Alcune premesse per cominciare. La prima è che esiste una deontologia del consulente legislativo che consiste, una volta terminato il suo compito e scritto e commentato un articolato, nell'affidarlo al processo politico e poi dimenticarselo. Il consulente non dovrebbe esibirsi né alle critiche né agli elogi sul proprio operato. Mi state, perciò, costringendo ad un'operazione difficile perché avendo rimosso (per conseguenza di tale deontologia) quasi tutto ciò che ha discusso la commissione Cheli, non mi è agevole ricostruirlo.
Temo, d'altra parte, che di tale deontologia non importi quasi niente a nessuno, e per la parte più "economicista" che mi spetta, cercherò di ricordare. E' bene sottolineare che la commissione era composta da dieci giuristi, contro un economista: considero il fatto di essere sopravvissuto, un successo straordinario. Tuttavia, una composizione di questo tipo, ha avuto un'influenza importante sulle proposte della commissione.
La seconda premessa: vorrei ricordare che la commissione Cheli ha lavorato per un unico decreto legislativo; questo fu poi diviso, alla fine del nostro lavoro, tra il d.lg. 112/1998 e il d.lg. 368/1998.
Questa divisione, resa necessaria dalla l. 59/1997 o, in generale, dal modo come la l. 59/1997 è stata attuata, ha avuto effetto: riservare la parte della sussidiarietà o del federalismo al primo decreto, ha consentito al secondo di essere assai meno federalista; in un certo senso, la separazione ha ridotto la forza d'urto della l. 59/1997.
In questo caso, tuttavia, non è vero che da parte del ministero dei Beni culturali non si sia partiti dalle funzioni o dal disegno che doveva informare il d.lg. 368/1998; fin dalle primissime riunioni il ministro ci affidò un mandato sintetico (eravamo una commissione che assisteva il ministro, non una commissione indipendente): occorreva disegnare un ministero forte e snello.
Nell'idea del ministro questa coppia di parole aveva un significato preciso: si trattava di un richiamo all'esperienza francese (di Jack Lang) e perciò, nella visione del ministro, il compito principale del ministero doveva essere quella di ampliare il prestigio internazionale del settore culturale italiano, colpendo l'immaginazione del pubblico. Attraverso una struttura forte e un lavoro di immagine si sarebbero favorire l'arte e la cultura, ivi compreso il loro finanziamento. E' importante tenere conto di ciò perché l'impianto delle proposte della commissione Cheli, e che si ritrova largamente nel d.lg. 368, dipende da questa visione.
La forza, piuttosto che la snellezza, la si ritrova nella figura del Segretario generale, che è stata molto discussa durante i lavori della commissione. Si è subito visto che si trattava di un Segretario generale da spoil system, che dura finché dura il ministro. All'epoca si riteneva che ormai i ministeri sarebbero durati una legislatura; se si vuole, ci si muoveva in un'ottica di bipolarismo forte.
La snellezza doveva essere rappresentata dal decentramento della struttura amministrativa centrale, e qui rilevava la figura del Soprintendente regionale. Nella visione della commissione Cheli, anche se i giuristi possono interpretare quanto poi normato diversamente, il soprintendente regionale doveva sovrapporsi ai soprintendenti sottostanti: doveva crearsi un unico vero soprintendente territoriale e gli altri dovevano suddividersi per materia. In questo senso, il decentramento era forte (20 soprintendenti invece di 90) e, dunque, la struttura centrale più snella.
Il federalismo (o la sussidiarietà) sono sempre stati deboli, nel lavoro della commissione. Il tema della devoluzione agli enti locali, infatti, è residuale. Il centro resta, perciò, forte.
C'è infine la materia dell'attuale art. 10, e che è un'altra forma di snellimento e cioè la possibilità di fare accordi di programma con le amministrazioni, comprese quelle locali, e la possibilità di lavorare su società, associazioni e fondazioni. Qui, la commissione non poteva cogliere l'elemento di sussidiarietà se non con gli accordi di programma - che sono contratti tra non equivalenti - mentre la collaborazione del settore privato, pur prevista, non è stata realmente approfondita.
Questo è l'impianto complessivo. Come dicono gli americani, con una vecchia battuta, il cammello non è che un cavallo disegnato da una commissione, nel senso che il prodotto di una commissione, sia pur monocorde da un punto di vista disciplinare come questa, non risponde necessariamente in forma logica agli obiettivi iniziali forniti dal ministro. Si sono così venuti a creare alcuni elementi, nella stessa commissione Cheli, che non sono del tutto coerenti.
E' logica l'idea di formare un'agenzia di marketing, perché questa corrisponde alla ispirazione di Jack Lang: l'agenzia di marketing del ministero risponde alla necessità di mettere insieme prestigio, colpire l'immaginazione e avere un ritorno politico per il ministero.
La snellezza, pur accompagnata attraverso la devoluzione della gestione di (alcuni) beni culturali agli enti locali e la possibilità di fare accordi e immaginare concessioni, si è però scontrata duramente con l'impossibilità di cambiare la cultura dei funzionari del ministero dei Beni culturali (che noi abbiamo audito). Il ministro ha anche espresso, e la commissione ha cercato di dargli retta, un accessorio alla sua idea dei ministeri forti e snelli, ed era quello di ridurre il livello di corporativismo presente nel settore: da qui nasce l'eliminazione del Consiglio superiore e la sua sostituzione con consigli che rafforzano, centralizzando, il ministero.
Tuttavia, il corporativismo esiste nel ministero indipendentemente dalla volontà del ministro. Quando si è passati alle proposte organizzative, molte delle norme necessarie non sono state formulate.
Non è stato possibile separare tutela da valorizzazione o, se si vuole, la tutela dalla gestione; c'è sempre stata, anche nella commissione, una continua confusione sul concetto di conservazione. La conservazione spetta in generale al proprietario del bene, mentre il ministero non riesce a separare la tutela dalla conservazione. Benché il d.lg. 112/1998 dica che la tutela deve essere separata dal resto, o comunque che la tutela è cosa diversa dal resto (conservazione, valorizzazione), non aver definito i termini elimina ogni limite all'azione del ministero.
Sulla proprietà dei beni non è stato possibile discutere, perché i gabinettisti ci hanno detto che saremmo andati fuori delega. Qui devo osservare di nuovo come la composizione della commissione non sia stata indifferente rispetto al suo risultato: vi sono due elementi forti di conservazione che sono presenti quando dieci giuristi si confrontano con un economista.
Il primo è che i principi dell'ordinamento prevalgono su qualsiasi altra motivazione al cambiamento, ciò che rende molto limitata la capacità di movimento (se si debbono sempre rispettare i c.d. principi dell'ordinamento, le riforme non potranno mai avere luogo e l'ordinamento non potrà mai cambiare; per molti aspetti, l'ombra di Giustiniano aleggia anche su di noi).
In secondo luogo, si sarebbero dovuti discutere i limiti entro i quali si poteva usare la delega nella riforma del ministero, perché la delega è un elastico, ciò che si vede benissimo nella attuazione dei decreti legislativi "Bassanini". Se l'elastico diventa invece un filo di ferro, allora la delega diventa un impedimento a immaginare la riforma. Per fare un esempio, sulla proprietà dei beni statali non si è potuto fare nulla e la devoluzione della sola gestione ai comuni, alle provincie e alle regioni, può limitare gravemente l'ampiezza della valorizzazione. E' vero che il possesso è "il 90% della proprietà", ma non nel diritto pubblico.
Durante i lavori della commissione, ci si era illusi, all'inizio, che si potesse costruire un decreto legislativo che potesse fare a meno di un regolamento, ciò che naturalmente fa parte dei desideri di qualsiasi consulente legislativo. Abbastanza presto si è capito, tuttavia, che ciò non era possibile; poiché la tradizione dei regolamenti nella legislazione del ministero dei Beni culturali non è tra le più efficaci (ricordo sempre la l. 512), rimandare al regolamento significava lasciare insoluti molti aspetti.
Su molte cose non siamo, alla fine, potuti intervenire. La prima è la scatola nera delle soprintendenze, che non è stata squadernata: in parte per le resistenze di natura corporativa, in parte perché ogni volta che si affrontava l'amministrazione interna nell'ambito del decreto legislativo, si urtava sempre contro i limiti della delega.
Ci sono due elementi che comprovano questo: sia la commissione, sia poi la legge, hanno disseminato di autonomie l'intero corpo (snellimento?), ma poi non c'è una tipologia di queste autonomie e non si sa se le autonomie sono quelle attuali, quella di Pompei oppure una che non esiste (esistono anche le autonomie che non esistono!), né è detto fino a che punto le diverse autonomie corrispondono a quelle che derivano dall'applicazione della l. 59/1997.
Anche come risultato di questa incertezza, la struttura organizzativa fondamentale del ministero nella commissione Cheli (e nella legge), rimane sostanzialmente divisa in due. Ho personalmente messo in rilievo alla commissione la separazione oggi esistente tra il personale amministrativo e quello tecnico, osservando che in un'amministrazione normale (ma i tecnici non lo sanno) tutti sono comunque degli amministrativi e solo in secondo luogo possono essere dei tecnici. Non è stato possibile far capire questo concetto ai nostri gabinettisti, e come conseguenza la commissione si è trovata in difficoltà a trovare la maniglia sulla quale operare per sopprimere o ridurre quella separazione.
Alla fine, benché la commissione Cheli avesse un'idea precisa, segnatagli dal ministro, di un'amministrazione "forte e snella", dovendo fare i conti con un'amministrazione che in realtà non si poteva riformare se non dall'alto e mai partendo dal basso, anche noi non siamo riusciti a ridurre i compiti di amministrazione diretta, e quindi a sciogliere l'annoso equivoco tra la politica come strategia e la politica come amministrazione diretta. Certo, c'è qualche cosa sui dipartimenti, però anch'essi non sono definiti e così non si capisce se si tratta di dipartimenti o di una moltiplicazione di direzioni generali. E' ancora oscuro quali gradi gerarchici si siano creati, benché il problema fosse stato posto nella commissione Cheli e avessimo messo in rilievo che poteva esistere un problema serio tra autonomia, decentramento e gerarchia.
Detto tutto questo, credo che la forza delle cose sia maggiore delle capacità delle commissioni e dello stesso governo. La prima forza delle cose è che i finanziamenti pubblici sono limitati e il ministero non può contare su un reale aumento delle risorse. Lo stesso ministro Veltroni, proprio sulla base della propria visione, è riuscito ad ottenere nuove fonti di finanziamento (come il lotto) ma si tratta di fondi "straordinari", mentre il ministero rimane stretto dentro la rete dei fondi "ordinari".
Per questo, la forza "naturale" delle devoluzioni, delle concessioni, delle società è maggiore dello spazio che vi ha dedicato la commissione o la legge. Su questo aspetto, tuttavia, c'è un paradosso: per come è costruita la combinazione dei due decreti 112 e 368, è molto più facile operare una devoluzione ai privati che non agli enti locali; questo non era nelle intenzioni della commissione, perché la considerazione dell'accesso dei privati all'uso e alla valorizzazione dei beni culturali non è mai stata preponderante; del resto l'art. 10 apre una grande porta, mentre l'articolo che riguarda la devoluzione agli enti locali comporta una procedura complessa, che non è operativa e che si chiude entro un certo periodo di tempo: è una finestra, non una norma che varrà sempre. Non credo che sia un risultato voluto, piuttosto mi sembra un evento che fa parte dell'apologo del cammello.
Un aspetto su cui abbiamo lavorato nella commissione, e che fa ancora parte del decentramento, è quello delle commissioni programmatiche regionali. Pur conoscendo il fallimento del protocollo Vernola-Meier del passato, la commissione riteneva che si potessero creare le condizioni per una programmazione comune tra regione e ministero, ove il soprintendente regionale avesse avuto quella figura di cui dicevo all'inizio e cioè fosse il capo di un'amministrazione decentrata, che naturalmente, avrebbe avuto i poteri necessari per firmare e negoziare gli elementi di accordo con l'amministrazione regionale. Tuttavia, il concetto di programmazione, come sapete, non è ben definito nel nostro ordinamento (!).
In epoca di vincolo sulla gestione di cassa, come l'attuale, la programmazione, infatti, non significa molto: nel futuro, quando il vincolo di cassa sarà eliminato, è presumibile che la programmazione tornerà ad avere un suo ruolo e in quel caso regione e Soprintendente regionale potranno effettivamente determinare qualche forma di complementarità.
Il momento in cui questi due organismi avranno una certa libertà d'azione, tuttavia, è molto lontano (il ministro Ciampi ci ha indicato almeno una quindicina d'anni per arrivare a quei livelli che Maastricht e il patto di stabilità determinano) e allora è possibile che questa istituzione muoia ancor prima di nascere. Con il senno di poi, sarebbe stato necessario accompagnare i programmi comuni tra Stato e regioni con una specifica voce di bilancio.
Chiudo con un'ultima considerazione: credo che la commissione abbia lavorato al meglio nelle condizioni date. Tuttavia ritengo che la commissione non abbia riflettuto a sufficienza su un punto assolutamente fondamentale, di cui però il ministro era conscio. Il federalismo è figlio del bipolarismo e non viceversa. Nel bipolarismo, si occupa il potere per un certo numero di anni e, nel campo culturale, si rischia sempre la tirannia. Il ministro era sensibilissimo su questo aspetto e quando ci ha indicato la necessità che il ministero fosse forte e snello ci ha anche raccomandato che l'impianto doveva aiutare e non restringere la libertà della cultura. Il federalismo è dunque un correttivo della possibile tirannia che un ministero unico della cultura potrebbe determinare, indipendentemente dalla volontà del singolo ministro. Questo nesso, ho l'impressione, non siamo riusciti a trasferirlo né dentro la commissione Cheli, né dentro la legge, eppure è un nesso fondamentale, perché delle due l'una: o il bipolarismo è già finito e allora forse il pericolo non c'è, o il bipolarismo è ancora desiderato, allora la legge è troppo accentratrice.
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