Sommario: 1. Premessa. - 2. Le due riforme: principi generali e differenze. - 3. Il servizio culturale dell'ente locale ed il carattere della rilevanza economica. - 4. Le nuove dinamiche organizzative dei servizi culturali degli enti locali. - 5. Considerazioni conclusive.
In Italia, si sa, le riforme sono come gli esami: non finiscono mai. E questa regola ha trovato recentemente un'ennesima conferma nella vicenda legislativa che ha interessato i servizi pubblici locali. Questi, infatti, dopo un'attesa durata numerosi anni e dopo diversi tentativi falliti, hanno ottenuto grazie all'art. 35, legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per il 2002) una nuova disciplina generale di riferimento, la quale ha completamente rivoluzionato la ratio giuridica su cui si è basato per molti anni l'istituto in questione, a partire dalla prima impostazione contenuta nella legge 29 marzo 1903, n. 103, in seguito sostanzialmente confermata sia dagli artt. 22 e ss. della legge 8 giugno 1990, n. 142, sia dalla versione originaria degli artt. 113 e ss., d.lg. 18 agosto 2000, n. 267. Tuttavia, non c'è stato neanche il tempo di far entrare pienamente a regime le nuove regole che negli ultimi mesi del 2003 la disciplina contenuta negli art. 113 e ss. del d.lg. n. 267/2000 è stata riscritta nei suoi aspetti più importanti per ben due volte: prima dall'art. 14, d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (conv. in legge 24 novembre 2003, n. 326) e subito dopo dall'art. 4, comma 234, legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria per il 2004).
Tali vicende non possono suscitare nell'interprete un eccessivo stupore per almeno due ragioni. In primo luogo, perché l'esperienza dimostra che la riforma portata in profondità dal legislatore in un rilevante settore di azione dei pubblici poteri necessita sempre di correttivi e aggiustamenti proprio a breve distanza dalla sua entrata in vigore. In secondo luogo, perché un intervento correttivo risultava obbligato al fine di eliminare alcuni punti deboli della riforma del 2001, in particolare evidenziati, rispetto al diritto ed alle politiche comunitarie, dall'Unione europea con l'avvio di un procedimento di infrazione e, rispetto al nuovo sistema di articolazione dei pubblici poteri risultante dalla modifica al titolo V Cost., dalle regioni con la proposizione di alcuni ricorsi alla Corte costituzionale.
Quello che, invece, non convince agli occhi dell'interprete non è tanto la scelta del legislatore italiano di ritoccare la riforma, anche in passaggi fondamentali, lasciandone sostanzialmente inalterata l'impostazione iniziale, quanto quella di basare l'intervento correttivo del 2003 su di una politica del diritto che sembra rispondere a logiche non proprio compatibili con quelle che hanno sostenuto la riforma del 2001. Ciò, tra l'altro, rischia di determinare due possibili conseguenze negative: primo, un processo di arretramento del settore dei servizi pubblici locali verso condizioni di organizzazione e di gestione che, invece, si intendeva superare, cioè un vero e proprio ritorno alle logiche monopolistiche del passato, come è stato da subito denunciato da attenta dottrina [1]; secondo, un abbassamento del grado di certezza riguardo al diritto dei servizi pubblici locali, con conseguente potenziamento del ruolo del giudice amministrativo chiamato a sindacare le scelte compiute dagli enti locali.
E proprio l'incertezza sulle regole da applicare caratterizza in questo momento il particolare settore dei servizi culturali degli enti locali nel passaggio dal vecchio al nuovo regime normativo. A quale tipologia di servizi pubblici locali appartengono quelli culturali: a quelli con o a quelli senza rilevanza economica? Quanta discrezionalità spetta alle amministrazioni nell'organizzazione di tali servizi? E ancora: quali modelli gestori possono essere utilizzati in concreto? Nelle pagine che seguono si cercherà di dare qualche risposta proprio a tali interrogativi. Prima, però, può essere utile - sia pure in termini sommari - riassumere gli aspetti più importanti e le differenze che caratterizzano i due recenti interventi di riforma del settore dei servizi pubblici locali.
2. Le due riforme: principi generali e differenze
Come si è avuto modo di anticipare, l'art. 35, legge n. 448/2001 e l'art. 14, d.l. 269/2003 introducono due riforme dell'ordinamento generale dei servizi pubblici locali le quali, pur integrandosi sotto numerosi aspetti, presentano tuttavia molteplici punti di difformità.
Come noto, la riforma del 2001 [2], modificando gli art. 113 e ss., d.lg. n. 267/2000, aveva introdotto una diversificazione degli statuti organizzativi dei servizi pubblici locali a seconda della rilevanza industriale o meno dei servizi stessi. Per i servizi di rilevanza industriale, infatti, lo statuto organizzativo delineato nella nuova versione dell'art. 113, d.lg. n. 267/2000, si articolava secondo i seguenti principi e linee guida: ampliamento del ruolo regolativo dell'ente locale; proprietà pubblica delle reti; tendenziale separazione della gestione della rete dalla erogazione del servizio; parziale liberalizzazione attraverso la previsione di un meccanismo di concorrenza per il mercato con riferimento all'erogazione dei servizi di rilevanza industriale; possibile privatizzazione sostanziale delle società miste; definizione del regime transitorio. Viceversa, per i servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale il nuovo art. 113-bis, d.lg. n. 267/2000, confermava lo statuto organizzativo valido in precedenza per tutti i servizi degli enti locali, fondato sull'affidamento diretto dell'attività e consistente in cinque modelli tipici di gestione (gestione in economia; istituzione; azienda speciale, anche consortile; società miste; affidamento a terzi), salvo aggiungerne uno nuovo, rappresentato dalla possibilità di gestire i servizi culturali e del tempo libero anche attraverso fondazioni o associazioni costituite o partecipate dagli enti locali. Infine, l'art. 35, comma 16, legge n. 448/2001 affidava concretamente l'attuazione della riforma ad un regolamento governativo che avrebbe dovuto - tra l'altro - elencare i singoli servizi di rilevanza industriale, la cui mancata emanazione nei termini previsti non ha impedito ai destinatari di iniziare a dare attuazione alla riforma medesima.
L'art. 14, d.l. n. 269/2003, se da un lato lascia inalterate molte disposizioni dell'ordinamento generale dei servizi pubblici locali così come delineato dalla riforma del 2001, dall'altro, invece, introduce un'innovativa disciplina dell'istituto in questione, di cui in questa sede devono essere richiamati sinteticamente i principali passaggi.
Innanzitutto, il carattere - non facilmente definibile - dell'industrialità del servizio utilizzato per distinguere i due differenti statuti organizzativi è stato sostituito da quello - ancor più vago, come vedremo - dell'economicità. Inoltre, tale novità si accompagna alla scelta - obbligata per motivi di compatibilità con il nuovo dettato costituzionale - di eliminare il passaggio regolamentare, previsto dal riformatore del 2001 al fine di definire direttamente le tipologie di servizi da ricondurre ai modelli gestionali dell'art. 113, d.lg. n. 267/2000, ed indirettamente anche il campo di applicazione dell'art. 113-bis, d.lg. cit.
In secondo luogo, l'art. 14, d.l. n. 269/2003, riscrive il modello organizzativo dei servizi di rilevanza economica, attenuando notevolmente il meccanismo di concorrenza per il mercato voluto dalla riforma del 2001 e generalizzando per il settore in questione il criterio dell'affidamento in house che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha ritenuto compatibile con i principi ed il diritto comunitario [3]. Infatti, la nuova versione del comma 5 dell'art. 113, d.lg. n. 267/2000, accanto all'ipotesi originaria di affidamento a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica, prevede due nuove opzioni organizzative: l'affidamento diretto "a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche", o in alternativa "a società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano".
Infine, sempre l'art. 14 più volte citato ridefinisce anche gli schemi organizzativi dei servizi privi di rilevanza economica riducendo le possibili soluzioni gestionali adottabili in concreto. Infatti, il nuovo testo dell'art. 113-bis, d.lg. n. 267/2000, da un lato, conferma alcune forme di gestione: la gestione in economia, l'istituzione, l'azienda speciale e l'associazione o fondazione per i soli servizi culturali e del tempo libero. Dall'altro, invece, modifica il precedente impianto organizzativo, considerato che, non solo ammette l'affidamento diretto del servizio a società a condizione che questa sia legata all'ente locale di riferimento da un rapporto c.d. in house, ma non prevede più il meccanismo concorsuale dell'affidamento a terzi per ragioni tecniche, economiche o di utilità sociale.
3. Il servizio culturale dell'ente locale ed il carattere della rilevanza economica
Una volta concluso il rapido exursus tra le principali novità della recente riforma dei servizi pubblici locali diviene necessario individuare lo statuto organizzativo applicabile ai servizi culturali dell'ente locale. Per far questo, bisogna per prima cosa trovare qualche elemento interpretativo idoneo a chiarire a quale categoria - economica o meno - di servizio locale siano riconducibili le attività di servizio culturale erogate a livello comunale.
Come si ricorderà, nell'impostazione voluta dal legislatore del 2001 l'operazione interpretativa risultava semplificata dalla previsione di un regolamento attuativo chiamato a definire tassativamente tutte le attività da considerare servizi locali a rilevanza industriale e, come tali, uniche destinatarie dello statuto organizzativo previsto dall'art. 113. Viceversa, nell'attuale impostazione il legislatore non ha confermato l'intervento regolamentare di individuazione delle tipologie oggetto di applicazione dell'articolo citato e non ha neanche indicato qualche possibile criterio da utilizzare per individuare in concreto la rilevanza economica o meno del servizio.
Spetta, pertanto, all'interprete trovare gli spunti utili a dare un possibile significato all'elemento dell'economicità del servizio, in particolare stabilendo se tale elemento rappresenti una caratteristica che attiene alla natura della attività ovvero se sia da considerarsi un attributo che le può essere riconosciuto di volta in volta a seconda di come è stata organizzata. Si tratta, tuttavia, di una operazione non semplice, considerata la scarsa chiarezza al riguardo presente nel testo legislativo e la pluralità di percorsi interpretativi in astratto perseguibili. Può essere utile in questa sede cercare, compatibilmente con gli spazi a disposizione, di riassumere le principali opzioni interpretative che potrebbero essere formulate.
a. Una prima lettura può essere quella che valorizza l'espresso richiamo dei servizi culturali nell'ambito delle disposizioni dedicate ai servizi privi di rilevanza economica. Come già accennato, infatti, l'art. 113-bis, comma 3, d.lg. n. 267/2000, riconosce agli enti locali la facoltà di affidare direttamente servizi culturali e del tempo libero ad associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate. Pertanto, si potrebbe sostenere che la riserva di un apposito modello gestorio per i servizi culturali (e del tempo libero) tra quelli previsti per i servizi locali privi di rilevanza economica sottintende l'intenzione del legislatore di considerare le attività in questione come tipiche manifestazioni della categoria presa in considerazione dall'art. 113-bis. Tuttavia, tale ricostruzione appare eccessivamente semplicistica, in quanto permette di aggirare il problema piuttosto che risolverlo.
b. Altrettanto semplicistica e di scarso valore eziologico è l'interpretazione che vuole la riproposizione, dietro la distinzione tra servizi di rilevanza economica e non, della precedente distinzione tra servizi di rilevanza industriale e non. In altri termini, la rilevanza economica non sarebbe altro che un modo per indicare quei servizi che nel precedente regime avrebbero dovuto rappresentare le attività caratterizzate dalla rilevanza industriale: ossia, i principali servizi erogati dagli enti locali, quali il servizio idrico, i rsu, il trasporto locale, il gas naturale e l'energia elettrica. Del resto, di tale impostazione sembra esservi traccia in due recenti interventi legislativi regionali, i quali hanno disciplinato i servizi pubblici locali a rilevanza economica, evitando di darne una nozione puntuale e preferendo procedere ad una elencazione che contiene, di fatto, i servizi considerati di rilevanza industriale [4]. In ogni caso, anche tale interpretazione non sembra sostenibile, soprattutto perché avrebbe l'effetto di far apparire una delle principali novità della riforma del 2003 come una vera e propria operazione gattopardesca. Inoltre, essa non tiene conto di un dato oramai comunemente accettato: cioè, che i servizi di rilevanza economica non coincidono con i servizi di rilevanza industriale, in quanto i secondi possono essere al massimo considerati una sottocategoria dei primi, quella che più di ogni altra si differenzia dalle altre tipologie di servizi, in primo luogo quelli c.d. sociali [5].
c. Una terza soluzione interpretativa potrebbe essere proposta sovrapponendo la distinzione tra servizi a rilevanza economica e non a quella già nota ai Trattati ed alle istituzioni comunitarie tra servizi di interesse economico generale e meri servizi di interesse generale [6]. Come ricordato in più occasioni dalla Commissione UE, la distinzione richiamata ha acquisito di recente un'importanza fondamentale ai fini dell'applicazione del diritto comunitario [7]. Infatti, siccome le norme relative al mercato interno e alla concorrenza non si applicano generalmente alle attività non economiche, dall'ambito di applicazione delle stesse sono destinati a rimanere esclusi anche i servizi d'interesse generale nella misura in cui essi siano attività non economiche. Pertanto, inizialmente la Commissione ha precisato la distinzione fra servizi di natura economica e servizi di natura non economica, utilizzando il criterio in più occasioni proposto dal giudice comunitario secondo il quale ogni attività che implica l'offerta di beni e servizi su un dato mercato è un'attività economica [8]. In seguito, si è cercato anche di compilare un elenco dei servizi di interesse generale di natura non economica, ma tale tentativo è stato ben presto accantonato dalla Commissione, stante il fatto che il confine tra le due categorie di servizi cambia continuamente a causa delle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali che interessano i mercati di riferimento. Tuttavia, si deve comunque rilevare che tutti i documenti comunitari richiamati concordano sull'esistenza di un nucleo duro di attività non economiche, meno esposto al carattere dinamico e mutevole della distinzione, ricomprendente quelle attività connesse a prerogative dello Stato ovvero a settori sensibili, tra i quali rientra - oltre all'istruzione, alla sanità ed ai servizi sociali - anche la cultura [9]. Ne discende allora che se si aderisce ad una ricostruzione che sovrappone il concetto di servizio di rilevanza economica introdotto dall'art. 14, d.l. n. 269/2003, a quello di servizio di interesse economico generale tipico dell'ordinamento comunitario, diviene elevato il rischio di dover considerare sempre i servizi culturali come servizi non economici, stante appunto la loro caratterizzazione quali attività connesse ad un settore sensibile come quello della cultura.
d. Oltre al significato ricavabile dal contesto giuridico europeo, il concetto di attività economica può essere ricostruito anche alla luce dell'ordinamento interno, in primo luogo richiamando l'art. 2082, c.c. ai sensi del quale tale tipologia di attività rappresenta la principale caratteristica dell'imprenditore [10]. E' ormai opinione comune quella che vuole il carattere dell'economicità richiamato dall'art. 2082, c.c., riferibile solo a quelle attività in grado di essere condotte in modo da produrre degli utili e, quindi, di garantire almeno la copertura dei costi di produzione e, in ultima analisi, l'autosufficienza nel mercato. Del resto, a tale comune opinione si è arrivati proprio tentando di dare un significato al criterio di economicità che in passato molte leggi richiedevano con riferimento alle imprese pubbliche operanti nel settore delle partecipazioni statali [11]. In tale contesto, allora, la rilevanza economica potrebbe essere riconosciuta ai singoli servizi locali non a priori come attributo riguardante la natura dell'attività, ma soltanto come conseguenza del modello gestionale scelto dall'amministrazione per la loro organizzazione. In altri termini, la rilevanza economica del servizio pubblico locale deriverebbe dalla decisione dell'ente di procedere alla gestione dello stesso secondo modalità in astratto idonee a garantire le entrate necessarie per coprire quantomeno i costi di produzione. Viceversa, la rilevanza economica andrebbe esclusa per quei servizi per i quali l'amministrazione intende assicurare la copertura dei costi ricorrendo alla fiscalità generale ovvero applicando prezzi politici [12]. Del resto, di tale impostazione c'è già traccia in un progetto di legge regionale di iniziativa della Giunta della regione Emilia-Romagna, di disciplina dei servizi pubblici regionali e locali [13]. Infatti, ai sensi dell'art. 1, del cit. p.d.l.r., mentre per "servizi pubblici economici", si intendono i servizi pubblici "circa i quali i costi sono integralmente a carico degli utenti, senza che il soggetto erogatore fruisca in via ordinaria di trasferimenti di risorse pubbliche, fermi restando i benefici correlati ad obblighi di servizio pubblico, nonché gli ausili pubblici ammessi dalla normativa vigente", al contrario, si indicano come "servizi pubblici non economici", quei servizi pubblici "circa i quali i costi non sono integralmente a carico dagli utenti, e il soggetto erogatore beneficia in via ordinaria di trasferimenti di risorse pubbliche". Inoltre, anche la dottrina più attenta alle vicende dei beni e dei servizi culturali sembra ritenere convincente una simile ricostruzione. Infatti, chi ha affermato che "non può essere escluso che il servizio culturale possa assumere connotazioni di "rilevanza economica", così soggiacendo alle forme di gestione di cui all'art. 113", ha anche riconosciuto che tale eventualità sostanzialmente dipende dalla scelta organizzativo-gestionale compiuta dalla singola amministrazione in concreto [14].
Delle ricostruzioni richiamate l'ultima sembra essere quella più convincente; e ciò per diversi ordini di ragioni.
In primo luogo, la tesi da ultimo prospettata troverebbe un suo fondamento anche nell'art. 112, comma 1, d.lg. n. 267/2000, nella parte in cui indica l'oggetto del servizio pubblico locale nella "produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali". Infatti, è stato già chiarito che l'attività di produzione di beni e di servizi cui fa riferimento l'articolo citato è da intendersi "nel significato proprio dell'art. 2082 c.c." [15]. Ciò del resto si lega all'osservazione ancora più radicale secondo la quale la stessa nozione di servizio pubblico avrebbe sempre un'origine economica, in quanto locuzione utilizzata dai giuristi per indicare attività in astratto organizzabili secondo metodi economici [16].
In secondo luogo, quanto affermato sub d. confermerebbe la conclusione alla quale era già arrivata - quasi unanimemente - la dottrina che si è occupata del settore in questione, secondo la quale il servizio pubblico locale rappresenta una categoria unitaria, contenente una pluralità di attività la cui rilevanza economica o meno è la semplice conseguenza della scelta discrezionale operata dall'amministrazione locale con riferimento all'organizzazione del servizio [17].
Inoltre, una tale ricostruzione valorizzerebbe l'autonomia, in primo luogo organizzativa, degli enti locali, considerato che la distinzione in concreto tra le due categorie di servizi spetterebbe a questi ultimi caso per caso a seconda della scelta discrezionale del modello gestionale che si intende dare ad una particolare attività di servizio pubblico. In altri termini, anche sotto tale profilo troverebbe conferma quanto da tempo affermato da autorevole dottrina, secondo la quale il servizio pubblico risulta caratterizzato da un ineliminabile "momento politico" nella scelta del modello economico o non economico in base al quale gestire una attività di produzione di beni o servizi [18].
4. Le nuove dinamiche organizzative dei servizi culturali degli enti locali
Il dato legislativo riguardante l'organizzazione dei servizi pubblici locali è destinato ad acquisire un ruolo centrale in un contesto interpretativo nel quale la rilevanza economica o meno del servizio rappresenta una conseguenza del modello gestionale discrezionalmente scelto dall'ente locale. Sotto tale profilo, il legislatore del 2003 compie una scelta netta: da un lato, colloca nell'art. 113, d.lg. n. 267/2000, uno statuto organizzativo contenente formule gestorie aprioristicamente ritenute compatibili con tipologie di servizio locali consistenti in attività economiche; dall'altro, invece, affida all'art. 113-bis, d.lg. cit., la disciplina dei modelli strutturali utilizzabili in contesti di servizi privi di rilevanza economica. Spetta, poi, all'ente locale scegliere in concreto il modello gestionale da adattare al servizio che si intende organizzare, manifestando in questo modo la volontà dell'ente di riconoscere ed assegnare valenza economica o meno all'attività in questione. E' utile, tuttavia, precisare che tale scelta, pur essendo discrezionale, deve comunque trovare il proprio fondamento in precisi elementi di fatto idonei a giustificare la decisione compiuta e non deve, invece, apparire il frutto di una mera e arbitraria preferenza da parte dell'ente su singole opzioni organizzative. In particolare, non sembra pensabile che gli enti locali approfittino della mancata definizione legislativa della rilevanza economica del servizio pubblico locale per abusare del possibile ricorso ai modelli di gestione pubblica diretta per organizzare servizi rispetto ai quali oramai sussistono condizioni economiche e tecnologiche in grado di garantire modelli di intervento più rispettosi del mercato e della concorrenza.
Passando al caso specifico dei servizi culturali degli enti locali, anche se - come già anticipato - non sembrano esserci ostacoli alla possibile organizzazione degli stessi attraverso i modelli previsti dal nuovo art. 113, d.lg. n. 267/2000, per i servizi con rilevanza economica, tuttavia, è da presumere che prevalentemente saranno i modelli gestionali fissati dall'art. 113-bis, d.lg. cit., ad essere prescelti in concreto nella maggior parte delle ipotesi in cui si presenterà l'occasione di procedere all'organizzazione di tali attività.
Proprio con riferimento alla disposizione da ultimo richiamata, è utile ricordare che, sotto il profilo organizzativo, la precedente versione dell'art. 113-bis, d.lg. n. 267/2000, indicava sei diverse formule gestorie per i servizi di tipo culturale dell'ente locale, raggruppabili - come in altra occasione segnalato - in tre macro modelli organizzativi: 1. il modello dell'esternalizzazione, caratterizzato dalla scelta dell'ente locale di provvedere all'erogazione di un servizio culturale attraverso l'affidamento con gara ad un operatore esterno all'amministrazione dell'ente medesimo; 2. il modello della collaborazione, legato all'intenzione dell'ente locale di provvedere alla gestione del servizio culturale mediante figure organizzatorie in grado di assicurare una fattiva cooperazione tra pubblico e privato, come le società miste, le associazioni o le fondazioni; 3. il modello dell'intervento diretto, contenente le ipotesi residuali in cui l'ente locale decida di gestire il servizio culturale in prima persona oppure attraverso una propria articolazione strutturale, ad esempio l'istituzione [19].
La riforma del 2003, ridefinendo l'ordinamento generale dei servizi pubblici locali a seconda della rilevanza economica o meno degli stessi, modifica anche sotto tale profilo il precedente assetto organizzativo-gestionale.
Innanzitutto, il modello dell'esternalizzazione diviene una dinamica esclusiva dello statuto dei servizi a rilevanza economica (art. 113, comma 5, lett. a), t.u.e.l.), nel senso che l'abrogazione del comma 4, art. 113-bis, t.u.e.l., esclude l'affidamento a terzi con gara dell'attività dai moduli gestionali utilizzabili per l'organizzazione dei servizi locali privi di rilevanza economica. Forse il riferimento fatto dal comma 4 citato alle "ragioni... economiche" quale possibile presupposto applicativo del modello gestorio ha spinto il legislatore del 2003 a considerare non più compatibile l'affidamento a terzi con attività di servizio destinate a perdere qualsiasi rilevanza economica. Tuttavia, a nostro avviso, l'abrogazione in questione sembra un po' troppo eccessiva, considerando che l'esternalizzazione di un servizio non economico attraverso l'affidamento a terzi avrebbe potuto continuare a trovare una sua giustificazione nelle altre condizioni richiamate dalla citata disposizione e consistenti nelle "ragioni tecniche ... o di utilità sociale".
Anche il modello della collaborazione pubblico-privato subisce un ridimensionamento ad opera della riforma del 2003. A prima vista sembrerebbe che, esclusa la particolare formula collaborativa mediante fondazioni o associazioni prevista solo per i servizi culturali e del tempo libero dal comma 3 dell'art. 113-bis, d.lg. n. 267/2000, il nuovo testo legislativo non contenga più alcuna possibilità di procedere all'organizzazione dei servizi privi di rilievo economico secondo formule di collaborazione di tipo societario tra soggetti pubblici e privati. Tuttavia, a ben vedere le cose non stanno in questi termini considerato che l'art. 116, d.lg. n. 267/2000, continua a qualificare la società mista a capitale pubblico minoritario come modello organizzativo dei servizi privi di rilievo economico. Infatti, ai sensi dell'articolo appena citato, la società per azioni con partecipazione minoritaria degli enti locali si conferma il modulo gestorio tipico "per l'esercizio di servizi pubblici di cui all'articolo 113-bis e per la realizzazione delle opere necessarie al corretto svolgimento del servizio nonché per la realizzazione di infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico".
A differenza degli altri, il modello dell'intervento diretto dell'ente locale risulta pienamente confermato dalla recente riforma del settore. Anzi, non sembra azzardato dire che tale ultimo modello appare perfino rafforzato nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza non economica. A ciò, in particolare, sembra contribuire la scelta legislativa di restringere il ricorso alle dinamiche societarie, legittimando solo l'ipotesi dell'affidamento diretto alla c.d. società in house o, per meglio dire, "alla società a capitale interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano" (art. 113-bis, comma 1, lett. c), t.u.e.l.). In ogni caso, una simile scelta può risultare non condivisibile agli occhi dell'interprete, soprattutto perché non è chiaro per quale logica gli enti locali possono organizzare i loro servizi non economici solo secondo il modello della società a totale capitale pubblico ovvero secondo il modulo della società a partecipazione privata prevalente, ma non secondo il più tradizionale e sperimentato modello della società mista a capitale pubblico maggioritario.
Fin qui le opzioni organizzative che la nuova versione dell'art. 113-bis, d.lg. n. 267/2000, mette a disposizione degli enti locali al fine di provvedere all'organizzazione di quei servizi culturali ritenuti privi di rilevanza economica. Non sembra possibile, però, escludere l'eventualità che per le attività in questione l'ente locale ricorra ad altre dinamiche organizzative prese in considerazione da corpi normativi diversi da quello contenente l'ordinamento generale dei servizi pubblici locali. Esistono, infatti, almeno due buone ragioni che possono spingere i soggetti pubblici locali in tale direzione: da un lato, vi è la peculiarità degli statuti organizzativi previsti dai più volte richiamati articoli del testo unico, i quali - soprattutto per i servizi di rilevanza economica ex art. 113 - non si limitano a disciplinare il singolo modello organizzativo ma contengono regole particolarmente rigide che vanno ben oltre il semplice profilo gestionale del servizio (come, ad esempio, i divieti di partecipazione alle gare di cui al comma 6, art. 113, d.lg. cit.); dall'altro, si segnalano numerose discipline di carattere generale o specifiche sulle attività culturali, le quali offrono modelli organizzativi adattabili con molta flessibilità ad ogni esigenza gestionale caratterizzante i servizi culturali dell'ente locale. Si pensi, ad esempio, all'art. 29, comma 1, della legge n. 448/2001, che ammette in generale per tutte le pubbliche amministrazioni l'esternalizzazione dei servizi attraverso moduli societari o mediante affidamento con gara a terzi, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione, o ancora l'art. 115 del Codice dei beni culturali e del paesaggio in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il quale consente anche agli enti pubblici territoriali di ricorrere ad una pluralità di modelli di gestione diretta ed indiretta per la organizzazione delle attività di valorizzazione di beni culturali, già definite dai primi osservatori come costituenti il "servizio pubblico della valorizzazione" [20]. Se a tutto ciò, infine, si aggiunge anche che gli artt. 113 e 113-bis, d.lg. n. 267/2000, fanno salve le disposizioni previste dalle discipline di settore, allora non appare azzardato immaginare che in futuro sarà forte la tendenza degli enti locali ad abbandonare i modelli contenuti nel quadro legislativo generale, troppo rigido e in alcuni casi contraddittorio, a vantaggio di soluzioni organizzative fornite dalle discipline dei singoli settori in cui si può manifestare l'intervento pubblico.
Nell'iniziare il presente lavoro abbiamo posto alcune domande riguardanti le principali ricadute della nuova disciplina dei servizi pubblici locali con particolare riferimento alla categoria dei servizi culturali. A tali domande si è tentato di dare qualche risposta, pur consapevoli che molte delle soluzioni ai problemi posti potranno essere definite solo nel momento in cui la riforma raggiungerà un sufficiente livello di attuazione. Ciò, comunque, non ci impedisce in questa sede di trarre qualche osservazione conclusiva sulla base di quanto è stato detto nelle pagine precedenti.
Innanzitutto, è opportuno tornare sul ruolo che il nuovo ordinamento dei servizi pubblici locali affida all'ente territoriale nella definizione della rilevanza economica o meno dell'attività da organizzare. Si è detto, infatti, che la mancata definizione della rilevanza economica del servizio da parte del legislatore farà dipendere la qualificazione del servizio dalla scelta organizzativa operata in concreto dall'ente locale. E' evidente che una soluzione interpretativa di tale portata avrà l'effetto di determinare situazioni di difformità, nel senso che un medesimo servizio pubblico locale potrà rientrare nella categoria dei servizi di rilevanza economica in un contesto territoriale e, viceversa, in quella priva di tale rilevanza in altri contesti. Tuttavia, tale difformità non costituisce a priori un problema, considerato che - come rilevato già da tempo dalla dottrina - non solo "la gestione di un museo, o di un sito archeologico, o di una dimora storica potrebbe essere indirizzata sia al conseguimento del massimo profitto, sia alla diffusione di valori culturali tra la generalità dei cittadini, sia alla massima tutela del valore artistico del bene" [21], ma soprattutto tali attività possono essere definite in chiave di servizio pubblico locale solo di volta in volta ed in concreto, in particolare avendo presente il contesto economico, sociale e territoriale di riferimento [22].
Sotto tale profilo, quindi, la difformità che la nuova disciplina potrà attivare nella qualificazione dei servizi pubblici locali da parte degli enti territoriali non rappresenta un problema; lo potrà, tuttavia, diventare sotto altri e più specifici aspetti. In particolare, alcune criticità potranno insorgere in concreto per la scarsa compatibilità sotto determinati profili dei due statuti organizzativi previsti dalla nuova versione degli artt. 113 e ss., d.lg. n. 267/2000. Così, ad esempio, una società a capitale interamente pubblico o una società mista a capitale pubblico minoritario destinataria di un servizio culturale di un ente locale per affidamento diretto ai sensi dell'art. 113-bis, d.lg. cit., non potrebbe partecipare alle gare per aggiudicarsi un servizio analogo di altro ente locale, qualificato, però, di rilevanza economica e bandito ai sensi dell'art. 113 del medesimo decreto: in tale eventualità, infatti, troverebbe applicazione il divieto di partecipazione alle gare previsto dall'art. 113, comma 6.
Ma il futuro della riforma dei servizi pubblici locali non dipende solamente da come si comporteranno gli enti territoriali interessati. Esistono, infatti, molteplici elementi che permetto già di prevedere che molto dipenderà dal ruolo interpretativo che al riguardo il giudice amministrativo deciderà di svolgere. Del resto, i presupposti che consentirebbero a tale giudice di intervenire in profondità ci sono tutti: la difficoltà connessa al passaggio da un regime legislativo ad un altro; la presenza nel dato legislativo di concetti giuridici non definiti; la concorrenza tra disciplina generale e discipline di settore, ecc. Non è possibile, tuttavia, fare fin da ora previsioni sull'intensità e sulle direzioni di tale intervento. Al massimo, ci si può augurare che il giudice amministrativo sappia utilizzare questi spazi di azione senza la pretesa di voler sostituirsi al legislatore e nel rispetto, fin dove possibile, dell'autonomia organizzativa dell'ente locale. Ciò, del resto, permetterebbe di evitare quei fenomeni di schizofrenia della giurisprudenza, che sotto la vigenza della versione degli artt. 113 e ss., d.lg. n. 267/2000, come novellati dall'art. 35, legge n. 448/2001, hanno portato i giudici amministrativi a riconoscere al medesimo servizio pubblico locale in differenti occasioni natura diversa [23].
Inoltre, è bene ricordare che il futuro della riforma dei servizi pubblici locali dipenderà anche da come si stabilizzeranno tutte le dinamiche regolative attivate tra poteri centrali e locali dal nuovo assetto delineato dal titolo V della Costituzione, così come novellato dalla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3. A proposito, nelle pagine precedenti abbiamo avuto modo di accennare ad alcune conseguenze che tali dinamiche hanno già prodotto: si pensi, ad esempio, alla rinuncia da parte del legislatore statale di legittimare un intervento regolamentare in materia o alle ricordate iniziative intraprese da alcune regioni a livello di legislazione concorrente. Tuttavia, si tratta di vicende dalle quali non è possibile trarre ora principi sufficientemente solidi e condivisi per poter definire i molti punti ancora in discussione caratterizzanti la disciplina di questo particolare settore di intervento pubblico. Soprattutto, non è stato finora chiarito quale soggetto pubblico - legislatore statale, governo, legislatore regionale, autorità di settore, enti locali interessati - risulti legittimato dal nuovo quadro costituzionale ad occupare quegli ampi spazi di regolazione generale e settoriale che la particolare materia presenta. Tale vicenda, in particolare, potrà riguardare i servizi culturali degli enti locali, stante il fatto che essi possono essere ricondotti ai parametri dell'art. 117, Cost., anche sotto il profilo della loro natura di attività connesse vuoi alla tutela vuoi alla valorizzazione e alla gestione dei beni culturali. Del resto, una conferma di quanto appena detto può essere trovata in alcune recenti sentenze della Corte costituzionale (nn. 9 e 26 del 2004) - una pronunciata proprio con riferimento alla disciplina della c.d. esternalizzazione della gestione dei servizi culturali di competenza statale -, le quali dimostrano sia la tensione esistente tra i diversi livelli di disciplina operanti nel settore sia la dinamicità che caratterizza tale specifica materia.
Un'ultima osservazione deve essere fatta con riferimento al piano organizzativo della riforma del settore. Sotto tale aspetto, merita di essere evidenziato il fatto che la nuova versione dell'ordinamento generale dei servizi pubblici degli enti locali presenta un livello di tipizzazione delle formule gestorie molto più intenso rispetto a quello caratterizzante la riforma precedente. Anzi, si potrebbe dire che la riaffermazione del principio di tipicità nell'organizzazione dei servizi locali vada oltre la tradizionale definizione dei modelli organizzativi, in quanto riguarda più che altro la più ampia definizione degli statuti organizzativi di cui le formule di gestione rappresentano solo una parte. A ciò si aggiunga che i due statuti sono rigidamente separati e presentano modelli di gestione "in esclusiva". Inoltre, tali statuti non comunicano tra di loro e anzi, come visto, possono creare situazioni di incompatibilità. Pertanto, una simile situazione rischia di provocare notevoli difficoltà operative agli enti locali oramai abituati ad una certa elasticità nella scelta dei modelli organizzativi del servizio. In particolare, sarà difficile per gli enti locali accettare la logica che determinate dinamiche societarie di collaborazione pubblico/privato (società a capitale pubblico totalitario o maggioritario) valgono solo per i servizi di rilevanza imprenditoriale, mentre altre dinamiche (società a capitale pubblico totalitario o minoritario) risultano riservate per i servizi che tale rilevanza non hanno, con il rischio che si diffondano forzature fondate su opzioni organizzative sperimentate di volta in volta oppure fughe dall'ordinamento generale dei servizi pubblici locali verso discipline di settore più elastiche o verso istituti paralleli. Una tale eventualità potrà riguardare soprattutto il settore dei servizi culturali degli enti locali, considerato che proprio in tale settore negli ultimi anni sono state registrate importanti esperienze di successo nei nuovi sistemi di gestione legate al crescente fenomeno dell'esternalizzazione del servizio mediante l'affidamento a privati e alle società miste, modalità ora non più ammesse in un contesto organizzativo che tradizionalmente esclude la rilevanza non economica dell'attività [24].
Si potrebbe continuare ancora a mettere in evidenza i punti deboli o gli aspetti della riforma che richiedono particolari sforzi interpretativi. Tuttavia, appare opportuno fermarsi ed aspettare di vedere quali dinamiche seguirà il processo attuativo del nuovo regime legislativo. Ovviamente, sempre che il legislatore non decida ancora una volta di ritornare sui suoi passi.
[1] Il riferimento è all'articolo di Sabino Cassese, Il neo socialismo municipale, apparso sul Corriere della Sera del 29 ottobre 2003. Analogamente si sono espressi anche G. Labarile, La marcia del gambero dei servizi locali tra nuove regole, controriforma e mercato, in Guida enti locali, 2003, n. 44, 6, e A. Boitani, Servizi locali, i rischi della non concorrenza, su Il sole 24 ore del 16 novembre 2003. Considera la riforma del 2003 compatibile con la normativa comunitaria, anche se riconosce che per più aspetti è una disciplina di "chiusura al mercato", G. Sciullo, La procedura di affidamento dei servizi pubblici locali tra disciplina interna e principi comunitari, in www.lexitalia.it, 2003, n. 12, 4.[2] Sulla riforma del 2001 la letteratura è ricchissima. Valga per tutti il rinvio all'approfondita ricostruzione di M. Dugato, I servizi pubblici locali, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, t. III, II ed., Milano, 2001, 2581 ss. Per quanto riguarda il particolare profilo dei servizi culturali degli enti locali si vedano i diversi saggi pubblicati sul n. 1 del 2002 di questa Rivista.
[3] Cfr. la nota sentenza della Corte di giustizia, 18 novembre 1999, Teckal S.r.l. c. Comune di Viano, causa C-197/98, in Racc. p. I-8121. Sulla nozione di affidamento in house v. per tutti, C. Alberti, Appalti in house, concessioni in house ed esternalizzazione, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, 511 ss., e le considerazioni svolte da M. Cammelli, Il nuovo Titolo V della Costituzione e la finanziaria 2002: note, in questa Rivista, 2002, n. 1.
[4] Il riferimento è alla l.r. Lombardia, 12 dicembre 2003, n. 26, Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione di rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche (in BUR, 16 dicembre 2003, n. 51, suppl. ord.), e p.d.l.r. - Giunta Regionale Toscana, 28 ottobre 2003, n. 306, Norme sui servizi pubblici locali a rilevanza economica, entrambi consultabili in www.astridonline.it. La l.r. Lombardia, prima, si limita a qualificare i servizi di interesse economico generale come quei servizi "caratterizzati dalla universalità della prestazione e dalla accessibilità dei prezzi" e, successivamente, considera tali la gestione dei rifiuti solidi urbani, la distribuzione dell'energia elettrica, termica e del gas naturale, la gestione dei sistemi integrati di alloggiamento delle reti nel sottosuolo, la gestione del servizio idrico integrato (art. 1, comma 2). Il p.d.l.r. della regione Toscana, invece, qualifica vagamente i servizi di rilevanza economica come quei servizi che "sono prodotti garantendo l'uso sostenibile delle risorse naturali ed erogati nel rispetto dei principi di universalità, accessibilità, socialità, eguaglianza, continuità, qualità e trasparenza (art. 1), e, poi, considera tali i seguenti servizi: trasporto locale, idrico integrato, gestione dei rifiuti urbani, distribuzione del gas naturale e dell'energia elettrica (art. 2).
[5] In questi termini, D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, II ed., Bologna, 2002, 114 s.
[6] Sembrano sostenere tale ricostruzione quegli autori che espressamente ritengono l'art. 14, d.l. n. 269/2003 lo strumento utilizzato dal legislatore italiano al fine di adeguare la normativa interna sui servizi pubblici locali alle norme dettate dal Trattato della UE in materia di servizi di interesse generale. Cfr., al riguardo, quanto affermato da A. Barbiero, Note di analisi sull'evoluzione del sistema normativo di riferimento per i servizi pubblici locali, e da C. Tessarolo, Il nuovo ordinamento dei servizi pubblici locali, entrambi in www.dirittodeiservizipubblici.it, e da A. Vigneri, Brevi osservazioni sul nuovo art. 113 del testo unico sull'ordinamento degli enti locali, in materia di disciplina dei servizi pubblici locali, in www.astridonline.it.
[7] Il riferimento è a tre recenti documenti, consultabili sul sito dell'UE: la comunicazione della Commissione, I servizi di interesse generale, 20 settembre 2000, COM (2000) 580, la relazione della Commissione al Consiglio europeo di Laeken, Servizi di interesse generale, 17 ottobre 2001, COM (2001) 598, e, da ultimo, il Libro verde sui servizi di interesse generale, 21 maggio 2003, COM (2003) 270.
[8] Per una rassegna recente delle pronunce del Giudice comunitario con le quali sono state definite le caratteristiche del servizio di interesse economico generale si v. G. Caputi, Servizi pubblici e monopoli nella giurisprudenza comunitaria, Torino, 2002, spec. 119 ss., K. Lenaerts, Les services d'intérêt économique général et le droit communitaire, in Rapport public du Conseil d'État 2002, Paris, 2002, spec. 428 ss., e soprattutto, L. Perfetti, Servizi di interesse economico generale e pubblici servizi, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2001, 479 ss.
[9] Si veda in particolare il punto 47 del cit. Libro verde sui servizi di interesse generale.
[10] Tra i primi commentatori della riforma del 2003 seguono tale impostazione A. Barbiero, Note di analisi sull'evoluzione del sistema normativo di riferimento per i servizi pubblici locali, cit., e A. Purcaro, La riforma dei servizi pubblici locali: appunti a margine dell'art. 14 del decreto legge n. 269/2003, in www.lexitalia.it, n. 10, 2003.
[11] A proposito dell'economicità dell'attività imprenditoriale scrive, infatti, F. Galgano, Diritto civile e commerciale, vol. III, t. I, Padova, 1990, 23, che "in che cosa consista l'economicità dell'attività produttiva è reso palese dalla disciplina degli enti pubblici economici". Sul criterio di economicità con riferimento alle imprese pubbliche si v., in particolare, la ricostruzione di F. Roversi Monaco, Gli enti di gestione: struttura, funzioni, limiti, Milano, 1967, 204 ss., successivamente approfondita in Id., L'attività economica pubblica, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, dir. da F. Galgano, vol. I, La Costituzione economica, Padova, 1977, 385 ss., nonché i saggi di E. Capaccioli, Cenni sul criterio di economicità nella gestione delle partecipazioni statali, in Impr. amb. p.a., 1976, 47 ss., e G.P. Rossi, I criteri di economicità nella gestione delle imprese pubbliche, in Riv. trim. dir. pubbl., 1970, 237 ss.
[12] Al riguardo, è utile notare che secondo V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997, 59, la locuzione "economicità" riferita ai servizi pubblici, "significa attitudine in astratto dell'attività stessa alla produzione di un utile economico; che può tuttavia non esservi in concreto, perché l'attività viene esercitata (come spesso accade nei casi di esercizio pubblico) attraverso il sistema delle c.d. aziende di erogazione, tendenti non al profitto ma alla mera remunerazione dei fattori di produzione".
[13] Cfr. p.d.l.r., Emilia-Romagna, Disciplina dei servizi pubblici regionali e locali, in www.astridonline.it.
[14] Così S. Foà, Gestione e alienazione dei beni culturali, Intervento al Convegno annuale dell'Aipda, Titolarità pubblica e regolazione dei beni, Firenze ottobre 2003, datt., 35.
[15] Così D. Sorace, Note sui "servizi pubblici locali" dalla prospettiva della libertà di iniziativa, economica e non, dei privati, in Scritti in onore di Vittorio Ottaviano, vol. II, Milano, 1993, 1143.
[16] Cfr. F. Zuelli, Servizi pubblici e attività imprenditoriale, Milano, 1973, 9 ss.
[17] Cfr. quanto affermato da M. Cammelli, I servizi pubblici nell'amministrazione locale, in Le regioni, 1992, spec. 24 ss., U. Pototschnig, Servizi pubblici essenziali: profili generali, in Rass. giur. en. elettr., 1992, 269 ss. (ora in Id., Scritti scelti, Padova, 1999, 656 ss.). G. Caia, La disciplina dei servizi pubblici, in Mazzarolli et al. (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 1998, 947 ss., e da ultimo, M. Dugato, I servizi pubblici locali, cit., spec. 2582. Isolata, l'idea di A. Andreani, Appunti sulla gestione dei servizi sociali negli enti locali (a proposito della utilizzazione di modelli differenziati nell'amministrazione pubblica), in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, vol. I, Padova, 1998, 91 ss., secondo il quale esiste un nucleo di servizi sociali per natura incompatibile con uno schema organizzativo di attività economica.
[18] Il riferimento è alla ricostruzione operata da F. Merusi, Servizio pubblico, in Noviss. Dig. It., vol. XVII, 1970, Torino, 215 ss., e recentemente ripresa da A. Pericu, Fattispecie e regime della gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale, in questa Rivista, n. 1, 2002.
[19] Sia consentito rinviare al mio I modelli di organizzazione dei servizi culturali: novità, false innovazioni e conferme, in questa Rivista, n. 1, 2002.
[20] In questi termini S. Foà, Gestione e alienazione dei beni culturali, cit., 30 ss.
[21] Così A. Pericu, Fattispecie e regime della gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale, cit. Analoghe considerazioni in M. Cammelli, I servizi pubblici nell'amministrazione locale, cit., e G. Caia, Assegnazione e gestione dei servizi pubblici locali di carattere industriale e commerciale: profili generali, in Reg. gov. loc., 1992, spec. 16 ss.
[22] Il rinvio obbligato è a quanto affermato da M. Dugato, Le società per la gestione dei servizi pubblici locali, Milano, 2001, spec. 55 ss.
[23] Si v., ad esempio, il caso del servizio degli asili nido, riconosciuto come tipico servizio sociale ai sensi della definizione datane dall'art. 128, d.lg. n. 112/1998, ad avviso del Tar Campania, Napoli, sez. I, 30 aprile 2004, n. 4203, e, viceversa, escluso dal novero dei servizi sociali sulla base del medesimo articolo del d.lg. cit., dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 3 luglio 2003, n. 4003.
[24] Al riguardo si v. le considerazioni svolte da Federculture, d.l 30 settembre n. 269. Titolo 1 Capo III Art. 14, ottobre 2003, in www.federculture.it.