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Beni culturali: valorizzazione e fruizione

Gli ecomusei del Lazio e la valorizzazione delle culture “minori”

di Alessandro Piazzai [*]

Sommario: 1. Le origini storiche dell’istituto. - 2. L’inquadramento normativo. - 3. Sulle c.d. culture minori. - 4. La legge della regione Lazio 15 novembre 2019, n. 24. - 5. Alcune questioni problematiche. - 6. Considerazioni finali.

Lazio’s ecomuseums and the valorisation of “minor” cultures
The aim of this essay, after having seen the fundamental steps of the origin of this different museum form and after having identified the relative legislation, is to examine the ecomuseums in the perspective of the enhancement of cultural heritage. In particular, the analysis focuses on the interpretation of Lazio regional law which, even though belated in respect of other regional laws, places the ecomuseums in the field of cultural services; the main objective is to demonstrate that these museum forms represent instruments that enhance (and then emancipate) the “minor” cultures.

Keywords: ecomuseums; cultural services; cultural heritage; “minor” cultures.

1. Le origini storiche dell’istituto

Sul crinale semantico, il termine museo - come rilevato da autorevole dottrina - deriva dal greco mouseion (“tempio delle muse”) e, in un tempo risalente, identificava quel “centro in cui gli uomini dell’antichità si dedicavano alla cura delle proprie attività culturali” [1]; nel lessico comune odierno, invece, il concetto di museo viene definito come il “luogo in cui sono raccolti, ordinati e custoditi oggetti d’interesse storico, artistico, scientifico, etnico e sim” [2].

La definizione sopra richiamata, pur connotandosi per una conclamata valenza a-tecnica, è comunque molto simile all’accezione di museo declinata da un recente filone di pensiero, a tenore del quale, “...i musei intrattengono un rapporto necessario con le cose, ossia con le testimonianze di valore artistico o scientifico che vi sono conservate...” [3].

Per quanto riguarda la nozione giuridica di museo [4] occorre invece richiamare da un lato, l’art. 101 comma 2, lett. a) del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (rubricato Istituti e luoghi della cultura), in virtù del quale per museo si intende “una struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”; e dall’altro lato, l’art. 43 comma 1 del d.p.c.m. 2 dicembre 2019, n. 169, recante il regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, degli uffici della diretta collaborazione del Ministro o dell’Organismo indipendente di valutazione della performance, laddove viene sposata la definizione adottata dall’Icom [5] (International council of museums), secondo cui “i musei ... sono istituzioni permanenti, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. Sono aperti al pubblico e compiono ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisiscono, le conservano, le comunicano e le espongono ai fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica”.

Di converso, il termine ecomuseo ha origini recenti e deriva - come sottolineato da uno dei suoi ideatori (H. De Varine) - dalla combinazione di due parole “ecologia e museo” [6]. A tal proposito è opportuno rammentare che per ecologia si intende quella “branca della biologia che studia i rapporti reciproci fra organismi viventi e ambiente circostante e le conseguenze di tali rapporti, specialmente al fine di limitarne o eliminarne la nocività” [7].

Infine, sempre sul versante semantico, oggi l’ecomuseo, nel lessico comune della lingua italiana, viene definito come un “museo non tradizionale, costituito da un’area di territorio che conserva, valorizza, tutela e fa conoscere il proprio patrimonio culturale e ambientale, naturalistico e storico-artistico grazie al coinvolgimento della comunità e delle istituzioni locali” [8].

Sotto il profilo diacronico - come peraltro osservato di recente in dottrina - una delle prime [9] forme di ecomuseo affiora grazie all’opera di Arthur Immanuel Hazelius (1833-1901), filologo svedese e fondatore del museo Skansen (oltre che del Nordiska Museet), laddove egli pone in essere una “straordinaria esposizione a cielo aperto” [10] di architetture di villaggi svedesi. Un altro indirizzo dottrinale sottolinea inoltre che “gli ecomusei nascono e si diffondono all’inizio del XIX secolo in tutta Europa” [11] e che “inizialmente il loro compito era di preservare il patrimonio popolare dall’industrializzazione” [12].

L’ulteriore tappa fondamentale del processo di emancipazione di questa “diversa forma museale” sovviene negli anni ’70 del Novecento grazie al movimento di pensiero la “Nuova museologia” (tra cui figurano membri del calibro di Hugues De Varine e George-Henri Rivière): in particolare, secondo un commendevole indirizzo dottrinale “ecomuseums and New Museology were born in contrast with traditional museology and aiming at greater community involvement, larger community participation to museum life, new interpretations of tangible and intangible heritage and social practices” [13].

Proprio grazie alla “rivoluzione” apportata dal summenzionato movimento - che aveva l’idea “to abolish the distance between the audience and the contents of the museum, emphasizing the role of common use place and the shaping of a new, active citizenry” [14] - viene introdotto per la prima volta il termine ecomuseo in Francia, precisamente nel 1971; merita menzione inoltre la Conferenza di Santiago dell’anno successivo, ove si comincia a mettere in discussione la funzionalità dei musei e si introduce il dibattito sul c.d. “museo integrato” [15]; in ultima battuta, altro snodo fondamentale è la Carta internazionale degli ecomusei (1981), nella quale si perviene ad una prima definizione dell’istituto; in considerazione delle esigue osservazioni enunciate, si può dunque constatare come il dibattito su forme alternative di museo assuma una dimensione sovranazionale.

In Italia, l’avvento di questa forma museale - a latere il caso dell’Ecomuseo della montagna pistoiese ideato nel 1989 [16] - affiora nel 1995 in forza dell’avveduta presa di posizione del Consiglio regionale del Piemonte, che emana un’apposita legge, la n. 31 del 14 marzo, dal titolo Istituzione di Ecomusei del Piemonte; segnatamente, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1, “la Regione promuove l’istituzione di Ecomusei sul proprio territorio allo scopo di ricostruire, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, la cultura materiale, le relazioni fra ambiente naturale ed ambiente antropizzato, le tradizioni, le attività ed il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio”; ancora, ai sensi dell’art. 1, comma 3, tra le finalità prioritarie degli Ecomusei, vi rientra anzitutto: “la conservazione ed il restauro di ambienti di vita tradizionali delle aree prescelte, tramandando le testimonianze della cultura materiale ricostruendo le abitudini di vita e di lavoro delle popolazioni locali, le relazioni con l’ambiente circostante, le tradizioni religiose, culturali e ricreative, l’utilizzo delle risorse naturali, delle tecnologie, delle fonti energetiche e delle materie impiegate nell’attività produttive (lett. a)”.

Sul crinale diacronico, giova rimembrare il Workshop internazionale denominato “Long Networks. Ecomuseums and Europe”, tenutosi a Trento nel maggio 2004, laddove l’ecomuseo viene definito come “un processo dinamico con il quale le comunità conservano, interpretano e valorizzano il proprio patrimonio in funzione dello sviluppo sostenibile. L’ecomuseo è basato su un patto con la comunità”. Alcuni anni dopo conquista inoltre la scena la Carta di Catania, redatta nell’ambito della giornata di studi dal titolo “Convegno Giornate dell’ecomuseo. Verso una nuova offerta culturale per lo sviluppo sostenibile del territorio”: secondo il documento stilato in Sicilia, “l’ecomuseo è una pratica partecipata di valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale, elaborata e sviluppata da un soggetto organizzato, espressione di una comunità locale, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile”; la suddetta Carta pone l’accento su due concetti chiave della tematica, da una parte quello di partecipazione, al fine di sottolineare il processo bottom up che connota l’istituto; dall’altra parte, quello di riconoscimento, con l’intento di evidenziare il fatto che si tratta di una pratica meramente da riconoscere e non da istituire.

Successivamente, è da segnalare il Convegno di Milano svoltosi nel 2016 e dal titolo “Museum and cultural landscapes. The ecomuseums and community museums perspectives”. Dalla menzionata giornata di studi sovviene un’importante pubblicazione [17] che testimonia la circostanza (a ben vedere, già chiara da tempo) che gli ecomusei rappresentano un istituto che si sta diffondendo in (quasi) tutti i continenti del mondo; non solo nell’area europea ma anche in Canada, Giappone, Korea, Brasile, Messico, Venezuela.

Preme da ultimo soffermarsi sulle principali differenze [18] tra museo ed ecomuseo sottolineate dalla dottrina [19]: con riguardo all’offerta, mentre il museo presenta una collezione, l’ecomuseo fornisce la possibilità di ammirare un patrimonio locale; quanto alla sede espositiva, se il museo di regola si trova all’interno di un immobile, per l’ecomuseo si parla invece del territorio; per quanto concerne l’utenza, il museo è rivolto ad un pubblico (o a dei visitatori), nell’ecomuseo, di contro, l’utente principale è indubbiamente la popolazione del loco. Quest’ultimo aspetto porta pertanto H. De Varine ad affermare che “l’ecomuseo non è visitato, bensì vissuto” [20].

L’opera dell’ex direttore dell’Icom non si ferma soltanto nell’ideazione di una forma alternativa di museo, ma si dipana in un articolato più vasto che comprende un ripensamento delle nozioni di base in tema di beni culturali: in primo luogo la cultura, che si compendia nell’“insieme delle soluzioni trovate dall’uomo e dal gruppo per i problemi posti dall’ambiente naturale e sociale” [21]; ed in secondo luogo, il patrimonio culturale, da intendersi come “tutto ciò che per noi ha un senso è patrimonio che ereditiamo, creiamo, trasformiamo e trasmettiamo” [22].

2. Inquadramento normativo

Una corretta ricostruzione del dettato normativo sugli ecomusei non può che principiare dall’art. 9 della Costituzione italiana; trattasi - in considerazione del tempo in cui stata concepita - di una “disposizione lungimirante” [23], che si situa addirittura nell’alveo dei principi fondamentali (artt. 1-12) e che - secondo una parte della dottrina [24] - l’assemblea costituente mutua, se non in toto quantomeno in parte, dalla dall’art. 150 della Costituzione di Weimar del 1919, a tenore del quale “i monumenti storici, le opere d’arte, le bellezze della natura, ed il paesaggio sono protetti e curati dal Reich. Rientra nella competenza del Reich evitare l’esportazione all’estero del patrimonio artistico”.

Appena approvata la Carta costituzionale, gli interpreti ridimensionano la dinamicità della disposizione in commento, considerandola come una norma programmatica [25] o comunque meramente ricognitiva [26] degli approdi normativi pervenuti sotto il regime fascista: la legge 1 giugno 1939, n. 1089, denominata tutela delle cose di interesse artistico e storico (patrimonio storico e artistico), e la legge 29 giugno 1939, n. 1497, intitolata protezione delle bellezze naturali (paesaggio).

Il cambio di paradigma sovviene grazie ad una molteplicità di fattori: un primo elemento da tenere a mente è l’attenzione riposta a livello internazionale sul patrimonio culturale, come dimostra l’approvazione della Convenzione dell’Aja per la protezione di beni culturali in caso di conflitto armato, sottoscritta nel 1954; un secondo fattore su cui porre l’accento è il conseguente dibattito che ne discende in Italia, non solo tramite contributi illuminati [27] (nti) della dottrina, ma anche in virtù dell’opera del legislatore italiano, da una parte con l’erezione della Commissione Franceschini (legge 26 aprile 1964, n. 310), e dall’altra, con l’istituzione del ministero dei Beni culturali e ambientali (d.l. 14 dicembre 1974, n. 657 convertito in legge 29 gennaio 1975, n. 5); un terzo spunto di riflessione affiora in forza della spinta propulsiva della giurisprudenza, sia di legittimità [28] che costituzionale [29] che si mostra proclive al riconoscimento delle istanze che pervengono dal basso a presidio dell’ambiente, attribuendo “straordinario rilievo” al dettato normativo dell’art. 9 Cost.

L’opera degli esegeti su quest’ultimo continua in maniera costante: mentre un primo indirizzo ritiene che si tratti in sostanza di un “progetto per il futuro, anziché come legittimazione del presente” [30], un’altra autorevole impostazione la collega immediatamente al disposto dell’art. 42 comma 2 Cost. (che introduce il concetto di “funzione sociale”), e quindi al “terribile diritto” [31], sottolineando in particolare che “i beni privati qualificabili come parte di un paesaggio e per quelli qualificabili come di appartenenza al patrimonio artistico e storico sono possibili conformazioni legali in ordine all’appartenenza, alla circolazione e alla fruizione” [32].

Il perimetro di azione dell’articolo oggetto di approfondimento si amplia ancora di più nel corso degli ultimi lustri, non solo per l’avvicendarsi di interventi legislativi in tema di patrimonio culturale (si vedano quantomeno i seguenti approdi: legge 15 marzo 1997, n. 59 e il pedissequo d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, in tema di conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali; la contemporanea legge 8 ottobre 1997, n. 352, poi sfociata nel d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, recante il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali; la legge delega 6 luglio 2002, n. 137 con la quale si perviene alla stesura del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio), ma anche in virtù di nuovi spunti illustrati dalla dottrina: un primo indirizzo sostiene infatti che l’art. 9 Cost. comma 2 vada letto in combinato disposto con gli artt. 9 comma 1, 33 comma 1 Cost. e 3 comma 2 Cost., affermando dunque che la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio rappresenta una via per lo sviluppo della cultura, fattore di emancipazione dei cittadini, specie quelli più “deboli” [33]; un altro indirizzo afferma inoltre che la nozione di cultura rievocata dall’art. 9 Cost. identifica un’idea “superiore di cultura” [34] in stretta correlazione con l’art. 33 comma 1 Cost., non pregiudicando tuttavia “le acquisizioni dell’antropologia”, secondo le quali “la cultura” è “principalmente memoria che si tramanda” [35]; “la cultura si” declina “al plurale, comprendendo i fenomeni minori e le sopravvivenze culturali” [36]; “la cultura si” manifesta “con o senza l’ausilio di un supporto materiale” [37]; un ultimo filone di pensiero ritiene peraltro che il patrimonio culturale comprenda “la intera pluralità degli oggetti immateriali nei quali viene riconosciuta la idoneità a costituire e ad esprimere i “valori culturali” della collettività” [38].

L’esegesi della “disposizione lungimirante” risulta però incompleta, atteso che con la legge cost. 11 febbraio 2022, n. 1 è intervenuta la riforma dell’art. 9 Cost.; ai due commi già esistenti è stato aggiunto un terzo che recita: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. All’orientamento ermeneutico che ritiene la modifica come meramente ricognitiva di alcune pronunce della Corte costituzionale (per l’appunto in tema di ambiente), si giustappone un indirizzo dottrinale secondo il quale il nuovo dettato dell’art. 9 Cost. (e dell’art. 41 Cost.) potrebbe addirittura “cambiare il volto del capitalismo” [39]. Per quello che rileva in questa sede l’interrogativo da porsi riguarda l’eventuale incidenza del terzo comma sull’interpretazione degli altri due e quindi il relativo impatto sulla tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, perché se è vero che l’ambiente e la biodiversità costituiscono dei valori non sovrapponili a quest’ultimo, è altrettanto plausibile propugnare l’esistenza di una “stretta relazione” [40], peraltro recentemente ribadita in dottrina, laddove si è affermato un intimo legame tra diversità culturale e biodiversità [41] (seppur in ambito internazionale).

L’interpretazione dell’art. 9 Cost. inoltre si riconnette alla tematica della distribuzione delle competenze tra Stato e regioni (già oggetto di vivace dibattito in assemblea costituente); a tal proposito è imprescindibile l’analisi del nuovo art. 117 Cost., così come riformulato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3; con tale riforma - secondo una parte della dottrina - si è passati “dal federalismo amministrativo al federalismo legislativo” [42]: segnatamente, per quanto riguarda l’odierno ambito di indagine, è da segnalare che lo Stato vanta una specifica attribuzione in tema di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (art. 117 comma 2 lettera s)) in quanto “competenze collegate a compiti di garanzia dello Stato centrale” [43]; mentre, ai sensi del comma 3 del suddetto articolo, tra le materie di competenza concorrente (ove le regioni intervengono con disposizioni di “sviluppo più e oltre che di dettaglio” [44]) vi rientra la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali. Ed invero è proprio in virtù della appena richiamata competenza che le regioni hanno cominciato a legiferare in tema di ecomusei, riconducendo questi ultimi nell’alveo delle attività culturali; in particolare, per quanto concerne la regione Lazio, si noti lo specifico richiamo all’art. 1 (finalità ed ambito di applicazione) della l.r. Lazio n. 24/2019, recante disposizioni in materia di servizi culturali regionali e di valorizzazione culturale, delle norme apicali oggetto di commento (artt. 9, 117, 118 Cost.).

L’ultima disposizione primaria da menzionare per avere chiaro il quadro prospettico in cui inserire la diversa forma museale è il nuovo art. 118 Cost.: si tratta di una norma che capovolge l’intero assetto ordinamentale, in quanto introduce il principio di sussidiarietà verticale (insieme ai canoni della differenziazione e dell’adeguatezza, da ritenersi non quali “principi autonomi” ma “esplicitazioni e criteri direttivi” [45] del suddetto principio) e orizzontale (art. 118 comma 4 Cost.); mentre la prima declinazione di sussidiarietà attribuisce le funzioni amministrative al livello più basso di governo (e quindi ai comuni) “salvo che l’ente non sia in grado di svolgerla efficacemente” [46], l’altra declinazione, consente ai cittadini, in forma singola o associata, di potere esperire attività di interesse generale, sotto il favore (o lo stimolo) dei pubblici poteri. A ben vedere, la questione di cosa debba intendersi per attività (di interesse generale) pone non pochi profili critici (concezione oggettiva-soggettiva): su questo punto è stato tuttavia evidenziato che “per quanto la rilevanza di un determinato interesse costituisca spesso un dato oggettivo, il più delle volte la qualificazione di un interesse in questo senso è il frutto di determinazioni politiche demandate ad organi scelti con gli ordinari meccanismi della democrazia rappresentativa” [47].

La rivisitazione del Titolo V della Costituzione avvenuto nel 2001 dà la stura ad una serie di provvedimenti di legge emanati dalle regioni in tema di ecomusei, i quali seguono alla l.r. Piemonte n. 31/1995 (già menzionata nel primo paragrafo) e alla legge provinciale della provincia autonoma di Trento 9 novembre 2000, n. 13, denominata Istituzione degli ecomusei per la valorizzazione della cultura e delle tradizioni locali, poi abrogata dalla legge provinciale 3 ottobre 2007, n. 15, recante la disciplina delle attività culturali.

Tra i primi interventi normativi da segnalare vi sono, nell’anno 2006, la legge del Friuli Venezia Giulia 20 giugno n. 10 (poi successivamente abrogata), concernente l’istituzione degli ecomusei (del Friuli Venezia Giulia) e la legge della Sardegna 20 settembre 2006, n. 14, recante norme in materia di beni culturali, istituti e luoghi della cultura: mentre nel primo approdo gli ecomusei vengono definiti come “una forma museale mirante a conservare, comunicare e rinnovare l’identità culturale di una comunità, consistendo in un progetto integrato di tutela e di valorizzazione di un territorio geograficamente, socialmente ed economicamente omogeneo, che produce e contiene paesaggi, risorse naturali ed elementi patrimoniali, materiali ed immateriali”; nel secondo intervento legislativo, l’ecomuseo è “un’istituzione culturale volta a rappresentare, valorizzare e comunicare al pubblico i caratteri, il paesaggio, la memoria e l’identità di un territorio e della popolazione che vi è storicamente insediata, anche al fine di orientarne lo sviluppo futuro in una logica di sostenibilità, responsabilità e partecipazione dei soggetti pubblici e privati e della comunità locale in senso lato”. Alla luce di quanto sopra, si pone dunque una questione problematica difficilmente risolvibile - peraltro già evocata da un recente filone di pensiero [48] -, che attiene alla diversa definizione che di volta in volta viene attribuita all’ecomuseo dai legislatori (o comunque dagli interpreti) e che ingenera incertezza sul fronte giuridico. A tal proposito è da rammentare il progetto di legge nazionale sugli ecomusei a cura di Moscatt ed altri [49] (2014, atto camera 2646) nella XVII legislatura, poi non andato in porto, che avrebbe in parte sopperito o comunque posto un argine alla summenzionata questione.

L’opera dei legislatori regionali prosegue sia nella prima decade che nella seconda del 2000: Lombardia e Umbria intervengono con apposite leggi (sugli ecomusei) nel 2007, il 2008 è l’anno del Molise, Toscana nel 2010, Puglia nel 2011, Veneto e Calabria nel 2012, Sicilia nel 2014, Lazio nel 2017 (e successivamente nel 2019), Basilicata nel 2018 [50]; ne discende pertanto che la maggioranza delle regioni hanno introdotto una disciplina sulla tematica di indagine, optando per due modalità di intervento: una più specifica, legiferando esclusivamente sugli ecomusei; e una più generale che ingloba i medesimi nell’ambito delle attività culturali (et similia). Sempre sull’opera nomopoieutica delle regioni, va segnalata una importantissima pronuncia della Corte costituzionale, secondo la quale i suddetti enti territoriali possono individuare ulteriori beni culturali “non già in posizione antagonistica rispetto allo Stato ma in funzione di salvaguardia diversa e aggiuntiva” [51].

In ultimissima battuta, vanno altresì rammentate due ulteriori disposizioni: da un lato, l’art. 118 comma 3 Cost., secondo cui “la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’art. 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia dei beni culturali”; dall’altro lato, l’art. 5 comma 1 d.lg. n. 42/2004 rubricato “cooperazione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale”, in forza del quale “le regioni, nonché i comuni, le città metropolitane e le province, di seguito nominati “altri enti pubblici territoriali”, cooperano con il ministero nell’esercizio delle funzioni di tutela in conformità a quanto disposto dal Titolo I della Parte seconda del presente codice”; dalle suddette norme, si evince pertanto l’esistenza di forme di coordinamento e di cooperazione tra lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali nella materia dei beni culturali.

3. Sulle c.d. culture minori

Quando si parla delle culture minori ci si riferisce a quelle forme tangibili e intangibili di cultura rappresentative dei ceti popolari, accezione quest’ultima probabilmente messa in crisi dall’evolversi del tessuto economico e sociale, in particolare nell’occidente del mondo; in altri termini, si fa riferimento al concetto di folclore o, più in generale, a quello di tradizione o di tradizioni (specialmente se locali).

È bene precisare che il termine cultura può sicuramente dirsi polisemico o comunque evanescente, con il naturale precipitato che non è semplice pervenire ad una vera e propria definizione; sarebbe infatti più corretto parlare di definizioni, atteso che tale concetto è stato oggetto di studio da più parti nell’ambito scientifico - dall’antropologia alla filosofia [52], solo per citarne alcune - con risultati e approdi chiaramente differenti.

In una prospettiva storica, dopo essersi diffusa l’idea di cultura come “formazione dell’uomo” nell’alveo dell’impostazione umanista, uno degli snodi fondamentali nell’evoluzione di tale concetto è lo studio effettuato da E.B. Taylor che arriva ad affermare: “Culture...is that complex whole which icludes knowledge, belief, art, morals, law, custom, and any other capabilities and habits acquired by man as a member of society” [53]; dando così l’abbrivio ad una concezione più lata ed inclusiva di cultura (e dunque meno elitaria).

I risultati della ricerca dell’antropologo britannico cominciano a diffondersi in tutta l’Europa ed invero, in Italia, come ricorda autorevole dottrina [54], tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, si ripone specifica attenzione a fenomeni come il folclore e le tradizioni popolari. Su questo fronte, un successivo e denso contributo è affiorato grazie al pensiero e l’opera di Antonio Gramsci, noto intellettuale antifascista, che, nelle proprie dissertazioni (da quella citata in epigrafe ai Quaderni dal carcere [55]), si interroga sull’emancipazione della cultura delle classi subalterne.

Tale percorso di “affrancamento” tuttavia si connota per la presenza una serie di ostacoli, storici, sociali ed economici che solamente in secondo tempo verranno meno, in virtù, da un lato, dell’affermazione dello Stato costituzionale di diritto, e dall’altro, del consolidarsi della comunità internazionale, il cui apporto (come poi si avrà modo di verificare) si rivelerà essenziale.

Una prima seppur timida apertura verso una tipologia di beni legati alla c.d. cultura minore la si potrebbe (forzatamente) intravedere nella legge n. 1089/1939, concernente la tutela delle cose d’interesse artistico e storico; ed infatti, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1, nonostante primeggi la c.d. concezione estetica di quelli che poi verranno classificati come beni culturali, il legislatore assicura la protezione delle cose mobili e immobili che presentano interesse etnografico. A tal proposito, giova rammentare che per etnografia, secondo il lessico comune, si intende la “scienza che studia i costumi e le tradizioni dei popoli viventi con intendimenti descrittivi” [56].

Ulteriori indici che supportano un diverso approccio nello studio del patrimonio culturale sono riscontrabili nel superamento dell’utilizzo del concetto di cosa al quale approda inizialmente la Costituzione (art. 9 comma 2 Cost.: “Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) e poi la Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio (costituita con la legge n. 310/1964), la quale introduce in ambito legislativo la locuzione bene culturale e la fatidica formula “testimonianza materiale avente valore di civiltà” (che allarga gli orizzonti delle cose tutelabili).

Pochi anni dopo il termine dei lavori della suddetta Commissione (c.d. Franceschini), prendendo le mosse dalle opere gramsciane, alcuni autori riprendono il dibattito sul ruolo della cultura popolare nell’Italia repubblicana; si segnalano in particolare le tesi dell’antropologo Alberto Mario Cirese proposte nell’ambito delle rispettive pubblicazioni [57].

A conferma di un rinato interesse per l’argomento merita attenzione lo studio del ministero dei Beni culturali e ambientali denominato “Ricerca e catalogazione della cultura popolare” [58], al quale non seguono tuttavia veri e propri provvedimenti di tutela e valorizzazione nel campo d’indagine. Malgrado il dibattito sull’emancipazione della cultura minore rimanga attuale al di fuori del mondo del diritto, perché si presenti nell’ambito giuridico, occorre attendere il d.lg. n. 112/1998, ed in particolare l’art. 148 comma 1 lettera a), che, oltre a parlare di patrimonio demoetnoantropologico [59], racchiude nei beni culturali tutti gli altri beni che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà, togliendo per l’appunto l’aggettivo materiale e dando conseguentemente agli interpreti un appiglio nel propugnare l’esistenza dei c.d. beni culturali immateriali (categoria che tuttavia si paleserà soltanto a seguito della “legislazione” internazionale).

È proprio in quest’ultima linea direttrice - e più nello specifico in sede Unesco - che fenomeni come il folclore e le tradizioni trovano un apposito riconoscimento: dapprima, con la Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura tradizionale e del folclore (Parigi, 15 novembre 1989) e con la Dichiarazione dei diritti delle persone che appartengono a minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche (New York, 18 dicembre 1992); ed in secondo momento, con la Dichiarazione sulla diversità culturale (Parigi, 2 novembre 2001), che, in qualche modo, apre il varco alla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (Parigi, 17 ottobre 2003).

Quest’ultimo è il documento con il quale acquistano una precipua rilevanza altre forme espressive di cultura, che non necessitano, peraltro, del c.d. outstanding universal value, così come previsto, invece, per i beni culturali e naturali di cui alla Convenzione Unesco del 1972 (per la protezione del patrimonio mondiale e culturale): segnatamente, per patrimonio culturale immateriale si intende “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale” (art. 2 par. 1). Va inoltre dato atto che, ai sensi dell’art. 2 par. 2 della suddetta Convenzione, il patrimonio culturale immateriale si manifesta nei seguenti settori: a) tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; b) le arti dello spettacolo; c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo; e) l’artigianato tradizionale. Sempre nella prospettiva internazionale, giova ricordare la Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, approvata a Parigi il 20 ottobre 2005.

La ricezione di questi due (importanti) documenti all’interno del Codice dei beni culturali e del paesaggio avviene in forza del d.lg. 26 marzo 2008, n. 62 (denominato ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione ai beni culturali), che introduce l’art. 7-bis, rubricato espressioni di identità culturale collettiva, il quale risulta del seguente tenore: “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 e il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’art. 10”.

Un ulteriore riconoscimento di forme diverse di cultura affiora con il d.l. 8 agosto 2013, n. 91, convertito con modificazioni dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, recante disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo, ed in particolare con l’art. 2-bis comma 1 lettera a), il quale sancisce che: “Fermo restando quanto previsto dall’art. 7-bis, i comuni, sentito il soprintendente, individuano altresì i locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressioni di identità culturale collettiva ai sensi delle Convenzioni Unesco di cui al medesimo articolo, al fine di assicurare apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione”. A tal proposito, va in aggiunta rammentato che l’artigianato trova espressa tutela anche nel dettato costituzionale, e precisamente all’art. 45 Cost.

Nella stessa prospettiva di emancipazione delle c.d. culture minori, si pone anche la Convenzione quadro sul valore dell’eredità culturale per la società (Faro, 2005), emanata nell’alveo dell’organizzazione internazionale chiamata Consiglio d’Europa: i due concetti fondanti del testo sono l’eredità culturale (“un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi”) e la comunità di eredità (“è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future”).

Accanto a tali interventi (e altre disposizioni del Codice [60] dei beni culturali e del paesaggio), i quali - come si è detto - si collocano nel filone dell’affrancamento delle c.d. culture minori, si situano una serie di normative emanate dalle regioni riguardo il patrimonio culturale immateriale. Su questo versante, è bene rammentare un autorevole indirizzo dottrinale che distingue tra leggi che intervengono in maniera “organica” [61] e norme che tutelano “singole espressioni culturali, singole tradizioni o pratiche” [62] (lingue e dialetti, manifestazioni folcloristiche, pratiche alimentari, ecc.).

Le c.d. culture minori sono dunque riuscite in qualche modo ad emanciparsi non solo al di fuori del diritto ma anche nel mondo giuridico, con una serie di pertinenti provvedimenti, e ciò sia a livello nazionale che internazionale; nondimeno, si rammenta che parte della dottrina guarda con sfavore al fenomeno del c.d. “panculturalismo” o comunque alla potenziale sovrapposizione [63] tra due termini ben distinti: cultura e patrimonio culturale.

4. La legge della regione Lazio 15 novembre 2019, n. 24

La regione Lazio, sulla disciplina degli ecomusei, è intervenuta inizialmente con la legge regionale 11 aprile 2017, n. 3, denominata riconoscimento e valorizzazione degli ecomusei regionali; in particolare, ai sensi dell’art. 1 comma 1, viene stabilito che la regione promuove, riconosce e disciplina gli ecomusei regionali, allo scopo di favorire la cultura della conservazione del paesaggio, testimoniare e valorizzare il patrimonio ambientale e culturale, promuovere la conservazione e la trasmissione della memoria storica, accompagnare le trasformazioni operate dalle generazioni presenti e future; sempre all’art. 1 (comma 2), viene inoltre definito l’ecomuseo come segue: “una forma museale mirante a conservare, comunicare e rinnovare l’identità culturale di una comunità, attraverso un progetto integrato di tutela e valorizzazione di un territorio geograficamente, socialmente ed economicamente omogeneo, connotato da peculiarità storiche, culturali, paesistiche ed ambientali”. All’indomani dell’approvazione della legge appena richiamata, un autorevole indirizzo dottrinale propugna la tesi secondo cui l’ecomuseo rappresenta “un museo dentro al quale agisce la comunità partecipante come naturale custode civico” [64].

A soli due anni di distanza tuttavia la regione Lazio ritorna sui propri passi ed opta per una disciplina generale in materia di servizi culturali, piuttosto che una legge ad hoc per gli ecomusei. Ed infatti, con la l.r. Lazio 24/2019, recante disposizioni in materia di servizi culturali regionali e di valorizzazione culturale, il legislatore regionale compie un’opera più sistematica, laddove non mancano però specifiche disposizioni sugli ecomusei.

Segnatamente, secondo quanto sancito dall’art. 2 (rubricato definizioni) comma 1, lett. b) n. 3 (facente parte del Titolo I denominato Disposizioni generali e del Capo I, appellato Finalità, Ambito di applicazione e Definizioni, Misure per la conoscenza del patrimonio storico, artistico e culturale regionale) gli ecomusei vengono definiti come quelle “istituzioni museali territoriali che conservano, narrano, comunicano, rinnovano, valorizzano la memoria collettiva e il patrimonio culturale materiale e immateriale di un territorio e di una comunità, geograficamente e socialmente omogeneo, connotato da peculiarità storiche, culturali, paesistiche ed ambientali che compongono e costruiscono l’identità della comunità stessa”.

Da un esame più attento della normativa, gli ecomusei - come appena definiti - rientrano tra i c.d. “istituti similari” assieme alle case museo (art. 2 comma 1 lett. b) n. 1; le dimore in cui hanno vissuto, oppure svolto la propria attività, importanti esponenti del mondo della cultura, della politica, della scienza e della spiritualità) e ai musei all’aperto (art. 2 comma 1 lett. b) n. 2; i musei caratterizzati da un percorso di visita dei beni, che ne costituiscono il patrimonio, esclusivamente o prevalentemente all’aperto). A loro volta, gli istituti similari costituiscono una species dei “servizi culturali regionali” richiamati e definiti all’art. 2 comma 1 lett. a) della legge in commento; segnatamente, i suddetti servizi necessitano di due caratteristiche: l’avere sede nel territorio regionale, essere aperti al pubblico o destinati alla pubblica fruizione. Pertanto, gli ecomusei vengono configurati come servizi culturali regionali, i quali, per essere tali, debbono in aggiunta presentare le summenzionate caratteristiche.

Dopo aver sancito il dettato normativo in tema di istituti culturali al Capo I del Titolo II, denominato Servizi culturali regionali, il legislatore regionale, al successivo Capo II (del suddetto Titolo), disciplina le Organizzazioni regionali dei servizi culturali: fra queste disposizioni vi rientrano anche gli ecomusei, che vengono più ampiamente normati agli artt. 21 e 22 della legge. In particolare, ai sensi dell’art. 21, rubricato Ecomusei, e precisamente al comma 1, si evince che la “Regione promuove, riconosce, e disciplina gli ecomusei regionali, allo scopo di favorire la conservazione, il rinnovamento e la valorizzazione dell’identità e del patrimonio culturale, materiale e immateriale, dei territori e delle comunità e promuovere la conservazione e la trasmissione della memoria collettiva, accompagnando e mediando le trasformazioni operate dalle generazioni presente e future”. Inoltre, ai sensi del comma 2 dell’art. 21, per le finalità previste dal comma 1, la Regione promuove, altresì, gli ecomusei quali luoghi di valorizzazione del paesaggio attraverso percorsi tematici multidisciplinari mirati a salvaguardare, comunicare e rinnovare le specificità locali e le diverse articolazioni delle molteplici identità di una comunità.

Dalla breve enunciazione delle norme in tema di ecomusei collocate nella l.r. Lazio 24/2019, si nota immediatamente la diversa prospettiva del legislatore regionale nell’approccio alla materia. A parte il ricondurre gli istituti oggetto di esame nell’alveo dei servizi culturali, prima e sostanziale differenza rispetto alla l.r. Lazio 3/2017, l’interprete si imbatte in primo luogo nella differente definizione adottata dal dettato legislativo del 2019, laddove gli ecomusei vengono definiti come “istituzioni museali territoriali”, mentre nel primo approdo venivano identificati in una mera “forma museale”; in secondo luogo, se nella legge del 2017 la linea direttrice su cui inserire gli ecomusei era “il favorire la cultura della conservazione del paesaggio”, nella legge del 2019, lo scopo principale dei suddetti istituti è di “favorire la conservazione, il rinnovamento e la valorizzazione dell’identità e del patrimonio culturale”. In considerazione di quanto sopra, si possono esporre le seguenti osservazioni: nella l.r. Lazio 24/2019, l’ecomuseo diviene una forma museale “più istituzionalizzata” e “strettamente legata al territorio”; esso inoltre si situa primariamente nel prisma della valorizzazione del patrimonio culturale e solo secondariamente nell’ambito della valorizzazione del paesaggio; in altri termini, esso diviene a tutti gli effetti uno strumento di valorizzazione [65] del patrimonio culturale regionale, ed in particolare dei singoli patrimoni locali di volta in volta individuati.

L’impostazione ermeneutica propugnata si palesa vieppiù plausibile scorgendo, al comma 3 dell’art. 21, alcune delle finalità prioritarie degli ecomusei: “valorizzare la diversità e la complessità dei patrimoni culturali locali che si esprimono nelle memorie e nei segni storici, nei saperi e nel saper fare locali, nella specificità del paesaggio anche di interesse ambientale e archeologico a vocazione agricola, faunistica e floristica, favorendo l’integrazione tra habitat naturale ed economia sostenibile e promuovendo il patrimonio storico e archeologico regionale” (lett. c); “contribuire a rafforzare il senso di integrazione e di appartenenza delle identità locali, in chiave dinamico evolutiva, attraverso il recupero delle radici storiche e culturali delle comunità” (lett. d); “salvaguardare, ripristinare, restaurare e valorizzare ambienti di vita e di lavoro tradizionali, utili a tramandare le testimonianze della cultura e a ricostruire le abitudini di vita e di lavoro delle popolazioni locali” (lett. g).

Ulteriori argomentazioni a suffragio della tesi di fondo - quella che gli ecomusei rappresentano un meccanismo di valorizzazione delle culture “minori” - affiorano da alcune peculiari finalità previste dal comma 3 dell’art. 21: ai sensi della lettera i, ad esempio, tra le finalità prioritarie delle istituzioni museali territoriali, vi è l’attuare strategie per la salvaguardia dei dialetti locali, anche attraverso operazioni di ricerca e documentazione; da segnalare anche la finalità prevista dalla lettera l) “promuovere la partecipazione diretta delle comunità, delle istituzioni culturali e scolastiche nonché delle associazioni locali affinché realizzino processi di valorizzazione, ricerca e fruizione attiva del patrimonio culturale, sociale e ambientale, compresi i saperi tramandati, anche oralmente, e le tradizioni locali”, e quella prevista dalla lettera o) “promuovere e sostenere le attività di ricerca scientifica e didattico-educative relative all’ambiente, alla storia, ai patrimoni immateriali e alle tradizioni locali, con particolare riferimento alla memoria orale, alle narrazioni e alle dinamiche interculturali del territorio anche attraverso la collaborazione, previa stipula di apposite convenzioni, con istituti ed enti statali e regionali nonché con altre realtà ecomuseali”.

Sempre nel Titolo II, Capo II, il legislatore regionale inserisce un’altra disposizione - art. 22 comma 1 - sulla tematica, rubricata inserimento degli ecomusei nell’organizzazione museale regionale: in forza di tale articolo, possono accedere all’organizzazione museale regionale (O.m.r.) gli ecomusei promossi e gestiti dagli enti locali (lettera a), da organismi senza scopo di lucro (lettera b), da enti di gestione delle aree naturali protette regionali [66] (lettera c). Ai sensi dell’art. 22 comma 2, i soggetti appena richiamati individuano - in conformità ai regolamenti regionali - l’ambito territoriale dell’ecomuseo; al successivo comma 3, sono invece previsti alcune prescrizioni riguardanti i criteri ed i requisiti per l’inserimento nell’O.m.r. degli ecomusei. Merita da ultimo menzione il comma 4 della suddetta norma, a tenore del quale, la regione attribuisce agli ecomusei inseriti nell’organizzazione museale regionale un apposito logo identificativo, le cui modalità di uso e revoca sono demandate ad un pedissequo regolamento (secondo quanto sancito dall’art. 32 della legge).

Ne discende dunque l’acuirsi del rilievo del relativo regolamento attuativo della legge in commento (n. 20 del 2020) successivamente emanato dall’ente territoriale, recante per l’appunto la disciplina delle modalità e dei requisiti per l’iscrizione nell’albo regionale degli istituti culturali, per l’inserimento dei servizi culturali nelle organizzazioni regionali bibliotecaria, museale e archivistica, nonché delle caratteristiche ideografiche, dei criteri e delle modalità d’uso e di revoca del logo identificativo degli ecomusei regionali, in attuazione ed integrazione della legge regionale 15 novembre 2019, n. 24. Più nello specifico, in virtù di quanto sancito con l’art. 4 comma 1 del suddetto regolamento, i servizi culturali di cui all’art. 2, comma 1 lettera a) e b) - tra i quali rientrano anche gli ecomusei - per poter accedere alle misure di sostegno indicate nel piano triennale di indirizzo e nel piano annuale degli interventi, devono essere inseriti nelle rispettive O.b.r. (organizzazione bibliotecaria regionale), O.m.r. od O.a.r. (organizzazione archivistica regionale).

L’inserimento degli istituti similari nelle organizzazioni appena rievocate - ai sensi dell’art. 4 comma 3 del regolamento - è disposto con determinazione del direttore della direzione cultura su istanza del soggetto interessato titolare del servizio culturale; più nel dettaglio, tale procedimento mira ad accertare la sussistenza dei requisiti stabiliti dalla legge regionale e dal relativo regolamento, nonché di quelli ulteriori previsti dai pedissequi allegati (al regolamento stesso); scendendo ancora più a fondo, sono previsti dei requisiti obbligatori, non obbligatori e delle raccomandazioni od obiettivi di miglioramento; l’inserimento nelle relative organizzazioni avviene solo se i servizi - oltre ad avere il possesso dei requisiti obbligatori - raggiugono una soglia minima di punteggi (prevista dagli allegati) pari a 60 su 100, potenzialmente attribuibili.

Con precipuo riguardo alla forma museale oggetto di odierno approfondimento, desta in aggiunta interesse l’allegato 5, denominato “requisiti per l’iscrizione degli ecomusei nell’organizzazione museale regionale”. Dopo aver rammentato che all’O.M.R. non possono accedere ecomusei statali, il suddetto documento sancisce che i requisiti obbligatori non solo debbono essere posseduti al momento della domanda ma mantenuti per tutto il tempo dell’iscrizione. Fra questi ultimi vi rientrano: 1) centro di interpretazione (per allestimenti espositivi efficaci e rispondenti all’esigenze di fruizione, si veda parte A.2 dell’allegato 5); 2) coordinatore tecnico scientifico; 3) responsabile della sicurezza; 4) la costituzione tramite apposito atto; 5) l’ecomuseo tra le finalità istituzionali deve possedere almeno tre di quelle elencate al comma 3 dell’art. 21 della legge regionale; 6) la presenza di un regolamento [67] e di una carta di servizi; 7) l’orario di apertura; 8) tipo di gestione (a tal proposito si rammenta l’art. 22 comma 1), 9) progetto di interpretazione; 10) la riferibilità ad uno specifico territorio; 11) il coinvolgimento delle comunità locali; 12) itinerari di visita; 13) attività di studio e di ricerca; 14) l’ecomuseo deve inoltre pubblicare le informazioni aggiornate sul proprio sito web o sul sito dell’amministrazione di riferimento.

Sul versante pragmatico dell’azione degli ecomusei, molti di essi utilizzano lo strumento delle mappe di comunità [68]: secondo una parte della dottrina queste sono “uno strumento con cui gli abitanti di un determinato luogo hanno la possibilità di rappresentare il patrimonio, il paesaggio, i saperi in cui si riconoscono e che desiderano trasmettere alle nuove generazioni” [69]; sotto il profilo dell’origine storica, un recente filone di pensiero rammenta che “l’idea delle Parish Maps nasce in Inghilterra nel 1987, quale frutto della felice intuizione di Sue Clifford, Angela King e Roger Dreakin, che fondano l’associazione no profit Common Ground, che, prima fra tutte, scelse di dedicare le proprie energie alla conoscenza e alla valorizzazione del patrimonio locale attraverso il coinvolgimento attivo della comunità, con l’obiettivo di promuovere la specificità locale” [70]. Altri ecomusei, con l’intento di tracciare un quadro rappresentativo del proprio patrimonio territoriale, hanno optato per la stesura di un atlante [71] ove inserire le peculiarità culturali, paesaggistiche e ambientali ivi presenti (e persistenti), sempre in un’ottica di trasmissione alle nuove generazioni.

5. Alcune questioni problematiche

L’articolata disciplina ultimamente introdotta dalla regione Lazio non risolve alcune questioni problematiche sottese agli ecomusei sotto il profilo della natura giuridica e non solo; criticità acuite dalla circostanza che esistono almeno più di dieci leggi regionali emanate dai rispettivi enti territoriali, in assenza - per giunta - di una normativa nazionale.

Ed invero un primo indirizzo dottrinale ha posto l’accento sui seguenti nodi irrisolti: “disciplina applicabile agli appalti, al regime delle responsabilità, alla normativa applicabile in caso di accesso, per giungere fino alle tematiche relative alle certificazioni ambientali turistiche” [72]; un altro recente filone di pensiero ha invece sottolineato le seguenti problematiche: “profilo organizzativo; rapporto tra la comunità di riferimento ed il soggetto gestore; conformazione giuridica del soggetto gestore pubblico; conformazione giuridica del soggetto gestore privato, ecc. [73]”.

Uno degli aspetti più critici è senza dubbio quello della personalità giuridica dell’ecomuseo; si tratta infatti di un’“istituzione museale territoriale” (art. 2 comma 1 lettera a) n. 3)) che non ha una propria personalità giuridica a differenza degli istituti culturali, per i quali è previsto, tra i requisiti essenziali ed indefettibili, anche quest’ultimo (art. 11 comma 2 lett. a) della legge regionale) ai fini dell’iscrizione all’albo regionale.

È di tutta evidenza che la mancanza del requisito della personalità giuridica si possa ripercuotere su alcune delle questioni poste dalla dottrina, come ad esempio il regime di responsabilità e la normativa applicabile in caso di accesso; alla luce delle considerazioni appena effettuate, si potrebbe ipotizzare che, in assenza di personalità e tenendo conto che gli ecomusei si identificano in una species di servizi culturali, l’eventuale responsabilità sia in capo al soggetto gestore, che - come è noto - può essere un comune (anche in forma associata), un organismo senza scopo di lucro o un ente di gestione delle aree naturali protette regionali (così come previsto dall’art. 22 della l.r. n. 24/2019).

Un caso veramente singolare è quello degli ecomusei gestiti in forma associata tra più comuni. In questa ipotesi, alcuni enti locali (comuni) hanno optato per la stipula di una convezione ex art. 30 d.lg. 18 agosto 2000, n. 267 (T.u.e.l.) per la relativa gestione dell’istituto; tuttavia, secondo quanto affermato da autorevole dottrina “la convenzione non crea nuovi soggetti giuridici ma si limita a disciplinare in modo convenzionale (cioè sulla base di un accordo) attività che restano imputate agli enti che ne sono intestatari” [74]; cosicché, in casi come quello enunciato, ritorna in auge la problematica della personalità giuridica.

Un’altra questione che si pone - le cui storture sono già state poste in luce dalla dottrina [75] - è la seguente: si ponga il caso dell’ecomuseo costituito da un ente di gestione di un area protetta situata in una determinata parte di territorio in tutto o in parte coincidente con quella dell’istituzione museale; in questa ipotesi, vi è il rischio che le due gestioni - quella dell’area protetta e dell’ecomuseo - si sovrappongano sul lato sostanziale; più in specie, potrebbe accadere che l’ente di gestione dell’area protetta “utilizzi” l’ecomuseo per una “riproposizione” o un “completamento” delle iniziative poste in essere nell’ambito dell’area protetta (ma è bene ricordare che gli obiettivi dell’area protetta potrebbero non collimare o addirittura cozzare con quelli perseguiti dall’istituzione museale territoriale).

I profili critici appena elencati - seppur in maniera sommaria e senza pretesa di esaustività - rappresentano soltanto una parte degli aspetti problematici della “prassi applicativa” degli ecomusei; tuttavia, essi si aggiungono alle incombenze (talvolta emergenze) giornaliere affrontate dai pubblici amministratori locali e dai privati amministratori di organizzazioni senza scopo di lucro e soprattutto incidono sulla concreta realizzazione dei piani, dei programmi e degli obiettivi dei relativi istituti museali; con l’ulteriore precipitato che potrebbero essere conculcate le posizioni soggettive [76] dei consociati, nei confronti dei quali deve essere garantito la funzionalità di un servizio pubblico [77] estremamente importante, in quanto tutelato a livello costituzionale (art. 9 Cost.) e sovranazionale (art. 22 Carta di Nizza, art. 167 Tfue).

6. Considerazioni finali

Una prima considerazione finale riguarda il c.d. “passaggio” dal museo all’ecomuseo e quindi dal concetto di “collezione” [78] a quello di “narrazione” [79]; nonostante i musei, in specie quelli aventi una propria autonomia [80] (anche giuridica) - come per esempio il Museo Egizio di Torino - rappresentino tutt’ora uno dei perni essenziali per la valorizzazione del patrimonio culturale, grazie al diffondersi degli approdi normativi regionali sopra elencati, gli ecomusei, caratterizzati da un particolare dinamismo partecipativo, (hanno dato e) danno un apporto significativo - in una prospettiva di decentramento (art. 5 Cost.) e sussidiarietà (art. 118 Cost.) - alla promozione (dello sviluppo) della cultura, così come sancito dall’art. 9 comma 1 Cost.

In seconda battuta, la suddetta disposizione, che ora ingloba anche la tutela dell’ambiente, ha recentemente assunto specifici connotati: in primo luogo, la dottrina ha riconosciuto alla nozione di cultura un significato anche antropologico (come peraltro già avvenuto a livello internazionale); in secondo luogo, tra il patrimonio storico ed artistico della Nazione, vi rientrano anche le espressioni culturali immateriali; da tali postulati ne discende che gli ecomusei possono, nella declinazione fatta propria dalla l.r. Lazio 24/2019, per la quale si è visto non mancano elementi che suggellano tale impostazione, rappresentare uno strumento di valorizzazione delle c.d. “culture minori”; ed infatti, secondo un autorevole indirizzo dottrinale “i processi di riscoperta e rivalutazione della dimensione locale e delle componenti, sia materiali che immateriali, presenti alla radice dell’identità dei luoghi, sono uno dei principali elementi distintivi degli ecomusei” [81].

Il definitivo “decollo” delle c.d. culture minori è stato peraltro di recente ribadito nell’ambito del P.n.r.r. (si confronti missione 1, componente 3), ove si legge che: “...tanti piccoli centri storici italiani (“borghi”) offrono enorme potenziale per un turismo sostenibile alternativo, grazie al patrimonio culturale, la storia, le arti, le tradizioni che li caratterizzano” [82].

In terzo luogo, con precipuo riferimento alla regione Lazio, dopo un primo intervento connotato dalla “specialità” ove gli ecomusei musei venivano definiti una forma museale, l’ente territoriale ha optato per una normativa generale dei servizi culturali, contenente anche la disciplina degli ecomusei, identificati come istituzioni museali territoriali e collocati nel prisma della valorizzazione del patrimonio culturale; questi ultimi possono essere promossi e gestiti da enti locali, da organismi senza scopo di lucro e da enti di gestione delle aree naturali protette regionali e, per poter accedere alle misure di sostegno previste nella legge, devono inoltre essere iscritti all’Organizzazione museale regionale, previo accertamento di determinati requisiti.

In quarto luogo, il diramarsi degli ecomusei in molte regioni d’Italia e segnatamente nel Lazio, se da un lato, (ha contribuito e) contribuisce all’emancipazione delle c.d. culture minori, dall’altro non ha risolto alcune - originarie ed importanti - questioni giuridiche sottese; tali criticità, che riguardano in parte la “stesura” della legge regionale ed in parte la prassi amministrativa dei soggetti gestori, possono tuttavia riflettersi sull’erogazione dei suddetti servizi culturali (secondo l’inquadramento giuridico operato dalla legge regionale del Lazio), la cui carenza potrebbe malamente incidere su uno dei diritti fondamentali dell’uomo [83].

In conclusione, in forza delle considerazioni svolte, mentre fino ad ora la dottrina situava gli ecomusei prevalentemente nell’ambito della valorizzazione del paesaggio [84] ovvero nell’alveo della prospettiva ambientale [85] e/o dello sviluppo sostenibile [86], si può di pari passo suffragare la tesi degli ecomusei del Lazio [87] quali strumenti di valorizzazione del patrimonio culturale (e segnatamente delle culture minori).

 

Note

[*] Alessandro Piazzai, dottorando di ricerca presso l’Università di Roma La Sapienza, Piazzale Aldo Moro 5, 00185, Roma, piazzai.1729475@studenti.uniroma1.it.

[1] M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, Giuffrè, Milano, 2015, pag. 388.

[2] Il Nuovo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Undicesima edizione, (a cura di) M. Dogliotti e L. Rosiello, Nicola Zanichelli S.p.a., Bologna, 1984, pag. 1212.

[3] M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, cit., pag. 390.

[4] Tra i primi provvedimenti in tema di musei è da segnalare il regio decreto n. 3191 del 1885, concernente il regolamento per la riscossione e pel conteggio della tassa d’ingresso dei musei, nelle gallerie, negli scavi e nei monumenti nazionali.

[5] È opportuno evidenziare che il 24 agosto 2022 l’Icom ha adottato una nuova definizione di museo che risulta del seguente tenore: “il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale ed immateriale. Aperti al pubblico, accessibili ed inclusivi i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione della comunità offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione, e la condivisione di conoscenze”. Si rinvia a www.icom-italia.org/definizione-di-museo-di-icom/ (ultimo accesso 2 novembre 2022).

[6] H. De Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, (a cura di) D. Jalla, Clueb, Bologna, 2005, pag. 244.

[7] Si veda il termine ecologia in Il Nuovo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, cit., pag. 625.

[8] Si confronti la definizione di ecomuseo in www.treccani.it/vocabolario/ecomuseo/ (ultimo accesso 4 novembre 2022).

[9] In dottrina, tra le prime forme di ecomuseo, viene segnalata anche una singolare idea di giardino proposta da Charles de Bonstetten alla fine del XIX secolo. Si confronti L. Bindi, Leggi, mappe, comunità, L’ecomuseo: un campo per l’etnografia delle istituzioni, in Archivio di etnografia, 2017, 1-2, pag. 46.

[10] Si rinvia a V. Caputi Jambreghi, Interventi sul territorio extraurbano, Ecomusei, paesaggi, periferie, in giustamm.it, 2019, 11, pagg. 1-19.

[11] C. Da Re, La comunità e il suo paesaggio: l’azione degli ecomusei per lo sviluppo sostenibile, Le iniziative di salvaguardia del paesaggio biellese, in L. Zagato, M. Vecco, Citizens of Europe, Culture e diritti, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2015, pag. 261.

[12] C. Da Re, op. ult. cit., pag. 261.

[13] A. Garlandini, The new challenges of museums and ecomuseums in time of global social change, in R. Riva, Ecomuseums and cultural landscapes, State of the art and future prospects, Maggioli Editore, Rimini, 2017, pag. 15.

[14] E. Mussinelli, Innovation perspectives in the ecomuseal projet, in Ecomuseums and cultural landscapes, State of the art and future prospects, (a cura di) R. Riva, Maggioli Editore, Rimini, 2017, pag. 25.

[15] M. Maggi, C. Avogadro, V. Falletti, F. Zatti, Gli ecomusei, Cosa sono, cosa potrebbero diventare, Ires Piemonte, 2000, pag. 9.

[16] Si trattava di un progetto di itinerario espositivo etnostorico della montagna pistoiese. Per approfondire si confronti D. Jalla, Oltre l’ecomuseo?, in Gli ecomusei, (a cura di) S. Vesco, Ghezzano, Felici Editore, 2011, pag. 30, nota n. 10.

[17] R. Riva, Ecomuseums and cultural landscapes, State of the art and future prospects, Maggioli, Rimini, 2017.

[18] Sul fronte internazionale, si è sostenuto che i musei si caratterizzano per cinque requisiti: building, heritage, collections, expert stafs, public visitors. Mentre gli ecomusei presentano i seguenti requisiti: territory, heritage, memory, population. Si confronti P. Davis, Ecomuseums and the representation of place, in Rivista Geografica italiana, 2009, 116, 483-503.

[19] L. Gavinelli, Territorio, networing e management come dimensioni di analisi per le decisioni degli ecomusei italiani, Wolters Kluwer Italia, Lavis, 2012, pag. 3.

[20] H. De Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, cit., pag. 257.

[21] H. De Varine, op. ult. cit., pag. 28.

[22] H. De Varine, op. ult. cit., pag. 28.

[23] L. Nazzicone, L’art. 9 della Costituzione (Commentario), in lamagistratura.it, rivista a cura dell’associazione nazionale magistrati, 2022 (ultimo accesso 2/11/2022).

[24] T. Montanari, Art. 9 Costituzione Italiana, La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, Carocci editore, Roma, 2018, pag. 6.

[25] V. Crisafulli, La costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1952, pag. 109.

[26] S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in L’amministrazione dello Stato. Saggi, (a cura di) Id., Giuffrè, Milano, 1976, pagg. 170-171.

[27] Si rinvia a M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1, pagg. 3-38. È parimenti da rammentare l’attenzione di altri studiosi sul tema dei beni culturali. Si segnala in particolare l’opera di A. Emiliani, Una politica dei beni culturali, Einaudi, Torino, 1974.

[28] Si rinvia a confronti Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 5172 del 1979, depositata il 6 ottobre 1979.

[29] Si rimanda a Corte costituzionale n. 94 del 1985, depositata il 1° aprile 1985.

[30] F. Merusi, Art. 9 Cost., in Commentario della Costituzione, (a cura di) G. Branca, Zanichelli Editore, Bologna, Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma, 1975, pag. 444.

[31] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Universale economica Feltrinelli, Milano, 2014, pag. 71. Per un’autorevole disamina sulla proprietà privata si rinvia a S. Rodotà, Il terribile diritto, Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Il Mulino, Bologna, 2013.

[32] M.S. Giannini, Sull’art. 9 Cost. (la promozione della cultura), in Scritti in onore di Angelo Falzea, III, Giuffrè, Milano, 1991, pag. 447.

[33] Si veda M. Cammelli, Il diritto del patrimonio culturale: una introduzione in Diritto del patrimonio culturale, C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, il Mulino, Bologna, 2017, pag. 19.

[34] Si veda M. Cecchetti, Art. 9, in Commentario alla Costituzione, (a cura di) R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Utet giuridica, Torino, 2006, pag. 223.

[35] Si veda M. Cecchetti, Art. 9, cit., pag. 223.

[36] Si veda M. Cecchetti, Art. 9, cit., pag. 223.

[37] Si veda M. Cecchetti, Art. 9, cit.,pag. 223.

[38] Si confronti A. Catelani, S. Cattaneo, I beni e le attività culturali, in Trattato di diritto amministrativo diretto dal Prof. G. Santaniello, Cedam, Padova, 2002, pag. 27. In tal senso, seppur con una differente formulazione, anche F. Rimoli, La dimensione costituzionale del patrimonio culturale: spunti per una rilettura, in Riv. giur. ed., 2016, 5, pag. 519.

[39] M. Meli, I nuovi principi costituzionali in materia di ambiente e sostenibilità, in AmbienteDiritto.it, 2022, 3, pag. 808.

[40] L. Casini, Oltre la mitologia giuridica dei beni culturali, in Aedon, 2012, 1-2.

[41] E. Triggiani, Beni culturali per l’integrazione europea, in E. Catani, G. Contaldi, F. Marongiu Bonaiuti, La tutela dei beni culturali nell’ordinamento internazionale e nell’Unione Europea, Eum, Macerata, 2020, pag. 36.

[42] L. Antonini, Commento all’art. 117, 2, 3 e 4 co. della Costituzione, in Commentario alla Costituzione, (a cura di) R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Wolters Kluwer, Milano, 2006, pag. 2228.

[43] L. Antonini, Commento all’art. 117, 2, 3 e 4 co. della Costituzione, cit. pag. 2230-2231.

[44] A. Serra, C. Tubertini, L. Zanetti, Autonomie territoriali e beni culturali dopo il Codice dei beni culturali e del paesaggio (Studio commissionato dalle regioni Lombardia, Piemonte, Toscana, Umbria e Veneto), in Aedon, 2006, 2.

[45] A. D’Atena, Diritto regionale, Giappichelli, Torino, 2022, pag. 215.

[46] C. Pinelli, Diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, 2018, pag. 319.

[47] Q. Camerlengo, Commento all’art. 118 della Costituzione, in Commentario alla Costituzione, (a cura di) R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Wolters Kluwer, Milano, 2006, pag. 2352.

[48] Sulla controversa questione della definizione degli ecomusei si veda D. Jalla, Oltre l’ecomuseo?, cit., pag. 24. Sempre in questa prospettiva - seppur nel contesto americano -, è da segnalare l’indirizzo che ha ritenuto l’ecomuseo un concetto dai “confini imprecisi”. Si rimanda a A. Besana, A. Esposito, Marketing e fundraising degli ecomusei americani, in Mercati e Competitività, 2015, 4, pag. 48.

[49] Il testo era così denominato: Disposizioni in materia di istituzione degli ecomusei per la valorizzazione della cultura e delle tradizioni locali.

[50] Per una breve analisi della legge regionale della Basilicata si rinvia a A. Graziadei, Paesaggi, comunità, valori. Resoconto preliminare su alcune esperienze di ecomusei in Basilicata, in Mediterranea, Quaderni annuali dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico, XVI, 2019, pagg. 89-99.

[51] Corte costituzionale sentenza anno 2013, n. 194, depositata il 17 luglio 2013, considerando in diritto n. 7; sul tema anche L. Casini, Le parole e le cose: la nozione giuridica di bene culturale nella legislazione regionale, in Giorn. dir. amm., 2014, 3, pagg. 257-265.

[52] Per la scienza filosofica esistono due significati di cultura: uno è quello di “formazione dell’uomo”, l’altro è quello di “prodotto di questa formazione”. Si veda il termine cultura in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Unione Tipografica-Editrice Torinese, Torino, 1961, pag. 197.

[53] E.B. Taylor, Primitive culture, Researches into development of mythology, philosophy, religion, language, art and costum, Henry Holt and Company, New York, 1883, Chapter I.

[54] A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, 2019, 1, pagg. 83-93.

[55] Si veda A. Gramsci, Quaderni del carcere: Edizione critica dell’Istituto Gramsci, Vol. III, (a cura di) V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975. Si confronti in particolare il Quaderno n. 27, denominato Osservazioni sul “folclore” (pagg. 2309-2318).

[56] Si veda etnografia in Il Nuovo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, cit., pag. 685.

[57] Su tutte si segnala A.M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palumbo, Palermo, 1973.

[58] Ministero per i Beni culturali e Ambientali, Ricerca e catalogazione della cultura popolare, De Luca Editore, Roma, 1978.

[59] Sulla categoria dei beni demoetnoantropologici si veda G.L. Bravo, R. Tucci, I beni culturali demoetno-antropologici, Carocci Editore, Roma, 2006.

[60] Allo stesso filone, si potrebbe ricondurre anche l’art. 135 comma 4 lettera d) del Codice che parla di “salvaguardia di paesaggi rurali”.

[61] P.L. Petrillo, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale. Spunti comparati, in E. Catani, G. Contaldi, F. Marongiu Bonaiuti, La tutela dei beni culturali nell’ordinamento internazionale e nell’Unione Europea, Eum, Macerata, 2020, pag. 124.

[62] P.L. Petrillo, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale. Spunti comparati, cit., pag. 124.

[63] Si rinvia a G. Severini, I confini della tutela: il vincolo di destinazione d’uso. Sul vincolo di destinazione per il bene culturale immobiliare: prime considerazioni su Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5, in Aedon, 2023, 1.

[64] P. Passaniti, Il diritto cangiante, Il lungo novecento giuridico del paesaggio italiano, Giuffrè, Milano, 2019, pag. 218.

[65] Ai sensi dell’art. 6 (1 cpv) del d.lg. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) “la valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura”.

[66] In dottrina si è sostenuta la tesi secondo cui tra gli ecomusei e le aree protette sussista una forte analogia. Si confronti F. Ratto Trabucco, L’ecomuseo nel quadro della protezione ambientale, in Economia e Ambiente, 2020, 2, pagg. 43-52.

[67] Nel regolamento dell’Ecomuseo Alta Tuscia del Paglia - situato nel territorio contiguo dei comuni di Acquapendente e Proceno (VT) -, con riguardo la profilo istituzionale, si scorgono tre organi fondamentali: Conferenza dei Sindaci, Assemblea, Coordinatore tecnico-scientifico.

[68] Il meccanismo delle mappe di comunità è stato utilizzato - ad esempio - dall’Ecomuseo del paesaggio orvietano (comprendente i comuni di Allerona, Castel Viscardo, Fabro, Ficulle, Montegabbione, Monteleone, Parrano e San Venanzo) grazie ad un contributo del Piano di sviluppo locale del Gal Trasimeno-Orvietano, PSR, regione Umbria (2015).

[69] C. Da Re, La comunità e il suo paesaggio: l’azione degli ecomusei per lo sviluppo sostenibile, cit., pag. 272.

[70] G. Reina, L’ecomuseo fra territorio e comunità, in Gli ecomusei, Una risorsa per il futuro, A. Angelini, L. Baldin, F. Baratti, S. Creaco, G. Cusimano, H. De Varine, A. Garlandini, D. Jalla, G. Reina, V. Ruggiero, (a cura di) G. Reina, Marsilio, Venezia, 2014, pag. 60.

[71] Tale modalità operativa è stata sposata anche dall’Ecomuseo Alta Tuscia del Paglia. Si confronti a tal proposito l’Atlante dell’Ecomuseo Alta Tuscia del Paglia, a cura dei seguenti soggetti: regione Lazio, Direzione regionale cultura e politiche giovanili, comune di Acquapendente, comune di Proceno e Riserva naturale di Monterufeno, 2020.

[72] F. Ratto Trabucco, L’ecomuseo nel quadro della protezione ambientale, cit., pagg. 43-52.

[73] L. Gavinelli, Territorio, networing e management come dimensioni di analisi per le decisioni degli ecomusei italiani, cit., pag. 21.

[74] F. Staderini, P. Caretti, P. Milazzo, Diritto degli enti locali, Cedam, Padova, 2011, pag. 105.

[75] L. Gavinelli, Territorio, networing e management come dimensioni di analisi per le decisioni degli ecomusei italiani, cit., pag. 18.

[76] In dottrina si discute peraltro sul riconoscimento di un “nuovo” diritto, quello alla bellezza. Si rinvia a M.A. Cabiddu, La società del “bellessere” e il suo sistema, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2022, 3, pagg. 14-34.

[77] G. Biasutti, Brevi note intorno alla nozione di servizio pubblico culturale. Nomina sunt consequentia rerum?, in Aedon, 2021, 3, pagg. 172-184. Sulla “problematica” ed “incerta” nozione di servizio culturale si rimanda anche a G. Severini, Art. 111, in Le fonti del diritto italiano, Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, III edizione, Giuffrè, Milano, 2019, pag. 1014.

[78] G. Reina, L’ecomuseo fra territorio e comunità, cit., pag. 41.

[79] G. Reina, L’ecomuseo fra territorio e comunità, cit., pag. 41.

[80] L. Casini, Il “nuovo” statuto giuridico dei musei italiani, in Aedon, 2014, 3.

[81] C. Da Re, La comunità e il suo paesaggio: l’azione degli ecomusei per lo sviluppo sostenibile, cit., pag. 263.

[82] PNRR, Presidenza del Consiglio dei Ministri, pag. 112 (ultimo accesso in data 2/11/2022).

[83] M. Carcione, Dal riconoscimento dei diritti culturali nell’ordinamento italiano alla fruizione del patrimonio culturale come diritto fondamentale, in Aedon, 2013, 2.

[84] C. Da Re, La comunità e il suo paesaggio: l’azione degli ecomusei per lo sviluppo sostenibile, cit., pagg. 253-284. In tal senso, seppur non esplicitamente, anche L. Casini, La valorizzazione del paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2014, 2, pagg. 385-396. È comunque da notare che, ai sensi dell’art. 2 comma 1 del d.lg. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), il patrimonio culturale si compone dei beni culturali e dei beni paesaggistici. Tocca ancora l’argomento M. Brocca, Patrimonio culturale e sviluppo dei territori: la componente del paesaggio tra impostazione codicistica e nuove traiettorie normative, in Ist. fed., 2018, 3-4, pagg. 857-885 (si veda in particolare pag. 871).

[85] F. Ratto Trabucco, L’ecomuseo nel quadro della protezione ambientale, cit., pagg. 43-52.

[86] H. De Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, cit., 2005; F. Fracchia, L. Gili, Ecomusei e aree protette tra sussidiarietà e sviluppo sostenibile, in Il diritto dell’economia, 2008, 2, pagg. 357-372; M.T.P. Caputi Jambrenghi, Risparmio del suolo e turismo naturalistico, Spunti di riflessione sullo sviluppo sostenibile nella perequazione urbanistica, in Ambientediritto.it, 2021, 1, pagg. 489-514.

[87] Per verificare se la prospettiva in cui si situano gli ecomusei del Lazio (quella della valorizzazione delle c.d. culture minori) sia riscontrabile anche nelle altre legislazioni regionali, sarebbe opportuna una precipua esegesi degli altri approdi normativi emanati dalle regioni.

 

 

 



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