Le modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio
dopo i decreti legislativi 62 e 63 del 2008 / Beni culturali
La conservazione: gli artt. 18-52
Sommario: 1. Generalità. - 2. Rapporti con altri provvedimenti normativi. Comuni e città metropolitane. - 3. Modificazioni formali. - 4. Modificazioni discutibili, parziali o mancate. - 5. Modificazioni vere. La disciplina degli archivi. - 6. Un'abrogazione non consentita. - 7. Un inutile accentramento. - 8. Una singolare semplificazione. - 9. Un recupero doveroso: i beni degli enti ecclesiastici. - 10. Considerazioni finali.
Nella sistematica del Codice dei beni culturali gli articoli da 18 a 52, collocati nella Parte seconda, Beni culturali, entro il Titolo I, Tutela, costituiscono il Capo II, Vigilanza e ispezione (artt. 18-19), e il Capo III, Protezione e conservazione (artt. 20-52), il quale è diviso in tre sezioni, con le rubriche Misure di protezione (sezione I, artt. 20-28), Misure di conservazione (sezione II, artt. 29-44) e Altre forme di protezione (sezione III, artt. 45-52).
Questo gruppo di trentacinque articoli ha subìto complessivamente, a opera del decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 62, trentanove modificazioni che le quali riguardano tuttavia soltanto diciannove articoli, alcuni dei quali ritoccati in più punti, mentre gli altri sedici articoli sono rimasti invariati. Le modificazioni alla parte seconda del Codice sono state introdotte tutte dall'art. 2, comma 1, del d.lg. 62/2008, distintamente con una lettera dell'alfabeto per ciascun articolo del Codice modificato e con il ricorso anche ai numeri, all'interno di ciascuna lettera, quando di uno stesso articolo siano stati modificati commi diversi [1].
Le modificazioni sono esaminate non nell'ordine sequenziale degli articoli, bensì per gruppi, secondo la loro natura. Si dà conto altresì delle modificazioni di identico tenore che riguardano anche altre disposizioni del Codice. Le due modificazioni apportate all'art. 29, Conservazione, nelle parti relative alla disciplina dell'insegnamento del restauro (commi 8 e 9), sono illustrate in modo approfondito in un contributo separato. L'esame è condotto tenendo conto della relazione illustrativa con cui il governo ha accompagnato la trasmissione al parlamento dello schema di decreto legislativo, di seguito, per brevità, indicata come relazione allo schema di decreto legislativo [2]; l'esame tiene conto anche dei pareri sullo schema di decreto resi, ai sensi della legge di delega [3], dalle competenti commissioni parlamentari [4] e si conclude con alcune considerazioni finali.
2. Rapporti con altri provvedimenti normativi. Comuni e città metropolitane
Alcune modificazioni riguardano i rapporti del Codice con altri provvedimenti normativi.
In particolare i commi 1 e 2 dell'art. 25 del Codice, Conferenza di servizi, sono stati modificati [5] per un pieno adeguamento alla legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché alle relative modifiche introdotte dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15. Il comma 1 dell'art. 25 è stato modificato con la sostituzione di alcune parole e l'aggiunta, in fine, di altre parole. Secondo il nuovo testo, così risultante, "Nei procedimenti relativi ad opere o lavori incidenti su beni culturali, ove si ricorra alla conferenza di servizi, l'assenso espresso in quella sede dal competente organo del ministero con dichiarazione motivata, acquisita al verbale della conferenza e contenente le eventuali prescrizioni impartite per la realizzazione del progetto, sostituisce, a tutti gli effetti, l'autorizzazione di cui all'articolo 21". Il nuovo testo del comma 1 si collega meglio di quello originario al testo vigente dell'art. 14-ter della l. 241/1990. Il comma 2 dell'art. 25 reca una disciplina specifica sulla conclusione del procedimento in caso di dissenso espresso dall'organo ministeriale in conferenza di servizi. La modificazione è consistita in un rinvio generico alle vigenti disposizioni di legge in materia di procedimento amministrativo; analoga modificazione è stata introdotta all'art. 14, comma 5 [6], e anche all'art. 46, comma 5 [7], del Codice. Si può ritenere che il coordinamento dell'art. 25 del Codice con la l. 241/1990, come modificata dalla l. 15/2005, fosse possibile già in via interpretativa [8], ma la possibilità di emanare norme correttive e integrative è stata sfruttata in modo da eliminare ogni eventuale incertezza.
Il comma 6 dell'art. 41, Obblighi di versamento agli Archivi di Stato dei documenti conservati dalle amministrazioni statali, stabiliva (primo periodo) che "Le disposizioni del presente articolo non si applicano al ministero per gli Affari esteri". Le parole "per gli affari esteri" sono state sostituite con "degli affari esteri" [9], in adeguamento alla denominazione legislativa ufficiale che è appunto "ministero degli Affari esteri" [10]. Il comma 6 stabiliva inoltre (secondo periodo) che le disposizioni dell'art. 41 "non si applicano altresì agli stati maggiori dell'esercito, della marina e dell'aeronautica per quanto attiene la documentazione di carattere militare e operativo". Questo secondo periodo è stato modificato aggiungendo anche lo stato maggiore della difesa e il comando generale dell'Arma dei carabinieri. Entrambe le aggiunte sono giustificate poiché rimediano a incongruenze nella redazione del Codice; in particolare la seconda aggiunta tiene conto della riforma del 2000, antecedente quindi al Codice, secondo cui l'Arma dei Carabinieri ha collocazione autonoma nell'ambito del ministero della Difesa, con rango di Forza armata [11], al pari di esercito, marina e aeronautica.
L'art. 26 del Codice, Valutazione di impatto ambientale, faceva riferimento al ministero dell'Ambiente e della tutela del Territorio, previsto dall'ordinamento dei ministeri in vigore al tempo dell'emanazione del Codice. Questo riferimento è stato sostituito con quello al ministero dell'Ambiente e della tutela del Territorio e del Mare [12], in adeguamento al nuovo ordinamento dei ministeri nel frattempo disposto dal decreto legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito con modificazioni in legge 17 luglio 2006, n. 233. Alla stessa logica corrispondono anche le modifiche dell'art. 29, Conservazione [13], ove i riferimenti al ministro dell'Istruzione, dell'università e della ricerca sono stati sostituiti con quelli al ministro dell'Università e della ricerca. Questo tipo di correzioni consiste in coordinamenti formali tra leggi diverse, senza contenuto innovativo. Peraltro, poco dopo l'emanazione del d.lg. 62/2008, le strutture del governo sono state nuovamente modificate e, in particolare, è stato ricostituito il ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, con riunificazione dei due distinti ministeri (ministero dell'Istruzione, ministero dell'Università e della Ricerca) in precedenza previsti [14]. Gli adeguamenti delle discipline sostanziali di settore all'ordinamento dei ministeri possono avere vita breve: nel caso di specie le modificazioni dell'art. 29 del Codice, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 84 del 9 aprile 2008 ed entrate in vigore il 24 aprile 2008, sono state superate nel volgere di appena ventidue giorni [15].
Su un piano più generale si osserva che nella XIII legislatura era stato avviato un disegno politico di riforma delle amministrazioni pubbliche volto, fra l'altro, a rendere stabile la struttura dei ministeri e a sottrarla a vicende politiche contingenti [16]. Le vicende successive hanno segnato il fallimento di quell'obiettivo, dato che all'inizio di ciascuna delle legislature successive la struttura dei ministeri è stata ritoccata, sempre per decreto-legge e in misura non marginale [17].
Tra le modificazioni del Codice per coordinamento con altre normative si esaminano infine quelle in tema di obblighi di comunicazione al comune e alla città metropolitana. Il Codice dei beni culturali ha stabilito quattro obblighi di comunicazione al comune o alla città metropolitana nel cui territorio si trovano i beni culturali interessati. Questi obblighi di comunicazione riguardano: 1) il progetto di esecuzione di interventi conservativi imposti dal soprintendente su beni immobili [18]; 2) gli accordi e le convenzioni per rendere accessibili al pubblico i beni culturali restaurati o sottoposti a interventi conservativi con il concorso dello Stato nella spesa [19]; 3) il progetto di interventi conservativi su beni culturali dello Stato e la data di inizio dei relativi lavori [20]; 4) le modalità di visita dei beni culturali concordate tra il privato proprietario di beni culturali e il soprintendente il quale abbia esercitato il potere di assoggettare i beni di proprietà privata a visita da parte del pubblico per scopi culturali [21].
Tali obblighi di comunicazione costituiscono una novità rispetto al testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali approvato col decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, e ciascuno di essi ha una giustificazione. Nel primo caso il Codice prevede che gli enti interessati possano esprimere parere motivato entro trenta giorni dalla ricezione della comunicazione. Nel secondo e nel quarto caso gli enti destinatari della comunicazione possono contribuire alla più ampia diffusione al pubblico delle informazioni ricevute e quindi favorire la visita del pubblico. Nel terzo caso la comunicazione consente agli enti interessati di assumere gli interventi e svolgere le attività di propria competenza in modo coordinato con gli interventi dello Stato.
Il d.lg. 62/2008 ha sostituito in tutti e quattro i casi le parole "al comune o alla città metropolitana" con le parole "al comune e alla città metropolitana" [22]. Solo per chiarezza e semplicità di formulazione la modificazione riguarda sei parole; ma in definitiva la sostituzione riguarda solo la congiunzione "o", sostituita con "e". La relazione allo schema di decreto legislativo ha motivato la modificazione con l'esigenza "di tener conto dell'effettivo assetto organizzativo delle città metropolitane". Questa giustificazione non è accettabile: a diciotto anni di distanza dalla prima disciplina normativa delle città metropolitane [23], nessuna città metropolitana è stata ancora costituita e quindi non esiste alcun "effettivo assetto organizzativo" delle città metropolitane di cui si possa tener conto. Una plausibile giustificazione, diversa da quella addotta dalla relazione, non manca, ma investe il ruolo della città metropolitana nonché il suo rapporto con il comune. La congiunzione disgiuntiva "o", adoperata dal testo originario del Codice, sottintendeva che le città metropolitane dovessero sostituirsi ai comuni nell'esercizio delle funzioni alle quali si riferiscono gli obblighi di comunicazione. La sostituzione, da parte del d.lg. 62/2008, della congiunzione "o" con "e" corrisponde invece all'intenzione di evitare che l'istituzione della città metropolitana incida sulle anzidette funzioni del comune. Il parere sullo schema di decreto legislativo reso il 28 febbraio 2008 dalla Conferenza unificata Stato-Città ed autonomie locali e Stato-regioni ha ignorato la questione, che pure era una delle poche di suo specifico interesse [24].
La modificazione appare proiettata in un futuro lontano, ma del tutto priva di effetti immediati. I tempi di costituzione delle città metropolitane non sono prevedibili, data la rilevanza dei problemi connessi [25]. Per contro è largamente prevedibile che, essendo rimasta inattuata la delega legislativa prevista dall'art. 2, comma 1, legge 5 giugno 2001, n. 131 (c.d. legge La Loggia), la definizione del ruolo e delle funzioni delle città metropolitane nonché dei rapporti con i comuni compresi nelle aree metropolitane costituirà oggetto di futuri provvedimenti normativi che potrebbero anche incidere su quanto disposto dal Codice dei beni culturali.
Altre modificazioni consistono in riformulazioni, totali o parziali, del testo di disposizioni del Codice, per scrupolo di precisione terminologica o nella ricerca di maggiore chiarezza, ma senza incidenza, o con limitata incidenza, sul contenuto normativo delle disposizioni modificate.
Così all'art. 52, Esercizio del commercio in aree di valore culturale, l'aggettivo "ambientale" è stato sostituito con "paesaggistico" [26]. I giuristi sanno da almeno trentacinque anni che il termine "ambiente", con tutti i suoi derivati, è polisenso [27]; ma nel contesto del Codice dei beni culturali e del paesaggio nonché in quello specifico della disposizione non ci può essere alcun dubbio che l'unico senso attribuibile ad "ambiente" fosse quello di "paesaggio". La modifica, pur corretta, non vale a sciogliere un dubbio interpretativo.
Dello stesso tipo è anche una delle due modifiche apportate all'art. 49, Manifesti e cartelli pubblicitari [28]. Il primo periodo del comma 1 ha posto il divieto di collocare o affiggere cartelli o altri mezzi di pubblicità sugli edifici e nelle aree tutelati come beni culturali. Il secondo periodo dello stesso comma 1 stabiliva poi che "Il soprintendente può, tuttavia, autorizzare il collocamento o l'affissione quando non ne derivi danno all'aspetto, al decoro e alla pubblica fruizione di detti edifici ed aree". Questo secondo periodo è stato sostituito con un nuovo testo [29]: "Il collocamento o l'affissione possono essere autorizzati dal soprintendente qualora non danneggino l'aspetto, il decoro o la pubblica fruizione di detti immobili". Il complemento oggetto è diventato il soggetto, il soggetto è diventato complemento di agente, il verbo è stato volto dall'attivo al passivo, gli edifici ed aree sono stati riunificati con il termine immobili, ma la disposizione non è realmente variata. Si tratta quindi di una modificazione dovuta solo alle personali propensioni espressive dei redattori dello schema di decreto correttivo e integrativo. La seconda correzione all'art. 49 è esaminata distintamente più oltre, al paragrafo 8.
Rientra ugualmente tra le riformulazioni testuali ininfluenti per il contenuto normativo la sostituzione della rubrica dell'art. 38 [30]. Il testo originario di questa rubrica era Apertura al pubblico degli immobili oggetto di interventi conservativi. Il primo decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive aveva già sostituito le prime parole, cosicché la rubrica era diventata Accessibilità del pubblico ai beni culturali oggetto di interventi conservativi [31]. La nuova modificazione riguarda le parole già sostituite e consiste nell'inversione dei due complementi: la rubrica è ora Accessibilità al pubblico dei beni culturali oggetto di interventi conservativi. La relazione allo schema di decreto legislativo non chiarisce le ragioni della modificazione e questo silenzio può essere interpretato come un segno di imbarazzo, dato che si tratta della correzione di una correzione, dovuta anch'essa alle personali propensioni espressive dei redattori dello schema di decreto correttivo e integrativo.
Una correzione è stata apportata anche al comma 1 dello stesso art. 38, il cui testo, già corretto dal d.lg. 156/2006, era così formulato: "I beni culturali restaurati o sottoposti ad altri interventi conservativi con il concorso totale o parziale dello Stato nella spesa, o per i quali siano stati concessi contributi in conto interessi, sono resi accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da appositi accordi o convenzioni da stipularsi fra il ministero ed i singoli proprietari all'atto della assunzione dell'onere della spesa ai sensi dell'articolo 34 o della concessione del contributo ai sensi dell'articolo 35". La correzione è consistita nell'aggiunta, in fine, del richiamo anche all'art. 37, Contributo in conto interessi [32]. Il mancato richiamo non poteva creare alcun problema, giacché il testo della disposizione menzionava i contributi in conto interessi; la correzione, di carattere formale, opera una piena saldatura fra disposizioni diverse. Ma si può anche osservare che la correzione ha confermato la tecnica di redazione del Codice consistente nel rinvio interno espresso, sempre alla ricerca di un precisione formale che, invece di essere raggiunta, è occasione di errori i quali richiedono a loro volta correzione. In precedenza l'art. 45 del testo unico approvato col d.lg. 490/1999 stabiliva: "Gli immobili di proprietà privata, restaurati a carico totale o parziale dello Stato, o per i quali siano stati concessi contributi in conto capitale o in conto interessi, restano accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da apposite convenzioni da stipularsi fra il ministero ed i singoli proprietari". La disposizione, senza rinvii interni, era chiarissima e più semplice: il Codice, invece, ha voluto i rinvii interni espressi, ma ne ha dimenticato uno, cosicché la ricerca di coerenza redazionale ha richiesto ora la correzione.
Il comma 1 dell'art. 18, Vigilanza, è stato modificato per estendere la vigilanza del ministero ai beni culturali di proprietà di enti pubblici e di persone giuridiche private senza fine di lucro fino a quando non sia stata effettuata la verifica dell'interesse culturale, nonché alle aree interessate da prescrizioni di tutela indiretta ai sensi dell'art. 45 [33]. La modificazione non scioglie ambiguità interpretative né colma lacune normative, ma costituisce solo un'ovvietà. L'art. 12, comma 1, del Codice stabilisce che i beni culturali dei soggetti appena indicati sono sottoposti a tutte le disposizioni della seconda parte del Codice in attesa della verifica, e questa generale sottoposizione già comportava che su di essi si esercitasse la vigilanza del ministero, indipendentemente da un richiamo espresso nello specifico articolo sulla vigilanza. La vigilanza su questi beni cesserà solo nel caso in cui la verifica dell'interesse culturale si concluda con esito negativo. Quanto al vincolo indiretto, la sua violazione, oltre a essere sanzionata penalmente (art. 172), comporta anche l'ordine di reintegrazione da parte dell'amministrazione (art. 160): questo potere del ministero include anche l'esercizio della vigilanza, che ha carattere strumentale rispetto al potere sanzionatorio. La modificazione, dunque, non ha contenuto innovativo, ma corrisponde alla mentalità di quegli operatori pratici che, poco avvezzi per scarsa formazione giuridica a misurarsi con norme recanti formule generali e con interpretazioni sistematiche, sono sempre in cerca di norme specifiche che regolino i singoli casi e sono pronti a lamentare presunte carenze normative quando si presenti il caso della vita non esattamente ed espressamente regolato dalla legge. Si tratta tuttavia di un cattivo modo di legiferare: i testi normativi si allungano a dismisura, senza peraltro poter prevedere ogni possibile caso, e quindi si finisce in un circolo vizioso che si autoalimenta, poiché queste modificazioni forniscono nuovi argomenti alla pretesa di avere norme sempre più specifiche.
Lo stesso giudizio vale per il nuovo comma 1-bis dell'art. 19, Ispezione [34], recante l'estensione del potere di ispezione anche all'accertamento dell'ottemperanza alle prescrizioni di tutela indiretta date ai sensi dell'art. 45. Si può anche ammettere che le modificazioni considerate rafforzino la posizione dell'amministrazione e possano aiutarla a vincere le resistenze eventualmente opposte da proprietari riottosi: ma la sede propria per quanto ivi disposto sarebbe stato un regolamento di esecuzione del Codice che probabilmente è stato rinviato nel tempo proprio per assicurare la previa conclusione delle correzioni e integrazioni al Codice. A livello regolamentare le ispezioni continuano a essere disciplinate dall'art. 82, del r.d. 30 gennaio 1913, n. 363, tuttora in vigore ai sensi dell'art. 130 del Codice.
Il comma 2 dell'art. 18, Vigilanza, in tema di intesa e coordinamento con le regioni per l'esercizio della vigilanza sulle cose appartenenti alle regioni stesse e agli altri enti pubblici territoriali, è stato sostituito [35]; il nuovo testo è formulato in modo molto più semplice, ma rimane invariato il suo contenuto dispositivo.
L'art. 19, Ispezione, stabiliva al comma 1 che "I soprintendenti possono procedere in ogni tempo, con preavviso non inferiore a cinque giorni, fatti salvi i casi di estrema urgenza, ad ispezioni volte ad accertare l'esistenza e lo stato di conservazione e di custodia dei beni culturali". Le parole "di conservazione e di custodia" sono state sostituite con quelle "di conservazione o di custodia" [36]: la modifica consiste solo nella sostituzione della congiunzione copulativa "e" con quella disgiuntiva "o", una sostituzione dunque inversa rispetto a quelle, esaminate al paragrafo precedente, sugli obblighi di comunicazione a comune e città metropolitana.
Per valutare questa correzione appare opportuna una storia della norma. Il testo originario dell'art. 19 del Codice riprendeva l'art. 32 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali approvato col d.p.r. 490/1999 ("I soprintendenti possono in ogni tempo, in seguito a preavviso, procedere ad ispezioni per accertare l'esistenza e lo stato di conservazione e di custodia dei beni culturali"); il Codice aveva introdotto solo piccole variazioni per precisare la misura del preavviso e per introdurre l'eccezione dei casi di estrema urgenza. A sua volta l'art. 32 del testo unico del 1999 aveva ripreso l'art. 9 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 ("I soprintendenti possono in ogni tempo, in seguito a preavviso, procedere ad ispezioni per accertare l'esistenza e lo stato di conservazione e di custodia delle cose soggette alla presente legge"). E, risalendo ancora nel tempo, l'art. 9 della l. 1089/1939 derivava dal regolamento, approvato col r.d. 23 novembre 1891, n. 653, per l'esecuzione dell'art. 4 della legge 28 giugno 1871, n. 286, sulle raccolte artistiche ex-fidecommissarie. L'art. 4 di questo regolamento, tuttora in vigore al pari della l. 286/1871 [37], aveva stabilito che "Il ministero della Pubblica Istruzione potrà ordinare in ogni tempo una ispezione per accertare l'esistenza delle opere d'arte costituenti le gallerie, biblioteche e collezioni suddette, il loro stato di conservazione e di custodia, e potrà, per assicurarla, valersi di tutte le facoltà che gli sono conferite dalle leggi". L'art. 9 della l. 1089/1939 aveva ripreso l'espressione adoperata dall'art. 4 del r.d. 653/1891 e aveva esteso le ispezioni (in precedenza previste solo per gallerie, biblioteche e collezioni) a tutte le cose soggette alla legge, indipendentemente dalla loro natura di beni mobili o immobili e dal loro regime proprietario. Le parole "di conservazione e di custodia" usate dal testo originario dell'art. 19 del Codice si conformavano dunque a una tradizione normativa vecchia di 117 anni, durante i quali quella formulazione non risulta avesse fatto sorgere problemi. Ciò nonostante, al ministero deve essere sorto il dubbio che la congiunzione "e" comportasse un cumulo necessario tra i termini congiunti e quindi non consentisse, come invece si voleva, ispezioni volte ad accertare solo lo stato di conservazione o solo lo stato di custodia dei beni culturali.
Questa sostituzione della congiunzione si presta però al giudizio di essere solo frutto di formalismo e pedanteria su questioni insignificanti. A questo tipo di correzioni si può contrapporre una diversa idea di fondo: i testi normativi si cambiano o si correggono soltanto quanto ce ne sia l'effettiva necessità o una viva opportunità. Bisogna avere la capacità di distinguere i problemi veri da quelli inventati: la normale attività interpretativa è ampiamente sufficiente per escludere la necessità di modificazioni del tipo di quella da ultimo esaminata.
4. Modificazioni discutibili, parziali o mancate
Altre modificazioni di disposizioni del Codice hanno un significato non puramente formale, ma appaiono discutibili per il loro contenuto, ovvero appaiono correzioni parziali o mancate.
L'art. 20, Interventi vietati, del Codice stabiliva che i beni culturali non possono essere distrutti, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione. L'articolo è stato integrato con la precisazione che i beni culturali non possono essere deteriorati [38]. La disposizione così modificata risulta meglio correlata con l'art. 733 cod. pen., ma anche in questo caso non c'è alcuna novità, bensì soltanto l'elevazione a disposizione espressa di un risultato già conseguito in via interpretativa [39]. Si osserva inoltre che su questo punto lo scrupolo di precisione nella correzione del Codice è stato soltanto parziale. Il deterioramento dei beni culturali era stato considerato già dall'art. 4, terzo comma, della legge 20 giugno 1909, n. 364, secondo cui il ministero aveva la facoltà di adottare tutte le provvidenze idonee a impedire il deterioramento delle cose soggette alla legge stessa appartenenti allo Stato, a comuni, a provincie, a fabbricerie, a confraternite, a enti morali ecclesiastici di qualsiasi natura e ad ogni ente morale riconosciuto, e dagli artt. 2 e 42 del relativo regolamento di esecuzione [40]. In seguito il deterioramento era stato considerato dagli artt. 14 e 16 della l. 1089/1939, confluiti poi nell'art. 37, Misure conservative, e rispettivamente nell'art. 47, Custodia coattiva, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali approvato col d.lg. 490/1999. L'art. 37 del testo unico prevedeva la facoltà del ministero di provvedere direttamente agli interventi necessari per assicurare la conservazione e impedire il deterioramento dei beni culturali o di imporre tali interventi al proprietario, possessore o detentore; l'art. 47 prevedeva la facoltà del ministero di far trasportare e temporaneamente custodire in pubblici istituti i beni culturali al fine di garantirne la sicurezza, assicurarne la conservazione o impedirne il deterioramento, ovvero per l'esecuzione di un intervento di restauro. Il Codice dei beni culturali ha ripreso il contenuto degli artt. 37 e 47 del testo unico all'art. 32, Interventi conservativi imposti, e all'art. 43, Custodia coattiva: in entrambi questi articoli, però, è andato smarrito il riferimento al deterioramento del bene come obiettivo da evitare mediante l'esercizio dei poteri ivi previsti. Si è determinato così un contrasto con la legge di delega, secondo cui il Codice non doveva determinare l'abrogazione degli strumenti esistenti di conservazione e protezione dei beni culturali [41]. L'occasione, duplice, dei decreti integrativi e correttivi avrebbe consentito di porre rimedio: balza quindi agli occhi che il deterioramento sia stato recuperato all'art. 20, dove non era strettamente necessario, e non sia stato recuperato invece agli artt. 32 e 43 del Codice.
Il comma 1 dell'art. 21, Interventi soggetti ad autorizzazione, ha subìto due modificazioni che appaiono connesse fra loro. Alla lettera a) è stato precisato che è soggetta ad autorizzazione, oltre alla demolizione dei beni culturali, anche la loro rimozione [42]; alla lettera b), che subordina ad autorizzazione lo spostamento, anche temporaneo, dei beni culturali, è stato aggiunto l'aggettivo "mobili", così precisando la natura dei beni ai quali la disposizione si riferisce [43]. La relazione allo schema di decreto legislativo si limita a dichiarare che tali correzioni rispondono a esigenze di drafting e di raccordo con i poteri di vigilanza (art. 18).
Per comprendere meglio le ragioni delle due modificazioni si deve ricostruire la storia delle norme, risalendo alla piana formulazione dell'art. 11, primo comma, della l. 1089/1939: "Le cose previste dagli artt. 1 e 2, appartenenti alle province, ai comuni, agli enti e istituti legalmente riconosciuti, non possono essere demolite, rimosse, modificate o restaurate senza l'autorizzazione del ministro della Pubblica Istruzione". Il testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali approvato col d.lg. 490/1999 aveva smontato le prescrizioni dell'art. 11 della l. 1089/1939 e ne aveva rimontato il contenuto in articoli distinti: l'art. 21, Obblighi di conservazione, aveva stabilito che i beni culturali non potevano essere demoliti o modificati senza l'autorizzazione del ministero; l'art. 22, Collocazione, aveva disposto che i beni culturali non potevano essere rimossi senza autorizzazione; il restauro era stato disciplinato agli artt. 34 e seguenti. Il Codice dei beni culturali ha mantenuto una disciplina specifica per il restauro, all'art. 29, Conservazione, e negli articoli successivi. La demolizione, anche con successiva ricostituzione, è stata regolata all'art. 21, comma 1, lett. a). Il Codice non ha invece ripreso il verbo "rimuovere" né il verbo "modificare"; il Codice invece, come si è visto, ha subordinato ad autorizzazione lo spostamento, anche temporaneo, dei beni culturali (art. 21, comma 1, lett. b). Si poteva dunque ben ritenere che il Codice avesse introdotto soltanto una variazione di terminologia, ininfluente sulla portata sostanziale della prescrizione normativa [44]; questa soluzione, anzi, era obbligata, dato che i princìpi e i criteri direttivi per l'esercizio della delega legislativa conferita al governo avevano stabilito che il Codice non dovesse determinare l'abrogazione degli strumenti esistenti di conservazione e protezione dei beni culturali [45].
Si può ipotizzare che in sede di redazione dello schema di secondo decreto correttivo del Codice lo spostamento sia stato considerato qualcosa di meno e di diverso dalla rimozione. Forse lo spostamento è stato inteso come una diversa dislocazione fisica di un bene mobile, mentre per rimozione si è inteso un distacco fisico di un bene culturale da un bene immobile [46], come lo strappo di un affresco o il distacco dal muro di una lapide o di un tabernacolo, da accomunare alla demolizione per la necessità di opere fisiche al fine della sua realizzazione. Si è quindi ritenuto necessario recuperare espressamente la rimozione, che si era dispersa nel passaggio dal testo unico al Codice.
Ma c'è anche un'altra possibile e ancor più plausibile spiegazione, non alternativa ma concorrente con quella ipotizzata. E' stato già notato, infatti, che il penultimo regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali, emanato col d.p.r. 10 giugno 2004, n. 173, pur essendo successivo al Codice, aveva usato sullo specifico punto una terminologia non coincidente con quella del Codice [47]. L'art. 21, comma 1, del Codice considerava solo lo "spostamento, anche temporaneo", mentre il regolamento di organizzazione del ministero aveva attribuito ai direttori generali la competenza ad autorizzare la "rimozione definitiva" [48]. Il regolamento aveva attribuito poi ai direttori regionali la competenza ad autorizzare l'esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali, con eccezione della rimozione definitiva [49]; il regolamento distingueva quindi la rimozione definitiva dagli altri interventi sui beni culturali, ai fini della competenza all'autorizzazione, anche se non si accordava con l'art. 21, comma 4, del Codice, che aveva subordinato l'esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali ad autorizzazione del soprintendente, e non del direttore regionale.
Il più recente regolamento di riorganizzazione del ministero, di poco antecedente al d.lg. 62/2008, sulla scia di quello precedente ha ancora attribuito ai direttori generali la competenza ad autorizzare gli interventi di demolizione e rimozione definitiva [50]; nulla è stato disposto circa l'autorizzazione allo spostamento; l'autorizzazione all'esecuzione di opere e lavori di qualunque genere sui beni culturali, al di fuori dei casi di cui al comma 1 dell'art. 21, è stata restituita alle soprintendenze [51], in conformità all'art. 21, comma 4, del Codice. La giustificazione della modificazione dell'art. 21, comma 1, lettera a), del Codice, con l'aggiunta della rimozione, potrebbe allora essere la ricerca di coerenza fra Codice e regolamento. Poiché il regolamento ha previsto la competenza dei direttori generali ad autorizzare gli interventi di demolizione definitiva, si è integrata la disciplina sostanziale del Codice aggiungendo all'art. 21, comma 1, lett. a), la rimozione (peraltro senza aggettivi).
E già che si metteva mano alla lettera a) del comma 1 dell'art. 21, deve essere parso indispensabile precisare alla lettera b) che è subordinato ad autorizzazione lo spostamento, anche temporaneo, dei beni culturali mobili; ma si tratta di precisazione ovvia, salvo che si sia inteso così escludere la possibilità giuridica di autorizzare uno spostamento, anche temporaneo, di beni immobili (nell'eventualità che esso risulti tecnicamente possibile), chiarendo che per questi beni è autorizzabile solo la rimozione.
Ma probabilmente alcuni fra i lettori del Codice si perderanno nella distinzione tra spostamento, anche temporaneo, e rimozione (definitiva, nel regolamento; senza aggettivi nel Codice). Qualcuno si rassegnerà ad ammettere la propria inadeguatezza a comprendere le sottigliezze delle correzioni in esame, non sufficientemente chiarite nella relazione allo schema di decreto legislativo e comunque irrilevanti, dato che non c'è nessuna differenza nella disciplina sostanziale dell'autorizzazione prevista dall'art. 21, comma 1, a seconda che il suo oggetto sia riconducibile alla lettera a) (rimozione) o invece alla lettera b) (spostamento). Qualcuno si chiederà infine se il ministero non si sia incartato in una serie di atti normativi (il Codice del 2004, i regolamenti di organizzazione e riorganizzazione del ministero del 2004 e del 2007, le correzioni e integrazioni al Codice del 2006 e del 2008), in esito ai quali continua a mancare un pieno coordinamento tra disciplina sostanziale e disciplina organizzativa. Il regolamento, infatti, disciplina solo la rimozione definitiva: e se il regolamento ha voluto precisare il tipo di rimozione qualificandola con l'aggettivo definitiva, allora bisognerà chiedersi a chi spetti autorizzare la rimozione non definitiva. Nel regolamento inoltre non è disciplinata la competenza ad autorizzare lo smembramento di collezioni, serie e raccolte (art. 21, comma 1, lett. c); soprattutto le competenze dei direttori generali, dei direttori regionali e dei soprintendenti sono stabilite con elenchi di atti, senza indicazione di una competenza residuale, per i casi non espressamente previsti [52]. Rimane quindi indefinita la competenza al rilascio dell'autorizzazione per gli interventi previsti dall'art. 21, comma 1, del Codice, autorizzazione genericamente del ministero, ma non espressamente attribuita dal regolamento ad alcun organo: in particolare rimozione non definitiva, spostamento, smembramento di collezioni, serie e raccolte.
5. Modificazioni vere. La disciplina degli archivi
Un altro gruppo di disposizioni ha un'effettiva incidenza sulle disposizioni modificate. In conformità alla natura della delega legislativa esercitata, si rimane tuttavia pur sempre nell'ambito di disposizioni integrative e correttive che non alterano la struttura fondamentale della disciplina del Codice.
Il comma 2 dell'art. 39, Interventi conservativi su beni dello Stato, è stato modificato con la soppressione di alcune parole [53]. Il risultato è che adesso, salvo che sia diversamente concordato, la progettazione e l'esecuzione degli interventi di conservazione di tutti i beni culturali (e non, come prima, dei soli beni immobili) di appartenenza statale sono assunti dall'amministrazione o dal soggetto che li ha in consegna, ferma restando la competenza del ministero per i Beni e le Attività culturali al rilascio dell'autorizzazione sul progetto e alla vigilanza sui lavori.
Altre correzioni di questo tipo riguardano la disciplina dei beni archivistici. Il comma 3 dell'art. 21, Interventi soggetti ad autorizzazione, secondo cui lo spostamento degli archivi correnti dello Stato e degli enti ed istituti pubblici non è soggetto ad autorizzazione, è stato integrato per aggiungere che il predetto spostamento comporta l'obbligo di comunicazione al ministero per le finalità di cui all'art. 18, cioè per l'esercizio della vigilanza [54].
Il comma 4 dell'art. 30, Obblighi conservativi, è stato integrato per ripristinare l'obbligo, gravante sugli enti pubblici, di istituire separate sezioni di archivio per i documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni [55]. L'obbligo era previsto già dall'art. 30, primo comma, lett. c), del d.p.r. 30 settembre 1963, n. 1409 (e, in precedenza, dall'art. 20, commi secondo e terzo, della legge 22 dicembre 1939, n. 2006), ma non era stato riprodotto nell'art. 40, comma 1, del testo unico approvato col d.lg. 490/1999 e non era stato ripreso dal Codice. La modifica ha dunque inteso ripristinare un principio della disciplina degli archivi risalente nel tempo, ma che era andato smarrito per una maldestra rifusione di tale disciplina nel testo unico del 1999. Formalmente è stato corretto il Codice, ma sostanzialmente si è rimediato a un errore risalente alla disciplina antecedente al Codice.
Altrettanto vale per la modifica all'art. 43 [56], Custodia coattiva, che è connessa a quella precedente poiché reca la disciplina per il caso di inadempimento dell'obbligo di istituire separate sezioni di archivio per i documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni. Il nuovo comma 1-bis ha ripristinato la facoltà del ministero per i Beni e le Attività culturali di disporre, su proposta del soprintendente archivistico, il deposito coattivo, negli archivi di Stato competenti, delle sezioni separate di archivio ovvero di quelle parti degli archivi degli enti pubblici che avrebbero dovuto costituirne sezioni separate. In alternativa il ministero può stabilire, sempre su proposta del soprintendente archivistico, l'istituzione della sezione separata presso l'ente inadempiente, con oneri a carico dell'ente inadempiente [57]. Si tratta di disciplina corrispondente a quella già posta dall'art. 33 del d.p.r. 1409/1063, ma che non era stata ripresa né dal testo unico del 1999 né dal Codice.
L'art. 41, Obblighi di versamento agli Archivi di Stato dei documenti conservati dalle amministrazioni statali, consente (comma 2) al soprintendente all'archivio centrale dello Stato e ai direttori degli archivi di Stato di accettare versamenti di documenti relativi ad affari esauriti da meno di quarant'anni, e quindi non soggetti a versamento obbligatorio, quando vi sia pericolo di dispersione o di danneggiamento. La disposizione è stata integrata estendendola anche ai casi in cui siano stati definiti appositi accordi con i responsabili delle amministrazioni versanti [58], quindi anche se non vi sia pericolo di dispersione o di danneggiamento. Nella relazione allo schema di decreto legislativo si legge che la modifica, richiesta dagli uffici dell'amministrazione, ha inteso dare dignità normativa a una prassi già diffusa.
Il comma 5 dello stesso art. 41 è stato modificato per variare la denominazione delle commissioni ivi previste, investite del compito fondamentale di vigilare sulla corretta tenuta degli archivi correnti e di deposito degli organi giudiziari e amministrativi dello Stato. Alle commissioni è stato aggiunto il complemento di specificazione "di sorveglianza", in modo da ripristinare la denominazione "commissioni di sorveglianza" già prevista dall'art. 25 del d.p.r. 1409/1963, abrogato dall'art. 166, comma 1, del testo unico approvato col d.lg. 490/1999. Inoltre di queste commissioni fanno ora parte non più genericamente rappresentanti del ministero, bensì il soprintendente all'archivio centrale dello Stato e i direttori degli archivi di Stato in qualità di rappresentanti del ministero [59]. Anche queste modificazioni consistono nel ripristino di quanto già previsto dal predetto art. 25 del d.p.r. 1409/1963.
Da ultimo si esamina una modificazione dell'art. 44, Comodato e deposito di beni culturali, che riguarda tutti i beni culturali mobili e non solo quelli archivistici. Il comma 1 (già modificato dal d.lg. 156/2006) dell'art. 44 stabilisce che i direttori degli archivi e degli istituti che abbiano in amministrazione o in deposito raccolte o collezioni artistiche, archeologiche, bibliografiche e scientifiche possono ricevere in comodato da privati proprietari, previo assenso del competente organo ministeriale, beni culturali mobili al fine di consentirne la fruizione da parte della collettività, qualora si tratti di beni di particolare pregio o che rappresentino significative integrazioni delle collezioni pubbliche e purché la loro custodia presso i pubblici istituti non risulti particolarmente onerosa. Il comma 5 dello stesso art. 44 stabilisce che i direttori (s'intende i medesimi direttori indicati al comma 1) "possono ricevere altresì in deposito, previo assenso del competente organo ministeriale, beni culturali appartenenti ad enti pubblici. Le spese di conservazione e custodia specificamente riferite ai beni depositati sono a carico degli enti depositanti". Questa disposizione è stata integrata aggiungendo in fine, dopo "enti depositanti", le parole ", salvo che le parti abbiano convenuto che le spese medesime siano, in tutto o in parte, a carico del ministero, anche in ragione del particolare pregio dei beni e del rispetto degli obblighi di conservazione da parte dell'ente depositante. Dall'attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica" [60]. Si amplia, dunque, la possibilità di deposito di beni culturali mobili appartenenti a enti pubblici, perché si consente l'assunzione a carico del ministero delle spese di conservazione e custodia dei beni depositati [61]. Si dovrà interpretare l'ultimo periodo [62] nel senso che dal deposito, eventualmente oneroso per il ministero, non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico non già della finanza statale, bensì della finanza pubblica intesa nel suo complesso: l'onere del deposito deve essere a somma zero o negativa, e cioè le spese a carico del ministero devono essere compensate da un corrispondente o maggiore risparmio (minori spese di pari o maggiore importo) per l'ente pubblico depositante.
Si osserva infine che sarebbe stato possibile sfruttare l'occasione per integrare il Codice con la disciplina del problema inverso, ben più frequente nella pratica e molto spinoso, del deposito di beni culturali mobili statali presso istituzioni museali non statali; ma l'occasione non è stata sfruttata e la questione rimane disciplinata soltanto dalla troppo scarna disposizione dell'art. 121, secondo comma, del r.d. 363/1913, recante il regolamento di esecuzione della l. 364/1909 [63], disposizione che riguarda soltanto i beni archeologici.
6. Un'abrogazione non consentita
L'art. 42, Conservazione degli archivi storici di organi costituzionali, del Codice aveva posto una disciplina speciale per gli archivi della Presidenza della Repubblica (comma 1), della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (comma 2), nonché della Corte costituzionale (comma 3). Questi organi conservano i loro atti presso il proprio archivio storico, secondo autonome determinazioni, rispettivamente: del Presidente della Repubblica, su proposta del segretario generale della Presidenza della Repubblica; degli uffici di presidenti Camera e Senato; di un regolamento adottato ai sensi della normativa in materia di costituzione e funzionamento della Corte costituzionale [64].
In seguito, in sede di conversione del decreto legge 30 giugno 2005, n. 115, la legge 17 agosto 2005, n. 168, ha aggiunto al medesimo decreto legge l'art. 14-duodecies, con la rubrica Archivio storico della Presidenza del Consiglio dei ministri, il quale a sua volta ha aggiunto all'art. 42 del Codice il comma 3-bis: "La Presidenza del Consiglio dei ministri conserva i suoi atti presso il proprio archivio storico, secondo le determinazioni assunte dal Presidente del Consiglio dei ministri con proprio decreto. Con lo stesso decreto sono stabilite le modalità di conservazione, di consultazione e di accesso agli atti presso l'archivio storico della Presidenza del Consiglio dei ministri". La correzione ora introdotta dal d.lg. 62/2008 è consistita nell'abrogazione del comma 3-bis dell'art. 42 [65].
La relazione allo schema di decreto legislativo ha ricordato che la novella introdotta dal Parlamento aveva suscitato le reazioni critiche unanimi del mondo delle istituzioni culturali e delle associazioni di settore, con riguardo sia al merito che al metodo della modifica. Il riferimento alle critiche di metodo allude al fatto che il Parlamento aveva deciso di modificare il Codice dei beni culturali mentre era ancora pendente il termine stabilito dalla legge di delega per l'emanazione di disposizioni correttive e integrative del Codice [66]. Ma questa critica non aveva alcun fondamento giuridico: la potestà legislativa del Parlamento non è sospesa sulle materie per le quali esso abbia concesso una delega al governo; diversamente dal governo, che era vincolato al rispetto dei principi e criteri direttivi della legge di delega, il Parlamento conservava integra la propria potestà di modificare il Codice dei beni culturali, senza altri limiti se non quelli generali e comuni all'esercizio della potestà legislativa statale. La relazione inoltre ha affermato: "l'antecedenza della novella con la quale è stato introdotto il richiamato comma 3-bis rispetto all'ampliamento dei margini temporali previsti per la elaborazione di decreti integrativi e correttivi al Codice non può lasciar adito a dubbi in ordine alla legittimità di un intervento correttivo che coinvolga anche le disposizioni novellate, soprattutto quando, come è accaduto per quella in questione, la sua approvazione è stata fortemente contrastata prima e criticata dopo. Il secondo dato, non meno rilevante, sul quale vale la pena di soffermarsi è rappresentato dal fatto che la novella introdotta non ha finora prodotto alcun effetto concreto sull'assetto e la conservazione dei documenti di pertinenza della Presidenza del Consiglio dei ministri in quanto il relativo regolamento di attuazione non è stato ancora predisposto. Il che testimonia della sostanziale inutilità di detta disposizione ai fini della tutela del patrimonio archivistico della Presidenza, e quindi della sua espungibilità dal sistema normativo, senza danno alcuno per il sistema stesso".
La relazione ha così accomunato argomenti con caratteri molto diversi tra loro. Nella seconda parte del brano sopra riportato si dà rilievo a una circostanza di fatto, la mancata emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previsto dal comma 3-bis dell'art. 42 del Codice, interpretata come segno di inutilità della disposizione e quindi utilizzata per giustificare politicamente l'abrogazione dello stesso comma 3-bis. Anche la circostanza che l'approvazione da parte del Parlamento del comma 3-bis fosse stata fortemente contrastata prima e criticata dopo costituisce soltanto un elemento di fatto, interpretato politicamente per motivare l'abrogazione. Sul punto si può avanzare solo un'osservazione della stessa natura, la quale non investe il merito della disposizione, ma vuole solo dare evidenza al contesto politico: nella XIV legislatura, allorché era stata introdotta nel Codice la disposizione contestata, la maggioranza parlamentare era stata diversa da quella della XV legislatura, in corso al momento della predisposizione del secondo decreto recante disposizioni correttive e integrative del Codice. Una parte politica che nel 2005, essendo all'opposizione, non aveva potuto impedire l'introduzione della disposizione (rimasta ovviamente non toccata dal primo decreto correttivo del Codice, emanato nel 2006, sempre nella medesima legislatura), nella nuova legislatura è diventata forza di maggioranza e di governo e ha approfittato dell'occasione del secondo decreto correttivo per prendere la sua rivincita specifica, sfuggendo così a un nuovo dibattito parlamentare sulla disposizione contestata e ora abrogata.
Nella prima parte del brano sopra riportato della relazione si propone invece un problema strettamente giuridico: la liceità giuridica dell'abrogazione, mediante il decreto correttivo del Codice, di una disposizione non facente parte del testo originario del Codice, ma inserita in esso da una legge successiva. Questo problema è stato risolto positivamente con l'argomento che il comma 3-bis dell'art. 42 era stato introdotto da una legge (la l. 168/2005) antecedente a quella (la legge 23 febbraio 2006, n. 51) che ha elevato da due a quattro anni il termine della delega legislativa per l'emanazione di disposizioni correttive e integrative del Codice [67]. Ma questa soluzione, che pure secondo la relazione "non può lasciar adito a dubbi", non supera una critica rigorosa, giacché si basa su una palese confusione. La l. 51/2006, pur successiva alla l. 168/2005, ha soltanto elevato da due a quattro anni il limite di tempo per l'esercizio della delega legislativa conferita al governo dall'art. 10, comma, della l. 137/2002, senza variare l'oggetto della delega che consentiva al governo esclusivamente di correggere e integrare il contenuto del Codice deliberato dallo stesso governo con l'esercizio della delega principale per la sua emanazione. La relazione allo schema di decreto legislativo correttivo ha invece inteso che l'estensione del termine temporale per la correzione e integrazione del Codice comportasse variazione dell'oggetto della delega, e sua estensione anche alle norme deliberate dal Parlamento dopo l'emanazione del Codice, a correzione e integrazione del Codice stesso. Ma si tratta di una posizione insostenibile: il Parlamento con la l. 168/2005 aveva voluto integrare il Codice su un punto specifico e quel punto doveva considerarsi estraneo alla delega legislativa dell'art. 10, comma 4, l. 137/2002, delega estesa nel tempo dalla l. 51/2006 ma sempre limitata nel suo oggetto alle disposizioni del Codice come deliberato dal governo nel 2004 (d.lg. 42/2004) e corretto dallo stesso governo nel 2006 (d.lg. 156/2006). Secondo la tesi sostenuta nella relazione la l. 51/2006, pur senza nuova discussione e deliberazione parlamentare su oggetto nonché principi e criteri direttivi della delega, avrebbe autorizzato il governo a mettere nel nulla ciò che lo stesso Parlamento aveva deliberato appena l'anno precedente, a correzione del Codice.
La motivazione addotta nella relazione allo schema di decreto legislativo per fondare giuridicamente la possibilità di abrogazione dell'art. 42, comma 3-bis, del Codice non regge dunque a un esame approfondito. Le osservazioni sul contesto politico possono però essere completate ricordando che l'emanazione del decreto correttivo non presentava rischi politici, perché alla data della deliberazione preliminare dello schema di decreto legislativo da parte del Consiglio dei ministri (25 gennaio 2008) non solo il governo era dimissionario, ma era ormai sicuro lo scioglimento delle Camere [68], poi effettivamente disposto prima della trasmissione dello schema al Senato (12 febbraio 2008) [69], e quindi non c'era nulla da temere in vista dei pareri delle competenti commissioni parlamentari, richiesto dalla legge di delega. Si poteva contare su un limitato interesse dei parlamentari, impegnati nella campagna elettorale [70], e comunque i pareri non avrebbero avuto alcun riflesso sul governo, il quale ha poi deliberato in via definitiva il decreto legislativo il 19 marzo 2008. La disposizione di abrogazione dell'art. 42, comma 3-bis, del Codice, inoltre, per la sua natura assai difficilmente potrebbe prestarsi a costituire oggetto di questione di legittimità costituzionale e anche questa considerazione deve aver indotto al suo inserimento nello schema di decreto correttivo e integrativo del Codice. Sarebbe pertanto difficile replicare a chi considerasse questa abrogazione frutto di capziosa invocazione del principio di successione delle leggi nel tempo, di disprezzo nei confronti del ruolo del Parlamento, di uso disinvolto del potere legislativo delegato.
L'episodio suggerisce però anche l'opportunità di una riforma, a garanzia dell'equilibrio del sistema. Il governo dimissionario non è più legato al rapporto di fiducia con le Camere e in questa situazione si comprende quindi come si attenui l'attenzione del governo a non abusare dei suoi poteri. Il rischio dell'abuso aumenta poi ancor di più ove sia stato disposto lo scioglimento delle Camere per il loro rinnovo anticipato. In una situazione di sostanziale irresponsabilità del governo, i suoi poteri dovrebbero essere drasticamente ridotti, e in particolare dovrebbe essere escluso l'esercizio della potestà legislativa delegata. Una tale riforma non richiede necessariamente una legge: sarebbe sufficiente un'autolimitazione del governo dimissionario nella valutazione del "disbrigo degli affari correnti" cui il governo stesso dovrebbe circoscrivere la propria attività, con limiti più stringenti rispetto a quelli finora seguiti [71].
L'art. 37, Contributi in conto interessi, è stato modificato in due punti (commi 1 e 2) per consentire che questo tipo di contributi, destinato ad agevolare la realizzazione degli interventi conservativi autorizzati, sia erogato non solo sui mutui ma anche su altre e indefinite forme di finanziamento e possa riguardare tutti i beni culturali (mentre in precedenza riguardava solo i beni immobili) [72].
Con l'occasione è stato modificato anche il comma 4 dello stesso art. 37, che estende il contributo agli interventi conservativi su opere di architettura contemporanea di cui sia riconosciuto, su richiesta del proprietario, il particolare valore artistico: la competenza al riconoscimento del particolare valore artistico, già attribuita al soprintendente, è stata attribuita genericamente al ministero [73].
La relazione allo schema di decreto legislativo tace su quest'ultima correzione che però può essere spiegata ricostruendo la storia delle norme. Il regolamento di organizzazione del ministero per i beni e le attività culturali approvato pochi mesi dopo l'emanazione del Codice aveva stabilito che il direttore generale per l'architettura e l'arte contemporanee "ammette ai contributi economici le opere architettoniche dichiarate di importante carattere artistico e gli interventi riconosciuti di particolare qualità architettonica o urbanistica, ai sensi dell'articolo 37 del Codice" [74]; allo stesso direttore generale era inoltre attribuita la competenza a dichiarare l'importante carattere artistico delle opere di architettura contemporanea, ma solo ai sensi dell'art. 20 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sulla protezione del diritto d'autore [75]. Le competenze stabilite dal regolamento si correlavano dunque bene con l'art. 37 del Codice: il regolamento disciplinava solo la competenza all'ammissione al contributo, rimasta indefinita nel Codice, ma col suo silenzio rispettava la specifica competenza del soprintendente, stabilita direttamente dal Codice, al riconoscimento del particolare valore artistico, al fine della successiva ammissione al contributo. Alla fine del 2007, però, è intervenuto il regolamento di riorganizzazione del ministero per i beni e le attività culturali approvato col d.p.r. 233/2007 [76], che ha abrogato il precedente regolamento del 2004 e ha istituito la nuova figura del direttore generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l'architettura e l'arte contemporanee. A questo direttore generale è stata confermata la competenza, in precedenza attribuita al direttore generale per l'architettura e l'arte contemporanee, ad ammettere ai contributi economici le opere architettoniche dichiarate di importante carattere artistico e gli interventi riconosciuti di particolare qualità architettonica e urbanistica ai sensi dell'articolo 37 del Codice [77]; il nuovo regolamento ha stabilito altresì che lo stesso direttore generale "dichiara l'importante carattere artistico delle opere di architettura contemporanea, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 20 della l. 633/1941, e successive modificazioni e dell'articolo 37 del Codice" [78]. Il nuovo regolamento del 2007, dunque, ha accomunato in un'unica espressione il riconoscimento dell'importante carattere artistico delle opere di architettura ai sensi dell'art. 20 della l. 633/1941 e il riconoscimento del particolare valore artistico delle opere di architettura contemporanea ai sensi dell'art. 37 del Codice dei beni culturali, devoluti entrambi al direttore generale. Ma in tal modo questo secondo riconoscimento è stato sottratto al soprintendente, al quale era stato attribuito dall'art. 37, comma 3, del Codice.
Secondo l'art. 5 Cost. la Repubblica attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, e dunque ogni intervento normativo di accentramento dovrebbe essere soggetto a particolare cautela. L'accentramento in esame però è difficile da giustificare: esso non risponde a esigenze di semplificazione mediante concentrazione delle decisioni, poiché il riconoscimento del particolare valore artistico delle opere di architettura contemporanea richiede un'istruttoria e quindi non può prescindere dall'attività dell'organo locale, il soprintendente, al quale però è sottratta la competenza ad assumere la decisione. Si deve considerare inoltre che il regolamento ha sottratto al soprintendente una competenza attribuitagli da una fonte normativa di grado superiore, il Codice dei beni culturali, senza che una norma di delegificazione avesse previamente consentito questa modificazione di competenza. La Corte dei conti, in passato occhiuta nell'esercizio della sua funzione di controllo sugli atti del ministero [79], in questo caso non ha rilevato la pur palese violazione di legge e ha ammesso a registrazione il regolamento [80]. Superato questo ostacolo, si può ipotizzare che nella redazione dello schema di decreto integrativo e correttivo si sia inteso porre la disposizione regolamentare al riparo da eventuali incidenti: non deve essere sfuggito al ministero che sono sempre in vigore l'art. 4 delle disposizioni sulla legge in generale, secondo cui "I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi", e l'art. 5 dell'allegato E, sull'abolizione del contenzioso amministrativo, alla legge 20 marzo 1865, n. 2248, sull'unificazione amministrativa del Regno, secondo cui "(...) le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi". La possibilità di emanare disposizioni correttive del Codice è stata dunque sfruttata per dare, sia pure successivamente, fondamento legislativo adeguato alla modificazione di competenza già realizzata in via regolamentare; quanto alla tecnica legislativa, non c'era bisogno di menzionare il direttore generale giacché nel Codice il termine "ministero" equivale semplicemente ad amministrazione e quindi le competenze si ricavano dal regolamento di organizzazione del ministero.
L'accentramento in esame, di per sé assai marginale ma con inversione temporale tra modificazione del regolamento di organizzazione del ministero e modificazione del Codice, si segnala dunque semplicemente come un episodio particolare della realtà dei recenti processi di creazione e modificazione delle norme giuridiche statali. Il governo ha deliberato un regolamento di organizzazione recante una disposizione in contrasto con la fonte normativa di grado superiore, il Codice, e ha poi sanato la disposizione regolamentare illegittima adeguando il Codice attraverso un decreto legislativo correttivo e integrativo. Formalmente la gerarchia delle fonti è stata ripristinata. Politicamente, s'intende bene che si è verificata un'inversione di ruoli: la fonte normativa di grado superiore, il decreto legislativo correttivo, è stata utilizzata come atto di esecuzione del regolamento di riorganizzazione del ministero.
Si rammenta, infine, per connessione, l'art. 4, comma 2, del d.lg. 62/2008, secondo cui l'art. 166 del d.lg. 490/1999 si interpreta nel senso che dall'abrogazione dell'art. 5 della legge 8 ottobre 1997, n. 352 è eccettuato il comma 5 del medesimo articolo. Quest'ultima disposizione aveva autorizzato la spesa di 5 miliardi di lire a decorrere dall'anno 1997 per interventi di restauro, conservazione e manutenzione del patrimonio culturale. Sempre per le suddette finalità, la disposizione aveva autorizzato inoltre, mediante utilizzo del fondo speciale di conto capitale, un limite di impegno trentennale di 20 miliardi di lire a decorrere dall'anno 2008. Nello stato di previsione della spesa del ministero per i Beni e le Attività culturali per il 2008 era ancora previsto un capitolo (n. 4650) recante contributi in conto interessi per interventi di restauro, conservazione e manutenzione del patrimonio culturale immobiliare con una dotazione di competenza pari a 12.911.423 euro (l'equivalente dei 25 miliardi di lire previsti, complessivamente, dall'art. 5, comma 5, della l. 352/1997). La disposizione non ha raccolto pienamente l'osservazione della VII Commissione della Camera, la quale aveva chiesto di chiarire che l'intento della disposizione era quello di far rivivere l'art. 5, comma 5, della l. 352/1997 solo nel periodo compreso tra l'entrata in vigore del testo unico del 1999 e l'entrata in vigore del Codice.
8. Una singolare semplificazione
Si è già esaminata una modifica all'art. 49, Manifesti e cartelli pubblicitari, ma si è anticipato che il comma 1 di questo articolo ha subito anche un'altra modifica, oggetto di distinto esame. Il terzo periodo, il quale disponeva che "L'autorizzazione è trasmessa al comune ai fini dell'eventuale rilascio del provvedimento autorizzativo di competenza", è stato sostituito con il seguente nuovo testo: "L'autorizzazione è trasmessa, a cura degli interessati, agli altri enti competenti all'eventuale emanazione degli ulteriori atti abilitativi". La modificazione individua espressamente il soggetto, in precedenza rimasto indefinito, su cui grava l'onere della trasmissione dell'autorizzazione rilasciata dal soprintendente. Si tratta di una modificazione nel segno della semplificazione, anche se di una semplificazione diversa da quelle avviate dalla legge 15 maggio 1997, n. 127, e sviluppate dalla legislazione successiva, le quali hanno teso a facilitare i rapporti dei privati con le amministrazioni pubbliche. La modificazione in esame, invece, in primo luogo si discosta dal modello dello sportello unico, che avrebbe imposto la concentrazione in unica sede di tutti i provvedimenti abilitativi necessari per la collocazione o affissione di manifesti e cartelli pubblicitari. Essa, inoltre, esclude persino la semplice comunicazione tra amministrazioni, poiché chiarisce che grava sull'interessato, e non sul soprintendente, l'onere della trasmissione dell'autorizzazione agli altri enti competenti all'eventuale emanazione degli ulteriori atti abilitativi. Si tratta dunque di una semplificazione per l'amministrazione, sgravata di un compito addossato al privato.
Nella relazione allo schema di decreto legislativo si legge la giustificazione per la modificazione: testualmente "l'onere di trasmettere l'assenso rilasciato dal soprintendente, al fine di acquisire il provvedimento favorevole finale, grava su chi è interessato all'acquisizione di detto provvedimento. Secondo l'amministrazione che ha predisposto la modifica, si applica dunque il principio della corrispondenza tra beneficio e sacrificio; il brocardo cuius commoda eius et incommoda (o la sua variante qui habet commoda, ferre debet onera) è prevalso su un possibile diverso criterio di distribuzione dell'onere tra cittadino e amministrazione. Se al centro del sistema giuridico si pone la persona umana, come vuole l'art. 2 Cost. dietro al quale si scorge l'impostazione di valori espressa da Giorgio La Pira all'Assemblea costituente [81], le amministrazione pubbliche devono essere considerate al servizio della persona, cosicché esse sono tenute a collaborare fra loro per il soddisfacimento delle esigenze della persona e le regole normative sull'azione delle amministrazioni vanno modellate conseguentemente. Ma tali idee, che nel caso di specie avrebbero condotto alla soluzione opposta a quella della modificazione, non sono entrate in questa occasione nell'orizzonte dei valori del ministero. Si dovrebbe, tuttavia, nutrire sempre la speranza che le costruzioni culturali e ideali e le critiche della dottrina giuridica non rimangano soltanto contenuti dei corsi universitari di insegnamento del diritto amministrativo, ma possano trasfondersi in coerenti riforme legislative e amministrative, anche quando, come avvenuto nel caso di specie, le riforme siano predisposte nell'ambito dei ministeri, senza contributi esterni. Sono quindi sempre di attualità, pur nella diversità delle circostanze, le parole che, giusto trent'anni fa, un importante studioso di diritto amministrativo scriveva a proposito del completamento dell'ordinamento regionale, una riforma alla cui progettazione erano state chiamate a partecipare le migliori forze intellettuali del Paese [82].
9. Un recupero doveroso: i beni degli enti ecclesiastici
Rimane da considerare il comma 2 dell'art. 30, Obblighi conservativi, secondo cui i soggetti indicati al comma 1 (lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali, nonché ogni altro ente e istituto pubblico) e le persone giuridiche private senza fine di lucro fissano i beni culturali di loro appartenenza, ad eccezione degli archivi correnti, nel luogo di loro destinazione nel modo indicato dal soprintendente. La disposizione è stata integrata includendo tra i soggetti obbligati gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, compresi tra le persone giuridiche private senza fine di lucro [83]. Si tratta di una modifica ripetuta: allo stesso modo sono stati corretti anche l'art. 1, comma 5 [84], l'art. 10, comma 1 [85], l'art. 56, comma 1, lett. b) [86] e l'art. 56, comma 2, lett. b) [87].
La relazione allo schema di decreto legislativo spiega chiaramente nelle premesse generali le ragioni di queste disposizioni correttive: "Per quanto riguarda specificamente il patrimonio degli enti ecclesiastici legalmente riconosciuti, si è dovuto anche rimediare ad una lacuna di disciplina normativa, evidenziata dal Consiglio di Stato in sede consultiva (v. il parere reso dalla Sezione II il 17 gennaio 2007 con riguardo al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica n. 10379/2004). Infatti, secondo il massimo organo di giustizia amministrativa, la mancata riproposizione, nel testo normativo rinveniente prima dal d.lg. 490/1999 (recante il Testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali), e poi dal Codice, della formula che la legge di tutela 1089/1939, aveva utilizzato per estendere la relativa disciplina (anche) agli enti ecclesiastici ("enti ed istituti legalmente riconosciuti": v., per tutti, articolo 4, primo comma, l. 1089/1939) costituirebbe un ostacolo insormontabile per la sottoposizione degli enti religiosi, tra l'altro, all'autorizzazione preventiva in caso di dismissione del patrimonio culturale di loro proprietà; attesa l'estensione del patrimonio culturale in proprietà di enti religiosi, è apparso pertanto indispensabile recuperare la formula normativa utilizzata dal legislatore del 1939". La relazione prosegue poi chiarendo che questo recupero non può considerarsi in contrasto con la legge di delega, che impegnava il governo a emanare il Codice senza determinare ulteriori restrizioni alla proprietà privata [88], dato che la delega legislativa conferita al governo nel 1997 per l'emanazione del testo unico consentiva esclusivamente le modificazioni necessarie per il coordinamento formale e sostanziale delle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore della stessa legge, nonché per assicurare il riordino e la semplificazione dei procedimenti [89]; l'eliminazione del riferimento agli istituti ed enti legalmente riconosciuti e la sua sostituzione con la formula persone giuridiche private senza fine di lucro non rispondono invece ad alcuna esigenza di coordinamento delle disposizioni di tutela all'epoca vigenti, né formale né sostanziale. La relazione, infine, ha raccolto uno spunto del citato parere della seconda sezione del Consiglio di Stato circa il principio, inserito nell'accordo del 1984 di modificazione del Concordato, di collaborazione tra Stato e Santa Sede per la tutela del patrimonio storico e artistico [90] e circa l'eventualità di un accordo interpretativo fra le parti. In proposito la relazione ha osservato: "E poiché gli enti religiosi hanno sempre richiesto la preventiva autorizzazione alla vendita di beni culturali presenti nel loro patrimonio, concordando di fatto con l'interpretazione seguita al riguardo dall'Amministrazione, la modificazione della formulazione letterale delle disposizioni del Codice al fine di sottoporre in modo inequivoco alla disciplina da esse dettata anche gli enti ecclesiastici non sembra configurarsi come compressione 'ulteriore' della proprietà di detti enti".
Considerata la rilevanza della questione, la spiegazione data alla modificazione merita in sede di commento un'illustrazione più ampia di quella data dalla relazione, di cui si comprende la prudenza, dati i rapporti di stretta contiguità che in generale legano gli uffici legislativi dei Ministeri al Consiglio di Stato.
Il citato parere della seconda sezione del Consiglio di Stato [91] è stato reso sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla parrocchia di San Michele Arcangelo a Pontassieve per l'annullamento di una nota, di data 13 marzo 2003, con cui la soprintendenza per i beni architettonici, il paesaggio, il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico di Firenze, Pistoia e Prato aveva dichiarato nullo l'atto di compravendita di un immobile vincolato (porzione del Palazzo Sansoni Trombetta), alienato dalla parrocchia al comune di Pontassieve, e di una nota con cui la Direzione generale per i beni architettonici e il paesaggio del ministero per i beni e le attività culturali aveva ritenuto corretto il provvedimento della soprintendenza. Il provvedimento della soprintendenza aveva fatto seguito alla comunicazione dell'atto di trasferimento, affinché l'amministrazione potesse eventualmente esercitare il diritto di prelazione ed era stato motivato dalla mancanza della previa autorizzazione all'alienazione, in violazione dell'art. 55 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali approvato col d.lg. 490/1999, nonché del d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, all'epoca vigenti. Il parere del Consiglio di Stato ha ritenuto che il ricorso fosse fondato nella parte in cui esso aveva contestato che l'alienazione di un bene culturale appartenente a un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, quale è una parrocchia, fosse soggetto, a pena di nullità, a previa autorizzazione ministeriale ai sensi delle norme sopra indicate. A tal fine il Consiglio di Stato ha invocato un precedente parere [92], secondo il quale gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti non sono né privati né pubblici, ma enti di un'autonoma organizzazione confessionale, ai quali lo Stato si è limitato a riconoscere la personalità giuridica; da questo precedente la seconda sezione del Consiglio di Stato ha tratto la conseguenza che gli enti ecclesiastici non possono qualificarsi come persone giuridiche private senza fini di lucro, alle quali si riferiscono le disposizioni, sopra citate, sull'autorizzazione all'alienazione. Il Consiglio di Stato ha quindi espresso parere per l'accoglimento del ricorso, con assorbimento degli altri motivi di impugnativa, anche se nella parte conclusiva ha richiamato l'art. 12, n. 1, dell'accordo di modificazione del Concordato secondo cui "La Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborano per la tutela del patrimonio storico e artistico": da questa disposizione il parere ha derivato la conseguenza che "le due Parti potrebbero concordare con l'interpretazione seguita dall'Amministrazione, eliminando ogni perplessità derivante dalla formulazione letterale della disposizione nella parte in cui individua i suoi destinatari".
Questo parere della seconda sezione del Consiglio di Stato, dunque, è stato reso oltre due anni e mezzo dopo l'entrata in vigore del Codice dei beni culturali, ma con riferimento al regime del testo unico approvato col d.lg. 490/1999. Quel che importa, però, è che quanto affermato dal parere con riferimento al testo unico del 1999 è pienamente riferibile anche al Codice 2004. Il parere, pertanto, ha interesse non solo storico cosicché a ragione esso è stato preso in considerazione dalla relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo. Nel merito il parere della seconda sezione del Consiglio di Stato non appare affatto convincente. Basti pensare che già la prima legge di tutela del patrimonio artistico, la legge 12 giugno 1902, n. 185, aveva stabilito un regime di inalienabilità, salvo autorizzazione amministrativa. L'art. 2 di questa legge, anzi, al primo comma, aveva considerato innanzi tutto il patrimonio ecclesiastico, disponendo l'inalienabilità per le collezioni di oggetti d'arte e di antichità, i monumenti e i singoli oggetti d'importanza artistica ed archeologica appartenenti a fabbricerie, a confraternite ed enti ecclesiastici di qualsiasi natura, e per quelli che adornavano chiese e luoghi dipendenti o altri edifici pubblici. Solo al secondo comma l'art. 2 della legge aveva esteso l'inalienabilità ai beni della stessa natura appartenenti allo Stato, a comuni e province o ad altri enti legalmente riconosciuti. Si trattava di un regime di inalienabilità relativa, poiché era prevista la possibilità del rilascio di un'autorizzazione amministrativa all'alienazione; questo regime è variato nel corso del tempo per alcuni aspetti di dettaglio [93], ma è sempre rimasto fermo il principio generale che i beni culturali degli enti ecclesiastici sono alienabili solo previa autorizzazione. Risulta quindi pienamente fondato e condivisibile il richiamo della relazione illustrativa ai limiti della delega legislativa conferita al governo dall'art. 1, comma 2, lett. b), della l. 352/1997: alle disposizioni vigenti dovevano essere apportate esclusivamente le modificazioni necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale, nonché per assicurare il riordino e la semplificazione dei procedimenti. Il testo unico emanato col d.lg. 490/1999, ha sostituito l'espressione istituti ed enti legalmente riconosciuti, usata dalla l. 1089/1939, con persone giuridiche private senza fine di lucro; ma questa sostituzione, alla luce dei principi e criteri direttivi della legge di delega, doveva essere considerata solo come una formulazione aggiornata al lessico corrente, senza variazione dell'ambito soggettivo di riferimento rispetto alla disciplina precedente. Invece, solo per il parere di una sezione consultiva del Consiglio di Stato, senza dibattito parlamentare, sarebbe venuto meno un principio di lunga e consolidata tradizione. Dal parere in esame rischiava inoltre di derivare una conseguenza gravissima. L'art. 10, comma 1, del Codice identifica i beni culturali con la stessa espressione di beni appartenenti a persone giuridiche private senza fine di lucro cosicché, seguendo la tesi che gli enti ecclesiastici non sono né privati né pubblici, i beni loro appartenenti non sarebbero tutelati ai sensi della stessa disposizione (nonché dell'art. 12 del Codice, sulla verifica dell'interesse culturale), ma potrebbero essere tutelati solo ai sensi del comma 3 dello stesso art. 10, e quindi a seguito della dichiarazione dell'interesse culturale ai sensi dell'art. 13, al pari dei beni di proprietà di soggetti diversi da quelli indicati al comma 1 (e quindi persone fisiche e persone giuridiche con fine di lucro) [94]. La seconda sezione del Consiglio di Stato non si è avveduta che il suo parere implicava un cambiamento di regime notevolissimo per i beni culturali degli enti ecclesiastici e quindi, data la consistenza di tali beni, per una parte rilevante del patrimonio culturale nazionale; non si è avveduta inoltre che, escludendo per gli enti ecclesiastici la natura di persone giuridiche private senza fine di lucro, gli enti stessi venivano a essere assimilati alle persone giuridiche con fine di lucro.
La soluzione interpretativa del parere in esame risulta inoltre del tutto isolata e priva di riscontri, sia in dottrina, sia fra i soggetti istituzionalmente interessati. Dopo il testo unico del 1999 il ministero per i Beni e le Attività culturali e la Conferenza episcopale italiana non hanno avuto alcun dubbio che gli enti ecclesiastici rientrassero tra le persone giuridiche private senza fine di lucro e che i beni culturali degli enti ecclesiastici continuassero quindi a essere soggetti alla relativa disciplina di tutela, come risulta chiaramente dalla nuova intesa relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche firmata il 26 gennaio 2005 [95]. Inoltre, a seguito del decreto attuativo del Codice sulla verifica dell'interesse culturale dei beni immobili di proprietà delle persone giuridiche private senza fine di lucro [96], il Dipartimento per i beni culturali e paesaggistici del ministero e l'Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza episcopale italiana hanno stipulato il l8 marzo 2005 un accordo relativo alle procedure informatizzate utilizzate dagli enti ecclesiastici per la richiesta di verifica dell'interesse culturale degli immobili [97].
Quella soluzione infine è inaccettabile perché in contrasto con il parere reso dall'adunanza generale dello stesso Consiglio di Stato sullo schema di testo unico [98]. In quel parere il Consiglio di Stato aveva lodato in generale lo schema di testo unico, riconoscendo che "ci si trova di fronte ad un prodotto di pregevole fattura, compilato con la massima accuratezza e (il che non è certamente cosa di poco conto) con l'osservanza delle regole e dei principi della lingua italiana e della terminologia e della sistematica giuridica" [99]. Sul punto specifico della sostituzione dell'espressione istituti ed enti legalmente riconosciuti con persone giuridiche pubbliche e private, adoperata nell'art. 5 dello schema di testo unico, l'adunanza generale aveva affermato che la sostituzione appariva corretta; tuttavia, poiché fra le persone giuridiche private rientrano anche le società commerciali, circostanza che avrebbe potuto far nascere, oltre che problemi interpretativi, anche problemi rispetto alla legge di delega, il parere aveva suggerito all'amministrazione di chiarire meglio quali fossero i suoi intendimenti [100]. E l'amministrazione aveva risposto puntualmente e correttamente a questo suggerimento, modificando l'espressione persone giuridiche pubbliche e private in gli altri enti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro, così escludendo le società commerciali. L'adunanza generale del Consiglio di Stato, dunque, non aveva avuto il minimo dubbio che gli enti ecclesiastici rientrassero fra le persone giuridiche private senza fine di lucro. Tanto più grave appare quindi la tesi della seconda sezione del Consiglio di Stato, secondo cui gli enti ecclesiastici non sono né privati né pubblici e quindi non rientrano tra le persone giuridiche private senza fine di lucro: una tesi che, contrariamente a quanto sostenuto dalla seconda sezione del Consiglio di Stato, non è certo obbligata dalla formulazione letterale della disposizione, non ha alcuna base sistematica, conduce a un esito sconcertante quale l'assimilazione degli enti ecclesiastici alle società commerciali ai fini della tutela dei beni culturali, e risulta in definitiva tanto semplicistica da arieggiare quella del personaggio letterario secondo cui in rerum natura non c'erano che due generi di cose, sostanze e accidenti, e il contagio da peste non esisteva perché non era né l'uno né l'altro [101].
Ma almeno altrettanto grave e infondato è anche l'ultimo accenno del parere della seconda sezione del Consiglio di Stato all'art. 12 dell'accordo del 1984 di modificazione del Concordato. E' stato già ampiamente chiarito che nei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica la materia dei beni culturali non è una res mixta [102], e del resto la Conferenza episcopale italiana fin dal 1974 ha riconosciuto la soggezione del patrimonio culturale degli enti ecclesiastici alla legislazione civile [103]. Interpretazioni concordate tra le parti sono possibili solo per norme pattizie [104], non per normativa unilaterale come quella sulla protezione dei beni culturali.
In definitiva, la seconda sezione del Consiglio di Stato ha preso un grosso e duplice abbaglio. Forse la circostanza di una decisione da assumere senza discussione in pubblica udienza e prevedibilmente destinata, come del resto la generalità dei pareri sui ricorsi straordinari, a limitata pubblicazione su riviste cartacee [105], con conseguente possibilità di sfuggire al vaglio critico della dottrina, ha indotto a una leggerezza stupefacente. L'amministrazione, del resto, ha seguito una linea di comportamento debole: non risulta che essa abbia instaurato l'azione volta a far dichiarare dall'autorità giudiziaria la nullità dell'alienazione ai sensi dell'art. 135 del testo unico, né che abbia sollecitato l'esercizio dell'azione penale per l'accertamento del reato previsto dall'art. 122, comma 1, lett. a) del testo unico [106]; non risulta infine che il ministero abbia promosso una decisione del Consiglio dei ministri in difformità dal parere del Consiglio di Stato, come pure avrebbe potuto [107], e quindi il ministero ha acconsentito nel caso di specie ad una sconfitta che peraltro è rimasta isolata e senza conseguenze, dato che la generalità degli enti ecclesiastici, come ha ricordato la relazione, ha continuato a richiedere la previa autorizzazione all'alienazione dei beni culturali del loro patrimonio. Però il ministero ha reagito col decreto correttivo, in modo da evitare che il parere potesse costituire un precedente. La modifica, non solo all'art. 30, ma anche agli artt. 1, 10 e 56 del Codice, ha confermato la piena soggezione dei beni culturali degli enti ecclesiastici alla disciplina di tutela come beni di enti privati senza fine di lucro. Queste modificazioni vanno tuttavia giustificate meglio di quanto abbia fatto la relazione. Se il testo unico del 1999 e poi il Codice avessero veramente escluso i beni culturali degli enti ecclesiastici dalla disciplina di tutela, la prassi dei medesimi enti di continuare a richiedere l'autorizzazione alla loro vendita sarebbe stata un puro fatto giuridicamente irrilevante e il nuovo assoggettamento dei beni medesimi a tutela, dopo un intervallo di oltre otto anni, si dovrebbe considerare in contrasto col criterio della legge di delega che ha fatto divieto di determinare ulteriori restrizioni alla proprietà privata [108]. Bisogna invece respingere come totalmente infondata la tesi sostenuta dalla seconda sezione del Consiglio di Stato, ritenere che i beni culturali degli enti ecclesiastici siano sempre rimasti soggetti alla normativa di tutela, mantenere al parere del Consiglio di Stato la sua natura di semplice parere (e non di fonte del diritto) e considerare le modificazioni in esame, ora apportate al Codice, come semplici chiarimenti esplicativi, con valore non innovativo ma soltanto confermativo di quanto già desumibile in via interpretativa [109].
L'analisi di un solo gruppo, per quanto non proprio piccolo, di modificazioni apportate al Codice dei beni culturali può costituire solo un contributo a una valutazione complessiva di tali modificazioni. Va sempre considerato, inoltre, che si tratta di modificazioni con natura integrativa e correttiva delle disposizioni del Codice, e quindi a basso livello di innovatività. Pur con queste avvertenze, si possono formulare alcune osservazioni conclusive. Le modificazioni in oggetto, complessivamente considerate, appaiono conseguenza di una modesta capacità tecnica nella redazione del testo originario del Codice, del primo decreto correttivo e, già prima, del testo unico del 1999. Ma questa modestia continua a riscontrarsi anche nelle ultime correzioni formali, le quali non toccano la struttura originaria della parte seconda del Codice, dedicata ai beni culturali: questa parte del Codice è di difficile lettura per i continui rinvii interni, in particolare a specifiche categorie di beni culturali indicate all'art. 10. La ricerca della precisione formale e della specificità delle previsioni normative, anche mediante le disposizioni integrative e correttive, ha inoltre condotto a un testo della seconda parte del Codice inutilmente complicato, molto lontano dalle chiare formulazioni della l. 1089/1939, che resta nella memoria come il frutto ben ponderato delle capacità di Santi Romano e di Mario Grisolia.
La redazione del Codice nonché delle sue correzioni ha richiesto certo tante energie, ma gli esiti non sono all'altezza delle attese. Il d.lg. 62/2008, per le disposizioni esaminate, ha un contenuto vario. Alcune sue disposizioni consistono in norme di carattere regolamentare, elevate invece alla dignità di norme primarie, mostrando come il decreto legislativo sia strumento normativo più agile del regolamento, poiché esente dal parere del Consiglio di Stato e dal controllo della Corte dei conti. Il decreto ha poi corretto errori di redazione del Codice, a loro volta risalenti a errori del testo unico; ha inteso adeguare il Codice all'ultimo regolamento di organizzazione del ministero; ha abrogato quanto deliberato dal Parlamento a modificazione del Codice; si è anche baloccato in modificazioni modeste, se non irrilevanti, come quelle relative alle denominazioni dei Ministeri, lo scambio tra le congiunzioni "e" e "o" e l'inversione dei complementi nella rubrica dell'art. 38.
Alla prova dell'esperienza, la doppia serie di disposizioni correttive e integrative del 2006 e del 2008 mostra anche quanto fosse infondata l'idea originaria, alla base del disegno politico avviato dal ministro per i Beni e le Attività culturali all'inizio della XIV legislatura, di poter avere un vero Codice dei beni culturali [110]. L'idea di Codice è indissolubilmente legata a un testo normativo organico e stabile nel tempo, e tale non appare il Codice dei beni culturali che non è organico perché accomuna due materie molto diverse fra loro, beni culturali e paesaggio, la seconda delle quali si collega a un ambito diverso, il governo del territorio. Il Codice, inoltre, raccoglie solo parzialmente la disciplina dei beni culturali e le modificazioni introdotte dai quattro decreti legislativi integrativi e correttivi, ma anche da altre leggi, ne hanno banalizzato il ruolo, contribuendo a schiudere prospettive politiche di ulteriori modificazioni.
Pur considerando solo una parte del Codice, appare difficile riconoscere in esso una vera, grande e positiva riforma. Le riforme più serie, ma anche più preoccupanti, degli ultimi anni in materia di beni culturali sono quelle, relative all'organizzazione, al personale e alle risorse finanziarie, realizzata per altre strade: se ne indicano qui alcune. La dirigenza tecnica e quella amministrativa sono state rese di fatto completamente dipendenti dal potere politico, in palese contraddizione con i princìpi di legge sull'organizzazione delle pubbliche amministrazioni. La funzionalità e l'operatività delle strutture centrali del ministero sono state gravemente compromesse da tre riforme, molto ravvicinate nel tempo, della sua organizzazione [111], riforme che hanno comportato anche ripetuti spostamenti dei dirigenti. L'amministrazione si è gonfiata con un numero assai elevato di dirigenti di prima fascia [112], preposti anche a strutture periferiche (sono dirigenti generali anche i diciassette direttori regionali), mentre si è impoverita di dirigenti di primo livello, cosicché sono rimaste lungamente scoperte numerose soprintendenze [113]: ma proprio le soprintendenze, non le strutture centrali del ministero e le direzioni regionali, sono il cuore dell'attività di tutela dei beni culturali [114]. La manovra finanziaria triennale dell'estate 2008 ha ora imposto a tutte le amministrazioni statali una consistente riduzione, entro il 30 novembre 2008, degli assetti organizzativi [115], riduzione che potrebbe anche tradursi in una quarta riforma dell'organizzazione del ministero.
Il corpo dei funzionari tecnici (archeologi, storici dell'arte, architetti) non ha conosciuto il necessario e costante ricambio, cosicché oggi l'età media di questo corpo è elevata: i funzionari più anziani sono andati e continuano ad andare in pensione senza la possibilità, mediante il lavoro quotidiano svolto fianco a fianco, di trasmettere a funzionari più giovani il patrimonio di conoscenze, esperienze, sensibilità e capacità accumulato nella loro carriera. Si tratta di un patrimonio fondamentale e non sostituibile dallo studio individuale o da attività didattiche e formative. La continuità dell'amministrazione, mediante la conoscenza diretta della storia e dei precedenti dei problemi aperti, e alcune importanti capacità dei funzionari rischiano di disperdersi irrimediabilmente, per la limitata possibilità di lavoro in comune tra persone di diversa generazione. I concorsi di recente banditi dal ministero sono solo un primo passo per la soluzione del problema [116]: ma rimane l'ostacolo delle recenti norme sul contenimento della spesa per il pubblico impiego, recanti limitazioni alle assunzioni indiscriminatamente per tutte le amministrazioni pubbliche, senza alcuna considerazione per le diverse esigenze e situazioni di fatto delle singole amministrazioni [117]. Infine, la riduzione delle risorse finanziarie a disposizione dell'amministrazione dei beni culturali, nel quadro di una politica generale di riduzione scarsamente selettiva della spesa pubblica, ne ha compromesso le capacità operative: la situazione è talmente grave che da tempo in alcune soprintendenze si rinvia, per mancanza di fondi, persino il pagamento delle bollette dell'energia elettrica, fidando nella pazienza delle aziende erogatrici e nel loro desiderio di evitare il clamore che deriverebbe dalla chiusura al pubblico di gallerie, musei, zone archeologiche nel caso di sospensione della fornitura. La manovra triennale di finanza pubblica dell'estate 2008 appare destinata ad aggravare la situazione finanziaria del ministero [118], mentre la prospettiva politica di significative alienazioni del patrimonio culturale di proprietà pubblica non è svanita, nonostante una vivace opposizione [119], e anzi potrebbe riprendere vigore.
Il primo decennio del ventesimo secolo aveva segnato un grande e positivo sforzo, politico ed economico, per la tutela del patrimonio artistico. In quel periodo una classe dirigente colta e lungimirante aveva introdotto la disciplina sostanziale di tutela, con la legge Nasi [120] e la legge Rosadi [121], vincendo l'ostilità liberale alle limitazioni alla proprietà privata; essa aveva anche istituito l'organizzazione amministrativa delle antichità e belle arti [122]; e, infine, essa era stata capace di valutare l'utilità delle spese per l'incremento delle collezioni pubbliche, deliberando l'acquisto di due importanti collezioni d'antichità, la collezione Ludovisi e la collezione Borghese [123].
Il confronto con le vicende del primo decennio, ancora in corso, del ventunesimo secolo non è confortante. In questo contesto, non positivo, è difficile sperare in un miglioramento del ruolo dell'amministrazione statale. Non si dimentica la riforma costituzionale del 2001, la quale ha prospettato l'attribuzione alle regioni di funzioni in materia di tutela dei beni culturali [124]: si è aperto così uno scenario incerto, che ci si augura possa segnare elementi positivi di recupero ma che si deve temere possa condurre anche a esiti di ulteriore degrado.
Note
[1] Di seguito, quindi, per fare riferimento alle disposizioni di modificazione del Codice dei beni culturali non si indica più l'art. 2, comma 1, del d.lg. 62/2008, ma si indicano soltanto le lettere con l'eventuale numero.
[2] APS, XV leg., atto n. 217, trasmesso dal governo alla Presidenza del Senato il 12 febbraio 2008. La relazione è pubblicata sul web, all'indirizzo www.camera.it/dati/leg15/lavori/AttiDelgoverno/pdf/0217_F001.pdf.
[3] Legge 6 luglio 2002, n. 137, art. 1, comma 3, nel testo sostituito a quello originario dall'art. 1-bis del decreto legge 18 febbraio 2003, n. 24, convertito, con modificazioni, in legge 17 aprile 2003, n. 82.
[4] La VII Commissione permanente (Istruzione pubblica, Beni culturali) del Senato e la VII Commissione permanente (Cultura, Scienza e Istruzione) della Camera dei deputati hanno reso parere favorevole sullo schema di decreto legislativo nelle sedute del 5 marzo 2008. Si vedano anche i rilievi alla VII Commissione della V Commissione permanente (Bilancio, Tesoro e Programmazione) della Camera dei deputati, formulati pure nella seduta del 5 marzo 2008.
[5] Lett. l), nn. 1 e 2.
[6] Lett. d).
[7] Lett. aa).
[8] Sul punto v. L. Zanetti, Riscrittura della legge n. 241/1990 e disciplina amministrativa dei beni culturali, in Aedon, 3/2005.
[9] Lett. t), n. 3.
[10] Decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni, art. 2, comma 1, n. 1.
[11] Legge 31 marzo 2000, n. 78, art. 1; decreto legge 5 ottobre 2000, n. 297, art. 2, comma 1.
[12] Lett. m).
[13] Lett. n), nn. 1 e 2.
[14] Decreto legge 16 maggio 2008, n. 85, convertito, con modificazioni, in legge 14 luglio 2008, n. 121.
[15] Il d.l. 85/2008, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 114 del 16 maggio 2008 ed è entrato in vigore (art. 2, comma 1) il giorno stesso della sua pubblicazione.
[16] Legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 11; d.lg. 300/1999.
[17] Nella XIV legislatura v. il decreto legge 12 giugno 2001, n. 217, convertito in legge 3 agosto 2001, n. 317; nella XV legislatura v. il già citato d.l. 181/2006, convertito in l. 233/2006; nella XVI legislatura v. il già citato d.l. 85/2008, convertito, con modificazioni, in l. 121/2008. Sul punto v., con specifico riferimento al d.l. 181/2006 e al ministero per i beni e le attività culturali, M. Cammelli, Ossimori istituzionali: l'instabile immobilità della organizzazione ministeriale, in Aedon, 3/2006.
[18] Art. 33, comma 4.
[19] Art. 38, comma 2.
[20] Art. 39, comma 3.
[21] Art. 104, comma 3.
[22] Lett. p), lett. r), n. 3, lett. s), n. 2, e lett. sss).
[23] Legge 8 giugno 1990, n. 142, artt. 17-21.
[24] Il parere della Conferenza unificata è reperibile sul web, a partire dall'indirizzo www.regioni.it/mhonarc/details_misc.aspx?id=10956, proseguendo per www.regioni.it/upload/24.pdf.
[25] Sui problemi di attuazione delle città metropolitane v., da ultimo, F. Spalla e R. Lanza, Area metropolitana: esperienze italiane, in Amministrare, 2008, 105 ss.
[26] Lett. cc).
[27] V. M.S. Giannini, "Ambiente": saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15 ss.
[28] L'altra modifica apportata allo stesso art. 49, comma 1, ha invece diversa natura e viene quindi esaminata più oltre.
[29] Lett. bb).
[30] Lett. r), n. 1.
[31] D.lg. 156/2006, art. 2, comma 1, lett. p), n. 1.
[32] Lett. r), n. 2.
[33] Lett. f), n. 1.
[34] Lett. g), n. 2
[35] Lett. f), n. 2.
[36] Lett. g), n. 1.
[37] V. l'art. 129, comma 2, del Codice.
[38] Lett. h).
[39] V. il commento all'art. 21 del Codice in M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, 2007, 139-140.
[40] R.d. 363/1913, tuttora in vigore ai sensi dell'art. 130 del Codice.
[41] L. 137/2002, art. 10, comma 2, lett. d).
[42] Lett. i), n. 1.
[43] Lett. i), n. 2.
[44] V. il commento all'art. 21 del Codice in M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 145.
[45] L. 137/2002, art. 10, comma 2, lett. d).
[46] Questa interpretazione è suggerita dal regolamento per l'esecuzione della l. 364/1909, approvato col r.d. 363/1913, tuttora in vigore ai sensi dell'art. 130 del Codice. L'art. 3 di questo regolamento disciplina lavori su cose immobili amministrate da uffici governativi e prevede (quarto comma) anche le rimozioni dagli immobili di cose mobili. Tuttavia il termine rimozione è adoperato dallo stesso regolamento negli artt. 29-39 con riferimento anche a beni mobili (non necessariamente da separare da beni immobili): si veda in particolare l'art. 30 sulle rimozioni per la partecipazione a esposizioni d'arte.
[47] A. Roccella, L'organizzazione instabile: direzioni regionali e soprintendenze nei recenti provvedimenti del ministero per i Beni e le Attività culturali, in Aedon, 3/2005.
[48] D.p.r. 173/2004, art. 7, comma 2, lettera o), per il direttore generale per i beni archeologici; art. 8, comma 2, lettera e), per il direttore generale per i beni architettonici e paesaggistici; art. 9, comma 2, lettera d), per il direttore generale per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico.
[49] D.p.r. 173/2004, art. 20, comma 4, lett. c).
[50] D.p.r. 26 novembre 2007, n. 233, art. 6, comma 2, lett. i), per il direttore generale per i beni archeologici (la disposizione fa eccezione per i casi di urgenza, nei quali l'autorizzazione è rilasciata dalla competente soprintendenza, che ne informa il direttore regionale e centrale); art. 8, comma 2, lett. b), per il direttore generale per i beni architettonici, storico-artistici ed etnoantropologici. Il direttore generale per i beni architettonici, storico-artistici ed etnoantropologici ha delegato ai soprintendenti per i beni architettonici e ai soprintendenti per i beni storici, artistici ed etnoantropologici l'autorizzazione agli interventi di demolizione e rimozione definitiva con decreto 27 giugno 2008, in Gazzetta Ufficiale n. 247 del 21 ottobre 2008. Del pari il direttore generale per i beni archeologici ha delegato ai soprintendenti per i beni archeologici la medesima funzione con decreto 28 luglio 2008, ancora in corso di registrazione alla Corte dei conti.
[51] D.p.r. 233/2007, art. 18, comma 1, lett. b).
[52] Non costituisce attribuzione di una competenza residuale l'art. 18, comma 1, lett. b), secondo cui le soprintendenze autorizzano l'esecuzione di opere e lavori di qualunque genere sui beni culturali: la disposizione costituisce mera riproduzione dell'art. 21, comma 4, del Codice, che regola gli interventi su beni culturali fuori dei casi di cui ai commi precedenti. Del pari non costituisce attribuzione di una competenza residuale l'art. 18, comma 1, lett. p), secondo cui le soprintendenze esercitano ogni altra competenza ad esse affidata in base al Codice: anche questa disposizione è puramente ricognitiva e confermativa di quanto disposto dal Codice.
[53] Lett. s), n. 1.
[54] Lett. i), n. 3.
[55] Lett. o), n. 2.
[56] Lett. v).
[57] In precedenza v. l'art. 33 del d.p.r. 1409/193. L'ultimo periodo del comma 1-bis dell'art. 43 stabilisce che "Dall'attuazione del presente comma non devono, comunque, derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica": questo periodo è stato aggiunto in accoglimento di un rilievo e di una proposta della V Commissione permanente della Camera dei deputati, accettata dal sottosegretario Antonangelo Casula, sullo schema di decreto legislativo.
[58] Lett. t), n. 1.
[59] Lett. t), n. 2.
[60] Lett. z).
[61] L'on Lino Duilio, presidente della V Commissione permanente della Camera dei deputati, riferendo sullo schema di decreto legislativo, aveva rilevato che la disposizione appariva suscettibile di determinare uno spostamento degli oneri relativi alla conservazione e custodia dei beni degli enti pubblici depositanti al ministero dei Beni culturali, e aveva ritenuto necessaria una conferma da parte del governo che agli stessi si potesse far fronte con gli ordinari stanziamenti già iscritti in bilancio.
[62] Anche questo ultimo periodo è stato aggiunto, come al comma 1-bis dell'art. 43, in accoglimento di una proposta della V Commissione permanente della Camera dei deputati, accettata dal sottosegretario Antonangelo Casula, sullo schema di decreto legislativo.
[63] R.d. 363/1913, tuttora in vigore ai sensi dell'art. 130 del Codice. L'art. 121 considera al primo comma le cose spettanti allo Stato provenienti da scavo o da scoperte fortuite, le quali sono destinate ad istituti governativi della regione donde provengono, salvo in casi eccezionali il potere del ministro di destinarle, su parere conforme del Consiglio superiore per le antichità e le belle arti, ad altro istituto. Il secondo comma dell'art. 121 dispone: "Oltre al caso speciale di cui all'art. 17, ultimo comma della legge, potrà il ministero consentire, sul parere conforme del Consiglio predetto, che tali cose siano lasciate in deposito, dietro ogni più ampia garanzia di custodia, ad istituti comunali e provinciali della regione in cui vennero scoperte". L'art. 17, ultimo comma, della l. 364/1909 consentiva che le cose scavate rimanessero in proprietà di province o di comuni proprietari di museo: ma la disposizione è stata travolta dalla successiva disciplina legislativa di tutela e dagli artt. 822 e 826 del Codice civile.
[64] La disciplina speciale degli archivi storici era stata introdotta per la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica dalla legge 3 febbraio 1971, n. 147, poi integrata, per l'archivio storico della Presidenza della Repubblica, dalla legge 13 novembre 1997, n. 395. Queste leggi sono state abrogate dall'art. 166 del d.lg. 490/1999, che ne ha ripreso i contenuti all'art. 31 e ha istituito anche l'archivio storico della Corte costituzionale.
[65] Lett. u).
[66] L. 137/2002, art. 10, comma 4, che aveva stabilito il termine di due anni dalla data di entrata in vigore del Codice.
[67] L'elevazione del termine è stata disposta dall'art. 1, comma 3, l. 51/2006, che ha modificato il testo originario dell'art. 10, comma 4, l. 137/2002.
[68] Il 17 gennaio 2008 l'on. Clemente Mastella aveva rassegnato le dimissioni da ministro della Giustizia, per ragioni personali e politiche; il 19 gennaio 2008 l'on. Veltroni aveva annunciato l'intenzione del Partito democratico di presentarsi da solo alle elezioni politiche; il 21 gennaio 2008 l'on. Mastella aveva diffuso la decisione del suo partito, l'Udeur, di uscire definitivamente dalla maggioranza e di chiedere lo svolgimento delle elezioni anticipate; il 24 gennaio 2008 il Senato aveva bocciato la risoluzione presentata dai capigruppo della maggioranza sulla quale il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, aveva posto la questione di fiducia e lo stesso giorno il Presidente del Consiglio dei ministri aveva rassegnato le dimissioni al Presidente della Repubblica.
[69] Le Camere sono state sciolte col d.p.r. 6 febbraio 2008, n. 19, in Gazzetta Ufficiale n. 31 del 6 febbraio 2008, suppl. ord. n. 31.
[70] In effetti le sedute delle competenti Commissioni parlamentari, per rendere il parere loro richiesto, sono durate 15 minuti al Senato e 45 minuti alla Camera. La seduta della V commissione della Camera è durata dieci minuti.
[71] Il Presidente del Consiglio dei ministri ha diramato, con nota prot. n. l.h.2/59222/430 del 25 gennaio 2008, ai Vicepresidenti, ai ministri e ai sottosegretari le sue direttive sullo svolgimento delle funzioni del governo durante la crisi ministeriale. Secondo tali direttive "Ai soli fini di evitare la scadenza dei termini, si provvederà agli adempimenti prescritti dalla Costituzione, dalla legge 23 agosto 1988, n. 400 e dalle rispettive leggi di delega per l'approvazione, anche in esame preliminare, di decreti legislativi. In ogni caso, qualora sia intervenuto il previsto parere parlamentare, si provvederà in coerenza con lo stesso".
[72] Lett. q), nn. 1 e 2.
[73] Lett. q), n. 3.
[74] D.p.r. 173/2004, art. 10, comma 2, lett. e).
[75] D.p.r. 173/2004, art. 10, comma 2, lett. d). L'art. 20 della l. 633/1941, tutela il diritto morale d'autore (primo comma), con limitazioni (secondo comma) per le opere di architettura, per le quali l'autore non può opporsi alle modificazioni che si rendessero necessarie nel corso della realizzazione (primo periodo) e a quelle altre modificazioni che si rendesse necessario apportare all'opera già realizzata (secondo periodo). Infine l'art. 20, secondo comma, terzo periodo, stabilisce: "Però se all'opera sia riconosciuto della competente autorità statale importante carattere artistico spetteranno all'autore lo studio e l'attuazione di tali modificazioni".
[76] Questo regolamento è stato emanato ai sensi dell'art. 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), che, al fine di razionalizzare e ottimizzare l'organizzazione delle spese e dei costi di funzionamento dei ministeri, aveva previsto la riorganizzazione degli uffici di livello dirigenziale (generale e non generale) dei ministeri.
[77] D.p.r. 233/2007, art. 7, comma 2, lett. p).
[78] D.p.r. 233/2007, art. 7, comma 2, lett. o).
[79] Si ricordino i rilievi della Corte dei conti al regolamento di organizzazione del ministero del 2000, sui quali v. M. Cammelli, Il regolamento del ministero al controllo della Corte dei conti. Ovvero: se il buon giorno si vede dal mattino, in Aedon, 3/2000.
[80] Il d.p.r. 233/2007 è stato registrato alla Corte dei conti il 13 dicembre 2007, Ufficio di controllo preventivo sui ministeri dei servizi alla persona e dei beni culturali, registro n. 7, foglio n. 149.
[81] V. il discorso di Giorgio La Pira, pronunciato all'Assemblea costituente nella seduta pomeridiana dell'11 marzo 1947, nella discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana, e la replica di Palmiro Togliatti, in La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell'Assemblea costituente, Camera dei deputati - Segretariato generale, Roma, I, 1970, pp. 313 ss.
[82] M.S. Giannini, Del lavare la testa all'asino, in A. Barbera e F. Bassanini (a cura di), I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali, Bologna, 1978, p. 18: "Chi lava la testa all'asino perde il tempo e il sapone. Questa la filosofia di quanto è accaduto e ogni giorno accade? (...) E' vero, noi laviamo la testa agli asini e perdiamo il tempo ed il sapone (...). Però è un imperativo della nostra condizione, se siamo veri giuristi e non commentatori o applicatori del diritto. Noi dobbiamo lavare la testa agli asini, perché l'agire come universale è per noi agire come se l'asino non ci fosse".
[83] Lett. o), n. 1.
[84] Lett. a).
[85] Lett. a), n. 1.
[86] Lett. hh), n. 1.
[87] Lett. hh), n. 2.
[88] L. 137/2002, art. 10, comma 2, lett. d).
[89] L. 352/1997, art. 1, comma 2, lett. b).
[90] Art. 12, n. 1, dell'accordo del 18 febbraio 1984, la cui ratifica è stata autorizzata dalla legge 25 marzo 1985, n. 121.
[91] Il parere è scaricabile (CDS_200410379_2_DE_17-01-2007.DOC) dal sito web La giustizia amministrativa, all'indirizzo www.giustizia-amministrativa.it/Mie.html, con indicazione degli estremi di sezione, data e numero riportati nel testo. Esso è pubblicato altresì sul web, sul sito Olir, Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose, all'indirizzo www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4812.
[92] Cons. St., I, parere n. 1338/2000 del 14 febbraio 2001.
[93] L'art. 3, della l. 185/1902, consentiva l'autorizzazione alla vendita e alla permuta dei beni da uno ad altro degli enti soggetti al regime dell'inalienabilità e a favore dello Stato. L'art. 2, della l. 364/1909 mantenne questo regime precisando che l'autorizzazione era da rilasciarsi, sulle conformi conclusioni del consiglio superiore per le antichità e le belle arti istituito con la legge 27 giugno 1907, n. 386, quando non derivasse danno alla conservazione dei beni da alienare e non fosse menomato il pubblico godimento. Il regolamento di esecuzione della l. 364/1909, approvato col r.d. 363/1913, stabilì agli artt. 45 ss. disposizioni di attuazione di quelle di legge sull'autorizzazione all'alienazione. Il r.d.l. 24 novembre 1927, n. 2461, convertito in legge 31 maggio 1928, n. 1240, sostituì l'art. 2 della l. 364/1909, consentendo l'alienazione delle cose immobili anche a favore di privati, sempre previa autorizzazione del ministro su parere conforme del consiglio superiore per le antichità e belle arti. Infine la l. 1089/1939 estese la possibilità di autorizzare l'alienazione a tutte le cose soggette alla stessa legge (artt. 24 e 26), salva la possibilità del ministro di rifiutare l'autorizzazione, sentito il Consiglio nazionale dell'educazione, delle scienze e delle arti, in caso di grave danno al patrimonio nazionale tutelato dalla legge o al pubblico godimento della cosa (art. 26).
[94] La verifica dell'interesse culturale per i beni degli enti pubblici e delle persone giuridiche private senza fine di lucro costituisce una novità introdotta dal Codice. Nel regime del testo unico del 1999, ormai superato alla data in cui la seconda sezione del Consiglio di Stato ha deliberato il suo parere, le persone giuridiche private senza fine di lucro erano tenute a presentare al ministero l'elenco descrittivo delle cose di loro spettanza (art. 5, comma 1); ma, ugualmente, i beni appartenenti a soggetti diversi dagli enti pubblici e dalle persone giuridiche private senza fine di lucro erano tutelati solo a seguito della dichiarazione di interesse particolarmente importante (art. 6, comma 1).
[95] All'intesa stata data esecuzione col d.p.r. 4 febbraio 2005, n. 78; sull'intesa v. A. Roccella, La nuova Intesa con la Conferenza episcopale italiana sui beni culturali d'interesse religioso, in Aedon, 1/2006.
[96] D.m. 25 gennaio 2005, Criteri e modalità per la verifica dell'interesse culturale dei beni immobili di proprietà delle persone giuridiche private senza fine di lucro, ai sensi dell'articolo 12 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in Gazzetta Ufficiale n. 28 del 4 febbraio 2005 e in Aedon, 2/2005, con un commento di G. Sciullo, Novità (e conferme) in tema di verifica dell'interesse culturale per gli immobili appartenenti a soggetti pubblici e privati non profit.
[97] L'accordo è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 103 del 5 maggio 2005, ma si trova anche sul web, in Olir, all'indirizzo www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=2097, con un commento di M. Rivella, Procedura per la verifica dell'interesse culturale dei beni immobili di proprietà di enti ecclesiastici, all'indirizzo www.olir.it/areetematiche/1/documents/Rivella_Interesse_culturale.pdf.
[98] Cons. St., ad. gen., parere 11 marzo 1999, in M. Cammelli (a cura di), La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, Bologna, 2000, 561 ss.
[99] Cons. St., ad. gen., parere 11 marzo 1999, cit., 571.
[100] Cons. St., ad. gen., parere 11 marzo 1999, cit., 574.
[101] Il riferimento è al personaggio di don Ferrante nel capitolo 37 de I promessi sposi di Alessandro Manzoni.
[102] A. Roccella, La nuova Intesa con la Conferenza episcopale italiana sui beni culturali d'interesse religioso, in Aedon, 1/2006; Id., I beni culturali ecclesiastici, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2004, 199 ss.; M. Vismara, I beni culturali di interesse religioso dall'Accordo del 1984 al "Codice Urbani", in Iustitia, 2004, 317 ss.; A. Roccella, Conservazione e consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche tra ordinamento canonico e ordinamento statuale, in A.G. Chizzoniti (a cura di), Le carte della Chiesa. Archivi e biblioteche nella normativa pattizia, Bologna, 2003, 39 ss.
[103] Si veda il documento intitolato "Tutela e conservazione del patrimonio storico artistico della Chiesa in Italia", approvato dalla X assemblea della Conferenza Episcopale Italiana; il documento, promulgato il 14 giugno 1974, è pubblicato in Cesen, Codice dei beni culturali di interesse religioso, a cura di M. Renna, V.M. Sessa, M. Vismara Missiroli, Milano, 2003, 833 ss.
[104] Per un esempio v. A. Roccella, Enti e beni della Chiesa cattolica. Problemi di interpretazione della normativa pattizia, in Jus, 1997, 407 ss.
[105] In effetti il parere è stato pubblicato solo in Giurisdizione amministrativa, 2007, I, 1362 ss.
[106] In passato la Cassazione penale ha affermato che gli enti ecclesiastici andavano sicuramente annoverati tra gli enti o istituti legalmente riconosciuti e quindi le alienazioni dei loro beni culturali erano soggette ad autorizzazione, con conseguente sussistenza, in caso di violazione, del reato previsto dall'art. 62 della l. 1089/1939: v. Cass., III, 4 dicembre 1998 - 4 febbraio 1999, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, 688 ss., con nota di A. Mansi, Vendita di immobile di un ente ecclesiastico senza autorizzazione. Autorizzazione e vendere prelazione, ivi, 689 ss.
[107] D.p.r. 24 novembre 1971, n. 1199, art. 14, secondo comma.
[108] L. 137/2002, art. 10, comma 2, lett. d).
[109] Il d.lg. 62/2008 non ha modificato il comma 3, dell'art. 95, Espropriazione, il comma 8 dell'art. 112, Valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica, e il comma 1 dell'art. 120, Sponsorizzazione di beni culturali, che pure considerano le persone giuridiche private senza di lucro. Ma, alla luce di quanto esposto nel testo, si deve ritenere che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti siano comunque da comprendere, in via interpretativa, tra le persone giuridiche private senza fini di lucro, anche ai fini di queste disposizioni.
[110] V., più ampiamente, M. Cammelli, Introduzione, in Id. (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, 2004, 23-24.
[111] Per la prima riforma v. decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368; d.lg. 300/1999, artt. 52-54; d.p.r. 29 dicembre 2000, n. 441; d.p.r. 6 luglio 2001, n. 307, su cui v. L. Torchia, Gli uffici di diretta collaborazione nel nuovo ministero per i Beni e le Attività culturali, in Aedon, 2/2001. Per la seconda riforma v. il decreto legislativo 8 gennaio 2004, n. 3, su cui v. M. Cammelli, La riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3), in Aedon, 3/2003, seguito dal d.p.r. 173/2004, su cui v. vari contributi raccolti col titolo Il riordino del ministero nel sistema dei beni culturali (giornata di studio, 25 novembre 2004, Roma, Musei capitolini), in Aedon, 1/2005. La terza riforma è stata avviata dal d.l. 181/2006, convertito in l. 233/2006, su cui v. l'analisi di G. Sciullo, Il 'Lego' istituzionale: il caso del Mibac, e il commento critico di M. Cammelli, Ossimori istituzionali: l'instabile immobilità della organizzazione ministeriale, entrambi in Aedon, 3/2006; sono poi seguiti la l. 296/2006, art. 1, comma 404, il d.p.r. 12 gennaio 2007, n. 2, su cui v. G. Sciullo, Consiglio superiore e Comitati tecnico-scientifici: un riordino politically incorrect?, in Aedon, 1/2007, e il d.p.r. 233/2007.
[112] Da ultimo il d.p.r. 233/2007 ha previsto (art. 20, comma 1, e tabella A) una dotazione organica di 32 dirigenti di prima fascia.
[113] Da una ricognizione di fonte sindacale, aggiornata al 29 settembre 2008, su 79 soprintendenze (per i beni archeologici, per i beni architettonici e paesaggistici, per i beni storici, artistici ed etnoantropologici, speciali) ne risultavano coperte ad interim ben 23 (non si tiene conto qui delle soprintendenze archivistiche, degli archivi e delle biblioteche). La ricognizione è diffusa sul web, nel sito del Coordinamento Nazionale FP CGIL ministero Beni e Attività Culturali, all'interno della sezione Forum, sotto governo dei Beni Culturali - Riforma, Codice e Regolamento MiBAC, sotto forma di documento scaricabile, all'indirizzo fpcgil.forumcommunity.net/?t=20226436.
[114] Per una segnalazione del problema v. ancora A. Roccella, L'organizzazione instabile: direzioni regionali e soprintendenze nei recenti provvedimenti del ministero per i Beni e le attività culturali, in Aedon, 3/2005.
[115] Decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 74. Gli uffici dirigenziali devono essere ridotti, rispetto a quelli esistenti, in misura non inferiore al venti per cento per quelli di livello dirigenziale generale e in misura non inferiore al quindici cento per quelli di livello non generale, con corrispondente riduzione delle dotazioni organiche del personale con qualifica dirigenziale. La tabella A allegata al d.P.R. 26 novembre 2007, n. 233 prevede una dotazione organica di 32 dirigenti di prima fascia e di 216 dirigenti di seconda fascia: la dotazione dovrà quindi scendere a non più di 25 dirigenti di prima fascia e 183 dirigenti di seconda fascia.
[116] Il direttore generale per l'organizzazione, l'innovazione, la formazione, la qualificazione professionale e le relazioni sindacali ha bandito il 14 luglio 2008 concorsi per cinque posti di storico dell'arte, per trenta posti di archeologo, per cinquanta posti di architetto. I bandi sono pubblicati sul sito web del ministero per i beni e le attività culturali, all'indirizzo www.beniculturali.it.
[117] D.l. 112/2008, convertito in l. 133/2008, art. 66.
[118] Si vedano le riduzioni delle missioni di spesa disposte dall'art. 60, comma 1, e dall'elenco n. 1 del d.l. 112/2008, convertito in l. 133/2008. Per una sintesi di queste riduzioni, con specifico riferimento al ministero per i beni e le attività culturali, v. il sito web patrimoniosos.it, all'indirizzo www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getarticle&id=47761.
[119] V. S. Settis, Italia S.p.A. L'assalto al patrimonio culturale, Torino, 2002.
[120] L. 185/1902.
[121] L. 364/1909.
[122] L. 386/1907.
[123] Sull'acquisto della collezione Borghese v. G. Barberini, "E' nota a tutti la rovina economica che ha colpito il Principe...". 1887-1902: il passaggio allo Stato della Galleria Borghese, in Ricerche di Storia dell'arte, 1984, 33 ss.; sull'acquisto della collezione Ludovisi v. ministero per i Beni culturali e ambientali, soprintendenza rcheologica di Roma, Museo Nazionale Romano. Le Sculture a cura di A. Giuliano, vol. I, 4, I Marmi Ludovisi: Storia della collezione di B. Palma, Roma, 1983, 185 ss.
[124] V. il nuovo testo dell'art. 116, terzo comma, Cost., sostituito a quello originario dall'art. 2 l.c. 18 ottobre 2001, n. 3.