Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela
Semplificazione e tutela
Sommario: 1. L'oscillazione della normativa in materia di tutela tra i due poli dell'assolutezza-primarietà e della relativizzazione e (possibile) subordinazione al (super)diritto di fare impresa. - 2. Sviluppo sostenibile: una contraddizione in termini? L'irrisolvibile tensione dialettica tra tutela e crescita-sviluppo. - 3. La tutela è una "complicazione amministrativa" (fondata però su ragioni serie e oggettive: principio di differenziazione e policentrismo autonomistico). - 4. Semplificazione e tutela: una via alternativa al silenzio-assenso: liberalizzare gli interventi minori, di conservazione-manutenzione (ma anche di miglioramento antisismico ed efficientamento energetico) dell'esistente, spostando ex post il controllo. - 5. Proporzionalità e ragionevolezza quali criteri interni della decisione amministrativa di tutela, senza pregiudizio per l'autonomia tecnico-scientifica che presiede alle valutazioni tecnico-discrezionali.
Simplification and protection
This article explores the ineradicable dialectic
tension between protection and development - arising from the complexity of
facts and unavoidably resulting in a "complication" of both the
regulatory framework and the administrative management of cultural heritage. In
particular, the article explains why this tension has produced, in the last
decades, a sharp "oscillation" in the production of rules (and in the
directions of legal policy) between two opposite poles: the absoluteness (or
primacy) of cultural heritage, on the one side, and, a tendency to equalize
cultural heritage interests with interests in transformation and land
consumption, which are more directly linked to a "quantitative vision"
of development and growth. Then this script focuses on proportionality as a
criterion providing internal logic to discretionary-technical decisions on
cultural heritage protection.
Keywords: Protection;
Sustainable growth; Complexity; Simplification; Proportionality.
1. L'oscillazione della normativa in materia di tutela tra i due poli dell'assolutezza-primarietà e della relativizzazione e (possibile) subordinazione al (super)diritto di fare impresa
L'evoluzione della disciplina in materia di tutela del patrimonio culturale, nel suo rapporto (spesso conflittuale) con le ragioni della semplificazione amministrativa, si caratterizza, se si guarda agli ultimi decenni, per un andamento "a elastico". Si ha l'impressione che l'indirizzo di politica del diritto in questi campi di materia oscilli tra eccessi di rigorismo e - corrispondenti - eccessi di semplificazione.
L'assetto sistematico tradizionale, dato dalle leggi del 1939, era basato sul potere esclusivamente statale (decisione tecnico-discrezionale delle soprintendenze ministeriali) di controllo preventivo condizionante l'esercizio dei diritti di proprietà-iniziativa economica privata sui beni tutelati. Si è quindi passati alla delega alle regioni e alla sub-delega ai comuni delle funzioni di controllo paesaggistico (decreto del Presidente della Repubblica, 24 luglio 1977, n. 616). È quindi intervenuta la "controriforma" della legge Galasso del 1985. Negli anni Novanta del secolo scorso, invece, la legge Bassanini, legge 15 maggio 1997, n. 127 ha esteso il silenzio-assenso anche all'area delle autorizzazioni culturali (beni culturali e paesaggio). Negli anni duemila si è avuta la reazione conseguente, con l'espunzione del silenzio-assenso e l'introduzione del divieto di sanatoria paesaggistica ad opera del codice del 2004, nonché con la previsione del parere vincolante paesaggistico del soprintendente ad opera del decreto correttivo del 2006. Si è quindi nuovamente passati al lato opposto del moto altalenante degli indirizzi di politica del diritto con l'introduzione dell'"assenza-assenso" nella conferenza di servizi ad opera dei decreti legge 31 maggio 2010, n. 78 e 13 maggio 2011, n. 70 estesa a tutta la materia del patrimonio culturale, fino all'odierno silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni, alla dequotazione della tutela a interesse relativo non ostativo e alla rappresentanza unica di governo nella conferenza di servizi ad opera della riforma Madia scaturita dalla legge 7 agosto 2015, n. 124 e conseguenti decreti attuativi.
Nel frattempo il "vento" della corrente semplificatrice ha soffiato impetuoso in tutti i campi di materia, benché molto spesso con norme programmatiche di scarsa efficacia applicativa diretta (basti qui citare per memoria il programma liberista di "Stato minimo" lanciato nella passata legislatura con la proposta di riforma dell'art. 41 della Costituzione votata dal governo Berlusconi il 9 febbraio 2011, presentata alla Camera in data 7 marzo 2011 - AC 4144, anticipata con il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, recante "Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo", convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, articolo 3; quindi l'articolo 1, comma 2 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27; infine, il successivo decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, recante "Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo", convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, il cui art. 12, concernente la semplificazione procedimentale per l'esercizio di attività economiche, dispone, tra l'altro, al comma 2, che "Nel rispetto del principio costituzionale di libertà dell'iniziativa economica privata in condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, che ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica, il Governo adotta uno o più regolamenti di delegificazione, al fine di semplificare i procedimenti amministrativi concernenti l'attività di impresa" [1].
È possibile mettere ordine in questo groviglio di norme e cercare di trovare un punto stabile e ragionevole di equilibrio? Per far ciò occorre partire dai fatti, evitare la trappola della "memoria corta" ed esaminare attentamente l'evoluzione della normativa della materia negli ultimi decenni, nel suo stretto legame (già emerso dalle notazioni svolte sopra) con il pluralismo autonomistico regionalista/federalista del nostro sistema organizzativo-ordinamentale (che sicuramente concorre alla "complicazione" amministrativa).
Lo sviluppo edilizio degli anni settanta e ottanta del scorso secolo, dopo la ricostruzione del paese negli anni cinquanta e sessanta, si andava concentrando sulle "seconde case" e sulle speculazioni edilizie nelle zone turistiche, soprattutto costiere e montane (oltre che nella densificazione delle periferie e nell'edilizia di espansione urbana in danno delle aree agricole, con la saldatura dell'edificato e la distruzione della green belt che un tempo separava città e campagna e dava una leggibilità al paesaggio italiano). Il già debole controllo amministrativo di tutela statale venne a mancare del tutto con la delega alle neonate regioni, affatto prive di apparati amministrativi. La conseguente subdelega delle funzioni di controllo paesaggistico ai comuni coincise oggettivamente con un picco della cementificazione delle coste e delle località di turismo montano. È difficile negare che il comune non costituisca il livello giusto per adeguatezza e differenziazione per svolgere questi difficilissimi e spesso "impolitici" compiti di tutela [2]. Si corse allora ai ripari, con una reazione - come insegna la fisica - uguale e contraria alla forza di consumo di territorio cui si voleva reagire, che si concretizzò nel vincolo (prima provvedimentale, poi ex lege 8 agosto 1985, n. 431, di conversione del decreto legge 27 giugno 1985, n. 312) di intere tipologie geografiche del territorio, quelle più fragili ed esposte, con un parziale ritorno alla decisione statale (annullamento ministeriale) [3]. Ci si illuse poi che la pianificazione paesaggistica, sul modello urbanistico, potesse risolvere il problema, come certezza delle regole e limite all'eccessiva discrezionalità delle amministrazioni, ma i piani paesaggistici si rivelarono "piani di carta", descrittivi e programmatici, privi di efficacia regolativa e prescrittiva.
L'imposizione - con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio - di un minimo contenuto sostanziale di tali piani ne ha impedito l'approvazione, nella negoziazione Stato-regioni-enti locali (dopo dodici anni, ne sono stati approvati solo due: Toscana e Puglia). Il rafforzamento della tutela ope legis degli immobili pubblici ultracinquantennali (ora ultrasettantennali) e il divieto di sanatoria paesaggistica nel Codice (artt. 10, comma 1, e 12; art. 146), nonché l'introduzione del parere vincolante del soprintendente con il decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 (divenuto operativo solo a partire dal 1° gennaio 2010), hanno sovraccaricato di compiti le soprintendenze. Il drastico dimagrimento di organici e risorse del ministero avutosi con i governi di destra dal 2001 al 2006 e dal 2008 al 2011 (indirizzo sostanzialmente proseguito poi fino al 2013) hanno fatto il resto, facendo esplodere il problema delle soprintendenze come fattore di blocco della crescita e dello sviluppo del paese (mancata partecipazione alle conferenze di servizi, frequenti e non sempre motivati "no" sui progetti presentati, tempi lunghissimi di risposta, etc.). Da qui l'inizio di una diversa oscillazione del pendolo, nella direzione opposta, quella della semplificazione, della perentorietà dei termini, dei silenzi-assensi, etc., fino alla odierna legge Madia.
La giurisprudenza per parte sua non manca di presentare essa stessa contraddizioni: a una linea (prevalente) che poggia sulla immediata precettività dell'art. 9 Cost. e sull'assolutezza-primarietà degli interessi relativi alla tutela del patrimonio culturale, si affianca e in parte si contrappone una diversa posizione (soprattutto in sede consultiva) che sembra orientata piuttosto al relativismo proceduralista [4].
La domanda posta dal titolo del seminario - se si possa trovare il modo di definire un punto mediano di equilibrio - è, dunque, sempre più incalzante e urgente.
Il presente contributo vorrebbe indicare due proposte utili in questa direzione - semplificazione "ragionata", basata sulla rilevanza e l'entità delle cose, dei fatti, non su pretese (fallimentari) "formule magiche" procedurali, quali il silenzio-assenso [5], e contestualizzazione delle decisioni tecnico-discrezionali -, non senza fornire una veloce disamina delle ragioni, serie e non arbitrarie, che stanno alla base della "complicazione" della tutela.
Il taglio, di estrema sintesi, del contributo, costringe a frequenti citazioni di propri precedenti studi, cosa invero inelegante e fastidiosa, ma utile e necessaria per evitare ulteriori, troppo lunghe, digressioni e citazioni.
2. Sviluppo sostenibile: una contraddizione in termini? L'irrisolvibile tensione dialettica tra tutela e crescita-sviluppo
Il rapporto - difficile - tra tutela del patrimonio culturale e crescita e sviluppo del Paese presenta una pluralità di aspetti o versanti diversi, tutti naturalmente connessi tra loro, dai quali è possibile procedere nella discussione. Al fondo si coglie la (forse) irrisolvibile tensione dialettica interna alla nozione stessa di sviluppo sostenibile, un "ossimoro giuridico" dal significato cangiante [6], a seconda che si ponga l'accento sul sostantivo (sviluppo) - nel qual caso la sostenibilità rischia di ridursi a qualche marginale imbellettamento mitigatorio (ad es., la classica piantumazione di alberi di specie autoctone o il rivestimento del nudo cemento con pietra locale a faccia vista) - o lo si ponga, invece, sull'aggettivo (sostenibile), nel qual caso, in un'autentica logica di prevenzione e di anticipazione della valutazione ambientale strategica sin dalle prime fasi di programmazione e progettazione degli interventi, la "sostenibilità" può davvero incidere in modo reale sulla scelta, anche localizzativa, dell'opera, fino alla così detta "opzione zero" [7].
Una possibile risposta - è noto - potrebbe risiedere in un'autentica pianificazione e programmazione degli interventi. Se, ad esempio, si decidesse la ricostruzione in sito degli antichi borghi di Amatrice e Accumoli in provincia di Rieti, polverizzati dal tragico, recente terremoto del 24 agosto 2016, puntando non già sull'irrealistica e utopica ricostruzione pietra su pietra, bensì sulla riedificazione ex novo, con rigorosi criteri antisismici, rispettando il bene paesaggistico d'insieme ("i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici", di cui alla lettera c) del comma 1 dell'art. 136 del codice di settore), con lo stesso skyline, un piano dei colori adeguato e l'uso di tipologie edilizie e di materiali (nuovi, ma) coerenti con quelli tradizionali, sarebbe probabilmente possibile ridurre di molto e semplificare in modo sostanziale "a valle" i processi realizzativi dei singoli interventi (anche immaginando autocertificazioni, comunicazioni di inizio dei lavori e controlli solo a posteriori). Ma perché questo accada occorre che il "terribile diritto", la proprietà privata, faccia un passo indietro e che la litigiosità/pretenziosità dei privati (della microproprietà privata parcellizzata) non frapponga ostacoli insormontabili al processo pianificatorio.
È evidente che non si faranno mai passi in avanti se e finché ciascun microproprietario privato ha il diritto di bloccare e di contestare ogni seria (e cioè incisiva) misura dei piani di recupero, sol perché limitativa (come deve accadere, pena l'inutilità del piano stesso) dei suoi diritti intangibili di proprietà. L'esempio dimostra come, nella realtà, la "complicazione" nasce non solo dalla burocrazia e dai controlli amministrativi, ma anche dalla irriducibile resistenza - ipertutelata (anche a livello di diritto europeo) - della microproprietà privata parcellizzata, che impedisce e vanifica ogni reale possibilità di imprimere un disegno razionale riformatore al governo del territorio, ciò che consentirebbe, invero, una forte semplificazione dei controlli preventivi a valle, a livello attuativo della realizzazione dei singoli interventi [8]. Pochi ricordano la resistenza opposta nei decenni passati dalla proprietà privata all'introduzione del fascicolo del fabbricato. In realtà uno dei fattori di forte "complicazione" degli interventi di messa in sicurezza, risanamento, recupero, riqualificazione dei territori (per finalità sia di difesa dal dissesto idrogeologico, sia di efficientamento antisismico ed energetico, sia di rigenerazione edilizia delle periferie e dei paesaggi compromessi e degradati) è costituito dalla super-tutela della proprietà privata e dei suoi valori (ancora solo) edificatori. La perdurante vocazione (o aspirazione) prevalentemente edificatoria della proprietà privata se pone, nell'attuale assetto del sistema normativo, da un lato, un problema perequativo-indennitario, dall'altro lato costituisce oggettivamente un ostacolo al tentativo della pianificazione e della programmazione di dare un assetto razionale agli interventi di recupero-riqualificazione. Occorrerebbe, dunque, e con urgenza, avviare un serio e coraggioso dibattito sulla "complicazione" indotta da un sistema che pone la micro-proprietà privata parcellizzata, a vocazione economica solo edificatoria, come un assioma indiscutibile e un ostacolo insormontabile per qualsiasi politica pubblica di serio e vero governo del territorio [9].
3. La tutela è una "complicazione amministrativa" (fondata però su ragioni serie e oggettive: principio di differenziazione e policentrismo autonomistico)
Tanto chiarito in via di premessa generale, occorre poi porre in luce come la radice della complicazione si collochi nelle tutele parallele degli interessi differenziati [10]. Il paesaggio è "natura", ma (in Italia più che altrove) ha molto a che fare con la "cultura", cioè con la percezione e le pratiche dell'uomo, secondo la definizione (giuridica) di "paesaggio" recepita nel codice di settore, sul modello di quella della Convenzione europea di Firenze del 2000 [11]. La "culturalità" dei beni paesaggistici è una ragione forte del loro diverso regime giuridico rispetto al diritto dell'ambiente e all'urbanistica-governo del territorio: l'ambiente vive nelle scienze esatte, quelle delle descrizioni in terza persona; il paesaggio nelle scienze "deboli", quelle delle interpretazioni e delle opinioni in prima persona. Le une certificabili, le altre inevitabilmente opinabili. Questa considerazione fondamentale spiega perché la semplificazione nella materia del paesaggio è diversa da quella possibile nella materia propriamente ambientale (così come in quella propria dell'urbanistica e dell'edilizia). Non è infatti un caso se la così detta "discrezionalità tecnica" che presiede alle decisioni amministrative in materia di ambiente è spesso autocertificabile, mentre quella che presiede alle decisioni amministrative in materia di paesaggio non lo è: si possono autocertificare i fatti, non le opinioni [12]. Le tutele parallele degli interessi differenziati trovano, dunque, un loro motivo fondativo ontologico e logico, che si intreccia con il principio di adeguatezza e di differenziazione nella distribuzione delle competenze. Il moltiplicarsi dei titoli autorizzativi richiesti per realizzare un unico intervento in un'area o su un immobile coperto da uno o più vincoli settoriali non deriva, pertanto, esclusivamente, dall'esigenza di differenziare le competenze in modo da assicurare un adeguato livello di gestione dei beni-interessi coinvolti, nella scala dell'art. 118 della Costituzione, ma dalla natura stessa delle cose e degli interessi umani giuridicamente rilevanti che esse esprimono.
L'accorpamento delle materie e delle funzioni in settori organici e omogenei, sotteso alla visione un po' illuministica del legislatore del primo regionalismo degli anni '70 [13], non tenne conto della frammentazione delle competenze propria del pluralismo autonomistico della realtà ordinamentale italiana e non fece i conti con questi aspetti: se sembra in astratto giusto concentrare le funzioni di governo del territorio su un unico soggetto istituzionale (secondo lo slogan "uno il territorio, una la funzione, una la competenza" [14]), ciò che consentirebbe il massimo della semplificazione, non sembra affatto giusto in concreto negare una specifica e adeguata e differenziata considerazione ai valori più fragili, di tutti, più importanti e che non hanno un loro naturale difensore (se non nell'associazionismo e nella sussidiarietà orizzontale).
4. Semplificazione e tutela: una via alternativa al silenzio-assenso: liberalizzare gli interventi minori, di conservazione-manutenzione (ma anche di miglioramento antisismico ed efficientamento energetico) dell'esistente, spostando ex post il controllo
In realtà non è poi così inevitabile passare dall'"eccesso di tutela" (che forse si è verificato, per diversi motivi, nell'ultimo decennio) all'eccesso opposto, ossia alla demolizione del sistema giuridico della tutela e alla riduzione dei beni-interessi-valori espressi dal patrimonio culturale a interessi qualsiasi liberamente superabili, senza particolari guarentigie, nel gioco dialettico del procedimento amministrativo (e perciò votati, in quanto interessi adespoti, alla probabile soccombenza). Può esserci una "terza via" fatta di ragionevolezza e di equilibrio. A ben vedere, una più analitica e dunque realistica impostazione sembra condurre a distinguere e proporzionare il tipo e il grado di controllo amministrativo sulla natura ed entità effettive degli "oggetti" della disciplina (ossia sulla natura ed entità sia dei beni interessati, sia degli interventi progettati), evitando l'incongruenza attuale per cui lo stesso, identico procedimento amministrativo deve valere sia per la sostituzione di una canna fumaria, sia per la demolizione e ricostruzione di un bene sottoposto a tutela (al di là delle scarse semplificazioni, piuttosto inefficaci, introdotte con il decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n. 139 del 2010, che si è limitato a prevedere il dimezzamento dei termini del procedimento di autorizzazione paesaggistica e la semplificazione degli oneri documentali a carico del privato [15]).
In tale più calibrata direzione sembra volersi muovere il legislatore del 2014, in coerente prosecuzione (e affinamento) dell'impostazione già introdotta dal secondo decreto correttivo del codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 63 del 2008), che aveva proposto per la prima volta la tematica della semplificazione degli interventi di lieve entità con una modifica inserita nel comma 11 dell'art. 146 del predetto codice (da cui era sortito il regolamento introdotto con il vigente, già menzionato, d.p.r. 139/2010).
L'art. 12, comma 2, del decreto legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, come modificato dall'art. 25, comma 2, del decreto legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, ha previsto un nuovo regolamento, da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, di modifica e integrazione del regolamento del 2010, finalizzato ad ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, nonché allo scopo di operare ulteriori semplificazioni procedimentali. In più la norma di legge del 2014 prevede che con il medesimo regolamento siano altresì individuate le tipologie di interventi per i quali l'autorizzazione paesaggistica non è richiesta, ai sensi dell'articolo 149 del medesimo codice dei beni culturali e del paesaggio, sia nell'ambito degli interventi di lieve entità già compresi nell'allegato 1 al suddetto regolamento del 2010, sia mediante definizione di ulteriori interventi minori privi di rilevanza paesaggistica, nonché le tipologie di interventi di lieve entità che possano essere regolate anche tramite accordi di collaborazione tra il ministero, le regioni e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni, con specifico riguardo alle materie che coinvolgono competenze proprie delle autonomie territoriali.
Lo schema di questo nuovo regolamento, elaborato in seno a un apposito gruppo di lavoro che ha visto il coinvolgimento e la condivisione con le regioni e l'Anci, è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 15 giugno 2016, ha avuto l'intesa della Conferenza unificata il 7 luglio 2016 e il parere favorevole del Consiglio di Stato il 31 agosto 2016. All'atto della redazione di questo testo è iniziato l'iter per i pareri delle commissioni parlamentari, prima dell'esame definitivo del Consiglio dei ministri.
Il principio ispiratore fondamentale di questa (più moderata) linea di riforma è quello di proporzionalità [16]: il bene culturale e il bene paesaggistico sono "organismi" (architettonici, storici, archeologici, ambientali) che hanno una loro "vita" e una loro fisiologia [17]. La maggior parte degli interventi dell'uomo su tali beni servono per conservarli, per mantenerli in buono stato, per utilizzarli in modo conforme alla loro natura e destinazione funzionale (anche per migliorarli, si pensi al consolidamento antisismico, all'efficientamento energetico o alla climatizzazione, se coerenti con le caratteristiche tipologiche e costruttive del bene). Ebbene, tutti questi interventi (che tendenzialmente si collocano, sul versante edilizio, nelle tipologie della manutenzione straordinaria, del risanamento conservativo e della ristrutturazione "leggera"), ben possono essere gestiti con un controllo ex post di tipo (eventualmente) repressivo, trattandosi quasi sempre di interventi che non mettono a repentaglio la consistenza essenziale e l'identità del bene, e sono di regola reversibili e facilmente rimuovibili. Tali interventi, nei casi di minima entità, se rispettosi delle caratteristiche architettoniche e costruttive del bene, potrebbero finanche essere in parte liberalizzati, con un ampliamento dell'ambito applicativo dell'art. 149 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Questa impostazione conseguirebbe a un tempo un duplice effetto benefico: da un lato, un effetto deflattivo dei carichi degli uffici (che potrebbero in tal modo concentrare le loro risorse scarse sul controllo preventivo degli interventi più impattanti); dall'altro lato, un effetto di semplificazione e di forte alleggerimento del peso burocratico sui cittadini e le imprese. Il tutto senza determinare una significativa diminuzione del livello della tutela.
L'ispirazione di fondo che orienta questa impostazione - ancorata al significato logico-giuridico degli artt. 146 e 149 del Codice - si compendia dunque nell'idea che è libero tutto ciò che attiene alla fisiologia ordinaria della dinamica vitale dell'organismo (edilizio o naturale) che costituisce l'oggetto della tutela paesaggistica, poiché rientrano nell'area naturale della libertà e della proprietà quegli utilizzi e quegli interventi (con finalità prevalentemente conservative o di gestione e di adeguamento) che, da un lato, consentono all'organismo paesaggistico di "vivere" (di conservarsi e di adattarsi), dall'altro lato rientrano nel dominio utile del proprietario privato e sono insuscettibili di ledere il dominio eminente pubblico inerente al bene e oggetto di interesse generale [18].
Il buon esito di questo progetto potrebbe ragionevolmente aprire la strada anche a sviluppi ulteriori e più coraggiosi, pure prefigurati nel parere della Conferenza unificata, dove si è ipotizzato (ma per far ciò occorrerebbe un nuovo intervento autorizzativo del legislatore) un "salto di qualità" ulteriore nella semplificazione mediante assoggettamento degli interventi di lieve entità di cui alla tabella B allegata allo schema di decreto al solo controllo successivo (previa Scia o comunicazione asseverata di inizio attività), in luogo dell'attuale, comunque piuttosto farraginosa, procedura "semplificata" (che si risolve in un dimezzamento dei termini e in una forte semplificazione documentale).
Non c'è dubbio sulla necessità che questo processo di semplificazione "ragionevole e ragionata" si accompagni a un parallelo processo di definizione di linee guida e regole tecniche idonee ad "asciugare" quei margini di discrezionalità, altrimenti eccessivi, che si aprono in corrispondenza dei termini generici e dei concetti giuridici indeterminati che inevitabilmente caratterizzano la norma, lì dove essa in particolare eleva la condizione che gli interventi siano "eseguiti nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti" a linea di confine tra ciò che è libero (o è semplificato) e ciò che, invece, ancorché di minima o di lieve entità, deve restare assoggettato a un previo controllo autorizzativo che si estrinsechi in un provvedimento formale e motivato. Tuttavia, sulla considerazione che, nel paesaggio, le linee guida e le regole tecniche sono già previste (e in parte già introdotte) quali contenuti essenziali dei piani paesaggistici (artt. 135 e 143 del codice di settore) e della "vestizione" dei vincoli (artt. 138, comma 1, e 141 stesso codice), non appare condivisibile la posizione che intende "rinviare" e posticipare la semplificazione alla previa, completa definizione in tutto il territorio nazionale di linee guida e regole tecniche di dettaglio che rendano fino in fondo autocertificabile la conformità dell'intervento. Occorre definire i piani paesaggistici e "vestire" i vincoli "nudi"; occorre, quindi, applicare la legge che c'è già da 12 anni, senza prevedere ulteriori, più o meno ambiziosi atti fonte di rango secondario o terziario.
La semplificazione, se non "posposta" all'introduzione delle linee guide e alle regole tecniche di dettaglio, può, in realtà, se ben collegata a forti ed efficaci azioni successive di monitoraggio e di approfondimento, costituire essa stessa un utile "formante" operativo dei predetti strumenti applicativi, fornendo un fondamentale "banco di prova" concreto capace di generare dal basso, dall'esperienza concreta sul campo, processi virtuosi di emersione ed elaborazione di buone pratiche e di indicazioni tecniche che potranno via via rifluire in testi organici utili per successivi affinamenti, normativi o mediante atti-fonte di soft law, del quadro regolativo di riferimento. In tale processo di controllo e di monitoraggio, una vera e propria valutazione d'impatto della regolazione allargata e rafforzata, ben potrebbero e dovrebbero essere attivamente coinvolti, in applicazione di un'autentica sussidiarietà orizzontale, tutti i soggetti e gli attori a vario titolo interessati, sia istituzionali, sia della società civile (anche, dunque, le associazioni, le categorie professionali, etc.), che potrebbero segnalare le criticità emerse in concreto e formulare indicazioni e proposte migliorative. Fondamentale in questo contesto si profila naturalmente il ruolo dei controlli e della vigilanza sul territorio delle autonomie territoriali, degli enti parco, delle soprintendenze, di tutti gli enti pubblici competenti in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio, anche per arginare eventuali fenomeni di "abuso della semplificazione" che dovessero verificarsi nella pratica applicativa.
In tal modo potrebbe innescarsi un processo virtuoso, anche in termini di condivisione sociale e di coesione delle azioni di tutela e valorizzazione, potenzialmente idoneo a contrastare in parte la diffusa percezione della tutela come puro limite "calato dall'alto" e non come patrimonio condiviso, accolto e maturato dal basso, di cura e di salvaguardia dei propri territori.
5. Proporzionalità e ragionevolezza quali criteri interni della decisione amministrativa di tutela, senza pregiudizio per l'autonomia tecnico-scientifica che presiede alle valutazioni tecnico-discrezionali.
Come anticipato nella parte introduttiva del presente contributo, un altro aspetto particolarmente importante e urgente nel dibattito sulla dialettica "tutela-semplificazione" è costituito dallo statuto e dal trattamento dell'autonomia tecnico-scientifica degli uffici tecnici (prevalentemente statali, le soprintendenze) preposti alla tutela e, dunque, in diritto amministrativo, dal regime giuridico della discrezionalità tecnica attraverso cui tale autonomia tecnico-scientifica viene ad esprimersi nel mondo giuridico [19].
Giova premettere - per quanto ovvio - che l'autonomia tecnico-scientifica dei soprintendenti non può trasmodare in una sorta di "libero convincimento del giudice", così come non può tradursi in un inammissibile affrancamento dal principio gerarchico e di responsabilità politica dell'esecutivo (e, dunque, di riconduzione agli indirizzi politici del ministro e del governo, che ne rispondono al popolo sovrano attraverso il Parlamento, nel circuito proprio della legittimazione democratica). La dirigenza ministeriale, in altri termini, non può certo atteggiarsi a "potere diffuso" come la magistratura, essendo e dovendo restare un plesso organizzativo interno all'esecutivo e dunque un potere accentrato e strutturato attorno alla responsabilità politica ministeriale e governativa. Anche in questa prospettiva, dunque, come già si è avuto modo di rilevare per la materia paesaggistica, le regole tecniche e le linee guida per dare omogeneità e coerenza agli indirizzi applicativi rivestono un ruolo fondamentale.
Fatta questa (forse inutile, ma doverosa) premessa, occorre domandarsi se e fino a che punto l'autonomia tecnico-scientifica del soprintendente implichi o debba comportare una sorta di "isolamento" rispetto al contesto del complessivo affare amministrativo nel quale la decisione o il giudizio di tutela va ad innestarsi.
Se è vero che la funzione di tutela richiede l'espressione, da parte dell'amministrazione di settore, di una valutazione puramente tecnico-discrezionale, scevra da commistioni di discrezionalità amministrativa, ossia di acquisizione e di ponderazione di interessi, anche pubblici, "altri" rispetto alle esigenze della tutela, è altresì vero che la decisione di tutela, allorquando intervenga in sede di autorizzazione e di valutazione di compatibilità dell'intervento, deve essere adeguatamente contestualizzata e deve condurre a conclusioni dispositive coerenti con i principi di proporzionalità e ragionevolezza, che conformano dall'interno ogni manifestazione di potere amministrativo che presenti un qualche margine di scelta e di apprezzamento discrezionale (anche di natura "tecnica") e non sia interamente vincolata.
Mentre il giudizio (anche estetico) di valore paesaggistico di un'area (in sede di dichiarazione di notevole interesse pubblico paesaggistico, ossia in sede di qualificazione della cosa e di apposizione del vincolo paesaggistico), in quanto decisione "monostrutturata", che di per sé non si intreccia quale sub-procedimento in altri procedimenti complessi, può essere indipendente dagli altri interessi e valori che su quell'area insistono o che da essa promanano, il giudizio di compatibilità paesaggistica in sede di autorizzazione di un intervento da realizzarsi su tale area vincolata deve per definizione e necessariamente confrontarsi (per l'appunto) con l'intervento progettato e con i valori-interessi (anche antagonisti alla tutela) che esso esprime. E ciò perché questa è la causa formale e finale della pronuncia stessa di compatibilità paesaggistica, ossia, detto in altro modo, perché il piano di immanenza su cui il giudizio di compatibilità opera postula implicitamente, nel suo orizzonte di senso, la considerazione del contesto e del complessivo affare amministrativo in cui quella valutazione si colloca.
Sotto un diverso, ma concorrente profilo, come già sopra accennato, ogni decisione o giudizio dell'amministrazione che costituisca esercizio di pubblici poteri potenzialmente restrittivi delle sfere di libertà-autonomia dei privati deve costituirsi e nascere ab initio connotato dai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, che non sono predicabili solo della discrezionalità amministrativa, ma anche della discrezionalità tecnica (in specie nella sua versione "mista" o "ermeneutica", e quindi opinabile, non autocertificabile e non sostituibile, quale è quella tipicamente propria della tutela del patrimonio culturale). La sproporzione del giudizio tecnico attiene non tanto alla cognizione/valutazione tecnica in sé, quanto alla prescrizione di tutela che ad esso si ricollega; riguarda non già la premessa minore, ma la conclusione del sillogismo giuridico.
Il tema del difficile rapporto tra "tecnica e politica", emerso di recente soprattutto nella sede dell'approvazione dei piani paesaggistici congiunti, frutto della co-pianificazione Stato-Regione prevista dall'art. 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio [20], è tema molto complesso che richiederebbe sicuramente maggiori approfondimenti. È tuttavia chiaro che l'assolutizzazione della tutela, imperniata sull'idea delle soprintendenze come "magistratura tecnica" autonoma e indipendente, non può spingersi fino al punto di fare di tale complesso amministrativo un corpo che si pone al di fuori del circuito della rappresentanza politica-parlamentare, garantita dall'indirizzo politico del ministro, a meno che non si intenda rimettere mano al sistema nei suoi fondamenti, ritornando alle proposte della Commissione Franceschini del 1966 e alla riforma Spadolini istitutiva del ministero di settore del 1976 [21] puntando su un'autorità tecnica indipendente o su un vero e proprio potere indipendente dello Stato-comunità che si contrappone allo Stato apparato. Scenario, questo, oltre che irrealistico, forse neppure auspicabile.
Note
[1] Su questi temi sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, La riforma dell'art. 41 della Costituzione e la tutela del patrimonio culturale, in Giustamm.it, 26 ottobre 2011 (dove si rileva tra l'altro come queste riforme elevino a "super-diritto" tiranno il diritto a fare impresa, con un sostanziale ribaltamento della logica dell'art. 41 Cost. e con una prevalenza delle libertà positive in danno di quelle negative e la conseguente trasformazione del diritto amministrativo in diritto sanzionatorio: abolizione dei controlli preventivi, diretti a dare ordine all'assetto sociale e a prevenire i conflitti intersoggettivi, e potenziamento del controllo sanzionatorio successivo).
[2] P. Carpentieri, Principio di differenziazione e paesaggio, in Riv. giur. ed., 2007, 3, pag. 71 ss.
[3] A proposito di "memoria corta", quando si insiste, oggi, nel proclamare che bisogna smettere di "fare leggi contro gli italiani" (da ultimo D. Manacorda, L'Italia agli italiani. Istruzioni e ostruzioni per il patrimonio culturale, Bari, 2014), non si deve dimenticare che la legge Galasso del 1985, che resta una pietra miliare nella difesa dell'ambiente, del paesaggio, del territorio, costituisce il "prototipo" di legge "contro" gli italiani (o, meglio, contro alcuni italiani - quelli che tendono ad appropriarsi indebitamente di territorio e a fare spreco di suolo e di bellezza paesaggistica - a difesa dei beni comuni di tutti gli italiani).
[4] Dal codice dei beni culturali in avanti la consulta ha sviluppato una lunga teoria di pronunce, coerenti tra loro, che hanno grandemente rafforzato la tutela del patrimonio culturale, presentato come valore primario e assoluto, la cui tutela unitaria è affidata come compito indefettibile allo Stato, nel quadro del codice di settore, elevato in molte sue parti a grande riforma economico sociale della Repubblica (Corte cost. 7 novembre 2007, n. 367; 30 maggio 2008, n. 180; 27 giugno 2008, n. 232; 23 dicembre 2008, n. 437; 29 maggio 2009, n. 164; 29 ottobre 2009, n. 272; 17 marzo 2010, n. 101, 26 maggio 2010, n. 193, 22 luglio 2010, n. 278, 19 luglio 2011, n. 235, 23 novembre 2011, n. 309, 23 marzo 2012, n. 66, 5 giugno 2013, n. 139, 18 luglio 2013, n. 211, 24 luglio 2013, n. 238, 11 luglio 2014, n. 197, 18 luglio 2014, n. 210, 17 aprile 2015, n. 64. Tutte le pronunce sono consultabili sul sito Consulta Online. Per la giurisprudenza amministrativa è sufficiente al riguardo il richiamo di recenti pronunce del Consiglio di Stato (tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652, Id., 10 giugno 2013, n. 3205 e 26 marzo 2013, n. 1674 (consultabili sul sito della giustizia amministrativa). In direzione opposta - a favore di un proceduralismo aperto a ogni esito possibile del bilanciamento in concreto degli opposti interessi pubblici e privati in campo, senza previe gerarchie di valori - si vedano i pareri, marcatamente favorevoli, resi dal Consiglio di Stato sui vari schemi di decreti attuativi della legge n. 124 del 2015 (si vedano, ad esempio, tra i tanti passaggi, i paragrafi 4.2 e 5.1 del parere del Cons. Stato, Comm. spec., 7 aprile 2016, n. 890 - affare n. 431/2016, reso sullo schema di decreto legislativo recante Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell'art. 2 L. 7 agosto 2015, n. 124, dove si richiamano le sentenze della Consulta n. 85 del 2013 - caso "Ilva di Taranto" - e n. 264 del 2012 in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione - che dovrebbero restare "in rapporto di integrazione reciproca senza alcuna prevalenza assoluta degli uni sugli altri o illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette"). Ma fondamentale è il richiamo alla notissima sentenza della Consulta sul "terzo condono edilizio" (la n. 196 del 2004) che, al punto 23 della motivazione in diritto, come è noto, dovendo "salvare" il condono, ebbe a dire che "Non v'è dubbio che gli interessi coinvolti nel condono edilizio, in particolare quelli relativi alla tutela del paesaggio come "forma del territorio e dell'ambiente", siano stati ripetutamente qualificati da questa Corte come "valori costituzionali primari" (cfr., tra le molte, le sentenze n. 151 del 1986, n. 359 e n. 94 del 1985); primarietà che la stessa giurisprudenza costituzionale ha esplicitamente definito come "insuscettibilità di subordinazione ad ogni altro valore costituzionalmente tutelato, ivi compresi quelli economici" (in questi termini, v. sentenza n. 151 del 1986). Tale affermazione rende evidente che questa "primarietà" non legittima un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni; in altri termini, la "primarietà" degli interessi che assurgono alla qualifica di "valori costituzionali" non può che implicare l'esigenza di una compiuta ed esplicita rappresentazione di tali interessi nei processi decisionali all'interno dei quali si esprime la discrezionalità delle scelte politiche o amministrative... In realtà, questa Corte, nella sua copiosa giurisprudenza in tema di condono edilizio, ha più volte riconosciuto - in particolare nella sentenza n. 85 del 1998 - come in un settore del genere vengano in rilievo una pluralità di interessi pubblici, che devono necessariamente trovare un punto di equilibrio, poiché il fine di questa legislazione è quello di realizzare un contemperamento dei valori in gioco: quelli del paesaggio, della cultura, della salute, della conformità dell'iniziativa economica privata all'utilità sociale, della funzione sociale della proprietà da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell'abitazione e del lavoro, dall'altra (sentenze n. 302 del 1996 e n. 427 del 1995".
[5] Per una prima disamina (anche critica) delle recenti novità in tema di silenzio cfr. P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni; dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento 'orizzontale' all'interno della 'nuova amministrazione' disegnata dal Consiglio di Stato, in Fedralismi.it, nonché M. Bombardelli, Il silenzio assenso tra amministrazioni e il rischio di eccesso di velocità nelle accelerazioni procedimentali, in Urb. app., 2016, 7, pag. 758 ss.
[6] Riprendo qui le considerazioni svolte nel mio contributo La causa nelle scelte ambientali, in Rivista della Scuola Superiore dell'Economia e delle Finanze, 2006, 3, pag. 99 ss. Sulla nozione di "sviluppo sostenibile" la letteratura è sconfinata (per una traccia si vedano R. Ferrara, I principi comunitari di tutela dell'ambiente, in Dir. amm., 2005, 3, pag. 509 ss., con ivi ampi richiami bibliografici sul tema, F. De Leonardis, Il principio di precauzione nell'amministrazione di rischio, Padova, 2005; A. Massera, Principi generali dell'azione amministrativa tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, in Dir. amm., 2005, 4, pag. 754 ss. P. Savona, Dal pericolo al rischio: l'anticipazione dell'intervento pubblico, in Dir. amm., 2010, 2, pag. 355 ss.).
[7] Una forte accentuazione sul sostantivo "sviluppo" e una marginalizzazione dell'aggettivo "sostenibile" sono insite, ad es., nella nota costruzione del "diniego costruttivo" o "propositivo", legificato nella disciplina della conferenza di servizi, per cui il diniego deve sempre indicare le condizioni per il suo possibile superamento (già la versione dell'art. 14-quater della legge 7 agosto 1990, n. 241 inserita dall'art. 17, comma 7, della legge 15 maggio 1997, n. 127, successivamente sostituita dall'art. 12, comma 1, della legge 24 novembre 2000, n. 340, prevedeva, al primo coma, che il dissenso dovesse "recare le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell'assenso"; ora il secondo periodo del comma 3 del nuovo art. 14-bis della legge 241/1990, come sostituito dall'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2016, n. 127, prevede che "tali determinazioni, congruamente motivate, sono formulate in termini di assenso o dissenso e indicano, ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell'assenso"; l'inciso "ove possibile" è stato opportunamente introdotto sulla base del parere 7 aprile 2016, n. 890 reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentarti).
[8] Il problema di fondo resta quello irrisolto dalla legge Bucalossi del 1977 (e dalla mancata riforma Sullo): come rendere la destinazione edificatoria della proprietà fondiaria irrilevante sul piano economico-patrimoniale del privato. Tema giustamente più volte sottolineato di recente da P. Urbani (Conformazione dei suoli e finalità economico sociali, nota a Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, in Urb. app., 2013, 1, pag. 59 ss. - ora in Scritti scelti - Studi di diritto del governo del territorio e delle amministrazioni pubbliche, Torino, 2015, vol. II, pag. 1075 ss.; Id., Le nuove frontiere del diritto urbanistico: potere conformativo e proprietà privata, Torino, 2013, pag. 88 ss.; Id., Il contenuto minimo del diritto di proprietà nella pianificazione urbanistica, ivi, pag. 109 ss.) e da G. F. Cartei (da ultimo in Il consumo di suolo: la prospettiva dell'Unione Europea, in Contenere il consumo di suolo. Saperi ed esperienze a confronto, (a cura di) G. F. Cartei, L. De Lucia, Napoli, 2014, pag. 45 ss.; Id., Il problema giuridico del consumo di suolo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2014, 6, pag. 1262 ss., soprattutto pag. 1293 ss.).
[9] Eloquente al riguardo il dibattito che rallenta l'iter del disegno di legge sul Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato, approvato dalla Camera il 13 maggio 2016, ora al Senato - AS n, 2383) cui si oppone il persistente errore di sistema secondo cui i suoli non edificatori non sarebbero "bancabili" (ossia non sarebbero suscettibili da garantire aperture di credito bancario), ciò che postula l'idea per cui solo l'edificabilità dà valore economico ai suoli.
[10] Sulla logica delle tutele parallele per interessi differenziati cfr. V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, pagg. 389 e 427 ss., nonché P. Urbani, Urbanistica, tutela del paesaggio e interessi differenziati, in Le Regioni, 1986, pag. 665; Id., Ordinamenti differenziati e gerarchia degli interessi nell'assetto territoriale delle aree metropolitane, in Riv. giur. urb., 1990, pag. 609. Più in generale, sul difficile e complesso rapporto tra urbanistica e tutele differenziate cfr. l'ampio studio di P. Chirulli, Urbanistica e interessi differenziati: dalle tutele parallele alla pianificazione integrata, in Dir. amm., 2015, 1, pag. 51 ss. Da ultimo, G. Sciullo, 'Interessi differenziati' e procedimento amministrativo, in Giustamm.it, 2016, 5.
[11] Sulle varie nozioni di paesaggio, sia consentito per brevità il rinvio a P. Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, pag. 405 ss., dove si tenta di sviluppare, alla luce del mutato quadro culturale e normativo, la feconda impostazione di M.S. Giannini ("Ambiente": saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, pag. 15); si veda anche, se si vuole, del sottoscritto, il più recente e aggiornato Paesaggio, ambiente e sviluppo: la via italiana della tutela, in Giustamm.it, 1 dicembre 2015. Per un'ampia ed esaustiva messa a punto cfr. G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio (art. 9 Cost.), in Codice di edilizia e urbanistica, (a cura di) S. Bettini, L. Casini, G. Vesperini e C. Vitale, Torino 2013.
[12] Questo ragionamento è sviluppato appieno in P. Carpentieri, Paesaggio, ambiente e sviluppo: la via italiana della tutela, in Giustamm.it, 1 dicembre 2015, in particolare nel par. 4, intitolato "La logica formale della tutela: autocertificabilità degli accertamenti tecnici vincolati (applicativi di scienze "dure"); non autocertificabilità della discrezionalità ermeneutica (applicativa di scienze sociali comprendenti)". Queste notazioni devono valere naturalmente "in linea di massima", posto che, non c'è dubbio, ben può accadere (e accade di frequente) che nel campo ambientale emergano questioni "opinabili" (implicanti giudizi tecnico-discrezionali di compatibilità) e in quello culturale questioni "certificabili" (implicanti meri accertamenti vincolati di conformità). È d'altro canto evidente che la discrezionalità amministrativa (e la scelta politica di bilanciamento dei valori) ben può entrare (e profondamente) anche in questioni ambientali pure teoricamente definibili dalle scienze esatte (fisica, chimica, biologia, medicina), come dimostra plasticamente (e drammaticamente) il caso Ilva di Taranto deciso dalla Consulta con la sentenza n. 85 del 2013 richiamata nella precedente nota 4. Resta sottinteso - in quanto ovvio - che la distinzione tra "scienze esatte" e "scienze deboli", come quella storicistica tra "scienze della natura" e "scienze dello spirito", distinzione in realtà superata nel dibattito filosofico (si veda, ad esempio, H. Putnam, Fatto/valore; fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Roma, 2004), è qui richiamata per il profilo euristicamente ancora fecondo che da essa può utilmente trarsi ai fini di una migliore comprensione della logica formale interna del sillogismo che viene ad essere costruito nelle une (accertamenti tecnici) e nelle altre (scelte interpretative opinabili) decisioni amministrative. Indicazioni utili in tale direzione sono contenute nella recente pronuncia dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato 27 luglio 2016, n. 17 che, nel ritenere che il silenzio-assenso previsto dall'art. 13, commi 1 e 4, della legge quadro sulle aree naturali protette n. 394 del 1991 non è stato implicitamente abrogato a seguito dell'entrata in vigore della legge 14 maggio 2005, n. 80, che, nell'innovare l'art. 20 della legge n. 241 del 1990, ha escluso che l'istituto generale del silenzio-assenso possa trovare applicazione in materia di tutela ambientale e paesaggistica, ha però precisato, significativamente, al par. 13 della motivazione in diritto, che tale soluzione non implica un vulnus all'effettività della tutela, poiché "Il nulla osta dell'art. 13 legge n. 394 del 1991 ha ad oggetto la previa verifica di conformità dell'intervento con le disposizioni del piano per il parco ... e del regolamento del parco ... che disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti", sicché "In questa cornice, il nulla osta dell'art. 13 ha per legge la stretta funzione di verifica della corrispondenza, con una tale prefigurata cura, dell'intervento immaginato in concreto", mentre "è il caso di rammentare che (il silenzio-assenso - n.d.r.) non riguarda altri specifici interessi demandati ad appositi procedimenti a elevato contenuto concreto tecnico, come autorizzazioni paesaggistiche, idrogeologiche, archeologiche". Ragion per cui, aggiunge il Consiglio, "trattandosi testualmente di verifica di conformità, il margine di discrezionalità tecnica che vi è connaturato è di suo ben più ridotto di quanto sarebbe, ad esempio, per un'autorizzazione che fosse prevista per valutare la concreta compatibilità dell'intervento con un vincolo interessante il territorio... Come accennato infatti, a differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di conformità - che solo accerta la conformità degli interventi concretamente prospettati alle figure astrattamente consentite - non comporta un giudizio tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante i rammentati strumenti del Piano per il parco e del Regolamento del parco... Il che è reso ontologicamente possibile dall'assenza, rispetto all'interesse naturalistico, di spazi per valutazioni di tipo qualitativo circa l'intervento immaginato: si tratta qui infatti, secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare l'"ambiente-quantità", il che tecnicamente consente questo assorbimento, negli atti generali e pianificatori, della cura dell'interesse generale. Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o limiti di accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia".
[13] G. Abbamonte, Programmazione e amministrazione per settori organici, Napoli, 1984, pag. 88 ss, nonché in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, Padova, 1990, vol. VIII; Id., Attualità e prospettive di riforma del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, 2, pag. 320.
[14] P. Stella Richter, I principi fondamentali del diritto urbanistico, Milano, 2002.
[15] Sul regolamento di semplificazione del 2010 cfr. S. Amorosino, P. Carpentieri, Il regolamento di semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche per gli interventi di lieve entità, in Urb. app., 2010, 12, pag. 1381 ss.
[16] Sul principio di proporzionalità, da ultimo, cfr. F. Trimarchi Banfi, Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 2, pag. 361 ss.
[17] Si rinvia per l'approfondimento di questo discorso a P. Carpentieri, Interesse paesaggistico e procedimenti autorizzativi, in Riv. giur. urb., 2015, 2, pag. 219 ss.; nonché (con l'aggiunta della Introduzione) nella rivista on line Giustamm.it, 19 gennaio 2016.
[18] Il richiamo è alla nota e condivisa concettualizzazione del regime giuridico dei beni cultuali e paesaggistici in termini di concorso originario di titoli pubblici e privati di M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963 (nonché Id., I beni culturali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1976, pag. 20 ss.) e P. Calamandrei, Immobili per destinazione, in Foro it. , 1933, pag. 1722 (da ultimo, in sintesi, cfr. L. Casini, "Todo es peregrino y raro ...": Massimo Severo Gianni e i beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 3, pag. 987 ss.). Né pare sostenibile che l'eccezione culturale possa spingersi fino al punto da sottrarre i beni tutelati al principio fondamentale in base al quale il controllo pubblicistico - per quanto pervasivo e penetrante (atipico, esteso dunque a tutti gli interventi potenzialmente lesivi) - opera come eccezione rispetto al piano di libertà fondamentale del soggetto titolare dei diritti dominicali e di uso del bene stesso: se ci si spingesse oltre questa linea di confine e si affermasse l'opposto principio per cui, per i beni tutelati, "tutto è vietato tranne ciò che è autorizzato", il "dominio eminente" pubblico si tradurrebbe in una espropriazione e sarebbe ineludibile il problema dell'indennizzo e della tutela del nucleo essenziale incomprimibile della proprietà privata.
[19] Anche in questo caso, al solo scopo di evitare richiami sovrabbondanti (e comunque incompleti), esclusivamente per ragioni di sintesi, mi permetto di rinviare a P. Carpentieri, Azione di adempimento e discrezionalità tecnica (alla luce del codice del processo amministrativo), in Giustamm.it, 10 luglio 2012, nonché in Dir. proc. amm., 2013, 2, 385 ss.
[20] P. Carpentieri, Il ruolo del Ministero nell'elaborazione del piano paesaggistico, in Il piano paesaggistico della Toscana, (a cura di) G.F. Cartei, D. M. Traina, Napoli, 2015, pag. 41 ss. (soprattutto pag. 47 ss.).
[21] L. Casini, Ereditare il futuro, Bologna, 2016, capitolo 9, par. 2.1. e 2.4., dove si riferisce del favore di M.S. Giannini per il modello agenziale e la sua delusione di fronte alla scelta ministeriale "tradizionale". Il tema è compiutamente analizzato nelle relazioni tenute in occasione della cerimonia di intitolazione a Giovanni Spadolini del salone monumentale dell'ex Consiglio nazionale, svoltasi nella sede del ministero di via del Collegio romano, in Roma, il 4 agosto 2016, dei Proff. G. Galasso, Spadolini e il Ministero per i beni culturali e ambientali, G. Melis Dal Risorgimento a Bottai e a Spadolini. La lunga strada dei beni culturali nella storia dell'Italia unita e M. Cammelli, I tre tempi del Ministero dei beni culturali.