché in ordine alla fruizione/valorizzazione dei propri beni culturali, al di fuori delle due ipotesi della visita a immobili restaurati con il contributo statale o dell'eccezionalità dell'interesse di immobili o collezioni appunto privati [18].
I privati, dunque, gestendo i propri beni culturali e i propri musei, non devono attenersi a nessuna regola oltre a quelle dettate con finalità di tutela; essi possono senza dubbio anche decidere di tenere le proprie collezioni per sé, senza permetterne la fruizione. In effetti non compare neppure un accenno a un "dovere" dei privati di "valorizzare" i propri beni, a differenza di quanto avviene per la conservazione (art. 20 e ss. Codice, che si rivolgono a qualsiasi proprietario di beni culturali, pubblico o privato).
Nessuno standard qualitativo può dunque essere loro imposto: il rispetto di livelli qualitativi inerenti la gestione e la fruizione può essere casomai richiesto come requisito per la partecipazione a un circuito - regionale, subregionale, che riguardi zone delimitate anche a livello ultraregionale - oppure incentivato tramite meccanismi di accreditamento delle strutture, mai imposto come conformazione della gestione.
Gli stessi livelli minimi uniformi di qualità previsti dall'art. 114 non riguardano che le attività di valorizzazione dei beni "di pertinenza pubblica". Il Codice, poi, fissando il principio secondo cui i privati sono liberi di scegliere le forme attraverso cui realizzare la valorizzazione dei propri beni, sembra prendere posizione sul dato che la modalità attraverso cui i pubblici poteri possono influire sulla valorizzazione dei beni culturali privati o parteciparvi appare proprio e solo il sostegno finanziario, che può provenire dallo Stato o dagli altri enti territoriali (art. 113).
Esiste senza dubbio, come si diceva, un principio di consensualità della valorizzazione. L'unico modo, dunque, per influire sull'attività di valorizzazione dei proprietari privati è concordarne con essi le tecniche, in un'ottica necessariamente consensuale e incentivante, mai cogente. Uno strumento che appare valido per sviluppare la collaborazione con i soggetti privati è appunto l'inserimento nei percorsi museali e in eventuali sistemi di accreditamento regionale, sempre nel rispetto dell'aderenza volontaria.
La riformulazione degli artt. 112 e 115 del Codice, poi, finalmente ritaglia per i privati ruoli ben distinti a seconda della diversa natura dei soggetti:
a) così, innanzitutto vi sono i privati che possiedono beni culturali da valorizzare "insieme" a quelli pubblici. Alquanto significativa appare la previsione che dà loro l'opportunità di vedere i propri beni, unitamente ai beni culturali pubblici che ne costituiscono il contesto, oggetto di accordi che definiscono le "strategie ed obbiettivi comuni di valorizzazione", che elaborano i "conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi" relativi; necessario, ovviamente, il consenso dei privati (art. 112, comma 4). Ancora, essi possono partecipare ai soggetti giuridici costituiti al fine di elaborare e sviluppare tali piani (art. 112, commi 5 e 8), partecipando in tal modo alla programmazione integrata delle attività di valorizzazione dei propri beni;
b) vi sono poi gli enti non profit, cui viene assegnato un ruolo decisamente attivo. Essi si pongono al pari degli altri soggetti privati di cui alla lett. a) qualora siano proprietari di beni da valorizzare (si pensa soprattutto agli enti ecclesiastici). Per essi, però, il nuovo art. 112 ritaglia però un ruolo importante anche al di là del collegamento con la proprietà di beni culturali: gli enti non profit cui la legge o lo statuto assegnino come ambito di intervento il settore della valorizzazione dei beni culturali possono infatti partecipare ai soggetti giuridici che elaborano e sviluppano i piani di valorizzazione (sempre art. 112, commi 5 e 8) (è il caso delle fondazioni bancarie);
c) in ultimo, vi sono i soggetti che perseguono scopi lucrativi. L'unico ruolo che per essi il Codice sembra delineare è quello dei possibili concessionari dei servizi culturali.
Note
[1] Art. 113 e 113-bis del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, di seguito denominato Tuel. Tali locuzioni sono il portato di una riforma del diritto nazionale compiuta per adeguarsi a quanto stabilito dalla normativa europea in materia di servizi di interesse generale (che sono cioè volti a soddisfare bisogni generali dei cittadini o di categorie di utenti).
[2] Infatti art. 14 d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con legge 24 novembre 2003, n. 326, ha abrogato il comma 16 dell'art. 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che prevedeva che un regolamento governativo individuasse i servizi disciplinati dall'art. 113.
[3] Corte cost. 272/2004, punto 4 dei considerata in diritto.
[4] COM-2003-270.
[5] Corte di giustizia Ce, sentenza 22 maggio 2003, causa 18/2001.
[6] L'art. 113-bis del Tuel è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza costituzionale 272/2004.
[7] Costituzione, art. 117, comma 2, lett. e).
[8] Principi che prevalgono sulla normativa generale dettata dal Tuel, nonostante il primo comma dell'art. 113 stabilisca che le disposizioni dell'articolo stesso sono "inderogabili ed integrative delle discipline di settore": il Codice infatti è norma successiva al Tuel, oltre che speciale rispetto ad essa. Si richiama poi la sentenza del Tar Lazio, Roma, 11471 del 17 novembre 2005, che, considerando la normativa del Codice dei beni culturali prevalente rispetto a quella dettata dal Tuel in quanto speciale rispetto a quest'ultima, ammette, con impostazione decisamente controcorrente, che il socio di minoranza di società mista cui vengono affidati servizi aggiuntivi museali - di cui alcuni senz'altro a rilevanza economica - sia scelto al di fuori di procedure ad evidenza pubblica. Per un commento alla sentenza si veda P. Michiara in questo numero della Rivista.
[9] Tale è il ragionamento posto in essere dalla Corte costituzionale nella sentenza 272/2004, che dichiara infatti incostituzionale l'art. 113-bis del Tuel perché non attinente ai livelli essenziali delle prestazioni e salva invece l'art. 113 del Tuel perché attinente alla tutela della concorrenza.
[10] Ciò seguendo il percorso segnato dall'art. 14, comma 2, del d.l. 269/2003, che aveva abrogato il comma 4 dell'art. 113-bis Tuel - che prevedeva la possibilità di concedere a terzi i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica -.
[11] D'altronde anche la precedente versione dell'art. 115, comma 3, ripartiva le forme di gestione tra le due modalità diretta e indiretta in modo opinabile, ad esempio ricomprendendo la gestione da parte di un'istituzione nelle forme di gestione indiretta, ove invece tale strumento è da sempre considerato, data la forte strumentalità alle finalità dell'ente di riferimento, una modalità di gestione assimilabile a una struttura interna all'amministrazione.
[12] Tale atto ha in gran parte recepito i contenuti del documento intitolato "Standard per i musei italiani" predisposto dalle regioni nel settembre 1999.
[13] In via meramente esemplificativa e limitandosi ai riferimenti legislativi regionali più recenti possono citarsi: la l.r. Toscana 31 gennaio 2005, n. 19 ("Norme sul sistema regionale dei beni culturali") il cui art. 11 prevede che "La giunta regionale definisce indirizzi e standard tecnici per l'intervento pubblico a livello regionale e locale e contribuisce alla definizione di linee di indirizzo e di standard tecnici concernenti l'intervento pubblico in tema di beni culturali a livello nazionale, secondo quanto previsto dalla legislazione vigente"; l'art. 6 della l.r. Umbria 22 dicembre 2003, n. 24 ("Sistema museale regionale. Salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali connessi"), che attribuisce alla regione il compito di provvedere alla determinazione e verifica degli standard qualitativi e quantitativi da assicurare nell'esercizio delle funzioni di conservazione, valorizzazione, gestione e promozione del patrimonio culturale; la l.r. Emilia-Romagna 24 marzo 2000, n. 18 ("Norme in materia di biblioteche, archivi storici, musei e beni culturali") che ha dato avvio all'individuazione ed applicazione di standards di qualità per biblioteche, archivi storici e musei; la l.r. Lazio 24 novembre 1997, n. 42 ("Norme in materia di beni e servizi culturali del Lazio"); le recenti l.r. Campania 23 febbraio 2005, n. 12 ("Norme in materia di musei e di raccolte di enti locali e di interesse locale) e Abruzzo 3 marzo 2005, n. 19 ("Norme per la costituzione dei Consorzi dei beni culturali, delega di funzioni regionali").
[14] Al riguardo si deve innanzitutto citare il processo di accreditamento dei musei e delle raccolte avviato dalla regione Lombardia con la deliberazione della Giunta regionale n. 11642/2002, che ha sinora condotto al riconoscimento di 117 musei e raccolte museali; le azioni intraprese dalla regione Veneto per la rielaborazione e precisazione dell'atto di indirizzo statale (si veda, in particolare, la deliberazione della giunta regionale n. 2863/2003 di recepimento in sede locale del documento ministeriale); e le esperienze analoghe condotte anche da Piemonte, Emilia-Romagna, Liguria, Lazio (che ha attribuito il marchio di qualità a Musei di ente locale e di interesse locale inseriti nell'Organizzazione museale regionale, ai sensi della già citata l.r. 42/1997), Toscana, Marche.
[15] Questo è a parere di chi scrive il significato da attribuire alla modifica introdotta dal d.lg. 156/2006 che, come già anticipato, ha espressamente definitivo tali livelli uniformi come "minimi", ed il cui senso non può essere che quello di consentire espressamente alle regioni la definizione (in concorso con le autonomie) di livelli di qualità ulteriori, rispetto ai quali quelli ministeriali si pongono come "minimo comun denominatore".
[16] Del resto, ancora prima che il legislatore pervenisse all'abrogazione espressa di queste norme si poteva dubitare che dovessero ancora considerarsi vincolanti per il legislatore regionale, se non per il principio fondamentale ad esse sotteso della necessaria previsione, all'interno delle leggi regionali, di sedi e strumenti per l'armonizzazione ed il coordinamento, nel territorio regionale, delle iniziative dello Stato, della regione, degli enti locali e di altri possibili soggetti pubblici e privati in materia di valorizzazione (cfr. art. 155 d.lg. 112/1998).
[17] Il modello organizzativo prescelto (purché di natura non imprenditoriale) dipenderà, concretamente, dai soggetti che vi partecipano e dalle loro scelte (in questo senso, il riferimento alla "forma consortile" non sembra escludere il ricorso ad altri modelli di gestione associata di funzioni e servizi tra soggetti solo pubblici, o tra pubblici e privati).
[18] In questi due casi gli artt. 38 e 104 del Codice stabiliscono che il privato proprietario sia tenuto a concordare con l'amministrazione le modalità della visita pubblica dei beni.