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I beni culturali e il paesaggio dopo le ultime riforme / La valorizzazione

Il "terzo settore" per i beni culturali alla (tenue) luce della disciplina dell'impresa sociale

di Giustino Di Cecco

Sommario: 1. Premessa: il misterioso coordinamento normativo di un legislatore "distratto" (o intenzionalmente "generico"). - 1.1. L'attività di valorizzazione del patrimonio culturale. - 1.2. Il coinvolgimento dei privati nell'attività di valorizzazione: la sussistenza del "presupposto oggettivo" per l'attribuzione della qualificazione di imprenditore sociale. - 1.3. La verifica dei presupposti soggettivi per l'attribuzione della qualificazione di imprenditore sociale in capo ai soggetti privati che possono svolgere l'attività di valorizzazione (secondo il Codice dei beni culturali). - 2. Gli obiettivi della nuova disciplina e la (criticabile) scelta terminologica. - 3. La connotazione della sub-fattispecie imprenditore sociale. - 3.1. L'assenza di scopo di lucro. - 3.1.1. La "compressione" del lucro soggettivo nel perdurare del vincolo associativo. - 3.1.2. La eterodestinazione del patrimonio in ipotesi di "cessazione dell'attività". - 3.2. La "struttura proprietaria": l'indipendenza da organizzazioni lucrative ed enti pubblici. - 4. La corporate governance: l'amministrazione, controllo e il coinvolgimento dei lavoratori e destinatari delle attività. - 5. La disciplina "speciale" riservata all'imprenditore sociale: lo "statuto" dell'impresa sociale.

1. Premessa: il misterioso coordinamento normativo di un legislatore "distratto" (o intenzionalmente "generico")

Con due provvedimenti distinti, ma contemporanei, il 24 marzo 2006 il governo ha dato attuazione a due diverse deleghe ricevute in materia di c.d. "terzo settore", per un verso introducendo (con il d.lg. 24 marzo 2006, n. 155) la tanto attesa disciplina generale dell'impresa sociale e, per l'altro, correggendo ed integrando (con il d.lg. 24 marzo 2006, n. 156) il c.d. Codice dei beni culturali di cui al d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42.

Quanto le due tematiche siano per molti versi "affini" (se non addirittura sovrapposte) è presto dimostrato non soltanto dal comune sentire, quanto e soprattutto dallo stesso legislatore che, non a caso, nel decreto n. 155 ha cura di precisare - all'art. 2, comma 1, lett. f) - che è considerata attività di utilità sociale proprio l'attività di "valorizzazione del patrimonio culturale, ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42". Trova così espressa conferma legislativa la previa disposizione già contenuta nell'art. 111, comma 4, del Codice dei beni culturali che, con formulazione analoga, statuiva (e statuisce) che la valorizzazione del patrimonio culturale "è attività socialmente utile e ne è riconosciuta la finalità di solidarietà sociale".

Il coordinamento tra i due testi, tuttavia, finisce qui, essendo inspiegabilmente assente ogni altro anche pur minimo indizio normativo di reciproca considerazione, nonostante le due pur importanti affermazioni di principio circa la riconosciuta valenza sociale dell'attività di valorizzazione del patrimonio culturale.

Ne discende, quindi, la singolare constatazione che è rimesso integralmente agli interpreti l'onere di individuare le inevitabili interferenze tra le due distinte (e in parte simultanee) nuove disposizioni. E così diventa questione di tutt'altro che intuitiva soluzione anche il semplice quesito se le organizzazioni private che (secondo il disposto del Codice dei beni culturali così come modificato dal decreto n. 156) svolgono quell'attività di valorizzazione del patrimonio culturale che è considerata ex lege di utilità sociale anche dallo stesso decreto n. 155 possano godere della qualificazione di imprenditori sociali.

1.1. L'attività di valorizzazione del patrimonio culturale

Prima ancora di verificare quali siano i soggetti privati che possono concretamente svolgere l'attività sociale di valorizzazione del patrimonio culturale [1], occorre soffermarsi sull'attività (in quanto tale) per una doverosa precisazione della quale, in verità, non si sarebbe neppure sentita l'esigenza se il legislatore avesse posto una qualche cura nel coordinamento letterale delle diverse disposizioni.

Il decreto n. 155 sull'impresa sociale, dopo aver premesso (all'art. 1, comma 1) che "possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale" e che abbiano certi requisiti funzionali e strutturali (sui quali si tornerà diffusamente infra), "considera" (all'art. 2, comma 2) "beni e servizi di utilità sociale quelli prodotti o scambiati" in un lungo elenco di attività, tra le quali, per l'appunto, è espressamente menzionata, alla lettera f), la "valorizzazione del patrimonio culturale, ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42".

L'art. 111 del Codice, invece, dopo aver precisato che l'attività di valorizzazione del patrimonio culturale "è ad iniziativa pubblica o privata", pare riconoscere l'utilità sociale (testualmente) alla sola attività di "valorizzazione ad iniziativa privata". A voler rimanere fedeli al dato letterale, sembrerebbe cioè che ogni attività di valorizzazione "ad iniziativa pubblica" svolta da privati (e cioè ogni attività a questi "esternalizzata") sarebbe da considerarsi (secondo il Codice) non produttiva di tale utilità e, dunque, al di fuori della portata stessa del decreto n. 155 che così rimarrebbe limitata alle sole attività di valorizzazione dei "beni culturali di proprietà privata" (come chiarisce il successivo art. 113 del Codice in merito al significato della "iniziativa privata").

L'assurdità della conseguenza impone una lettura correttiva del testo che, di certo, non può voler discriminare proprio la valorizzazione "ad iniziativa pubblica" (ossia l'attività svolta sul patrimonio culturale di proprietà o disponibilità pubblica) privandola del riconoscimento del valore sociale. Sicché, nonostante la formulazione letterale, v'è da ritenere che la norma, esattamente all'opposto, intende riconoscere il valore sociale anche (ma non certo soltanto) della attività svolta da privati sul patrimonio culturale di proprietà privata.

Del resto, la genericità della definizione contenuta nell'art. 2, comma 1, lett. f) del decreto n. 155 sull'impresa sociale (che, così opportunamente, fa riferimento all'attività di valorizzazione tout court senza alcuna distinzione), è conferma sufficiente del fatto che la precisazione di cui all'art. 111, comma 4, circa la valenza sociale dell'attività di valorizzazione "ad iniziativa privata" non può significare, a contrario, che l'eventuale attività privata di "concorso, cooperazione e partecipazione" alla valorizzazione "ad iniziativa pubblica" sia priva di identico valore "sociale".

Per quanto interessa, dunque, seppur con qualche (evitabile) brivido interpretativo, può concludersi che, al fine dell'attribuzione della qualità di impresa sociale ex decreto n. 155, assumono rilevanza tutte le attività di valorizzazione del patrimonio culturale svolta da privati, qualunque sia la loro "iniziativa" (e cioè indipendentemente dalla proprietà pubblica o privata dello stesso).

Il che consente di concentrare l'attenzione sulle diverse forme di intervento dei privati previste dal Codice dei beni culturali.

1.2. Il coinvolgimento dei privati nell'attività di valorizzazione: la sussistenza del "presupposto oggettivo" per l'attribuzione della qualificazione di imprenditore sociale

Pur senza alcuna pretesa né volontà di affrontare temi propri del diritto amministrativo, due considerazioni preliminari appaiono necessarie al fine di inquadrare il contesto normativo entro il quale occorre muoversi.

La prima osservazione è che il Codice - a differenza della ora abrogata [2] disposizione di cui all'art. 10 del d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368 [3] che, come è noto, consentiva al ministero dei Beni culturali la costituzione di (o la partecipazione a) "associazioni, fondazioni o società" [4] - non menziona le tipologie di organizzazioni private che possono essere titolari di attività di valorizzazione, limitandosi ad un generico riferimento a "soggetti giuridici" senza altra indicazione.

La seconda precisazione è che, in questa sede, si prescinde dal problema degli strumenti utilizzabili dagli enti locali dopo l'abrogazione dell'art. 113-bis del Tuel (d.lg. 18 agosto 2000, n. 267) e, in particolare, dalla vincolatività o meno per questi ultimi delle scelte operate dal Codice per la (nuova) disciplina delle diverse forme di gestione (ex art. 115) [5]. L'unica notazione al riguardo è soltanto di carattere "negativo": il potere regolamentare rimesso al ministro dei Beni culturali dall'art. 112, comma 7, del Codice in ordine alla definizione delle "modalità e criteri" di costituzione dei "soggetti giuridici" previsti dall'art. 112, comma 5, è espressamente limitato alla sola ipotesi di costituzione e/o partecipazione da parte del ministero e non anche, come pur espressamente previsto dall'art. 112, comma 5, da parte degli enti pubblici territoriali che, dunque, non dovrebbero essere (direttamente) vincolati dalla suddetta (emananda) disciplina secondaria [6]. Ma, come si è detto, è questione ben nota a chi si occupa della materia e, dunque, qui basta averla segnalata ad excludendum.

Passando ad individuare le disposizioni del (rinnovato) Codice che fanno riferimento all'ipotesi che soggetti privati siano, a vario titolo, "coinvolti" nell'attività di valorizzazione dei beni culturali, tanto "ad iniziativa pubblica" quanto "ad iniziativa privata", occorre chiedersi in quali casi detti soggetti siano chiamati a svolgere un'attività imprenditoriale in tale settore (presupposto, si potrebbe dire, oggettivo, per l'attribuzione della qualità di imprenditore sociale).

Quattro, in particolare, sembrano essere le fattispecie rilevanti, dovendosi dar conto:

a) dei "soggetti giuridici" costituiti ai sensi dell'art. 112, comma 5;

b) delle "persone giuridiche private senza fine di lucro" che partecipano ai soggetti giuridici costituiti ai sensi dell'art. 112, comma 5;

c) dei possibili concessionari dell'attività di valorizzazione a norma dell'art. 115, comma 2;

d) dei privati che, a norma dell'art. 113, esercitano attività di valorizzazione "di beni culturali di proprietà privata".

La prima, e forse più rilevante, prescrizione normativa è certamente quella di cui all'art. 112, comma 5, del Codice, con la quale si concede alle diverse amministrazioni pubbliche (centrali e periferiche) la possibilità di costituire, nel rispetto delle vigenti disposizioni, appositi soggetti giuridici cui affidare l'elaborazione e lo sviluppo dei piani di cui al comma 4, ossia dei "piani strategici di sviluppo culturale" dei beni culturali "di pertinenza pubblica" e, "previo consenso degli interessati", anche dei "beni di proprietà privata" [7].

Quali forme debbano o possano rivestire tali "appositi soggetti giuridici" non è detto, essendo tutto rinviato (perlomeno per quanto concerne i soggetti costituiti o partecipati dall'amministrazione centrale) ad un emanando decreto attuativo del ministro dei Beni culturali che dovrà specificare "modalità e criteri in base ai quali il ministero costituisce i soggetti giuridici indicati al comma 5 o vi partecipa". Ancorché non sia difficile "ipotizzare" che la normazione secondaria si limiterà a regolare la sola costituzione di "fondazioni" (facendo "rivivere" magari proprio il d.m. 27 novembre 2001, n. 491), nulla è impedito.

Quello che è certo, tuttavia, è che la normazione secondaria (al pari di quanto faceva quella attuativa dell'ora abrogato art. 10 del d.lg. 368/1998) dovrà espressamente disciplinare, per un verso, l'ipotesi (prevista all'art. 115, comma 7) che la partecipazione pubblica al patrimonio dei soggetti di cui all'art. 112, comma 5, avvenga mediante "il conferimento in uso dei beni culturali che ad esse pertengono e che siano oggetto della valorizzazione" e, per l'altro, l'eventualità (prevista dall'art. 112, comma 8) che ai medesimi soggetti partecipino "privati proprietari di beni culturali suscettibili di essere oggetto di valorizzazione" ovvero "persone giuridiche private senza fine di lucro, anche quando non dispongano di beni culturali che siano oggetto della valorizzazione, a condizione che l'intervento in tale settore di attività sia per esse previsto dalla legge o dallo statuto".

Problema a parte, che tuttavia in questa sede si può solo segnalare e non certo pensare di affrontare, è quello relativo alla qualificazione (diretta o indiretta) della gestione eventualmente affidata a tali soggetti nell'ipotesi del conferimento in uso del patrimonio culturale pubblico da valorizzare e quello, strettamente connesso, delle modalità di selezione degli eventuali partners privati. Quello che è certo (e che si può già anticipare) è soltanto che qualora non siano i gestori dell'attività di valorizzazione (affidata a terzi concessionari a norma dell'art. 115, comma 3) i soggetti costituiti a norma dell'art. 112, comma 5, non potranno godere della qualifica di imprenditori sociali per carenza del prescritto requisito dell'esercizio di una attività imprenditoriale.

L'osservazione appena svolta, ancorché banale, ben introduce all'esame dei soggetti privati che eventualmente partecipano a tali soggetti giuridici nella duplice ipotesi alternativa che siano "proprietari di beni culturali suscettibili di essere oggetto di valorizzazione" ovvero che siano "persone giuridiche private senza fine di lucro" che, pur non avendo la disponibilità di beni culturali da valorizzare, intervengano nel "settore di attività" per previsione legislativa o statutaria.

Rilevato, difatti, che difficilmente la suddetta "partecipazione" può integrare una qualche ipotesi di svolgimento di attività (d'impresa) di valorizzazione [8] (anche perché l'art. 115, comma 3, esclude espressamente che i privati che partecipano ai soggetti giuridici conferitari di beni culturali pubblici possano essere individuati quali concessionari delle attività di valorizzazione), sembra inevitabile concludere che il privato "partecipante" non può essere considerato (per questa ragione, s'intende) "imprenditore sociale".

Tutt'altro discorso, invece, vale per le organizzazioni private concessionarie dell'attività di valorizzazione ("ad iniziativa pubblica") "esternalizzata" ex art. 115, comma 3, che, potendo svolgere attività imprenditoriale senza limitazioni, ben possono assumere la qualificazione di imprenditori sociali (purché naturalmente rispettino le condizioni soggettive del decreto n. 155).

Lo stesso dicasi per le organizzazioni private svolgenti attività di valorizzazione di beni culturali "ad iniziativa privata" ex art. 113, con l'unica precisazione che, in verità, non è affatto detto che le attività "consistenti" "nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all'esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all'articolo 6" (art. 111, comma 1) siano facilmente riconducibili alla nozione di attività d'impresa ex art. 2082 c.c. Ma si tratta di problema di carattere generale attinente alla demarcazione tra le attività imprenditoriali e quelle meramente erogative e che, dunque, non ha soluzione differenziata per il caso di specie.

Un vero e proprio mistero, infine, sono le "forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni" che possono essere costituiti, a norma dell'art. 112, comma 9, mediante appositi accordi tra lo Stato, gli enti pubblici territoriali "e i privati interessati" per regolare "servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali". Quali debbano essere, difatti, le norme che regolano questa figura di "consorzio misto pubblico-privato" non è detto e, difficilmente, paiono essere quelle di cui all'art. 2602 c.c. (che è strumento "riservato" agli imprenditori che intendano esercitare in comune o disciplinare fasi delle rispettive imprese). Ciò non di meno, la negazione espressa della possibilità che dette "forme consortili" attuino attività economiche "imprenditoriali" parrebbe di per sé preclusiva della attribuzione della qualità di imprenditori sociali.

1.3. La verifica dei presupposti soggettivi per l'attribuzione della qualificazione di imprenditore sociale in capo ai soggetti privati che possono svolgere l'attività di valorizzazione (secondo il Codice dei beni culturali)

Anticipando quanto si dirà più in dettaglio successivamente, occorre tenere presente che (salvo due precise eccezioni [9]) l'imprenditore che aspiri alla qualificazione di "sociale" deve - oltre che esercitare un'attività d'impresa in uno dei settori specificamente individuati dall'art. 2 senza limitare la fruizione dei beni o servizi ai soli "soci, associati o partecipi" (art. 1, comma 2) - essere una "organizzazione" privata "costituita con atto pubblico" (art. 5, comma 1) che:

a) non persegua uno scopo di lucro;

b) non sia soggetta alla "direzione e al controllo" di organizzazioni private lucrative o enti pubblici;

c) abbia una particolare struttura di corporate governance.

Orbene, pur volendo tralasciare i problemi connessi con la richiesta struttura organizzativa e con il significato da attribuire all'assenza di scopo di lucro (su cui comunque infra), non ci vuol molto ad osservare come la prescritta natura privata, da un lato, e la richiesta "indipendenza" da enti pubblici (e da privati perseguenti finalità lucrative), dall'altro, pongano più di qualche problema per l'attribuzione della qualifica ai soggetti che, ai sensi del Codice, possono svolgere l'attività di valorizzazione.

Per quanto concerne, prima di tutto, i "soggetti giuridici" di cui all'art. 112, comma 5, è facile immaginare, difatti, che - qualunque sia la futura normazione secondaria - difficilmente potrà integrarsi il requisito dell'indipendenza dal controllo pubblico dell'ente o degli enti promotori anche nell'eventualità che sia ammessa la partecipazione di privati, specialmente nell'ipotesi in cui siano direttamente affidatari dell'uso dei beni culturali da valorizzare (e che, dunque, svolgano concretamente l'attività di valorizzazione) [10]. Il che, di per sé, già esclude la possibilità dell'attribuzione della qualità di imprenditore sociale, anche prescindendo dal fatto se tali soggetti consentano o meno la remunerazione del capitale eventualmente investito dai privati (cosa di cui, peraltro, si può fondatamente dubitare) e dal rispetto degli altri requisiti soggettivi richiesti dal decreto n. 155.

Certo è, comunque, che anche quando l'ente pubblico (magari territoriale) decidesse di rinunciare al "controllo" del soggetto costituito con i privati, l'attribuzione della qualificazione di imprenditore sociale sarebbe tutt'altro che agevole, stante la totale assenza di qualsivoglia clausola di salvezza nel decreto n. 155 (sull'impresa sociale) delle disposizioni speciali dettate dal Codice dei beni culturali. Con la conseguenza, forse paradossale, che in una tale ipotesi la stessa vigilanza sul "soggetto giuridico-imprenditore sociale" sarebbe rimessa, stante l'art. 17 del decreto n. 155, al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.

Per quanto concerne, invece, le persone giuridiche private senza fine di lucro che sono ammesse a partecipare ai soggetti giuridici di cui all'art. 112, comma 5, ancorché l'assenza di finalità lucrative, la natura privata del soggetto e la richiesta previsione statutaria ad operare nel settore della valorizzazione dei beni culturali sembrano individuare quali "partners perfetti" proprio i soggetti disciplinati dal decreto n. 155, v'è da segnalare il già ricordato limite costituito dal fatto che difficilmente tale partecipazione di per sé può tradursi in una attività economica produttiva di beni o servizi. E ciò per la semplice ragione che l'attività di valorizzazione (che è poi quella rilevante) è svolta dal soggetto partecipato o al limite da terzi (diversi dal privato partecipante per l'espressa esclusione dell'art. 115, comma 3) e non anche dal privato "partecipante". Il che, in definitiva, significa soltanto che chi è già imprenditore sociale nel settore culturale può ben essere uno dei partecipanti privati ai soggetti di cui all'art. 112, comma 5 (a patto che, naturalmente, non sia concessionario dei servizi), ma non anche che la partecipazione sia sufficiente ad attribuire la qualità di imprenditori sociali. Concetto che, detto in altri termini, implica che chi è già imprenditore del settore può anche decidere di partecipare a tali soggetti pubblico-privati ma più per spirito di mecenatismo culturale che per scelta imprenditoriale, niente di più.

Qualche notazione, infine, deve essere svolta anche con riguardo ai privati concessionari dell'attività di valorizzazione ("ad iniziativa pubblica") "esternalizzata" ex art. 115, comma 3, o titolari in proprio dell'attività di valorizzazione ("ad iniziativa privata") "sostenuta" ex art. 113, comma 1.

Si è già detto, difatti, che non essendo prevista alcuna limitazione soggettiva, nulla vieta che dette organizzazioni private (anche miste, ma purché non sottoposte al controllo pubblico) siano anche imprenditori sociali secondo il disposto del decreto n. 155, sempre che, naturalmente ne rispettino le specifiche indicazioni di natura funzionale ed organizzativa.

Difficile dire, tuttavia, quali potrebbero essere le ragioni che dovrebbero indurre le organizzazioni private ad una tale scelta, posto che l'assenza (per il momento) di qualsivoglia agevolazione di carattere contributivo, finanziario o fiscale finisce per penalizzare non poco l'effettiva adesione degli operatori al nuovo istituto [11].

Al riguardo, basti considerare che - a fronte dei numerosi vincoli ed oneri anche economici (specie se si superano i limiti previsti per l'obbligatoria presenza dell'organo di controllo) - per gli enti privi di personalità giuridica l'unico vero vantaggio è rappresentato dalla possibilità di godere del nuovo regime di responsabilità limitata e per gli enti che già ne possono beneficiare l'utilità si riduce alla sola possibilità di far uso della locuzione "impresa sociale" nella propria denominazione.

Ben poca cosa, considerando, da un lato, che l'espressa esenzione dal fallimento in favore della liquidazione coatta amministrativa ha il non proprio trascurabile pendant della vigilanza da parte del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e, dall'altro, che l'adottato regime di indistribuibilità assoluta degli utili finirà inevitabilmente per creare effetti disastrosi in tema di capitalizzazione delle nuove organizzazioni aspiranti a godere del regime dell'impresa sociale.

Il che, in definitiva, finisce quasi per fornire una buona "giustificazione" alla totale assenza di coordinamento normativo tra i due decreti, posto che, forse, l'essere imprenditore sociale non è una qualificazione di particolare appeal anche per coloro che aspirano ad operare nel settore dei beni culturali.

Ciò posto, si può passare a dare conto, più nel dettaglio, delle nuove disposizioni in tema di "impresa sociale" contenute nel d.lg. 155/2006.

2. Gli obiettivi della nuova disciplina e la (criticabile) scelta terminologica

L'obiettivo della novella, dichiarato già nella legge delega 13 giugno 2005, n. 118, era quello di dettare "una disciplina organica, ad integrazione delle norme dell'ordinamento civile, relativa alle imprese sociali, intendendosi come imprese sociali le organizzazioni private senza scopo di lucro che esercitano in via stabile e principale un'attività economica di produzione o di scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale" (art. 1, comma 1, legge 118/05).

L'ambizioso compito lasciato al legislatore delegato era, dunque, quello di ricondurre ad unità la frammentata legislazione esistente, passando da una normazione "per soggetti" ad una disciplina "per oggetto" dell'attività esercitata e disegnando così un nuovo, e possibilmente armonico, quadro normativo di riferimento per tutti coloro che, in qualunque forma (o quasi), esercitano un'impresa capace di produrre particolari utilità di carattere esterno e collettivo [12].

Una primissima considerazione è di carattere terminologico. La legge, all'art. 1, comma 1 [13], considerando "imprese sociali le organizzazioni private" che hanno certe caratteristiche e svolgono una certa attività, utilizza il termine impresa con riferimento non all'attività (come sarebbe corretto da un punto di vista tecnico) ma ai soggetti (ossia agli imprenditori), introducendo nell'ordinamento positivo italiano una "anomalia" [14] che, forse, vuole echeggiare il significato comunitario del termine.

Una simile e chiara presa di posizione del legislatore impone all'interprete un delicato "equilibrismo" lessicale tra due poli alternativi: correggere "forzosamente" il testo normativo e quindi riferire in modo sistematicamente più corretto la locuzione "impresa" alla sola attività (chiamando "imprenditore sociale" il soggetto che la esercita); oppure prendere atto della nuova polisemanticità dell'espressione "impresa sociale" usata (a volte) quale sinonimo di (una certa) attività d'impresa e (altre) quale formula sintetica per indicare (altresì) il soggetto che tale attività pone in essere.

A complicare il quadro, peraltro, v'è da rilevare che lo stesso testo normativo sembra aver optato per la seconda soluzione, nonostante la "asistematica" imprecisione lessicale che ne deriva. Mentre, difatti, agli artt. 1 e 2 della novella la "qualifica di impresa sociale" è attribuita alle "organizzazioni" che esercitano una certa attività, agli artt. 3, 5 e 6 (quasi a voler correggere la evidente confusione) i medesimi soggetti non sono più definiti "imprese sociali" ma, assai più correttamente, "organizzazioni che esercitano un'impresa sociale". L'esito, assai poco lusinghiero, è che, dunque, non potrebbe dirsi errata l'espressione secondo cui "l'impresa sociale è l'organizzazione che esercita un'impresa sociale" (sic!).

Ciò non di meno, se compito dell'interprete è quello di rendere coerente con il sistema anche le norme dettate da legislatori "creativi" o "distratti", appare utile (se non necessario) continuare a far riferimento al significato tradizionale delle espressioni tecniche fondamentali e, quindi, utilizzare la locuzione "imprenditore sociale" per il soggetto (definito dal legislatore "organizzazione che esercita un'impresa sociale") ed il sintagma "impresa sociale" per la (sola) attività da questi esercitata. Del resto, alla probabile accusa di scarsa eleganza espressiva si può contrapporre la sicura maggiore chiarezza sistematica.

3. La connotazione della sub-fattispecie imprenditore sociale

Come si è già anticipato, può assumere la qualifica di imprenditore sociale qualsivoglia organizzazione privata "costituita con atto pubblico" (art. 5, comma 1) [15] che eserciti "in via stabile e principale" un'attività d'impresa [16] in uno dei settori specificamente individuati dall'art. 2 senza limitare la fruizione dei beni o servizi ai soli "soci, associati o partecipi" (art. 1, comma 2) e che:

i) non persegua finalità lucrative [17] e non sia soggetta alla "direzione e al controllo" [18] di organizzazioni private lucrative o enti pubblici;

ii) abbia una particolare struttura di corporate governance, connotata dai principi di "elettività delle cariche sociali" [19], solidarietà [20] e coinvolgimento degli stakeholders [21].

Ne consegue, quindi, che l'imprenditore sociale è una species del genus di cui all'art. 2082 c.c., la cui specificità risiede, oltre che nello svolgimento di una certa attività, in alcune caratteristiche funzionali ed organizzative [22]. Certo è, tuttavia, che la qualificazione di "sociale" si aggiunge senza sostituirsi alle tradizionali qualificazioni dell'imprenditore ex art. 2082 c.c. in base alla natura dell'attività (commerciale, agricola e civile), alla dimensione (piccolo o medio grande) e alla tipologia dell'organizzazione (individuale o collettiva, societaria e non) [23]. Il che, evidentemente, impone l'applicazione di tutta la disciplina comune non espressamente derogata.

Ciò posto, si può analizzare più in dettaglio i requisiti "soggetti" dell'imprenditore sociale.

3.1. L'assenza di scopo di lucro

Il legislatore delegante ha lasciato poco spazio al delegato per quanto concerne la connotazione funzionale degli imprenditori sociali, chiedendo espressamente, una disciplina che, pur consentendo all'ente di realizzare una gestione lucrativa (c.d. "scopo di lucro oggettivo"), impedisse, sia durante il perdurare del vincolo associativo sia all'atto del suo scioglimento, ogni distribuzione ai soci (e partecipanti in genere) dei margini realizzati (vietando il c.d. "scopo di lucro soggettivo") [24]. Finalità da raggiungere attraverso un "congegno giuridico trilaterale" costituito da: i) l'obbligatoria accumulazione annuale di tutte le differenze positive tra ricavi e costi; ii) l'indivisibilità delle riserve così create; iii) la eterodestinazione delle relative somme al momento della liquidazione dell'ente [25].

Lo schema, peraltro, è tutt'altro che nuovo ed originale, essendo il medesimo imposto alle società cooperative "meritevoli" delle agevolazioni fiscali (oggi "cooperative a mutualità prevalente") da oltre settant'anni [26]. Dell'esperienza maturata al riguardo, tuttavia, il legislatore delegato non sembra aver fatto granché tesoro, riproponendo una disciplina di dettaglio eccessivamente rigida.

3.1.1. La "compressione" del lucro soggettivo nel perdurare del vincolo associativo

L'art. 3 della novella, dopo aver sancito la obbligatoria destinazione degli utili e degli avanzi di gestione "allo svolgimento dell'attività statutaria o ad incremento del patrimonio", pone un assoluto divieto di distribuzione dei margini realizzati dall'ente ("comunque denominati") e dei fondi e delle riserve "anche in forma indiretta".

A tal fine, con presunzione iuris et de iure, si considera indiretta distribuzione di utili "a) la corresponsione agli amministratori di compensi superiori a quelli previsti nelle imprese che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ed, in ogni caso, con un incremento massimo del venti per cento; b) la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori a quelli previsti dai contratti o accordi collettivi per le medesime qualifiche, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche professionalità; c) la remunerazione degli strumenti finanziari diversi dalle azioni o quote, a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, superiori di cinque punti percentuali al tasso ufficiale di riferimento".

Al riguardo, due sono le considerazioni che non possono omettersi.

La prima è che le presunzioni legali di indiretta distribuzione di utili, da un punto di vista meramente tecnico, sono tutt'altro che ineccepibili, soprattutto laddove fanno riferimento a non meglio definiti compensi "medi" "previsti nelle imprese che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni" anche per ciò che riguarda la remunerazione degli amministratori e dei lavoratori autonomi, come se anche in tal caso vi fossero accordi collettivi o compensi medi di settore cui poter fare agevolmente riferimento. Anche in tal caso, richiamare disposizioni già vigenti sarebbe stato, forse, più semplice e più efficace [27].

La seconda osservazione è che la scelta di vietare in modo assoluto la remunerazione del capitale di rischio (e di credito) apportato dai soci e dai partecipanti all'ente è scelta miope che porta con sé, inevitabilmente, gli enormi problemi di sottocapitalizzazione già vissuti dal sistema delle società cooperative sino a quando è stata imposta una regolamentazione analoga [28].

3.1.2. La eterodestinazione del patrimonio in ipotesi di "cessazione dell'attività"

Al fine di evitare che l'assenza di scopo di lucro, requisito essenziale per l'attribuzione della qualificazione, venga eluso, il decreto n. 155 detta una disciplina articolata e complessa in tema di liquidazione dell'ente e di operazioni straordinarie. In estrema sintesi, la disciplina prescrive l'obbligo di devolvere il "patrimonio residuo" (all'esito della liquidazione dell'ente) a favore di "organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici, secondo le norme statutarie" [29] in caso di liquidazione coatta amministrativa (art. 15, comma 2) e, testualmente, di "cessazione dell'impresa" (13, comma 3), intendendosi per tale oltre che la liquidazione volontaria dell'ente anche le operazioni di trasformazione, fusione, scissione e cessione d'azienda in cui "il beneficiario dell'atto" non è altra organizzazione che esercita un'impresa sociale (arg. ex art. 13, comma 6).

Al fine di evitare possibili elusioni dell'obbligo devolutivo, l'art. 13 sottopone a specifiche limitazioni le operazioni straordinarie di trasformazione, fusione e cessione d'azienda, per le quali è prescritta la preventiva obbligatoria notificazione al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e la relativa autorizzazione (pena l'inefficacia dei relativi atti negoziali), al quale è altresì delegato il compito di emanare delle apposite "linee guida" (art. 13, comma 2 e 4) con la specifica finalità, rispettivamente, di "preservare l'assenza di scopo di lucro di cui all'articolo 3 dei soggetti risultanti" dalla trasformazione, fusione o scissione e "il perseguimento delle finalità di interesse generale di cui all'articolo 2 da parte del cessionario" in ipotesi di cessione d'azienda (art. 13, comma 1).

Naturalmente, dare un giudizio sul sistema prima di leggere le "linee guida" che saranno emanate dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali ("sentita l'Agenzia per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale") è difficile. Certo è, tuttavia, che "pretendere" che un cessionario d'azienda che non sia a sua volta un'impresa sociale assicuri "il perseguimento delle finalità di interesse generale di cui all'art. 2" pare finalità di ardua realizzabilità. Ma tant'è, sicché l'operazione è teoricamente possibile senza obbligo di devoluzione [30].

3.2. La "struttura proprietaria": l'indipendenza da organizzazioni lucrative ed enti pubblici

L'art. 4 vieta che le imprese private con finalità lucrative e le amministrazioni pubbliche possano esercitare attività di direzione o possano detenere il "controllo" di enti che esercitano un'impresa sociale, presumendosi iuris et de iure sussistente l'attività di "direzione e controllo" [31] ogni qual volta un "soggetto, per previsioni statutarie o per qualsiasi altra ragione, abbia la facoltà di nomina della maggioranza degli organi di amministrazione" (art. 4, comma 1).

Alla violazione del divieto seguono diverse reazioni: prima di tutto l'annullabilità (entro 180 giorni) della decisione "assunta con il voto o l'influenza determinante" dei controllori illegittimi anche ad iniziativa del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (art. 4, comma 4); in secondo luogo, in caso di decisione avente ad oggetto la nomina di soggetti aventi "cariche sociali", la loro incompatibilità (e decadenza: art. 8, comma 2); in terzo luogo, l'avvio del procedimento sanzionatorio di cui 16, comma 4 (con possibile apertura della liquidazione coatta amministrativa dell'ente).

La statuita indipendenza dell'ente non è, tuttavia, principio di carattere assoluto. Al divieto di controllo da parte di imprese lucrative ed enti pubblici fa eco, difatti, da un lato, la ammessa possibilità di direzione e controllo da parte di soggetti diversi e, per l'altro, la costituzione di "gruppi di imprese sociali".

Nel primo caso troverà applicazione, "in quanto compatibile", la disciplina codicistica in tema di attività di direzione e coordinamento delle società di cui agli artt. 2497 ss. c.c. (e, in particolare, quindi, i previsti obblighi pubblicitari specifici e la connessa responsabilità della controllante per violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria). Nel secondo caso, il richiamo espresso alla disciplina del gruppo cooperativo paritetico di cui all'art. 2545-septies c.c. e l'obbligatorio deposito presso il registro delle imprese dell'"accordo di partecipazione" (art. 4, comma 2) dimostrano che i "gruppi di imprese sociali" previsti dalla disciplina speciale sono gruppi istituiti sulla base di contratti (paritetici o meno) aventi ad oggetto l'attività di direzione e coordinamento da parte di terzi.

4. La corporate governance: l'amministrazione, controllo e il coinvolgimento dei lavoratori e destinatari delle attività

Particolare attenzione è dedicata alla governance delle organizzazioni che aspirano alla qualificazione di imprenditore sociale.

Oltre al generale principio della "elettività" "della maggioranza dei componenti delle cariche sociali" (perlomeno per gli "enti associativi": art. 8, comma 1 [32]), la novella, agli artt. 8, 11 e 12, impone: i) la nomina di amministratori "professionali ed indipendenti"; ii) l'istituzionalizzazione del controllo interno da parte di sindaci e revisori contabili; iii) il "coinvolgimento" nella gestione dei lavoratori e dei destinatari dell'attività.

Benché, in vero, la legge delega nulla disponesse al riguardo, l'art. 8, comma 3, prescrive l'obbligatoria previsione nell'atto costitutivo di "specifici requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza per coloro che assumono cariche sociali". In realtà, l'assenza di qualunque specificità della norma [33] (che si limita solo ad imporre una previsione statutaria al riguardo) tradisce la sua scarsa ambizione di portata applicativa, finendo per legittimare prescrizioni statutarie altrettanto generiche e prive di effettivo valore discriminante.

Qualche requisito in più è prescritto per l'organo di controllo interno dall'art. 11 che dispone un originale sistema articolato diversamente a seconda che l'ente superi o meno due dei limiti indicati nell'art. 2435-bis, comma 1, c.c. in materia di bilancio in forma abbreviata o la loro metà [34].

Poco più, purtroppo, che una dichiarazione di intenti può essere, infine, considerata la prescrizione di cui all'art. 12 del decreto che, in tema di "coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari delle attività" nella gestione dell'impresa, rimette alla autonomia statutaria (e regolamentare) il compito di individuare (obbligatoriamente) i "meccanismi" attraverso i quali "lavoratori e destinatari delle attività possono esercitare un'influenza sulle decisioni che devono essere adottate nell'ambito dell'impresa, almeno in relazione alle questioni che incidano direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni e dei servizi prodotti o scambiati".

Il tiepido giudizio sulla efficacia della norma [35] è dovuto non tanto alla estrema genericità della prescrizione, quanto alla successiva specificazione che il coinvolgimento può realizzarsi anche mediante la semplice "informazione" (oltre che mediante "la consultazione o la partecipazione" alle decisioni). Con maggior enfasi, ma non con particolare maggiore enforcement, l'art. 14, comma 3, ha cura di precisare ulteriormente che i lavoratori, "a qualunque titolo prestino la loro opera" hanno "i diritti di informazione, consultazione e partecipazione nei termini e con le modalità specificate nei regolamenti aziendali o concordati dagli organi di amministrazione dell'impresa sociale con loro rappresentanti". Nessun livello minimo di tale obbligatorio coinvolgimento, neppure di semplice informazione, tuttavia è fissato dalla legge. Il che, in vero, è ben poca cosa, nonostante l'enfatica prescrizione dell'art. 14, comma 3, secondo cui "degli esiti del coinvolgimento deve essere fatta menzione nel bilancio sociale", visto che i soci di una cooperativa sociale hanno ben altri diritti di informazione [36] e, se anche lavoratori, ben altre disposizioni in tema di "coinvolgimento" nella gestione [37].

5. La disciplina "speciale" riservata all'imprenditore sociale: lo "statuto" dell'impresa sociale

In punto di disciplina, il legislatore speciale delinea un articolato e complesso nuovo (sub)statuto dell'imprenditore sociale, prescrivendo:

i) l'obbligo di iscrizione dell'atto costitutivo in una (nuova) apposita sezione del registro delle imprese (art. 5, comma 2);

ii) l'obbligo di tenuta delle scritture contabili prescritte per l'imprenditore commerciale non piccolo (dall'art. 2214 c.c.) e di redazione (e deposito) del c.d. "bilancio sociale" (art. 10);

iii) un particolare regime di responsabilità patrimoniale limitata (art. 6);

iv)  la vigilanza amministrativa da parte del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (art. 16) e l'assoggettamento a liquidazione coatta amministrata (con esonero dal fallimento: art. 15).

Al riguardo, diverse sono le osservazioni da svolgere.

Invero singolare, e certamente in controtendenza con l'evoluzione normativa più recente sul punto, è la disposizione dell'art. 5, comma 2, della novella con la quale si prescrive l'obbligo di deposito dell'atto costitutivo presso il (territorialmente competente) registro delle imprese "per l'iscrizione in apposita sezione". Iscrizione della quale, peraltro, non è chiara l'efficacia che, presumibilmente, dovrebbe essere di natura meramente dichiarativa ex art. 2193 c.c., sia perché l'obbligo di cui all'art. 5 non è tra quelli il cui mancato adempimento legittima il provvedimento amministrativo di automatico disconoscimento della qualifica di impresa sociale (ex art. 16, comma 4) sia perché è lo stesso legislatore speciale (all'art. 6, comma 1) a regolare (seppur implicitamente) l'ipotesi di imprese sociali non iscritte nel registro delle imprese (modificandone - come si dirà di qui a breve - l'ordinario regime di autonomia patrimoniale) [38].

Per quanto attiene, invece, agli obblighi di natura contabile, occorre rilevare, per un verso, che sino a che il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali non adotterà le linee guida prescritte all'art. 10, comma 2, il nuovo obbligo di redazione del c.d. "bilancio sociale" resta privo di portata cogente e, per l'altro, che l'espresso obbligo di deposito presso il registro delle imprese di un "documento che rappresenti adeguatamente la situazione patrimoniale ed economica dell'impresa" rappresenta una novità per tutti gli imprenditori (sociali) non societari [39].

Singolare, ancorché probabilmente opportuna, è la disposizione in tema di limitazione della responsabilità dettata dall'art. 6. La norma, fatto "salvo quanto già disposto in tema di responsabilità limitata per le diverse forme giuridiche previste dal libro V del codice civile", prescrive che per tutte le organizzazioni diverse dagli enti ecclesiastici e confessionali di cui all'art. 1, comma 3 "delle obbligazioni assunte risponde soltanto l'organizzazione con il suo patrimonio" (e, dunque, non anche i soci, associati o soggetti agenti) a condizione che il patrimonio dell'ente sia superiore a ventimila euro e a partire "dal momento della iscrizione nella apposita sezione del registro delle imprese".

Sicché, ogni imprenditore sociale (non confessionale [40]) diverso da quelle società per le quali il libro V del codice civile "già" prescrive un regime di responsabilità limitata può beneficiare della suddetta speciale limitazione di responsabilità alla duplice condizione che il patrimonio sia di almeno ventimila euro e che si sia adempiuto al prescritto obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (e, quindi, che l'organizzazione non sia "irregolare" nel senso sinora utilizzato per le società in nome collettivo e in accomandita semplice non iscritte nel registro delle imprese) [41].

Sotto la fuorviante rubrica "Funzioni di monitoraggio e ricerca" l'art. 16 della novella attribuisce al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali specifiche funzioni di vigilanza ispettiva finalizzata alla verifica delle prescrizioni imperative contenute nel decreto legislativo (comma 2) e delle "norme a tutela dei lavoratori" (comma 3), un generico potere di diffida alla regolarizzazione "entro un congruo termine" e, soprattutto, un importante potere sanzionatorio che merita attenzione (comma 4).

Testualmente, parrebbe che la norma si limiti a prevedere quale unica conseguenza sanzionatoria l'emanazione del provvedimento di "accertamento" della perdita della qualifica di impresa sociale e la conseguente cancellazione d'ufficio dell'ente dalla sezione speciale del registro delle imprese [42]. Il che, se ciò non impedisse all'ente di continuare ad operare (pur senza la qualità di imprenditore sociale), importerebbe la perdita altresì dello speciale regime di responsabilità limitata riservata ai soli imprenditori sociali e per di più "regolari" (ossia quando da e fin tanto che siano iscritti nel registro delle imprese: arg. ex art. 6, comma 1).

A più attento esame, tuttavia, la norma finisce per imporre anche l'apertura della procedura di liquidazione coatta dell'ente, laddove ha cura di precisare che "si applica l'articolo 13, comma 3", ovverosia la disposizione che prescrive, "in caso di cessazione dell'impresa", la obbligatoria devoluzione a terzi del patrimonio "residuo", ossia del patrimonio risultante all'esito della procedura di liquidazione dell'ente. Il che, ad onor del vero, non è conclusione da poco, specie se si pone attenzione ai presupposti previsti dal combinato disposto dei commi 3 e 4 dell'art. 16 per l'attivazione del "monolitico" procedimento sanzionatorio che, ad onor del vero, sembrano lasciare una sì ampia "discrezionalità" all'autorità amministrativa di vigilanza [43] da far temere per la "precarietà" dell'esistenza stessa delle organizzazioni che vogliano fregiarsi della qualifica di imprenditori sociali.

In sostanza, la neonata figura dell'imprenditore sociale pare destinata a una vita assai tormentata e, forse, anche a più di qualche ingloriosa fine anticipata.

 

Note

[1] Che, ai sensi dell'art. 111 del Codice, consiste "nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all'esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all'articolo 6", ovvero, non necessariamente, in attività d'impresa ai sensi dell'art. 2082 c.c. e, peraltro, per lo più affidate al settore pubblico, anche se è altresì espressamente precisato che "a tali attività possono concorrere, cooperare o partecipare soggetti privati".

[2] Dall'art. 6, del d.lg. 24 marzo 2006, n. 156.

[3] Norma che sarà ricordata più per le vorticose modifiche che per la sua concreta portata applicativa. Mentre, difatti, in poco più di un quinquennio ha subito ben quattro diversi interventi legislativi, rispettivamente nel 2000, 2001, 2002 e 2003 ed è stata oggetto di una decisione della Corte costituzionale, per converso si è limitata a disciplinare "effettivamente" (a seguito della modifica apportata dall'art. 4 della legge 29 dicembre 2000, n. 400) la sola costituzione di (o partecipazione a) fondazioni (con il d.m. 27 novembre 2001, n. 491).

[4] Inizialmente proprio per la suddetta attività di valorizzazione dei beni culturali e ambientali e, da ultimo (a seguito della modifica apportata al comma 1 dall'art. 80, comma 52, della legge 27 dicembre 2002, n. 289), per la attività di "gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale". Sul tema, in generale, v. N. Rocco di Torrepadula, Le società per la valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, n. 3/2001.

[5] Sul tema, cfr. G. Piperata, I servizi culturali nel nuovo ordinamento dei servizi degli enti locali, in Aedon, n. 3/2003 ove ampi riferimenti; e per gli aspetti più propriamente di diritto societario, ex multis, C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica locale fra diritto comune e diritto speciale, in Riv. dir. priv., 1999, 22 ss.; F. Cavazzuti, Società a partecipazione locale: saggio di diritto provvisorio, in Giur. comm., 1995, I, 685 ss. e G.F. Giampaolino, La costituzione delle società a partecipazione pubblica locale per la gestione dei servizi pubblici e l'autonomia privata degli enti pubblici territoriali, in Giur. comm., 1995, I, 998 ss.

[6] Salvo, tuttavia, doverne rispettare, forse, i principi di fondo: così, C. Barbati, Le esternalizzazioni nel settore della cultura e dell'arte, relazione al XVI Convegno associazione amministrativisti italo-spagnoli (Aais) tenutosi a Genova, nei giorni 25-27 maggio 2006, datt., spec. 9 ss.

[7] Piani, peraltro, che debbono essere la naturale "conseguenza" dei previsti accordi tra Stato, regioni ed altri enti pubblici territoriali finalizzati a "definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione".

[8] Qui si prescinde, per semplicità, dal problema dell'attività di gestione delle partecipazioni (c.d. attività di "holding") e dall'eventualità che il privato sia una società (nel qual caso, per molti, l'attribuzione della qualità di imprenditore non segue il principio di effettività dell'attività ex art. 2082 c.c.).

[9] Previste per "gli enti ecclesiastici" e "gli enti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese" e le cooperative sociali ed i loro consorzi, su cui v. infra nel testo.

[10] Non a caso, del resto, la precedente regolamentazione delle fondazioni costituite a norma dell'ora abrogato art. 10 d.lg. 368/1998 prevedeva un potere pubblico non soltanto di vigilanza e controllo, ma addirittura di indirizzo e direzione della gestione (anche con riguardo alla "adeguatezza delle spese di funzionamento in base a criteri di efficienza e di sana e prudente gestione", cfr. art. 13 d.m. 27 novembre 2001, n. 491). Sul punto, cfr. A. Canuti, Il regolamento attuativo dell'art. 10 d.lg. 368/1998: un primo commento, in Aedon, n. 2/2000 e S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni costituite e partecipate dal ministero per i Beni e le Attività culturali, in Aedon, n. 1/2002.

[11] In tal senso si sono già espressi i primi commentatori: C. Morelli, Impresa sociale senza aiuti fiscali, in Italia Oggi, 31 maggio 2005, 32; C. Bartelli, L'impresa sociale con il freno tirato, in Italia Oggi, 13 marzo 2006, 32; M. Di Pace, La nuova disciplina dell'impresa sociale, in Coop. e cons., 2006, 350 ss.

[12] Sulla legge delega v., per tutti, G.C.M. Rivolta, Profili giuridici dell'impresa sociale, in Giur. comm., 2004, 1161 ss.; G. Fauceglia, Impresa sociale: un anno al governo per disegnare la nuova disciplina - Un calco degli enti commerciali con l'eccezione dei fini istituzionali, in Guida al diritto, 2005, n. 29, 16 ss.; A. Fici, La legge delega sull'impresa sociale e i futuri scenari per il terzo settore (con particolare riguardo alle cooperative sociali), su www.judicium.it, p. 2.

[13] Riprendendo la identica formulazione della legge delega n. 118/2005.

[14] Segnala il problema G.C.M. Rivolta, Profili giuridici dell'impresa sociale, cit., 1162.

[15] Si esclude, quindi, che la qualità possa essere attribuita a "persone fisiche" e ad enti pubblici: al riguardo, diffusamente, A. Fici, La legge delega sull'impresa sociale e i futuri scenari per il terzo settore (con particolare riguardo alle cooperative sociali), cit., 9.

[16] Come ben testimoniato dall'art. 2, comma 2 e dall'art. 5, comma 2. Sul punto, v. diffusamente ancorché con riferimento al testo della legge delega A. Fici, La legge delega sull'impresa sociale e i futuri scenari per il terzo settore (con particolare riguardo alle cooperative sociali), cit., 5.

[17] Come correttamente ed autorevolmente sottolineato da G.C.M. Rivolta, Profili giuridici dell'impresa sociale, cit., 1168, il divieto è "elevato addirittura a requisito della fattispecie dell'impresa sociale", al pari, ad avviso di chi scrive, di tutte le altre prescrizioni di cui agli artt. 1, 2, 3 e 4, come è dimostrato dal disposto dell'art. 16, comma 3 (su cui v. quanto si dirà infra nel testo).

[18] Recte, come si dirà fra breve, "direzione e coordinamento".

[19] E' l'efficace espressione contenuta all'art. 1, comma 1, lett. b), n. 1 della legge delega 118/2005 alla quale il legislatore delegato ha dato attuazione con le articolate disposizioni in tema di struttura proprietaria (art. 4) e cariche sociali (art. 8), su cui v. infra nel testo.

[20] A cui è riconducibile il prescritto "principio di non discriminazione" (seppur soltanto "compatibilmente con la forma giuridica dell'ente") con riguardo alle "modalità di ammissione ed esclusione dei soci" e alla "disciplina del rapporto sociale" (art. 9).

[21] O, per usare le parole del legislatore, preveda "forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari delle attività" (art. 12).

[22] In via di eccezione, assumono la qualifica di imprenditori sociali "gli enti ecclesiastici" e "gli enti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese" purché "adottino un regolamento, in forma di scrittura privata autenticata, che recepisca le norme" del decreto e che contenga i requisiti richiesti per gli atti costitutivi (art. 1, comma 3) e le cooperative sociali ed i loro consorzi alla sola condizione che i relativi statuti prevedano l'obbligo di redazione del c.d. "bilancio sociale" (art. 10, comma 2) e le ricordate "forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari delle attività" (art. 12).

[23] Sull'ampio tema v., per tutti, A. Cetra, L'impresa collettiva non societaria, Torino, 2003, 10 ss. e, con riguardo al fenomeno societario, G. Marasà, Le "società" senza scopo di lucro, Milano, 1984, 350 ss.

[24] Sulla centralità del divieto di lucro soggettivo cfr. P. Schlesinger, Categorie dogmatiche e normative in tema di non profit organizations, in Gli Enti "non profit" in Italia, a cura di G. Ponzanelli, Padova, 1994, 277.

[25] Il tutto anche se si utilizza lo strumento della società lucrativa. Non è questa la sede per approfondire il tema della "neutralizzazione" delle forme giuridiche, su cui, per tutti, cfr. G. Santini, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1973, I, 151 ss.; P. Spada, La tipicità delle società, Padova, 1974, 84 ss. (spec. nota 127) e G. Marasà, Le "società" senza scopo di lucro, cit., 165 ss.

[26] La prima formulazione legislativa risale, difatti, all'art. 66, r.d. 30 dicembre 1929, n. 3269, poi riprodotto dal noto art. 26, d.lg. C.p.S. 14 dicembre 1947, n. 1577 e, da ultimo, fatto proprio (con modificazioni) dall'art. 2514 c.c. Sul punto, G. Bonfante, La legislazione cooperativa. Evoluzione e problemi, Milano, 1984, passim.

[27] La norma "echeggia" una disposizione di ben altro contenuto precettivo come è quella (ricordata da A. Fici, La legge delega sull'impresa sociale e i futuri scenari per il terzo settore (con particolare riguardo alle cooperative sociali), cit., 8) di cui all'art. 10, comma 6, d.lg. 4 dicembre 1997, n. 460, in tema di organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Sul tema, per tutti, v. AA.VV., La disciplina degli enti non profit, a cura di G. Marasà, Torino, 1998, passim.

[28] Sul punto, da ultimo v. l'elaborato lavoro di E. Cusa, Il socio finanziatore nelle cooperative, Milano, 2006, ove anche completi riferimenti di dottrina e giurisprudenza.

[29] Con le sole eccezioni degli enti ecclesiastici (che, evidentemente, possono conservare il patrimonio utilizzato per l'esercizio dell'impresa sociale) e delle società cooperative (che sono soggette alla particolare devoluzione a favore dei fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione di cui all'art. 11, legge 31 gennaio 1992, n. 59).

[30] Presumibilmente allorquando si effettuata a favore di soggetti che, ancorché non imprenditori sociali, siano comunque non lucrativi (società cooperative, anche non sociali, consorzi, associazioni e fondazioni).

[31] E' appena il caso di segnalare che la singolare "locuzione" utilizzata dal legislatore pare ignorare il fatto che, nel diritto societario, l'attività di direzione (e coordinamento: art. 2497 c.c.) è cosa ben diversa dal mero "controllo" (art. 2359 c.c.), non soltanto perché il primo è un concetto "dinamico" (l'esercizio di una certa attività) ed il secondo un fenomeno "statico" (la sussistenza di un certo potere in capo ad un soggetto), quanto e soprattutto perché - ancorché sia del tutto normale che chi detenga il controllo eserciti anche un'attività di direzione (tanto che l'art. 2497-sexies c.c. presume, salvo la prova contraria, l'esercizio di una tale attività proprio dalla sussistenza del controllo) - è altresì ben possibile che il soggetto controllante non eserciti di fatto alcuna interferenza sulla gestione dell'impresa del soggetto controllato (secondo la efficace espressione di P. Ferro Luzzi, Indicazione negli atti e nella corrispondenza circa la soggezione della società a direzione e coordinamento di altra società, in www.dircomm.it, aprile 2004, è tale l'"attività che incida, direttamente condizionandolo, sull'esercizio dell'impresa della società sottoposta").

[32] Norma, peraltro, di non semplicissima interpretazione sia per il generico riferimento a non meglio specificati "soggetti esterni alla organizzazione" (che, presumibilmente, non dovrebbero essere i "destinatari" dell'attività), sia per la non chiarissima clausola di salvezza di "quanto specificamente previsto per ogni tipo di ente dalle norme legali e statutarie e compatibilmente con la sua natura" che, in verità, può essere fonte di più di qualche incertezza applicativa.

[33] Facilmente evitabile anche semplicemente generalizzando le sole cause di ineleggibilità e decadenza di cui all'art. 2382 c.c.

[34] Mentre gli enti che non superano due dei suddetti limiti "ridotti della metà" sono del tutto esonerati dall'obbligo di nominare soggetti deputati al controllo amministrativo-gestionale e contabile, gli enti che superano due dei suddetti limiti "ridotti della metà" sono tenuti a nominare "uno o più sindaci" con funzioni di vigilanza "sull'osservanza della legge e dello statuto e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo e contabile" oltre che di "monitoraggio dell'osservanza delle finalità sociali", ma sono esonerati dal controllo contabile. Esonero che invece non vale per gli enti che superano due dei tre limiti interamente considerati, i quali sono, per l'appunto, tenuti ad affidare a soggetti professionalmente qualificati (e cioè a "uno o più revisori contabili iscritti nel registro istituito presso il ministero della Giustizia") proprio il controllo contabile, con la particolarità che è del tutto facoltativo sommare o meno questa funzione di controllo con quella di verifica ammistrativo-gestionale (alla sola condizione che gli affidatari del controllo contabile, siano o meno anche "sindaci", posseggano il suddetto requisito di professionalità).

[35] Che, peraltro, riecheggia l'art. 2, lett. h) e lett. k) della direttiva 2003/72/CE del 22 luglio 2003 sul coinvolgimento dei lavoratori nella società cooperativa europea, su cui, cfr. A. Fici, La legge delega sull'impresa sociale e i futuri scenari per il terzo settore (con particolare riguardo alle cooperative sociali), cit., 23, il quale correttamente osserva che "Il coinvolgimento è (...) una nozione ampia che comprende forme molto deboli di influenza, quali la semplice informazione, e forme forti, quali la partecipazione nell'organo di gestione dell'impresa, nonché forme intermedie, quali la consultazione o la partecipazione nell'organo di controllo interno dell'impresa".

[36] Basti dire che per le cooperative in forma di società per azioni l'art. 2545-bis c.c. prevede, accanto al diritto individuale di ogni socio di ispezionare il libro dei soci e quello delle delibere e delle adunanze dell'assemblea, il diritto del decimo del numero complessivo dei soci o del ventesimo se la cooperativa ha più di tremila soci), di ispezionare i libri relativi all'amministrazione della società (libro delle adunanze e delle delibere del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo, se esiste). Nel caso, invece, delle cooperative rette dal modello statutario delle società a responsabilità limitata (nei casi consentiti od imposti dai nuovi artt. 2519 e 2522 c.c.) il diritto di consultazione dei "libri sociali" e dei "documenti relativi all'amministrazione" è attribuito a ciascun socio indipendentemente dall'esistenza del collegio sindacale ed unitamente al più generale (ed importante) diritto individuale di "avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali" (riconosciuto dal nuovo art. 2476, comma 2, c.c. a tutti i soci che "non partecipano all'amministrazione").

[37] In un singolare coacervo di disposizioni di varia natura e portata, difatti, l'art. 1, comma 2, della legge 3 aprile 2001, n. 142 ha cura di precisare che i soci cooperatori delle società cooperative di produzione e lavoro: "a) concorrono alla gestione dell'impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell'impresa; b) partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell'azienda; c) contribuiscono alla formazione del capitale sociale e partecipano al rischio d'impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione". Sul punto, ex multis, cfr. F. Alleva, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Società, 2001, 643 ss.; L.F. Paolucci, La legge 142/2001 e le innovazioni sui soci lavoratori, in AA.VV. Le nuove norme su cooperative e socio lavoratore, Bologna, 2001, 17 ss.; AA.VV., La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Le nuove leggi civili commentate, 2002, 350 ss.

[38] Del resto non nuova per le iscrizione nelle sezioni speciali, stante l'espressa indicazione in tal senso contenuta anche all'art. 2 del d.lg. 18 maggio 2001, n. 228, secondo cui, per l'appunto, "l'iscrizione degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici esercenti attività agricola nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all'articolo 2188 e seguenti del codice civile, oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, ha l'efficacia di cui all'articolo 2193 del codice civile".

[39] Non pare nuovo, invece, l'obbligo di redigere un simile documento che, in realtà, già discende dall'art. 2217 c.c. (e che, difficilmente può essere considerato qualcosa di diverso da un bilancio di esercizio redatto secondo le prescrizioni, ovviamente in quanto compatibili, di cui agli artt. 2423 ss. c.c.).

[40] Ad onor del vero, la legge delega non prescrive alcuna discriminazione in tal senso all'art. 1, lett. b), n. 8 e, quindi, l'esclusione potrebbe anche suscitare qualche dubbio di eccesso di delega.

[41] La disposizione, tuttavia, è sistematicamente insidiosa, rompendo il binomio sinora inscindibile tra autonomia patrimoniale perfetta e personalità giuridica e, con esso, il corollario della efficacia costitutiva della pubblicità costitutiva dell'ente (ex art. 2331 c.c. per le società di capitali e art. 41 c.c. per i comitati) e, quindi, merita maggiore attenzione.

[42] Così pare orientato M. Di Pace, La nuova disciplina dell'impresa sociale, cit., 353, il quale, tuttavia, non pare porsi il problema.

[43] Che, purtroppo, non è una autorità amministrativa indipendente: cfr. A. Fici, La legge delega sull'impresa sociale e i futuri scenari per il terzo settore (con particolare riguardo alle cooperative sociali), cit., 25.

 

 



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