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Individuazione dei beni culturali

Dichiarazione di interesse culturale dei cinema storici: quale attuazione del dettato costituzionale nell’evoluzione del sindacato giurisdizionale?

di Arianna Giovannelli [*]

Sommario: 1. Sotto i riflettori dei cinema: le tensioni tra tutela e valorizzazione, tra discrezionalità e interessi. - 2. Una declinazione di bene culturale (ancora) poco esplorata: le sale cinematografiche. - 3. L’ex Cinema America: analisi di una vicenda paradigmatica del “cortocircuito” tra tutela e valorizzazione. - 4. Dal particolare all’universale: il sindacato giurisdizionale tra valutazioni tecniche e bilanciamento degli interessi coinvolti. - 5. Alla ricerca di un nuovo equilibrio. - 6. Titoli di coda: qualche riflessione conclusiva.

L’articolo, muovendo dalla giurisprudenza avente ad oggetto la dichiarazione di interesse culturale delle sale cinematografiche, analizza la difficile interazione tra l’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica delle amministrazioni e il relativo sindacato giurisdizionale nonché la complessità del bilanciamento tra le esigenze di tutela di tali spazi con gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti.

Parole chiave: cinema; patrimonio culturale; discrezionalità.

Declaration of cultural interest of historic cinemas: what implementation of the constitutional dictate in the evolution of judicial review?
The article, starting from the jurisprudence on the declaration of cultural interest for cinemas, critically examines the intricate relationship between the exercise of administrative technical discretion and its judicial review, while addressing the challenges of balancing the preservation of such spaces of discretion with competing public and private interests.

Keywords: cinemas, cultural heritage, discretion.

1. Sotto i riflettori dei cinema: le tensioni tra tutela e valorizzazione, tra discrezionalità e interessi

Nell’ultimo decennio, alcune sale cinematografiche, unitamente agli edifici che le ospitano, sono assurte ad argomento centrale di numerosi dibattiti giuridici. Si tratta di luoghi che, in virtù dell’interesse particolarmente importante che rivestono, possono essere individuati quali beni culturali e sottoposti all’iter di dichiarazione di interesse culturale, ai sensi dell’art. 13 e seguenti del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42. Ciò in ragione dell’estensione del regime vincolistico anche alle “sale cinematografiche e sale d’essai” introdotta dall’art. 8, comma 1, legge 14 novembre 2016, n. 220 [1].

La giurisprudenza amministrativa, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dei provvedimenti dichiarativi dell’interesse culturale di alcune sale cinematografiche, a partire dalla nota vicenda del “Cinema America”, annovera l’art. 8 della legge n. 220/2016 “nell’ambito di una tendenza alla continua espansione dei ‘beni culturali’” [2], mentre la dottrina lo riconduce all’accentuarsi dell’interesse da parte del legislatore per la creazione di un efficace sistema di tutela giuridica dell’architettura contemporanea [3].

In questa prospettiva, nelle pagine che seguono si passerà in rassegna la giurisprudenza avente ad oggetto la dichiarazione di interesse culturale dei cinema storici e dei relativi immobili, che qui si intende indagare sotto la peculiare lente del sindacato giurisdizionale sull’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, la quale - ad avviso di chi scrive - svela un profilo particolarmente critico dell’intero impianto di tutela e valorizzazione dei beni culturali. Si tratta della tendenza delle amministrazioni di celarsi dietro lo schermo delle valutazioni scientifico-professionali omettendo un, invero necessario, bilanciamento tra la tutela del bene culturale (art. 9, comma 1 Cost.) e ogni altro interesse pubblico e privato in gioco, primo fra tutti l’esigenza di valorizzazione sancita all’art. 9, comma 2 Cost. [4].

Non ci si può esimere, allora, dal domandarsi: è sostenibile un atteggiamento di self restraint giudiziale di fronte alle decisioni dell’amministrazione basate sulla conoscenza tecnica anche laddove queste ultime omettano un adeguato bilanciamento degli interessi coinvolti, quali, ad esempio, la sostenibilità economica della utilizzazione, da parte del privato proprietario, dell’immobile dichiarato di interesse? Ancora, la dichiarazione di interesse culturale delle sale cinematografiche, come disciplinata nel Codice, risulta effettiva e coerente al modello costituzionale di tutela, valorizzazione e promozione?

Questa l’ottica di indagine che occuperà i prossimi paragrafi, in cui si passerà da uno sguardo particolare, legato alla vicenda dell’ex Cinema America, a riflessioni di più ampio respiro.

2. Una declinazione di bene culturale (ancora) poco esplorata: le sale cinematografiche

L’esigenza di riconoscere il c.d. interesse qualificato che rivestono i cinema nella tradizione italiana è precedente all’intervento legislativo del 2016.

Già nel 2014, il ministro dei Beni Culturali in carica, in occasione della mostra del cinema di Venezia, aveva adottato una Direttiva [5] concernente le “sale cinematografiche di interesse storico, la cui presenza sul territorio rappresenta una componente importante dell’offerta culturale del paese” ed indirizzata, altresì, alle sale esistenti almeno dal 1 gennaio 1980. Tale Direttiva, contenente puntuali disposizioni agli Uffici, era stata adottata con lo scopo di realizzare un censimento de “le sale caratterizzate da lunga tradizione e da una peculiare attività culturale tali da poter richiedere l’apposizione del vincolo di interesse storico”.

Successivamente, il legislatore, nella sua veste di interprete qualificato della coscienza sociale, capace di captare i mutamenti nella sensibilità collettiva e tradurli in nuove regole giuridiche [6], ha introdotto una norma ad hoc per tali strutture. Si tratta della previsione, sopra ricordata, contenuta all’art. 8, comma 1, legge n. 220/2016. Quest’ultima estende la possibilità di apporre il vincolo culturale “particolarmente importante di cui all’articolo 10, comma 3, lettera d), del Codice dei beni culturali e del paesaggio [...] anche [alle] sale cinematografiche e sale d’essai” [7].

È significativo evidenziare come, nonostante l’art. 8 sia rubricato “Valorizzazione delle sale cinematografiche”, la disciplina ivi dettata si traduca, esclusivamente, “in termini di conservazione” [8] di tali peculiari spazi storico-culturali. Tale semplice osservazione, più fattuale che giuridica, fotografa la ratio sottesa alla dichiarazione di interesse culturale delle sale cinematografiche, la quale non è che sintomo della più generale “tensione fra tutela e valorizzazione, quali compiti primari, ma frequentemente confliggenti, che l’amministrazione deve assolvere nei confronti del patrimonio culturale” [9].

Dinanzi a questa tensione, non resta che cercare conforto nell’operato del giudice amministrativo, nella sua veste di attore protagonista (o almeno, uno dei) nel settore. A tale stregua, le direttrici di indagine, fin qui solo approssimamene individuate, saranno approfondite a partire dalla nota vicenda dell’ex Cinema America, la cui storia sarà brevemente riassunta di seguito.

L’edificio che ospitava il cinema fu costruito a metà degli anni cinquanta sulle fondamenta del Teatro Lamarmora su progetto dell’Architetto Angelo di Castro nel quartiere Trastevere a Roma. Esso è significativamente citato anche nell’art. 3 della direttiva del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo [10] del 2014, quale esempio di sala qualificabile come storica ma non più attiva per la quale, già nel 1980, Renato Nicolini [11] rivendicava il “diritto alla tutela”, in ragione delle caratteristiche architettoniche uniche e rilevanti del palazzo [12].

In questa sala, le proiezioni cinematografiche, inaugurate nel 1956, proseguirono fino all’anno duemila, quando cessarono definitivamente.

Dopo la chiusura del cinema si fece strada un progetto di trasformazione dell’edificio in sala Bingo a cui si opposero i cittadini del quartiere; nel 2004 il palazzo fu acquistato dalla società Progetto Uno s.r.l. che ne propose la demolizione per costruire un edificio residenziale e attività commerciali, ma anche questo progetto fu ostacolato dalla strenua opposizione cittadina. L’edificio rimase così inutilizzato fino al novembre del 2012, quando un gruppo di ragazzi, che si organizzarono successivamente nel collettivo de “I ragazzi del Cinema America”, occuparono l’edificio in segno di protesta contro il degrado e la speculazione edilizia. L’iniziativa raccolse l’appoggio non solo del mondo del cinema [13] e della cultura [14], ma anche di diverse autorità - tra queste, spicca l’istanza avanzata dall’allora assessore alla trasformazione urbana del comune di Roma Giovanni Caudo - che chiesero dunque al Mic l’apposizione di un vincolo a tutela dell’edificio [15].

3. L’ex Cinema America: analisi di una vicenda paradigmatica del “cortocircuito” tra tutela e valorizzazione

Nel contesto socioculturale fin qui delineato, il giudice amministrativo, dal 2015 al 2023, è stato investito, per ben sei volte, del sindacato sulla legittimità delle dichiarazioni di interesse culturale intervenute nel corso degli anni e dei conseguenti vincoli degli apparati decorativi pertinenziali dell’immobile, dapprima innanzi al Tar Lazio e, successivamente, davanti al Consiglio di Stato.

Seppur sarebbe di interesse procedere ad un confronto comparato tra le pronunce, le quali sono giunte a conclusioni di segno opposto [16] - a volte disconoscendo la possibilità di assoggettamento dell’immobile a vincolo in quanto “manca del tutto il riferimento ad uno specifico evento storico” [17], altre volte censurandone via via le modalità di adozione dello stesso -, in questa sede si prenderà in analisi soltanto “l’ultimo atto” [18] della vicenda rappresentato dal doppio grado di giudizio sulla legittimità dell’ultima dichiarazione di interesse culturale intervenuta rispetto all’ex Cinema America. Sono le sentenze 5 giugno 2020, n. 597 del Tar Lazio [19], e 14 marzo 2023, n. 2641 del Consiglio di Stato.

In particolare, l’aspetto nevralgico della vicenda giudiziaria è offerto dall’argomentazione in base alla quale il giudice amministrativo, nei due gradi di giudizio, respinge la doglianza con cui la società divenuta proprietaria dell’edificio un tempo adibito a sala cinematografica lamenta la compressione del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica in conseguenza dell’adozione del provvedimento di vincolo sull’immobile, richiamando, quali pretesi parametri normativi violati, gli articoli 41 e 42 Cost. e, a livello europeo, l’art. 1 del I Protocollo Addizionale Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) e l’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali Ue.

Il giudice amministrativo di prime cure, nel respingere in poche righe di motivazione la censura relativa alla compressione del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica, osserva che la naturale conseguenza della dichiarazione di interesse dell’immobile è “il suo assoggettamento ad un regime amministrativo particolare che comprime alcune facoltà di godimento del proprietario, per espressa previsione del legislatore, con norme che fino ad oggi non sono state ritenute in contrasto con principi costituzionali o di matrice europea”.

In grado di appello, il Consiglio di Stato, a fronte della riproposizione del motivo da parte della società appellante, precisa che l’intervenuta dichiarazione dell’interesse culturale dell’immobile “non si traduce affatto in una eccessiva restrizione dei diritti della proprietà, dal momento che mantiene intatta, in capo all’odierna appellante, la facoltà di eseguire opere e lavori sull’immobile de quo a condizione che quest’ultimo venga adibito ad usi compatibili con il suo carattere culturale e che il progetto degli interventi da eseguire venga sottoposto alla Soprintendenza competente per territorio al fine di ottenere l’autorizzazione prescritta dall’articolo 21, comma 4 del D.Lgs. n. 42/2004” [20].

Degna di nota, e attinente alle questioni approfondite in questa sede, è la posizione assunta dall’organo giudiziario nella sentenza di primo grado.

A tal proposito, si osservi che il Tar Lazio prende atto (e segnatamente mostra di condividere [21]) dell’applicazione nella relazione tecnica, posta a base del provvedimento di dichiarazione impugnato, dei criteri di valutazione prescritti nel d.m. Mibact 6 dicembre 2017, n. 537 [22]. Dall’impiego di tali criteri, l’amministrazione afferma il “pregio intrinseco dell’opera”, la “sua rappresentatività in quanto ‘edificio emblematico del connubio arte-architettura delle sale cinematografiche’” e la “rarità” dell’immobile quale “uno dei pochi esempi rimasti di tale tipologia, dato che le altre costruzioni analoghe hanno perduto le loro ‘forme’ originarie, a seguito di modifiche architettoniche e strutturali a partire dagli anni 70”. Pertanto, seppur in forza della normativa sopravvenuta nel 2016 non sarebbe stato necessario dimostrare il vincolo relazionale [23] tra la sala e uno specifico evento storico [24] al fine di dichiarare di interesse l’ex Cinema, il collegio ritiene la motivazione del decreto di vincolo impugnato “articolata ed approfondita” anche rispetto all’interesse storico-relazione e, pertanto, immune dai vizi censurati, anche in ragione dei criteri di valutazione summenzionati utilizzati nella relazione tecnica. Anzi, proprio questi ultimi, ad avviso del Tar, costituiscono “espressione del principio di ragionevolezza e proporzionalità” del vincolo posto: così argomentando il giudice esercita il proprio sindacato sulla valutazione, la quale - per essere ritenuta legittima - deve essere sia rispettosa dei criteri di massima fissati ex ante dallo stesso ministero, sia scevra da profili di illogicità ed irragionevolezza [25].

L’ex Cinema America oggi e, più precisamente, dal 2020, è considerato un bene culturale in forza del suo assoggettamento al vincolo culturale.

La definitiva e inoppugnabile dichiarazione ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, rappresenta, dunque, il lieto fine per l’ex Cinema America? Purtroppo, no.

Infatti, seppure “di interesse culturale”, l’immobile dal 2020 - ma fin dal 2000 - versa in uno stato di inutilizzo e abbandono e della vivace vita culturale lì un tempo ospitata non rimangono che poche vestigia confinate in una stanza polverosa, inaccessibile per i cittadini [26].

4. Dal particolare all’universale: il sindacato giurisdizionale tra valutazioni tecniche e bilanciamento degli interessi coinvolti

Nonostante la peculiarità della vicenda del cinema romano, le questioni sollevate riflettono e risaltano una tendenza generale del sistema di tutele accordato ai beni culturali [27]: di fronte ad una progressiva tecnicizzazione delle valutazioni amministrative, in materia di beni culturali, l’amministrazione, nelle proprie decisioni, enfatizza, in maniera assoluta, l’interesse pubblico primario di riferimento, ossia la conservazione, tramite l’imposizione di un regime vincolistico, del bene omettendone però la comparazione e il bilanciamento con gli altri interessi - spesso privati ed economici - coinvolti e, segnatamente, contrapposti [28].

La questione appare evidente, soprattutto, rispetto ai provvedimenti di dichiarazione dell’interesse culturale e di vincolo di destinazione d’uso di un bene dove è difficile scindere [29] i momenti in cui assumono rilievo valutazioni meramente tecniche a quelli in cui, invece, l’amministrazione è chiamata a fare esercizio della “vera discrezionalità amministrativa” [30].

Alla luce di questa impasse, a lungo si è sostenuto che le valutazioni demandate all’amministrazione, circa il valore culturale di un’opera, sono da considerarsi esclusivamente “tecnico-professionali e non comparative d’interessi” e ciò per ragioni di ordine costituzionale: l’inserimento della tutela del patrimonio storico e artistico (art. 9) tra i principi fondamentali della Costituzione “impone una salvaguardia del patrimonio culturale che non sia fondata sulla scelta libera tra una pluralità di interessi come avviene per l’attività discrezionale” [31].

Così argomentando, si è inteso escludere che, nell’esercizio della discrezionalità tecnica, entrino in gioco valutazioni dell’amministrazione diverse da quelle da condurre alla stregua di canoni scientifici e tecnici: “la scelta di convenienza già è fatta a monte, dalla legge, all’amministrazione resta solo di rilevare le cose e modularvi adeguatamente l’intensità del proprio intervento specialistico” [32].

In questa direzione, nella giurisprudenza amministrativa si è affermato l’orientamento tale per cui, nel bilanciamento tra l’interesse pubblico e l’interesse del privato “l’amministrazione dei beni culturali deve aver riguardo al mantenimento del bene e del suo valore artistico, che è l’interesse pubblico affidato alla sua cura, e non è tenuta (quand’anche possa) a sindacare i particolari interessi del proprietario” [33].

Si registra, quindi, il tradizionale atteggiamento di self restraint del giudice, il quale, evocando i noti limiti del sindacato giurisdizionale rispetto all’esercizio di discrezionalità tecnica (ed escludendo la presenza di profili di vera discrezionalità) [34], si arresta ed afferma, in maniera non condivisibile [35], la supremazia, nel senso di esclusività, delle esigenze di tutela dei beni culturali rispetto a tutti gli altri fattori coinvolti [36].

Nella richiamata vicenda giudiziaria dell’ex Cinema America, in punto di bilanciamento degli interessi coinvolti, il giudice aderisce alla tesi dell’assoluta preminenza dell’interesse pubblico culturale, comprimendo in maniera indebita la libertà di iniziativa economica e il diritto di proprietà della società proprietaria del bene, in nome di una pretesa utilità sociale, oltre che i margini di una valorizzazione del bene compatibile con i suoi profili culturali. Con la conseguenza “di vincolare tutto per non tutelare nulla” [37]: l’immobile è e rimane abbandonato e “la preziosa testimonianza di una specifica tipologia di cinema monosala che segna una tappa centrale nella fruizione cinematografica popolare [...] della storia della cultura degli anni ‘50 e ‘60” [38] resta inaccessibile, all’interno dell’edificio. Ecco il paradosso [39].

In aderenza all’orientamento in questione, inoltre, si registrano le affermazioni contenute nella recente pronuncia del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, la n. 5/2023, con riferimento al vincolo di destinazione d’uso imposto al locale del celebre ristorante “Il vero Alfredo”. Il Consiglio di Stato afferma la legittimità dell’imposizione del vincolo di destinazione dell’attività cui l’immobile è stato storicamente adibito (vale a dire l’attività di ristorazione “della tradizione popolare, italiana e specificamente romana”) muovendo dalla considerazione secondo cui “l’interesse culturale ex art. 9 Cost. prevale su qualsiasi altro interesse - ivi compresi quelli economici - nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti” [40], richiamando, quindi, il principio di diritto affermato nella risalente pronuncia della Corte costituzionale n. 151/1986 [41]. Tutto ciò nascondendosi dietro lo schermo dei limiti tipici del sindacato sulla discrezionalità tecnica.

La “sequenza: superiorità dell’interesse protetto (patrimonio culturale) - altri interessi (pubblici e privati) - discrezionalità tecnica”, posta a fondamento delle considerazioni svolte dalla Plenaria, ha sollevato non poche perplessità in dottrina, specie in questa Rivista, la quale ha evidenziato come la “primarietà degli interessi costituzionalmente protetti non significa aprioristica superiorità” [42].

Il meccanismo, nel suo essere strettamente - meglio, rigidamente - aderente a Costituzione, comporta un vuoto di tutela: riconoscere che la dichiarazione di interesse culturale di un bene sia esercizio esclusivo di discrezionalità tecnica, insindacabile, significa legittimare il provvedimento di vincolo adottato in assenza di una, invero necessaria [43], ponderazione degli interessi in gioco e, dunque, in violazione del principio dell’effettività e della pienezza della tutela [44].

In aggiunta, l’impostazione qui descritta enfatizza sì il dettato costituzionale, ma nell’esclusiva (e forse sterile, se considerata isolatamente [45]) declinazione del primo comma dell’art. 9, deputato alla tutela dei beni culturali, dimenticando così la necessaria “valorizzazione” degli stessi.

Costituisce, infatti, ius receptum, che l’enunciazione dell’art. 9, comma 2, “a torto fu ritenuta di scarso rilievo e di non incisiva operatività” in quanto essa “traduce una visione chiara, intesa a sollecitare il concorso di tutte le istituzioni, la cui sfera di attività possa toccare i detti valori” [46]. Nello stesso senso, la dottrina, adottando una lettura unitaria della disposizione [47], riconosce e attribuisce ai due commi la medesima funzione [48]: quella cioè di aver inserito nei principi costituzionali “il valore estetico-culturale” [49].

Si tratta, quindi, di una parziale - e non consentita - disapplicazione del dettato costituzionale [50] oppure una radicalizzazione del concetto di tutela?

5. Alla ricerca di un nuovo equilibrio

Dinanzi al silenzio del Codice, come in un film muto, il diritto vivente ha prospettato soluzioni più confortanti e coerenti con il cambio di paradigma registratosi nella giurisprudenza costituzionale [51]. Ci si riferisce al più condivisibile orientamento secondo cui il giudice amministrativo, pur riconoscendo il rilievo prevalente della valutazione tecnica, censura l’omessa comparazione tra interesse pubblico primario di riferimento e gli interessi contrapposti facendo ricorso ai parametri generali di congruenza, proporzionalità e ragionevolezza, quali espedienti al fine di non invadere il merito della decisione amministrativa e giustificare il proprio sindacato giurisdizionale [52].

Tali parametri “sono utilizzati per censurare un uso su basi tecniche del potere che in realtà fuoriesce dalle ragioni per cui il potere stesso è dato dalla legge; casi dove l’opinabilità cessa di essere tale o di esser assistita dall’immunità ed entra nello spazio correzionale del sindacato del giudice amministrativo” [53].

È il caso, ad esempio, della decisione intervenuta rispetto al procedimento per la dichiarazione dell’interesse culturale dell’immobile Cinema Teatro Concordi di Padova. Il Consiglio di Stato, investito della questione da parte della società proprietaria dell’edificio, la quale progettava di trasformare il corpo della sala cinematografica in edificio a destinazione commerciale e residenziale, ha osservato che la valutazione dell’amministrazione “deve necessariamente tener conto di un complesso e integrato sistema attinente all’interesse pubblico in concreto, nel quale la concreta sopravvivenza della testimonianza culturale deve inevitabilmente collegarsi alla necessità di preservare, con il valore culturale, la stessa esistenza materiale e la vitalità del contesto del quale il bene stesso è parte integrante”.

Muovendo da questa premessa, il collegio ha ritenuto illegittimo il provvedimento di vincolo apposto su alcuni componenti del cinema-teatro (facciata, vano scale e atrio) in quanto lo stesso “genera[va] un’insostenibilità economica della utilizzazione” andando così “a contraddire la stessa salvaguardia materiale del bene, cui la legge di tutela è orientata” [54].

Queste considerazioni conseguono alla rilettura del significato di primarietà che il patrimonio di interesse culturale assume nella fitta trama di rapporti sociali e patrimoniali dell’ordinamento, senza però mai travalicare i “limiti estrinseci nei quali è consentito l’esame del giudice amministrativo” [55] così realizzando un sindacato “esemplare [...] molto attento agli elementi di fatto, alla situazione di fatto all’origine del provvedimento di vincolo” [56].

Nella medesima direzione e con più forza, qualche anno dopo il Consiglio di Stato, in composizione consultiva, ha valutato illegittima la dichiarazione di interesse culturale intervenuta rispetto al cinema piemontese Politeama, nella parte in cui veniva esteso il vincolo anche ad alcune porzioni interne dell’immobile così da impedire la sostenibilità economica della sua utilizzazione da parte del privato proprietario [57].

Ciò che in questa sede interessa evidenziare sono due ordini di argomentazioni svolte dal giudice, le quali si ritiene possano essere assunte quali fari nell’individuazione di un sindacato giurisdizionale estrinseco sì, ma più penetrante laddove si verifichino indebite omissioni da parte degli apparati amministrativi.

In primis, il Consiglio di Stato, in Adunanza di sezione, afferma che l’espletamento, da parte della Sovraintendenza, di una relazione storico-artistica, quindi tecnica, “non rende l’Amministrazione esente dalla necessità di ponderare l’interesse alla tutela del bene con l’interesse del proprietario privato” [58], così sconfessando lo sterile orientamento che escludeva, nell’espletamento delle valutazioni scientifiche-tecniche, la necessità per gli organi amministrativi di considerare altresì “i particolari interessi del proprietario” [59].

Ancora, ed è questo il secondo passaggio rilevante della sentenza, il collegio individua e nomina, senza però sconfinare in una valutazione di merito, tutti gli interessi coinvolti nel procedimento di dichiarazione di interesse culturale del cinema - tra cui quello del privato proprietario del bene, ma anche quello pubblico ad evitare il rischio del degrado del bene stesso - che “l’Amministrazione avrebbe dovuto valutare [...] esercitando la propria discrezionalità in modo ‘proporzionato’, individuando la soluzione di minor aggravio per il privato idonea a soddisfare comunque l’interesse pubblico”.

Nell’esercitare, e dunque ammettere, il sindacato giurisdizionale sulla dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante intervenuta sull’immobile denominato Cinema Teatro Acacia, sito in Napoli, anche il Tar Campania ricostruisce il potere di vincolo quale “particolare criterio di giudizio che è proprio di una discrezionalità ampia (data sia da una valutazione storico-scientifica delle rinvenienze, sia da un apprezzamento di interesse pubblico delle stesse)” [60]. Con la conseguenza che il sindacato del giudice amministrativo sugli atti di imposizione di un vincolo da parte di organi preposti alla tutela dei beni culturali non potrà che individuarsi “nei limiti del c.d. ‘sindacato debole’ [...] non potendo il giudice amministrativo sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica Amministrazione, dal momento che in presenza di interessi, la cui cura è dalla legge espressamente delegata ad un certo organo amministrativo, ammettere che il giudice possa auto attribuirseli rappresenterebbe quanto meno una violazione delle competenze, se non addirittura del principio di separazione tra i poteri dello Stato” [61].

La tendenza, positiva, in commento non è circoscritta alle vicende giudiziarie legate alle sale cinematografiche. Si ricorda il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di vincolo sugli “studi d’artista” tale per cui è “imprescindibile il rispetto del principio di proporzionalità nell’esercizio di un potere di vincolo che comporta una grave limitazione dei diritti del proprietario, senza alcuna contropartita [...]”, valorizzando la necessità di “un confronto comparativo dei diversi beni in gioco e di esplicitare nelle premesse del nuovo atto l’iter logico-giuridico seguito per effettuare il contemperamento degli interessi rilevanti, in una visione dinamico-funzionale che tenesse conto, da un lato, dell’esigenza di bilanciamento dell’interesse pubblico perseguito, in termini di benefici per la collettività (inclusa la considerazione degli aspetti di valorizzazione e fruizione pubblica) con, dall’altro lato, la contrapposta esigenza di tutelare i diritti della proprietà” [62].

6. Titoli di coda: qualche riflessione conclusiva

Il recente approdo giurisprudenziale qui esplorato rappresenta, nella peculiarità della fattispecie considerata, l’equilibrio verso cui tendere [63]: l’unica soluzione prospettabile, nei limiti del potere giurisdizionale, ai vuoti di tutela creati da un’amministrazione che si preoccupa di essere prevalentemente tecnica.

D’altronde, tale prospettiva si pone in linea di continuità con l’orientamento del giudice delle leggi ormai ritenuto prevalente: anche i valori primari, come quello che qui interessa, possono entrare nel bilanciamento degli interessi operabile dal legislatore ordinario [64]. È questa “l’altra faccia della inesistenza di una gerarchia di valori predeterminata dal costituente” [65].

Quanto osservato fin qui riflette però un solo lato della medaglia.

Affinché l’effettivo bilanciamento degli interessi coinvolti sia riportato a sistema è auspicabile un ripensamento interno ai medesimi apparati amministrativi deputati all’esercizio della discrezionalità, generalmente intesa, in materia di beni culturali. Infatti, “risulta oltremodo difficile isolare, all’interno del processo decisionale, gli ambiti caratterizzati dalla presenza di una valutazione di natura esclusivamente tecnica” [66] e, per converso, tale distinzione anziché contribuire ad un arricchimento dell’apparato amministrativo, attraverso la condivisione di contributi scientifici [67], pare aver fornito alle titubanti amministrazioni un espediente utile per barricarsi dietro un sapere tecnico, inaccessibile e insindacabile [68].

Allo scopo di evitare il cortocircuito (o conflitto) tra esigenze di tutela e quelle di valorizzazione [69], è necessario incidere sul modo di esercizio della tutela: ciò significa, in primis, prendere atto della prevalenza, nel procedimento di dichiarazione di interesse culturale di un bene, di valutazioni inerenti all’esercizio della discrezionalità pura rispetto a giudizi meramente tecnici [70]. Invero, i magneti costituzionali in tema di cultura sono molteplici e girano intorno a diversi “poli d’attrazione” [71].

Per quanto qui di interesse, la libertà in assoluto più catalizzata e coinvolta dall’enunciazione dell’art. 9 è proprio quella dell’iniziativa economica privata prevista all’art. 41, comma 1 della Carta. Parimenti attratto è poi il diritto di proprietà ex art. 42, comma 2, Cost. [72].

Infatti, il medesimo bene risulta sottoposto ad un duplice regime giuridico. Sotto il profilo economico un bene è sia patrimoniale che culturale: patrimoniale in quanto oggetto di interessi economici, diritti reali e obbligatori, disciplinato, pertanto, nel codice civile, e culturale per quanto concerne il suo aspetto artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico divenendo così un “valore di civiltà”, a cui si applica la disciplina del Codice dei beni culturali che conferisce “al potere pubblico delle potestà concernenti non l’utilizzazione patrimoniale della cosa, ma la sua conservazione alla cultura e il suo godimento da parte della collettività” [73].

L’intreccio, e il conseguente necessario bilanciamento, dei valori in esame risulta evidente nel contenzioso relativo alle sale cinematografiche dichiarate di particolare interesse storico-artistico, soprattutto in materia di vincolo impositivo di destinazione d’uso di beni culturali vincolati, laddove viene permesso solo un utilizzo specifico limitando l’ambito di fruizione del bene culturale [74].

Infine, si ritiene auspicabile la creazione di uno spazio di confronto del potere pubblico con le prerogative private nella valorizzazione e nella gestione dei beni culturali privati in attuazione (effettiva) delle disposizioni codicistiche, da leggersi in combinato disposto, contenute agli artt. 6, comma 3, 113 [75] e 30, comma 3. Il coinvolgimento dei privati proprietari di beni dichiarati di interesse culturale, di cui è paradigmatico il caso delle sale cinematografiche, permette infatti di cogliere la complessità della relazione tra tutela e valorizzazione, il legame dialettico tra i due commi dell’art. 9 Cost.: l’intervento dello Stato non si può limitare alla sola, isolata, arida tutela del patrimonio culturale ereditato dalle generazioni precedenti ma, laddove il fine costituzionalmente designato è quello di sviluppare il livello culturale dei consociati, deve essere di sprone e promuovere la creazione e la distribuzione dei fattori culturali [76].

Questo implica, in aggiunta ad una maggiore responsabilizzazione delle amministrazioni deputate alla tutela [77], coinvolgere i proprietari dei beni nell’adozione di piani di intervento condivisi [78]. “Ciò vale in primo luogo per la promozione della cultura e della ricerca scientifica; ma vale anche per la conservazione dei beni di interesse storico e artistico” i quali non vanno confinati “in stanze polverose o circondate da recinti che ne impediscano l’accesso: di questi beni deve essere al contrario assicurato il godimento pubblico” [79], compatibilmente con le esigenze conservative.

È recente [80] la notizia dell’impugnazione, innanzi al Tar Trento, del parere negativo della soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, relativo al (mancato) riconoscimento del cinema Teatro Roma di Trento quale attività da tutelare in ragione della sua testimonianza culturale e della presenza, nell’edificio che lo ospita, di elementi decorativi di pregio architettonico.

Che sia questa l’occasione, tanto per il giudice tanto per l’amministrazione, per prendere coraggio e apporre vincoli di tutela e realizzare attività di valorizzazione, conservando il Cinema nell’interesse delle generazioni future ma, nel frattempo, destinarlo, consapevolmente, alla fruizione collettiva? [81]

 

Note

[*] Arianna Giovannelli, dottoranda di Diritto amministrativo presso l’Università degli studi di Milano La Statale, Via Festa del Perdono 7, 20122 Milano, arianna.giovannelli@unimi.it.

[1] Per un’analisi completa delle novità introdotte dall’intervento legislativo, si rinvia ai contributi contenuti nella sezione “La riforme del settore cinematografico e audiovisivo”, in Aedon, 2018, 1. Più precisamente, A. Sau, La legge n. 220 del 2016: quale spazio per le autonomie locali?, critica il carattere poco innovativo della previsione di cui al primo comma dell’art. 8 della legge n. 220/2016, il quale, nel precisare che la disciplina di vincolo prevista all’art. 10, comma 3, lett. d), del Codice, può applicarsi anche alle sale cinematografiche e d’essai, “null’’altro [aggiunge] in merito all’accertamento dell’interesse particolarmente importante dovuto alla relazione del bene con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere”. All’opposto, L. Casini, “Il nastro dei sogni”? Il diritto (pubblico) del cinema e dell’audiovisivo, accoglie positivamente la novità normativa ritenendo che l’impianto normativo (del 2014 e, soprattutto, del 2016) per la valorizzazione delle sale storiche “dovrebbe anche rendere la dichiarazione di interesse culturale per le sale cinematografiche più agevole rispetto a quanto avvenuto sino ad oggi, così da evitare, auspicabilmente, le tormentate vicende del Cinema America a Roma”.

[2] Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 5 giugno 2020, n. 5972.

[3] G. Mari, L’Ex Cinema America: la tutela dell’architettura contemporanea tra Codice dei beni culturali e del paesaggio e Legge sul diritto d’autore, in Rivista giuridica dell’edilizia, 2020, 4, pag. 986.

[4] In dottrina è stato osservato “[a] partire dagli anni novanta del secolo scorso, la ‘valorizzazione’ dei beni culturali è stata assunta dal nostro ordinamento come fine pubblico di livello pari a quello della loro ‘tutela’ (art. 1 del codice, che rilegge la ‘tutela’ di cui all’art. 9 Cost come ‘tutela e valorizzazione’). Tuttavia, le politiche di valorizzazione non sono mai riuscite a decollare veramente [...] Il fatto stesso che si sia ritenuto di dover configurare la valorizzazione come un’autonoma politica pubblica segnala una crisi dell’elemento immateriale dei beni culturali, che si trovano nell’impossibilità di esprimere adeguatamente il valore che giustifica il loro riconoscimento come beni culturali”. M. Ramajoli, Note critiche in tema di tutela, valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Le proprietà pubbliche. Tutela, valorizzazione e gestione, (a cura di) F.G. Scoca e A.F. Di Cascio, Napoli, 2016, pag. 137.

[5] Circolare n. 8/2014 Udcm: direttiva del ministro dei Beni e delle Attività culturali e del turismo concernente le sale cinematografiche di interesse storico, disponibile sul sito del ministero (https://cultura.gov.it/comunicato/circolare-n-8-2014-udcm-direttiva-del-ministro-dei-beni-e-delle-attivita-culturali-e-del-turismo-concernente-le-sale-cinematografiche-di-interesse-storico).

[6] Sul ruolo del legislatore nei processi di giuridificazione, B. Marchetti, M. Renna, La giuridificazione, in A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana, (a cura di) L. Ferrara e D. Sorace, III, Firenze, 2016.

[7] La dichiarazione di vincolo “particolarmente importante”, a mente della quale “s]e le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale”, è confluita nella disciplina codicistica all’art. 10, comma 3, lett. d), per il tramite dell’art. 6, comma 1, legge 12 ottobre 2017, n. 153.

[8] S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 7, pag. 673.

[9] G. Perini, L’interesse culturale nella relazione fra bene e contesto sociale: la vicenda della ricollocazione della Madonna del Parto, in Aedon, 2023, 2, pag. 283 ss.

[10] In seguito, anche solo “Mibact”. Laddove nel testo si faccia riferimento ad atti del ministero adottati a partire dal 2021, la denominazione sarà quella di ministero della Cultura, o anche solo “Mic”.

[11] Renato Nicolini, architetto urbanista, fu assessore alla cultura del comune di Roma dal 1976 al 1985. Fu l’ideatore e l’organizzatore della manifestazione “Estate romana”, iniziativa successivamente copiata da molte città europee.

[12] Tra queste, la copertura in cemento armato munita di una cupola apribile per permettere l’arieggiamento dei locali. L’edificio, al suo interno, raccoglie opere di artisti come i mosaici di Anna Maria Cesarini Sforza e di Pietro Cascella.

[13] Solo per citarne alcuni: Gabriele Salvatores, Paolo Sorrentino, Giuseppe Tornatore, Nanni Moretti, Carlo Verdone, Paolo Virzì, Francesca Archibugi, Francesco Bruni, Francesca e Cristina Comencini, Matteo Garrone, Daniele Luchetti, Mario Martone, Alessandro Gassman, Elio Germano, Toni Servillo, Valerio Mastrandrea e i registri Bernardo Bertolucci, Giuliano Montaldo, Francesco Rosi, Ettore Scola.

[14] Un gruppo di architetti organizzò una raccolta firme a sostegno della richiesta di dichiarazione di interesse culturale per il Cinema America “riconoscendone il valore in quanto ‘sala cinematografica’ emblematica della specifica tipologia e riconoscibile elemento dello spazio urbano, e per il suo valore socio-antropologico”. I promotori furono Paolo Berdini, Guido Hermani, Maria Rita Intrieri, Alessandra Muntoni, Giorgio Muratore, Claudia Tombini. La petizione è reperibile al seguente link: https://www.change.org/p/sosteniamo-il-cinema-america. Nel 2014 la stessa Anna Maria Cesarini Sforza, artista autrice dei mosaici, si associò alla richiesta al ministero di dichiarazione di interesse culturale.

[15] Al di fuori delle aule giudiziarie la vicenda proseguì con lo sgombero del Cinema America nell’autunno 2014. Il Comitato, dopo lo sgombero ricevette in comodato d’uso un ex forno prima e una bottega poi in cui diede vita al “Piccolissimo Cinema America”. Lo spazio angusto però non permetteva di organizzare delle proiezioni e quindi il Comitato lanciò l’iniziativa “Schermi Pirata”, cioè proiezioni pubbliche e gratuite sui muri della città usati come schermi. Il comitato è attivo ancora oggi ed è motore della vita culturale cittadina animando varie iniziative, tra cui la rassegna “Cinema in Piazza” e la riapertura del Cinema Troisi a Trastevere.

[16] In primo grado il Tar Lazio ha rigettato il ricorso avverso i provvedimenti concernenti la dichiarazione di interesse culturale e il conseguente vincolo dell’immobile ex Cinema America (Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 5 ottobre 2015, n. 11477). La pronuncia, però, è stata riformata dal Consiglio di Stato con conseguente annullamento dei predetti atti amministrativi per difetto di motivazione (Cons. St., sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2920). Successivamente, anche (e di nuovo) il Tar Lazio ha annullato il decreto con cui il MIBACT dichiarava “di importante carattere artistico” il Cinema ai sensi della Legge n. 633/1941, ritenendo che l’Amministrazione avrebbe dovuto procedere all’assoggettamento dell’opera architettonica come “bene culturale”, ai sensi del d.lg. n. 42/2004 (Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 5 dicembre 2018, n. 11798). Infine, relativamente alla medesima vicenda, è intervenuto il parere n. 1255/2019 in cui il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittima la dichiarazione di interesse culturale poiché intervenuta in violazione del presupposto temporale prescritto dall’art. 1, comma 175, lett. a), n. 2), legge 4 agosto 2017, n. 124 (Cons. St., sez. I, adunanza di sezione del 13 marzo 2019, n. 1255).

[17] Come si è verificato nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 14 giugno 2017, n. 2920. In tale pronuncia, i giudici adottano una interpretazione particolarmente restrittiva del requisito “riferimento con la storia”, prescritto dall’art. 10, comma 3, lettera d) del Codice, così escludendo che il Cinema America rivesta alcun “rilievo nella storia generale della città e del nostro Paese: la struttura è vincolata con riferimento ad un’epoca generica, nemmeno precisamente individuata, tanto nell’estensione temporale, quanto con il richiamo a personaggi o eventi che la contraddistinsero”.

[18] A. Cauduro, L’ultimo atto dell’«ex Cinema America» sulla dichiarazione di interesse culturale delle sale cinematografiche, in Il foro amm., 2020, 6, pagg. 1257-1269.

[19] La sentenza, seppur redatta in forma semplificata, è di notevole interesse sotto diversi profili, tra questi, dal punto di vista processuale, l’interpretazione che il Tar Lazio offre del principio c.d. “one shot provvedimentale”, ritenuto dal giudice non applicabile laddove i precedenti pronunciamenti, intervenuti sull’immobile, “erano del tutto privi di portata conformativa”.

[20] Cfr. punto 3.4.3. della motivazione in diritto.

[21] Il decreto ministeriale d.m. n. 537/2017, di cui si è già trattato nella nota che precede, prevede che affinché la motivazione di un provvedimento di diniego di esportazione di un bene sia legittima, è necessario che l’Amministrazione procedente motivi in merito alla sussistenza di due (almeno) tra i seguenti elementi: 1) Qualità artistica dell’opera; 2) Rarità (in senso qualitativo e/o quantitativo); 3) Rilevanza della rappresentazione; 4) Appartenenza a un complesso e/o contesto storico, artistico, archeologico, monumentale; 5) Testimonianza di particolare significato per la storia del collezionismo; 6) Rilevante testimonianza culturale di relazioni significative tra aree culturali diverse, con il resto del mondo. Il Tar Toscana, nell’evidenziarne “l’importanza”, precisa che gli indirizzi contenuti nel d.m. n. 537/2017 “non a caso, sottolineano la necessità, in considerazione dell’indubbia incidenza del provvedimento sul diritto alla proprietà privata riconosciuto dalla Costituzione, della ‘massima cura nel formulare un provvedimento restrittivo, evitando giudizi apodittici non sostenuti da una adeguata argomentazione critica e storica [...] (e di) motivazioni puntuali’ tendenti a dimostrare la presenza” degli elementi di valutazione contenuti nell’allegato al decreto (Tar Toscana, sez. I, 24 aprile 2024, n. 502).

[22] Il Tar, richiamando alcuni precedenti della medesima Sezione, ricorda che detti criteri, seppur decretati per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione da parte degli uffici esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, “valgono in generale per la dichiarazione dell’interesse dei diversi tipi di beni culturali, tenendo conto della loro particolare natura [...] e valgono anche per dichiarare ‘beni culturali’ gli immobili di particolare interesse storico-artistico-architettonico”. Nello stesso senso si registrano le seguenti pronunce: Tar Lazio, sez. II-quater, 8 gennaio 2019, n. 221 (per un’analisi cfr. nota 57 infra); 14 marzo 2019, n. 3402; 29 maggio 2019, n. 6783; 9 ottobre 2018, n. 9826; 1° marzo 2011, n. 1901. Sugli apprezzamenti soggettivi che le amministrazioni pongono in essere per il tramite dell’applicazione di criteri tecnici, si rinvia all’opera fondamentale di D. De Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995.

[23] Rinvenuto nel caso di specie, “rispetto al suo valore di testimonianza: a) di una tipologia architettonica di cinema destinato alla fruizione popolare [...] b) del connubio tra architettura e arte, nei suoi apparati decorativi pertinenziali [...] e) dell’esordio, della diffusione e infine della crisi del fenomeno della fruizione cinematografica popolare nel cinema monosala tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Novanta. Peraltro, sin dalla fine degli anni Cinquanta [...] il Cinema America ha costituito continuativamente e coerentemente un luogo di aggregazione sociale e un punto di riferimento culturale attraverso la diffusione tra le diverse classi sociali del medium filmico”.

[24] All’opposto di quanto, invece, aveva ritenuto il Consiglio di Stato tre anni prima nella sentenza n. 2920/2027, cfr. nota 17.

[25] Così si è espresso il Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 3 aprile 2023, n. 5630 proprio sull’applicazione dei criteri del d.m. n. 537/2017 nella valutazione di interesse artistico e storico di un dipinto anonimo per il quale è intervenuto in autotutela l’annullamento dell’attestato di libera circolazione. Tra le numerose pronunce in tema di criteri, si ricorda la sentenza del Tar Liguria che ha ritenuto illegittima la dichiarazione di interesse culturale della “Coppia di dipinti raffiguranti Santa Apollonia e San Lorenzo”, attribuiti al pittore Callisto Piazza, per carenza della motivazione sottesa al giudizio di “qualità artistica” che, secondo le direttive ministeriali, deve riguardare più profili del D.M. 537/2017. Invero, nel caso di specie la relazione storico-artistica “non spende alcuna considerazione atta a giustificare la valutazione conclusiva secondo cui esse sono da considerarsi pregevoli dal punto di vista della qualità” (Tar Liguria, II sez., 25 gennaio 2024, n. 54). Sul sindacato intrinseco mediante il parametro dell’attendibilità della valutazione tecnica dell’amministrazione nelle operazioni tecniche in punto di criterio prescelto: G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in Aedon, 2016, 3.

[26] Inaccettabile e contrario a Costituzione secondo il pensiero di M. Ainis, come si vedrà di seguito (cfr. paragrafo 4 e seguenti).

[27] Questa tensione è stata evidenziata da L. Benvenuti, La discrezionalità e i suoi interpreti, in Interpretazione e dogmatica nel diritto amministrativo, Milano, 2002, pagg. 136-138. Inoltre, Police si riferisce alla relazione tra valutazione tecnica e scelta “politica (o discrezionale)” in termini di “complessità e talvolta [...] conflittualità”; così A. Police, Il potere, il coraggio e il tempo nel decidere. Corpi tecnici e loro valutazioni nel trentennale della legge sul procedimento amministrativo, in La legge n. 241 del 1990, trent’anni dopo, (a cura di) A. Bartolini, T. Bonetti, B. Marchetti, B.G. Mattarella e M. Ramajoli, Torino, 2021, pag. 358.

[28] Critica questa impostazione Benvenuti. Ne La discrezionalità e i suoi interpreti, cit., l’A. stigmatizza quell’orientamento “che pur apparentemente disgiungendo la valutazione del pubblico interesse dal giudizio in materia storico-artistica, finisce sostanzialmente per ridurre il primo al secondo; così facendo sorgere il sospetto che del tutto generico sia il riferimento alla nozione di pubblico interesse, visto che l’apprezzamento del pregio del bene non lascerebbe spazio ad un giudizio di meritevolezza su aspetti diversi - quali in ipotesi di ordine economico”, pag. 136.

[29] Già Cerulli Irelli, pur sostenendo la necessità dell’esistenza di una norma che stabilisca puntualmente il contenuto degli accertamenti e degli apprezzamenti di ordine tecnico, ammette che le valutazioni artistiche risultano per gran parte oggetto di un’attività ponderativa.

In particolare, l’A. sostiene che in determinati settori, tra i quali figura quello dei beni culturali, “la legge ha assunto ad interesse pubblico, di cui ha attribuito la cura all’autorità amministrativa, un interesse che possiede anche quella valenza tecnico scientifica”. A sostegno della propria tesi, l’A. prende in considerazione le “decisioni prese da diverse sovrintendenze negli anni passati di ‘staccare’ il barocco da chiese di antica struttura romanica, al fine di portare in superficie la struttura stessa nella sua nudità. Evidentemente si tratta di decisioni che presuppongono un substrato tecnico [...] Ma la scelta è una scelta di politica culturale attribuita dalla legge all’autorità preposta alla cura dei beni culturali, vero e proprio potere discrezionale nel settore proprio di tale amministrazione”. V. Cerulli Irelli, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Diritto processuale amministrativo, 1984, 4, pag. 493.

Sulla politicità, Ramajoli individua quale tratto caratterizzante della discrezionalità proprio “la formulazione di giudizi di valore, di tipo politico”; così M. Clarich, M. Ramajoli, Diritto amministrativo e clausole generali: un dialogo, Pisa, 2021, pag. 56. Ancora, Giannini riteneva che isolare l’elemento tecnico della discrezionalità amministrativa tradizionalmente intesa fosse “più una divisione ideale che reale: la connessione tra giudizio tecnico e decisione amministrativa e strettissima”; v. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993, pag. 57. In questo senso, R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017, pagg. 127-218, evidenziano come nell’ipotesi di imposizione di un vincolo culturale non sia agevole comprendere “se il provvedimento di vincolo debba semplicemente fare applicazione delle conoscenze tecniche e culturali [...] e solamente nella successiva fase della gestione del vincolo, vi sia spazio per valutazioni discrezionali, oppure, invece, il provvedimento di vincolo sia il risultato di un giudizio frutto di valutazioni non solo tecniche, ma anche di carattere discrezionale”.

[30] A. Moliterni, Le disavventure della discrezionalità tecnica, in Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice, (a cura di) A. Moliterni, Napoli, 2021, pag. 19.

[31] Come osservato da M. Bray, Il sindacato giurisdizionale sui provvedimenti in materia di beni culturali, in Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice, cit., pag. 150.

[32] G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, cit. D’altronde, in dottrina non manca chi distingue “nettamente” la discrezionalità amministrativa dalla discrezionalità tecnica, implicando quest’ultima “un’esclusiva attività di valutazione e di giudizio di elementi tecnici alla luce dei postulati delle discipline specialistiche che li regolano e non comporta, invece, alcuna scelta comparativa di interessi (di qualsiasi tipo)”; così L. Ieva, Potere tecnico-discrezionale della p.a. e sindacato del giudice amministrativo: profili teorici ed applicativi, in Foro amministrativo-CDS, 2002, 10, pag. 2667.

[33] Cons. St., sez. II, 15 giugno 2011, n. 2399. Nello stesso anno, il Consiglio di giustizia per la regione siciliana, pronunciandosi sulla legittimità della dichiarazione di interesse etnoantropologico e storico particolarmente importante intervenuta nei confronti di un pozzo e del relativo acquedotto, ha statuito “l’imposizione del vincolo non richiede una ponderazione degli interessi privati con gli interessi pubblici connessi con l’introduzione del regime di tutela, neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto al privato sia stato contenuto nel minimo possibile, sia perché la dichiarazione di particolare interesse non è un vincolo a carattere espropriativo, costituendo i beni di rilievo etnoantropologico una categoria originariamente di interesse pubblico, sia perché comunque la disciplina costituzionale del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9 Cost.) erige la sua salvaguardia a valore primario del vigente ordinamento” (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giur., 10 giugno 2011, n. 418 con nota di G. Tropea, Il vincolo etnoantropologico tra discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità: “relazione pericolosa” o “attrazione fatale”?, in Dir. proc. amm., 2012, 2, pagg. 717-744). Tale impostazione è ripresa da Consiglio di Stato, sez. VI, 3 luglio 2014, n. 3360, rispetto ad un provvedimento di vincolo apposto su un sentiero boschivo. Del medesimo avviso, seppur in tema di tutela del paesaggio, il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittima l’azione del Mibact, il quale “anziché occuparsi, come debito suo compito, di curare l’interesse paesaggistico (e di valutare, quindi, in termini non relativi ad altri interessi l’impatto paesaggistico dell’intervento), ha illegittimamente compiuto una non consentita attività di comparazione e di bilanciamento dell’interesse affidato alla sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi pubblici di altra natura e spettanza (essenzialmente quelli sottesi alla realizzazione dell’elettrodotto e, dunque, al trasporto dell’energia elettrica)” (Cons. St., sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652).

Recentemente, il Consiglio di Stato, rispetto al regime di edificabilità apposto ad un gruppo di ville storiche pugliesi, ha ricordato “che la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa di tali valori. La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all’attività edilizia” (Cons. St., sez. II, 14 novembre 2019, n. 7839).

Nello stesso senso, il Consiglio di giustizia per la regione siciliana ha ritenuto che per il vincolo di inedificabilità, previsto dall’art. 15 Legge regionale siciliana 12 giugno 1976, n. 78, “[n]on residua in capo all’Amministrazione [...] compiere ulteriori valutazioni e ponderazioni di interessi, oltre a quella operata dal legislatore regionale”, in quanto la “tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, per espressa previsione del secondo comma dell’art. 9 Cost., rientra tra i principi fondamentali della Costituzione con la inevitabile retrocessione di confliggenti interessi pubblici o privati” (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giur., 11 aprile 2022, n. 447).

[34] A. Moliterni, Le disavventure della discrezionalità tecnica, in Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice, cit., 2021, pag. 40. Paradigmatica, in tale senso, è la direttiva del ministro della Cultura del 28 settembre 2005 la quale configura l’attività di riconoscimento della qualità culturale di un bene esclusivamente come esercizio di discrezionalità tecnica. La Direttiva, indirizzata agli “Uffici chiamati a verificare l’interesse culturale delle cose”, afferma in modo tranchant “[n]on spetta dunque all’amministrazione che procede nella concreta fattispecie stabilire se deve prevalere l’interesse culturale del bene protetto o l'interesse antagonista (pubblico o privato che esso sia)”. Seppur con riferimento all’accertamento tecnico, Tonoletti prendendo in esame proprio la “funzione creativa di stati giuridici preordinata al riconoscimento delle cose mobili e immobili assoggettate alla tutela dei beni culturali”, allora previsto dal Testo Unico approvato con d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, osservava come “non è più possibile, in questa sfera, considerare gli effetti giuridici come conseguenza dell’accertamento, anche quando essi siano puntualmente determinati dalla legge, perché la produzione dell’effetto dipende sostanzialmente dalla decisione amministrativa che riconosca la presenza nel caso singolo dell’interesse che la norma intende tutelare prefigurando quell’effetto”; cfr. B. Tonoletti, L’accertamento amministrativo, Padova, 2001, pag. 141.

[35] Dal momento che l’interesse pubblico istituzionalmente tutelato dalla pubblica amministrazione “non è un interesse che incorpora o nega gli interessi privati, ma che convive con essi, di volta in volta sacrificandoli o soddisfacendoli”; così M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, pag. 98. Critico nei confronti di questo orientamento giurisprudenziale, Scoca rileva “[l]a verità è che probabilmente, per ragioni di semplificazione, la giurisprudenza amministrativa, dinanzi ad una graduazione di possibili giudizi, che contempla giudizi di esistenza e inesistenza, giudizi di esattezza e inesattezza, giudizi di congruità e incongruità e, in ultimo, giudizi di opportunità e inopportunità, non ha operato una differenziazione sulla base dell’oggetto (o del criterio) del giudizio, ma ha preferito porre in essere una differenziazione meno analitica, separando i giudizi di esistenza semplici da tutti gli altri giudizi”; cfr. F.G. Scoca, Sul trattamento giurisprudenziale della discrezionalità, in Potere discrezionale e controllo giudiziario, (a cura di) V. Parisio, Milano, 1998, pag. 115.

[36] Così facendo coincidere, anzi sovrapponendo, la nozione di discrezionalità tecnica con la discrezionalità amministrativa preposta all’individuazione dell’interesse pubblico, “tale da distinguersi dalla discrezionalità amministrativa solo in quanto non comportante una ponderazione comparativa fra interessi, ma l’identificazione dell’unico interesse pubblico sotteso all’accertamento del fatto”. L. Galli, Il Sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica, in Dir. proc. amm., 2014, 4, pag. 1375. Invero, come si esaminerà di seguito, “la dottrina contemporanea rifiuta il concetto di discrezionalità tecnica, riconoscendo la disomogeneità tra le categorie di discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica. La negazione del concetto poggia sulla ‘estraneità’ fra valutazione tecnica e valutazione discrezionale, questa ultima intesa come valutazione del pubblico interesse”; così M. Ramajoli, Diritto amministrativo e clausole generali: un dialogo, cit., pagg. 64-65. Per un’ampia ricostruzione del dibattito si richiama anche M. Ramajoli, R. Villata, Il provvedimento amministrativo, cit., pag. 133.

[37] Tale espressione, pronunciata dai giudici del Tar Lazio, denota in maniera negativa gli esiti giudiziari della dichiarazione intervenuta sul cinema romano. In particolare, il Tar romano parla dei “c.d. ‘effetti perversi del vincolo’, che costituiscono una minaccia sia per i beni paesaggistici sia per i beni culturali immobili (esemplare la vicenda del vincolo sull’ex Cinema America)” (Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 27 gennaio 2021, n. 1080).

[38] Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2023, n. 2641.

[39] P. Marzaro, Vincolo culturale di destinazione d’uso: il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni della p.a. e il rischio dell’“effetto paradosso”, in Aedon, 2023, 1, pag. 41 ss.

[40] Cfr. punto 3.3 e 4.8 della motivazione in diritto.

[41] La Corte costituzionale, con la sentenza 24 giugno 1986, n. 151, afferma la legittimità costituzionale della legge 8 agosto 1985, n. 431, recante “disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale” la quale conteneva norme indirizzate a contrastare lo sfruttamento edilizio del paesaggio, e descrive l’intervento normativo in termini di “grande riforma economico-sociale” profondamente innovativa rispetto alla legislazione precedente sulle bellezze naturali (par. 8 del Considerato in diritto).

[42] Il riferimento è alla sezione I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso, contenuta, in Aedon, nel numero 1 del 2023, dove sono stati raccolti i numerosi contributi a commento della pronuncia. Tra questi, M. Cammelli, Adunanza plenaria CdS 5/2023: chiusura del cerchio o apertura possibile?. In un diverso saggio, il medesimo A. aveva già osservato che “in termini di principio l’indubbia primarietà da riconoscere alla tutela [culturale] non esclude la presenza e dunque il necessario equilibrio da raggiungere per la soddisfazione di altri interessi pubblici rilevanti”, pertanto “primarietà non è sinonimo di esclusività”; cfr. M. Cammelli, Patrimonio culturale: dinamiche e nodi istituzionali, in Economia della Cultura, 2021, 4, pag. 528. Nello stesso senso critico, G. Sciullo, Sull’utilizzo del vincolo culturale di destinazione d’uso. L’A. evidenzia l’opportunità che “l’autorità di tutela anche in sede di valutazioni relative all’apposizione di un vincolo di destinazione d’uso non possa sottrarsi ad un bilanciamento degli interessi in gioco, da condursi in particolare secondo i tre step (idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto) che connotato il principio di proporzionalità”. Si ricorda poi “l’auspicio, davvero unanime, di un uso - da parte degli uffici ministeriali addetti alla tutela - di questo così dilatato potere che sia quanto mai parco, prudente, misurato, moderato e accorto, comunque episodico e sempre rispettoso in concreto del fondamentale ‘principio di proporzionalità’, con i suoi corollari della ‘necessarietà’ e del ‘minor sacrificio’ per la dimensione economica della proprietà privata, ‘riconosciuta e garantita’ in base all’art. 42 della Costituzione” di G. Severini, Sul vincolo di destinazione per il bene culturale immobiliare: prime considerazioni su Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5.

Ancora, seppur con riferimento al diritto all’integrazione scolastica degli alunni portatori di disabilità, Ramajoli evidenzia “la difficoltà di individuare una categoria di diritti incomprimibili dai contorni precisi. L’espressione rischia di avere un valore più ideologico che tecnico, dal momento che non è chiaro il fondamento teorico della figura, né la sua disciplina, né il discrimine rispetto ad altri diritti costituzionalmente tutelati, come il diritto di proprietà, o il diritto d’iniziativa economica privata [...]”. Da qui “la piena conciliabilità tra diritto assoluto e potere amministrativo” M. Ramajoli, Valutazioni tecniche, pubblica amministrazione e diritti fondamentali, in Diritto e valutazioni scientifiche, (a cura di) B. Liberali e L. Del Corona, Torino, 2022, pagg. 163-164.

[43] Del resto, l’omesso esercizio di discrezionalità impedisce all’ufficio amministrativo procedente di conseguire “alcun risultato adeguato e utile all’interesse pubblico concreto, né agli interessi secondari, anzitutto quelli dei cittadini coinvolti nei procedimenti”; cfr. V. Caputi Jambrenghi, Lineamenti sulla discrezionalità amministrativa pura, in Aipda, Annuario 2022, Napoli, 2023, pagg. 353 ss.

[44] Le conseguenze negative di una limitata sindacabilità giurisdizionale delle valutazioni tecniche sopra esposte sono state osservata anche da Ramajoli, seppur con riferimento alla discrezionalità tecnica esercitata in ambito ambientale. M. Ramajoli, Le valutazioni tecniche degli organi preposti alla tutela dell’ambiente tra surrogabilità e sindacabilità giurisdizionale, in Riv. giur. amb., 2022, 4, pagg. 1006-1007.

Anche Tropea, nel ricostruire le ragioni a sostegno della critica nei confronti della giurisprudenza amministrativa che arresta il proprio sindacato di fronte alle valutazioni tecniche, riporta “l’idea che la riserva a favore dell’amministrazione di valutazioni di ordine tecnico, anche se opinabili, sia in contrasto col principio costituzionale della piena tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione di cui agli artt. 24 a 113 Cost.”; così G. Tropea, Il vincolo etnoantropologico tra discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità: “relazione pericolosa” o “attrazione fatale”?, cit. Il Consiglio di Stato, intervenuto sulla legittimità dei criteri tariffari per il trasporto del gas naturale, ha statuito che il principio di effettività e pienezza della tutela “impone che l’esercizio della discrezionalità tecnica sia verificabile nel giudizio di legittimità, sotto i profili della coerente applicazione delle regole tecniche, rilevanti per il settore, nonché della corrispondenza degli atti emessi ai dati concreti, in modo logico e non arbitrario” (Consiglio di Stato, sez. II, 27 luglio 2023, n. 7386; per un commento si veda G. Greco, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2023, 2, pagg. 286-287).

Nell’opinione di chi scrive, tale posizione potrebbe configurare, inoltre, una violazione del principio di proporzionalità inteso quale dovere dell’amministrazione di non comprimere la sfera giuridica dei destinatari dell’azione in misura diversa ed ulteriore rispetto a quanto strettamente necessario per il raggiungimento dello scopo prefisso dal legislatore: “[a]lla luce di tale principio [di proporzionalità], nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa un’adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, il principio in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi” (Cons. St., sez. V, 20 febbraio 2017, n. 746).

In dottrina. F. Trimarchi Banfi, Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, 2016, 2, pag. 362, scandisce il principio di proporzionalità “in tre stadi successivi, che corrispondono, rispettivamente, alla verifica che la misura sotto esame: 1. sia idonea allo scopo perseguito; 2. sia ‘necessaria’ nel senso di non sostituibile con altra misura, non meno efficace allo scopo e meno incisiva per gli interessi contrapposti; 3. sia proporzionata ‘in senso stretto’, in quanto non impone all’interesse antagonista un sacrificio eccessivo se confrontato con il vantaggio conseguito dall’altro. Nel terzo stadio ha luogo la verifica del ‘bilanciamento’ degli interessi che entrano in conflitto nel caso di specie”. Sul principio di proporzionalità si veda anche B. Marchetti, Il principio di proporzionalità: uno, nessuno e centomila?, in La legge n. 241 del 1990, trent’anni dopo, cit., pagg. 19-31 e la dottrina ivi citata.

[45] Severini descrive la relazione tra tutela e valorizzazione come “un’inscindibile endiadi, che esprime un unico concetto, a meno di concepire la tutela in termini mortificanti, negativi, di meri divieti, quando invece implica anche un progetto di conservazione e di fruizione, dunque di valorizzazione”; cfr. G. Severini, I principi del codice dei beni culturali e del paesaggio, in Giorn. dir. amm., 2004, 5, pag. 472. Cabiddu, sulla distinzione tra tutela, valorizzazione, gestione, promozione, evidenzia che questa “per quanto logicamente e giuridicamente ferma, non possa essere troppo netta, anche in considerazione dello specifico oggetto (il patrimonio culturale), rispetto al quale esse non sono che momenti di un unico processo”; così M.A. Cabiddu, Patrimonio culturale e paesaggio: il bello dell’Italia, in Diritto dei beni culturali del paesaggio, (a cura di) M.A. Cabiddu, N. Grasso, Torino, Giappichelli, 2021, pag. 17. Critica la contrapposizione tra valorizzazione e tutela, Moliterni il quale ritiene che proprio quest’ultima non ha “in molti casi consentito di tenere adeguatamente conto della complessità di molti processi di recupero e di valorizzazione del patrimonio culturale, i quali impongono una sinergia e una piena integrazione tra la logica della tutela e la logica della valorizzazione, anche soprattutto in sede di installazione e di definizione della collaborazione con i privati”; cfr. A. Moliterni, Pubblico e privato nella disciplina culturale: l’assetto del sistema, i problemi, le sfide, in Patrimonio culturale soggetti privati. Criticità e prospettive del rapporto pubblico-privato, (a cura di) A. Moliterni, Napoli, Editoria scientifica, 2019, pag. 34. Si rinvia inoltre ai riferimenti riportati alla nota 25.

[46] Corte cost., 28 luglio 1988, n. 921.

[47] Come è stato osservato, in maniera particolarmente incisiva, “la valorizzazione del bene culturale non può che ridondare in una tutela, mentre una efficace tutela del bene costituisce già essa valorizzazione dello stesso”; cfr. P. Carpentieri, Tutela e valorizzazione dei beni culturali, in Urbanistica. e appalti, 2003, 9, pag. 1021.

[48] In dottrina, muovendo dalla considerazione tale per cui il rapporto tra tutela e valorizzazione deve essere affrontato in termini di “interdipendenza, con una prospettiva olistica, onnicomprensiva”, si è affermato che relativamente “ai provvedimenti di dichiarazione di interesse culturale degli interni dei locali storici e di afferenza al patrimonio culturale immateriale dell’attività commerciale svolta in questi locali”, i confini tra “tutela e valorizzazione sono del tutto indistinguibili”; così F. Caporale, La valorizzazione dei beni culturali. Analisi giuridica delle trasformazioni in corso, Napoli, 2024, pagg. 41 e 327.

[49] M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Padova, 1991, pag. 10.

[50] La valorizzazione, infatti, non può essere “un compito eventuale: esse rimane pur sempre un dovere a cui sono tenute le amministrazioni pubbliche (anche ai sensi dell’art. 112, comma 6 del codice dei beni culturali); dovere, questo, che va esercitato, nel concreto delle iniziative di valorizzazione quotidiane, in maniera compatibile con le esigenze di tutela”; cfr. F. Caporale, La valorizzazione dei beni culturali. Analisi giuridica delle trasformazioni in corso, cit., pag. 37.

[51] Come è noto, tale indirizzo è stato inaugurato dalle pronunce della Corte costituzionale sul caso Ilva, in particolare: Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85 e 23 marzo 2018, n. 58. Nella sentenza n. 85/2013, la Corte riconosce carattere non assoluto a “[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione” i quali “si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”. Pertanto, la tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”. Proprio dal carattere sistematico e non frazionato della tutela accordata ai diritti deriva, secondo Cartabia, “una tecnica interpretativa e argomentativa che riflette il pluralismo dei valori su cui si basa la Costituzione italiana. Nessun diritto fondamentale è protetto in termini assoluti dalla Costituzione, ma - al contrario - è soggetto a limiti per integrarsi con una pluralità di altri diritti e valori, giacché altrimenti si farebbe ‘tiranno’ [...] e porterebbe al totale annientamento di uno o più fattori in gioco”. V. M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità` nella giurisprudenza costituzionale italiana, 2013, pag. 10, disponibile all’indirizzo: http://www.cortecostituzionale.it.

Le considerazioni della Corte costituzionale, svolte nelle pronunce rese sul caso Ilva, sono riprese da Ramajoli in materia ambientale. L’A. afferma che “occorre rifuggire alla trappola che parte dal riconoscimento del ruolo primario assunto dal valore ‘ambiente’ nei riformati artt. 9 e 41 Cost. e ne vorrebbe ricavare un mutamento del ruolo dell’interesse ambientale nella ponderazione degli interessi in gioco [...] Del resto, anche la Corte costituzionale ha da tempo aderito a un modello di sindacato in base al quale nessun diritto, o principio, oppure valore può espandersi in maniera illimitata e questo divieto vale anche per i diritti fondamentali, compreso il diritto alla salute e alla salubrità dell’ambiente”; cfr. M. Ramajoli, Le valutazioni tecniche degli organi preposti alla tutela dell’ambiente tra surrogabilità e sindacabilità giurisdizionale, cit., pagg. 1003-1004.

[52] Come è noto, il cambio di paradigma si è registrato con la sentenza Cons. St., sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601. Tra i molti commenti, si rinvia a D. De Pretis, Discrezionalità tecnica e incisività del controllo giurisdizionale, in Giorn. dir. amm., 1999, 12, pagg. 1179 ss.; L.R. Perfetti, Ancora sul sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica, in Foro amm., 2000, pagg. 422 ss.; M. Delsignore, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2000, 1, pagg. 185 ss.; P. Lazzara, “Discrezionalità tecnica” e situazioni giuridiche soggettive, ivi, pag. 212 ss. e A. Travi, Nota a Cons. di Stato n. 601/1999, in Foro it., 2001, 3, pag. 9 ss.; C. Videtta, Il sindacato sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione nella giurisprudenza successiva alla decisione 9 aprile 1999, n. 601, della quarta sezione, in Foro amm.-Tar, 2003, pag. 1185.

[53] G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, cit.

[54] Cons. St., sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003.

[55] Ibidem.

[56] Come definito da P. Marzano, Vincolo culturale di destinazione d’uso: il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni della p.a. e il rischio dell’“effetto paradosso”, cit.

[57] Cons. St., ad. plen., sez. I, 14 dicembre 2022, n. 1961.

[58] Ibidem.

[59] Cons. St., sez. II, 15 giugno 2011, n. 2399, già citato.

[60] Tar Campania, Napoli, sez. VII, 11 dicembre 2023, n. 6792. L’appello di tale pronuncia pende innanzi al Consiglio di Stato, non è ancora stata fissata l’udienza pubblica di discussione.

[61] Tar Campania, Napoli, sez. VII, 11 dicembre 2023, n. 6792. La medesima affermazione si rinviene nella sentenza con cui il Tar Sicilia ha annullato la dichiarazione di interesse culturale di una antenna televisiva, costruita dalla Rai, nel territorio del comune di Caltanisetta. Il giudice amministrativo, nel motivare l’illegittimità del vincolo apposto, ha ritenuto che le valutazioni svolte nella relazione storico-artistica, avessero ad oggetto aspetti meramente “descrittivi e storici a sostegno della tesi della rilevanza culturale dell’antenna, ma nulla è riferito sulla situazione strutturale della stessa, a circa 70 anni dalla sua costruzione, con particolare riferimento all’eventuale rischio di cedimento e ai conseguenziali pericoli gravanti sui soggetti residenti e su tutti i frequentatori anche occasionali dell’area circostante” (Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 20 ottobre 2021). Dunque, un omesso bilanciamento tra l’interesse culturale e altri interessi coinvolti.

[62] Tar Lazio, sez. II-quater, 8 gennaio 2019, n. 221. La sentenza citata prosegue specificando che il sacrificio del privato proprietario “deve essere ‘giustificato’, in applicazione del principio di proporzionalità, dalla preminenza del vantaggio per la collettività”.

Nello stesso senso, il Consiglio di Stato, sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5986, nell’annullare il provvedimento di vincolo apposto alla Casa-Studio del musicista Lucio Dalla, afferma che l’ampia discrezionalità riconosciuta all’amministrazione in siffatte situazioni “deve essere ponderata alla luce: - del proporzionale bilanciamento degli interessi coinvolti, - dell’adeguatezza al caso concreto; - della ragionevolezza del provvedimento”. Il medesimo orientamento è riscontrabile nella precedente pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI, 12 aprile 2011, n. 2243. In dottrina, si è valorizzato il medesimo orientamento affermatosi in tema di sindacato giurisdizionale delle valutazioni tecniche in materia ambientale.

A tale stregua, Ramajoli osserva “valutazioni tecniche e valutazioni discrezionali non sono tra loro assimilabili e confondibili: le valutazioni tecniche costituiscono il presupposto conoscitivo delle valutazioni di interessi, ferma restando la loro natura opinabile, mentre le valutazioni discrezionali attengono alla scelta del modo migliore di realizzare l’interesse pubblico in relazione a una precisa situazione di fatto previamente valutata alla stregua di criteri tecnici. In qualsiasi settore, in qualsiasi materia la regola non può essere il carattere riservato di una valutazione tecnica, perché ciò si risolve inevitabilmente nell’attribuzione all’amministrazione di una posizione di potere nei confronti del cittadino”; così M. Ramajoli, Le valutazioni tecniche degli organi preposti alla tutela dell’ambiente tra surrogabilità e sindacabilità giurisdizionale, cit., pag. 1002.

[63] Già Rota nel 2002 guardava con favore a quell’orientamento giurisprudenziale, all’ora minoritario, in cui si andava affermando che “l’esercizio del potere di imposizione del vincolo culturale comporta un momento sia discrezionale (nel senso che importa comparazione di interessi), sia un momento tecnico” con ciò volendosi intendere che “la tecnica non rileva soltanto nell’accertamento del presupposto, ma anche nei momenti successivi e, in particolare, nella valutazione degli interessi coinvolti, la cui composizione non può che essere attuata tenendo conto del dettato delle regole tecniche”; cfr. A. Rota, La tutela dei beni culturali tra tecnica e discrezionalità, Padova, 2002, pagg. 91-101.

[64] Nella valutazione di vincolo, emerge quindi “uno spazio ‘libero’, discrezionale, in cui si muove l’amministrazione: uno spazio che non si risolve nella mera dichiarazione dell’importanza dell’interesse; uno spazio nel quale diventa sempre più difficile affermare a priori l’assoluta irrilevanza di ogni interesse diverso da quello primario”; cfr. A. Rota, La tutela dei beni culturali tra tecnica e discrezionalità, cit. pagg. 95-96.

[65] G. Sciullo, A proposito delle valutazioni di compatibilità rispetto a vincoli storico-artistici e paesaggistici, in Aedon, 2018, 2. Sul cambio di paradigma della giurisprudenza costituzionale sia consentito rinviare al corposo elenco di pronunce contenuto in G. Sciullo, Sull’utilizzo del vincolo culturale di destinazione d’uso, cit.

[66] A. Moliterni, Le disavventure della discrezionalità tecnica, in Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice, cit., pag. 37.

[67] Tale commistione di saperi appare quanto più opportuno laddove, quotidianamente, “si assiste ad un incremento esponenziale della complessità tecnica dei compiti che le amministrazioni pubbliche sono chiamate a svolgere, anche a fronte dei tumultuosi mutamenti scientifici e tecnologi degli ultimi decenni”. T. Bonetti, I corpi tecnici nella legge n. 241/1990 tra innovazioni e continuità, in La legge n. 241 del 1990, trent’anni dopo, cit., pag. 269.

[68] A questo proposito si ritiene calzante la considerazione di G. Piperata, il quale afferma “a proposito della primarietà da riconoscere l’interesse culturale e paesaggistico, che [...] non solo non equivale ad una automatica preferenza dello stesso rispetto ad ogni altro interesse che la pubblica amministrazione è tenuta a bilanciare, ma neanche ad uno schermo in grado di proteggere interventi di tutela e realizzati con qualche forzatura rispetto a quelli che sono i principi posti a garanzia degli amministrati”; cfr. G. Piperata, I corpi tecnici del patrimonio culturale e le insidie della legge n. 241/1990, in La legge n. 241 del 1990, trent’anni dopo, cit., pag. 303.

[69] D’altronde, “già nell’ottica costituzionale tutela e promozione dei beni culturali sono tra loro indissolubilmente legate e devono procedere all’unisono”. V. M. Ramajoli, Note critiche in tema di tutela, valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Le proprietà pubbliche. Tutela, valorizzazione e gestione, cit., pag. 140. Cammelli riconduce il complesso rapporto tra compiti di tutela e le altre funzioni di conservazione, fruizione e valorizzazione alla formulazione del Codice dei beni culturali, tale per cui “in tutti i casi in cui le norme non sono direttamente auto applicative” la disciplina codicistica “impone direttamente” alle c.d. altre funzioni “la conformità alla normativa di tutela”, con la conseguenza che si sposta “sul piano normativo una parte di ciò che andrebbe riservato all’agire amministrativo e al concreto raffronto basato sui dati (e naturalmente, nel rispetto della legge) tra valutazioni e attività specifiche riferibili agli apparati competenti e i diversi interessi pubblici e privati di volta in volta in gioco”. V. M. Cammelli, Patrimonio culturale: dinamiche e nodi istituzionali, cit., pag. 526.

[70] A favore di tale rilettura si registrano numerose e autorevoli voci in dottrina. Già Ledda, riferendosi alla coppia “giudizi tecnici e determinazioni propriamente discrezionali”, affermava come “la distinzione appare meno netta di quanto si vorrebbe: così, quando si parla d’un giudizio tecnico-discrezionale, il momento tecnico perde quella evidenza propria che parrebbe imporre una disamina distinta, e si dissolve integralmente nel merito dell’atto”; così F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Studi in memoria di V. Bachelet, AA.VV., Milano, 1987, Vol. II, pag. 301. Giannini, riteneva, analogamente, che isolare l’elemento tecnico dalla discrezionalità amministrativa, per come tradizionalmente intesa, fosse “più una divisione ideale che reale: la connessione tra giudizio tecnico e decisione amministrativa è strettissima”; cfr. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, cit., pag. 57. Anche secondo Benvenuti “non appare convincente la netta separazione del giudizio tecnico artistico da quello amministrativo, o almeno ciò senza il richiamo, almeno implicito, a giustificazioni poggianti su una particolare autorevolezza degli organi tecnici”; cfr. L. Benvenuti, La discrezionalità e i suoi interpreti, cit., pag. 139. Sulla complessità di discernere tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa (“l’indistinzione sostanziale”), con specifico riferimento al piano degli interessi coinvolti, si veda inoltre M. D’Alberti, Prefazione, in Le valutazioni tecnico-scientifiche, (a cura di) A. Moliterni, cit. pagg. 3-4.

Si segnala, infine, l’originale posizione di Marzuoli, il quale scomponeva i procedimenti di apposizione di vincolo culturale di un bene in “due giudizi connessi ma distinti: quello sul pregio storico artistico, che costituirebbe il momento dell’accertamento del presupposto, e quello sulla meritevolezza del bene alla conservazione che rappresenterebbe il momento della decisione che l’amministrazione deve assumere”; così C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985, pag. 83.

[71] M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, Giuffrè, Milano 2003, pag. 97.

[72] Per un approfondimento si rinvia a F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Giuffrè, Milano 2002, pagg. 58-60, par. 3 in cui si analizza “Il rapporto tra il 2° comma dell’art. 9 e l’art. 42 della Costituzione”; in giurisprudenza la Corte costituzionale ha ritenuto che “l’esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà deve svolgere”; v. Corte cost., 6 marzo 1990, n. 118; in senso conforme si registra la pronuncia della Corte 21 luglio 1992, n. 338.

[73] C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, 2011, pag. 39.

[74] La valutazione tecnica “dell’organo amministrativo non è basata su criteri strettamente tecnici [...] ma sui criteri forniti da discipline insuscettibili di un apprezzamento ‘neutrale’. Si pensi per esempio ai criteri d’ordine storico, estetico, artistico e così via dicendo: ai fini delle decisioni sull’eventuale tutela d’un bene ‘culturale’ la disciplina di base potrà fornire una prima indicazione, ma il giudizio sul valore culturale è già ‘ponderazione’ dell’interesse pubblico alla conservazione di questo di quel bene”. Così F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, cit., pag. 301, in particolare nota 132.

[75] Per un commento, G. Piperata, La valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata (art. 113), in Aedon, 2004, 1.

[76] La dottrina ritiene da tempo che “tutela vuol dire conservazione nel contesto”, con ciò risolvendo l’apparente antinomia tra la tutela e la valorizzazione nel senso che il secondo componente del binomio comprende al proprio interno il primo, e anzi rappresenta per esso un elemento costitutivo. V. S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, cit., pag. 673.

[77] Piperata, presagendo “un futuro nel quale le pubbliche amministrazioni saranno chiamate ad intervenire in realtà sociali, economiche, tecnologiche molto più complesse di quelle attuali”, ritiene che tale “complessità andrà in primo luogo risolta attraverso l’azione dell’amministrazione, la quale, proprio per questo, dovrà essere oggetto di un ampio processo di valorizzazione delle sue strutture, accompagnato dall’assunzione di una nuova responsabilità nei confronti degli amministrati”; cfr. G. Piperata, I corpi tecnici del patrimonio culturale e le insidie della legge n. 241/1990, in La legge n. 241 del 1990, trent’anni dopo, cit., pag. 306. Mattarella ritiene invece che la responsabilità “si svaluta quando se ne abusa. Più si prevedono forme di responsabilità che non saranno mai attivate, più si indeboliscono queste forme di responsabilità”. Nell’opinione dell’A. “[d]are i giusti incentivi ai dipendenti pubblici significa puntare su meccanismi premiali, che consentano di far corrispondere benefici ai buoni rendimenti” così “riportando la responsabilità a una dimensione non paralizzante; dando un rilievo non eccessivo agli errori occasionalmente commessi dai dirigenti, magari in un quadro di grande efficienza e dedizione [...] queste misure non richiedono nuove norme - potendo semmai trarre beneficio, come si è visto, da una riduzione della quantità di norme - bensì comportamenti virtuosi da parte dei diversi attori in campo: politici, dirigenti e organi di controllo, inclusi i giudici”. V. B.G. Mattarella, Burocrazia normativa: il valore della legge e il ruolo dell’amministrazione, in Analisi giur. econ., 2020, 1, pagg. 92-93.

[78] In dottrina, è stato criticato l’atteggiamento di chi insiste “sulla preminenza e l’esclusività dell’interesse [alla tutela del bene culturale] accudito sul piano normativo senza mettere in discussione l’impianto della disciplina degli strumenti amministrativi... In questo modo la posizione di superiorità rivendicata in partenza per la cura del patrimonio culturale non sempre resta tale all’arrivo, e in ogni caso viene meno proprio ciò che sarebbe più necessario: la ricerca della soluzione specifica più adeguata, entro un quadro complessivo di obiettivi e linee guida, perseguite in concreto con il confronto reciproco”; cfr. M. Cammelli, Patrimonio culturale: dinamiche e nodi istituzionali, cit., pag. 528.

[79] M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Cedam, Padova, 1991, pagg. 10-11.

[80] “Chiusura Cinema Roma, ricorso al Tar: In discussione la tutela e l’attività”, in Corriere della Sera, 1° luglio 2024.

[81] In aderenza alla qualifica di beni culturali quali “beni di fruizione” di M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pag. 31. Sull’importanza della fruizione dei beni culturali, M. Ramajoli, Note critiche in tema di tutela, valorizzazione e fruizione dei beni culturali, cit., pag. 138, la quale ritiene che “soltanto se i beni culturali riusciranno a produrre valore in maniera socialmente ed economicamente apprezzabile sarà possibile soddisfare le condizioni (prima ancora ideologiche che materiali) per un significativo ritorno dell’investimento pubblico per la loro tutela”. Inoltre, rileva la considerazione per cui “sicuramente l’assicurare le migliori condizioni di fruizione pubblica è finalità propria della valorizzazione, ma la fruizione costituisce il fine ultimo della protezione e conservazione e quindi della tutela”; così C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata e G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2020, pag. 149.

 

 

 



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