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I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso

Vincolo culturale di destinazione d’uso: il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni della p.a. e il rischio dell’“effetto paradosso” [*]

di Patrizia Marzano [**]

Cultural constraint of intended use: the judicial review about public administration evaluations and the risk of the “paradox effect”
Starting from the analysis of the Adunanza Plenaria nr. 5/2023 of the Italian State Council, the article focuses on the nature of discretionary power of public administration on the protection of cultural heritage and the “paradoxical effects” of the use of cultural constraint of intended use.

Keywords: Cultural Constraint of Intended Use; Judicial Review; Administrative Discretion.

Ringrazio di cuore il Presidente Severini per l’invito, e saluto gli amici e colleghi qui riuniti oggi ad affrontare un tema tanto interessante quanto estremamente delicato per le conseguenze che ne possono scaturire. E’ già stato detto molto negli interventi che mi hanno preceduto, ma credo che possa esserci uno spazio per alcune riflessioni ulteriori, incentrate in particolare sulla natura del potere di valutazione esercitato dagli organi ministeriali in sede di tutela del patrimonio culturale, e ricollegandomi all’appello con il quale in apertura il Presidente Severini ha invitato ad “un uso moderato del potere di vincolo” quale è stato configurato dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria di cui si discute.

Vorrei prendere le mosse da un passo dell’ordinanza di rimessione che ha originato la sentenza dell’Adunanza Plenaria - il 28.5 - che ben sintetizza a mio avviso uno dei punti caldi delle questioni poi riprese nella sentenza n. 5 del 2023: “La Sezione non reputa... che il vincolo di destinazione in esame sia idoneo ad imporre un obbligo di prosecuzione dell’attività di ristorazione, né ritiene si sia in presenza di una riserva della relativa attività commerciale in favore dell’attuale gestore... Tali prescrizioni non sono espressamente poste dall’Amministrazione, che ha, invece, ravvisato la sola esigenza della continuità d’uso, senza riferimenti soggettivi all’identità dell’operatore legittimato a provvedervi e senza imporre un obbligo di esercizio dell’attività commerciale: emerge, dunque, soltanto un divieto di usi diversi da quello attuale”.

In realtà si tratta di un’affermazione - la ritroviamo poi tralatiziamente sparsa in più punti della sentenza n. 5 - che dice più di quanto voglia.

È difficile infatti non ritenere che questo divieto non trasmodi in positivo nell’obbligo di esercizio dell’attività commerciale di ristorazione; compatibile, ammissibile, in tanto in quanto risulti espressione di quell’identità culturale collettiva che ha trovato personificazione nell’attuale gestione. Per quanto la Sezione, rendendosi conto della delicatezza del problema, si premuri di proseguire affermando che “il decreto ministeriale è incentrato esclusivamente, oltre che su elementi materiali (locale, arredi e bassorilievi) suscettibili di conservazione a prescindere dall’identità del gestore, sulla tradizione culturale gastronomica e di convivialità del locale, discendente dalla sua storia quale teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati, tutt’oggi persistente una volta venuto meno il suo fondatore” - riprendendo brani della relazione ministeriale che costituisce il corredo motivazionale del decreto di vincolo - è evidente che ammettere una sostanziale destinazione esclusiva tutelata come espressione identitaria apre ad una serie di questioni critiche.

Anzitutto vi è il rischio che quella tradizione identitaria - che altri soggetti subentranti devono assumere l’onere di osservare in quanto essenziale dal punto di vista economico all’investimento e all’uso giuridico del bene - si trasformi nel tempo in una sua ‘teatralizzazione’, nella mera interpretazione della testimonianza racchiusa dentro la res, ormai separata dal sentimento popolare, non più parte di quel processo bottom up che invece deve nutrire di continuo il sentimento dell’identità, modificandolo nel tempo in un processo senza fine.

Il pericolo è dunque quello di una ‘musealizzazione’ non solo dei luoghi, dei beni, ma soprattutto dello spirito vitale di questi; a meno di non ritenere che in realtà questo spirito rimanga vitale in tanto in quanto sia patrimonio di chi l’ha coltivato e tramandato nel tempo, e dunque sia necessariamente ‘personificato’ nella gestione a cui se ne deve lo sviluppo.

Ma il giudice è sempre molto attento, e nella sentenza n. 5 ribadisce più volte che “il vincolo di destinazione non deve, comunque, imporre alcun obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività commerciale e imprenditoriale, né attribuire una ‘riserva di attività’ in favore di un determinato gestore, al quale non può essere attribuita una sorta di “rendita di posizione” (punto 3.7)

Ma, allora, se non c’è personificazione della tradizione in un soggetto determinato - perché ciò viene escluso dal giudice a priori - mentre l’identità culturale collettiva in esame assume rilievo nei cd. locali storici, perché qualificano “spesso in maniera determinante il tessuto urbano del centro storico (che è l’”anima” di una città, alla continua ricerca del suo equilibrio, tra la conservazione del passato e l’elaborazione del nuovo), costituiscono un importante elemento di memoria storica e una testimonianza culturale, la cui tutela e valorizzazione concorre “a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio” (art. 1, comma 2)” (punto 6.8), il rischio ulteriore può essere quello di teatralizzare anche i centri storici, di trasformarli in quinte teatrali ad uso di rappresentazioni espressione di una visione arida e strettamente conservativa, che si separa sempre di più dallo spirito della comunità, e diventa interpretazione, mise en scène della città ad uso anzitutto dei turisti. Che si sostituiscono alla comunità (o, da attori itineranti, divengono la nuova comunità).

D’altra parte anche a non voler indulgere in questa raffigurazione, pur nella sua plausibilità, non si può negare che se, come afferma l’Adunanza Plenaria, “la nozione di bene culturale, in una visione dinamica e moderna, deve essere intesa in senso ampio: essa, pur presupponendo res quae tangi possunt, può anche ricomprendervi un quid pluris di carattere immateriale” (punto 6), allargarne la nozione nel senso ritenuto dal giudice della nomofilachia potrebbe portare anche ad un ulteriore effetto paradosso: se, infatti, a breve termine è presumibile che l’attività che si avvale della dichiarazione di interesse culturale ne ricavi una valorizzazione anche in termini economici, potrebbe succedere però che a medio e lungo termine essa non risulti più appetibile per un investitore, proprio a causa degli oneri maggiori che l’esercizio di una tale attività sicuramente comporta.

Affermare che “tale vincolo di destinazione può operare soltanto sul piano oggettivo, regolando l’uso della res, senza disporre alcun obbligo di prosecuzione dell’attività svolta” (punto 6.5), in realtà finisce per provare troppo, perché una destinazione così stringente - l’esclusiva destinazione - potrebbe finire per porre fuori mercato il bene, contribuendo al degrado progressivo della res vincolata e delle tradizioni che contraddistinguono l’attività ivi esercitata. Se è vero che il provvedimento di vincolo oggettivamente non obbliga alla prosecuzione dell’attività, è vero anche che, altrettanto oggettivamente, esso comporta come unica alternativa alla mancata prosecuzione dell’attività vincolata il mancato utilizzo del bene, il mancato esercizio dell’attività e dunque l’inevitabile degrado della cosa che incorpora la testimonianza identitaria, quest’ultima destinata per prima all’evanescenza.

In realtà, ciò che qui interessa mettere in luce, è che, pur nella novità della questione di cui si discute, le considerazioni appena esposte non vanno esenti da una serie di rilievi che sul piano giuridico trovano posto quando si discuta della legittimità di provvedimenti di vincolo dei beni costituenti il patrimonio culturale, sia beni culturali che paesaggistici.

A prescindere dal problema se oggi, sulla base della pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2023, abbia fatto ingresso nel nostro ordinamento una nuova categoria di beni culturali, ovvero “le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO... qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10” (art. 7-bis), assoggettati a tutela ai sensi della parte II del Codice - a fronte della quale, peraltro, le Convenzioni Unesco potrebbero finire per assumere anche le sembianze di norme in bianco da riempire di significati, dal grado di indeterminatezza più o meno ampio, nell’ordinamento interno - il rischio di un effetto paradosso, in contraddizione piena rispetto alla finalità pubblica di conservazione del bene propria del provvedimento vincolistico, è già stato messo in luce in alcune pronunce del giudice amministrativo, dalle quali, come si vedrà, viene tratta la necessità di una particolare attenzione alla valutazione compiuta dalla p.a., alla sua portata - se si tratti di mera espressione di discrezionalità tecnica o anche amministrativa - e agli elementi della situazione di fatto.

Ciò, il più delle volte, pur trattenendosi il giudice entro i limiti tipici del sindacato giurisdizionale in una materia caratterizzata da un’ampia discrezionalità tecnico valutativa.

Così, quanto all’esercizio del potere di vincolo di cui all’art. 10 del Codice dei beni culturali, in passato è stato ritenuto che “se è vero che l’apprezzamento circa l’importanza dell’interesse culturale dell’immobile considerato, e la conseguente necessità di sottoporlo al regime di tutela proprio dei beni che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, comma 3 lettera a) e che siano, quindi, dichiarati beni culturali, appartiene alla valutazione propria dell’amministrazione a ciò preposta, è anche vero che la valutazione non può prescindere, a pena di una astrazione pericolosa per la stessa sopravvivenza in concreto della cosa che costituisce il bene culturale, dalla considerazione delle concrete coordinate di spazio e di tempo in cui esso è calato. La valutazione dell’Amministrazione deve necessariamente tener conto di un complesso e integrato sistema attinente all’interesse pubblico in concreto, nel quale la concreta sopravvivenza della testimonianza culturale deve inevitabilmente collegarsi alla necessità di preservare, con il valore culturale, la stessa esistenza materiale e la vitalità del contesto del quale il bene stesso è parte integrante... Nella fattispecie in esame - prosegue il giudice [1] - va considerato che l’utilizzo della struttura per l’uso originario è stato da tempo dismesso e che allo stato non è più praticabile a causa di circostanze esterne ma per questo obiettive: l’effetto pratico è quello del conseguente inevitabile progressivo degrado dell’immobile”. Il caso riguardava un provvedimento di vincolo imposto sulla facciata, sul vano scale e sull’atrio di un cinema teatro, che veniva sostanzialmente a determinare una limitazione della destinazione d’uso all’unico uso pregresso, che “sembra qui generare un’insostenibilità economica della utilizzazione: va dunque in ultimo a contraddire la stessa salvaguardia materiale del bene, cui la legge di tutela è orientata”.

Ma ciò che qui più interessa sottolineare è il percorso ‘esemplare’ seguito nel suo sindacato dal giudice, ad avviso del quale, pur “nei limiti estrinseci nei quali è consentito l’esame del giudice amministrativo... non pare che l’amministrazione abbia condotto, nel caso di specie, la propria indagine con sufficiente riguardo agli effetti pratici di superamento di tale limite intrinseco del vincolo di bene culturale; né - prosegue, argomentando in stringente sequenza - dunque alla concreta situazione di fatto nella quale l’immobile è calato, né alla sostenibilità attuale della conservazione delle specifiche strutture attinenti all’uso di cinematografo-teatro, né all’effetto di compatibilità con altre destinazioni, né al raffronto dell’interesse espresso dal vincolo con le esigenze di garantire nella realtà economica la sopravvivenza stessa dell’immobile, nelle sue caratteristiche degne di conservazione e di tutela”.

Anche in un caso di verifica ex art. 12 del Codice, il giudice amministrativo esordiva osservando che “il percorso argomentativo non appare, in primo luogo, aderente allo stato oggettivo dei luoghi”, per cui “se lo stato di abbandono di un bene di per sé non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico’ potendo un manufatto in condizione di degrado ben costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l’ulteriore decadimento..., tuttavia era onere dell’amministrazione dei beni culturali prendere in considerazione le puntuali obiezioni sollevate dall’amministrazione comunale circa la realistica possibilità di conservazione e valorizzazione dell’immobile. Diversamente - sottolinea il giudice - è concreto il rischio che si persegua una concezione del tutto “astratta” (e quindi vuota) del bene che si vorrebbe tutelare” [2]. Oppure, in un caso di dichiarazione di interesse culturale di un complesso industriale, in quanto “raro esempio di archeologia industriale”, collocato all’interno di un sito di bonifica di interesse nazionale, se ne dichiara l’illegittimità in quanto “per le loro caratteristiche, gli edifici in questione sarebbero incompatibili con qualsiasi ipotesi di riconversione funzionale, di modo che la dichiarazione di interesse culturale si risolverebbe agli effetti pratici in un vincolo di destinazione d’uso”, rendendo impossibile il recupero del bene [3].

Anche di recente, poi, un altro provvedimento di vincolo di una sala cinematografica, avente ad oggetto sia la facciata che gli spazi interni, è stato ritenuto illegittimo per quanto riguarda i secondi, in quanto nei fatti risulta “capace di compromettere, se non impedire, la sostenibilità economica della sua utilizzazione da parte del privato proprietario”, ribadendo che “la concreta sopravvivenza della testimonianza culturale deve inevitabilmente collegarsi alla necessità di preservare, con il valore culturale, la stessa esistenza materiale e la vitalità del contesto del quale il bene stesso è parte integrante” [4]. Mentre in un caso altrettanto recente di imposizione di vincolo culturale indiretto - e già noto come riferito al cd. Sistema delle croci votive e viarie nella regione Molise - se ne pronuncia l’illegittimità anche alla luce del “radicale svuotamento della possibilità di uso alternativo del territorio” che ne deriverebbe [5].

Vale la pena di osservare che, quanto alla natura della valutazione posta in essere dall’Amministrazione, talora il giudice si pronuncia sul presupposto della spettanza alla soprintendenza di un mero potere di valutazione tecnico-scientifica, altre volte la concezione è diversa e si ritiene coinvolga anche profili di discrezionalità amministrativa, ponendo anche questioni di bilanciamento degli interessi coinvolti.

In ogni caso, però, il sindacato giurisdizionale risulta sempre molto attento agli elementi di fatto, alla situazione di fatto all’origine del provvedimento di vincolo.

Pone spesso anche questioni di bilanciamento di interessi, ma è altrettanto se non in maggior misura, attento alla situazione di fatto, il giudice, quando si pronuncia sulla dichiarazione di notevole interesse pubblico del bene, ai sensi della parte III del Codice, sui beni paesaggistici.

Così richiama l’attenzione ad evitare “vincoli eccessivamente rigidi”, ed “eccessi di tutela non giustificati (un rischio sempre più incombente in un contesto di crescente espansione delle categorie dei beni da tutelare e di intensificazione dell’attività vincolistica) ed addirittura controproducenti rispetto alle finalità di tutela perseguite”, specialmente con riferimento ad “alcuni tipi di paesaggio... che finirebbero per essere addirittura danneggiati da vincoli troppo stringenti che ne impedissero lo sfruttamento con una sufficiente redditività, determinandone l’abbandono ed il ritorno a selva incolta dei relativi terreni” [6]. E sempre di recente ribadisce la necessità che un “potere vincolistico così penetrante, incisivo e pervasivo... deve innanzitutto poggiare su un’istruttoria accurata, completa, approfondita e aggiornata” [7].

L’attenzione al sindacato esercitato dal giudice sui presupposti di fatto dei provvedimenti impositivi del vincolo e sull’esigenza di bilanciamento degli interessi coinvolti laddove ravvisi profili di discrezionalità amministrativa, viene sicuramente in rilievo in un caso quale quello all’origine della pronuncia dell’Adunanza Plenaria.

Difficile ritenere che una fattispecie quale quella cui ci si riferisce, in cui, a fronte di orientamenti profondamente dissonanti in giurisprudenza, il giudice accede ad un’”interpretazione del quadro normativo - che riconosce la maggiore latitudine possibile alla tutela del bene culturale, valorizzando l’importanza della motivazione alla base della decisione amministrativa” (punto 3.2), richiedendo al ministero “una valutazione amministrativa delle circostanze del caso concreto, che dia conto delle ragioni per cui usi della res diversi da quelli attuali siano di pregiudizio per la conservazione dei suoi caratteri artistici o storici ovvero per la sua integrità materiale” (punto 3.5), possa andare esente da un sindacato particolarmente attento su questa motivazione, richiesta per giustificare “una visione dinamica e moderna”(punto 6) del bene culturale, accedendo alla massima estensione possibile.

Ma soprattutto è difficile ritenere che la valutazione compiuta dall’amministrazione, la quale riconosce l’interesse culturale “nella continuità ininterrotta dell’unione tra locale ristorante, arredi ed opere artistiche, tradizione enogastronomica e sociabilità che, dai primi anni cinquanta ad oggi, hanno reso il ristorante uno spazio fisico e simbolico di accoglienza e di incontro di “mondi” e individui dalla provenienza geografica e sociale estremamente diversificata; un teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati significativi da parte di personaggi illustri italiani e stranieri e di gente comune” - e dunque ritiene che “non possa essere salvaguardato e trasmesso se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso che, compenetratosi nelle cose che ne costituiscono il supporto, è divenuto ad esso consustanziale” - non sia frutto essa stessa di una compenetrazione tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa, che postula la necessità di un bilanciamento degli interessi coinvolti.

In fondo, è lo stesso giudice amministrativo, anche laddove abbraccia la lettura più restrittiva e tradizionale del vincolo culturale, come pura espressione di una valutazione tecnica, ad ammettere che “gli interessi secondari abbiano rilievo in un momento successivo, quando si tratti di progettare o realizzare l’impiego del bene culturale...” [8], al momento, cioè di disporre della destinazione d’uso compatibile, che anche nel caso in cui - come oggi ritiene l’Adunanza Plenaria - dovesse assurgere ad espressione dell’interesse primario, incorporata nel bene da tutelare, non può che essere stata individuata all’esito di una consustanziale valutazione comparativa come l’unica utilizzazione possibile. Senza contare che, ravvisare in questo utilizzo una testimonianza di identità culturale collettiva - a prescindere da un riconoscimento Unesco - richiede in ogni caso un’attenta valutazione sia dei fatti che hanno portato al formarsi della tradizione, sia del contesto più ampio in cui questa tradizione si muove e si relaziona, anche al fine di considerare se l’imposizione della destinazione d’uso riverberi i propri effetti in un ambito più vasto. Si pensi, per il caso in esame, alle ripercussioni che il vincolo imposto sull’attività di ristorazione de “Il Vero Alfredo” possa esercitare sugli altri locali del centro storico, tanto sotto il profilo della tutela della concorrenza, che su quello opposto di una possibile disparità di trattamento tra esercizi caratterizzati dalla stessa tradizione enogastronomica e dell’accoglienza.

È certo difficile escludere un’ibridazione nella discrezionalità esercitata dall’autorità preposta all’esercizio del potere di vincolo in casi di questo genere, e, d’altra parte, questo tema e le diverse letture che nel tempo hanno accompagnato e si sono confrontate quanto alla natura del potere di valutazione di cui dispone la p.a. in sede di tutela del patrimonio culturale sono ben note a chi si occupa di questa materia.

Senza contare che, in ogni caso, l’assoluta novità della lettura data dall’Adunanza Plenaria e l’indiscussa autorevolezza della sede avrebbero potuto giustificare un’apertura problematica maggiore.

È singolare, invece, che, dopo essersi espressa nei modi sopra ricordati, l’Adunanza Plenaria confini entro i limiti tipici del sindacato sulla discrezionalità tecnica il proprio giudizio sull’adeguatezza di una motivazione da essa stessa considerata come centrale e imprescindibile ai fini della giustificazione dell’esercizio di un potere sicuramente controverso, se non nuovo, e si rifaccia poi altrettanto tipicamente alla primarietà dell’interesse culturale ex art. 9 Cost. che, apoditticamente, “prevale su qualsiasi altro interesse - ivi compresi quelli economici - nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti”, richiamando a rafforzarla una pronuncia della Consulta del 1986 - la n. 151 - che, senza timore di essere smentiti, risale ad un tempo dell’ordinamento nel quale il regime costituzionale dell’iniziativa economica privata conosceva parametri nella loro essenza e ragion d’essere profondamente diversi rispetto a quelli attuali, ben noti e sviluppati proprio a partire dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.

Ma anche a voler abbracciare questa lettura ‘atomistica’ dell’art. 9 Cost., ci sarebbe comunque spazio per una più ampia valutazione dei fatti, secondo quei canoni di proporzionalità e ragionevolezza invocati anche dalla sentenza n. 5 del 2023, laddove fa riferimento - senza però diffondersi - ad un “potere conformativo dell’Amministrazione, che a tal fine sacrifichi ragionevolmente e in modo proporzionato altri interessi e diritti soggettivi...” (punto 4.8), utilizzando - come osserva anche Girolamo Sciullo nel suo ultimo editoriale in questa Rivista [9] - un limite di proporzionalità tutto interno all’esercizio della discrezionalità tecnica, che avrebbe dovuto dunque prendere le mosse da un giudizio sull’idoneità della misura adottata ad assicurare la finalità perseguita.

In ogni caso, se, una volta “consumate le fettuccine”, si potesse “riavvolgere il nastro”, forse sarebbe stato utile per il giudice amministrativo - ma ancora potrà esserlo nel futuro - portare l’attenzione su un’affermazione più recente del giudice costituzionale, nella sentenza n. 22 del 2016 [10]. A fronte della lamentata violazione dell’art. 9 Cost. per la mancata previsione da parte del nostro legislatore dell’obbligo in capo all’Amministrazione di apporre in via provvedimentale il vincolo paesaggistico sui beni tutelati come patrimonio Unesco, la Consulta rigetta la questione e chiude il proprio giudizio osservando che “in presenza di un così articolato sistema di tutela (con effetti peraltro diversi quanto a decorrenza del vincolo, sede delle prescrizioni d’uso, derogabilità e trattamento sanzionatorio) la soluzione invocata dal rimettente non appare in alcun modo costituzionalmente necessitata, essendo riservata al legislatore la valutazione dell’opportunità di una più cogente e specifica protezione dei siti in questione e delle sue modalità di articolazione”. Credo che, come osservato sin dall’inizio, via sia ancora da riflettere in modo approfondito sulla complessità di questo sistema, ciascuno ispirato da una propria voluntas legis, dotato di proprie finalità e ragion d’essere, che richiede sicuramente di essere affrontato, approfondito, sviluppato, e non, a mio avviso, assorbito e fagocitato nell’alveo del sistema più noto, più chiuso all’esterno e meno confutabile, andando però incontro ai pericoli messi in luce nelle pagine precedenti, che possono finire per pregiudicare seriamente la forza, l’autorità, del potere di tutela dei beni culturali nella sua interezza.

 

Note

[*] Attualità-Valutato dalla Direzione.

[**] Patrizia Marzaro, professore ordinario di Diritto Amministrativo presso il Dipartimento di diritto pubblico, internazionale e comunitario dell’Università degli Studi di Padova, Via 8 Febbraio 2, 35122 Padova, patrizia.marzaro@unipd.it.

[1] Così Cons. St., sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003, in www.giustizia-amministrativa.it.

[2] Cfr. Cons. St., sez. VI, 18 dicembre 2017, n. 5950, in www.giustizia-amministrativa.it.

[3] Così Tar Toscana, 20 ottobre 2021, n. 1351, in www.giustizia-amministrativa.it.

[4] Così Cons. St., sez. I, 14 dicembre 2022, n. 1961, in www.giustizia-amministrativa.it.

[5] Così Cons. St., sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167, in www.giustizia-amministrativa.it.

[6] Così Tar Lazio, sez. II-quater, 27 gennaio 2021, n. 1080, in www.giustizia-amministrativa.it.

[7] Così Tar Veneto, sez. II, 8 agosto 2022, n. 1280, in www.giustizia-amministrativa.it.

[8] Così Cons. St., sez. VI, 8 febbraio 2000, n. 677, in www.giustizia-amministrativa.it.

[9] Cfr. G. Sciullo, Nuovi paradigmi per la tutela del patrimonio culturale, in Aedon, 2022, 3, pag. 221 ss.

[10] Cfr. Corte cost., 11 febbraio 2016, n. 22, in www.cortecostituzionale.it.

 

 

 



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