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La valorizzazione del patrimonio culturale: modelli organizzativi e strumenti

Le fondazioni partecipate da pubbliche amministrazioni e l’affidamento dei servizi culturali

di Gabriele Torelli [*]

Sommario: 1. Fondazioni partecipate da amministrazioni e affidamento dei servizi culturali: il punto di vista del Tar Bologna. - 2. Caratteristiche delle fondazioni partecipate per lo svolgimento dei servizi culturali. - 3. I servizi culturali come servizi di rilevanza economica. - 4. Una tesi che non convince: l’affidamento diretto in ragione del carattere privo di rilevanza economica dei servizi culturali. - 5. L’affidamento diretto alle fondazioni tramite accordi di valorizzazione ex art. 112 d.lg. n. 42/2004. - 6. L’affidamento diretto dei servizi culturali per accordi: uno sguardo al d.lg. n. 50/2016. - 7. Brevi appunti conclusivi. L’inutilità del richiamo all’in house providing “temperato”.

Foundations owned by public administrations and the externalization of cultural services
Moving from the analysis of the case-law Tar Emilia-Romagna, Bologna, no. 375/2022, concerning the direct grant of cultural services to a foundation held by public bodies, the paper analyses the main issues of the sentence, considering both the nature of cultural services and the possible management methods, even in derogation of the public evidence proceeding. The idea is that such services can be directly granted not because of their object - as the sentence has declared - but thanks to the substantially publicist status of foundations held by public bodies, according to a reasoning which can only be partially shared with the administrative judge statements.

Keywords: Cultural services; Public evidence; Foundations; Economic relevance; Public administration; Direct grant.

1. Fondazioni partecipate da amministrazioni e affidamento dei servizi culturali: il punto di vista del Tar Bologna

Il lavoro prende spunto dalla sentenza del Tar Bologna, 28 aprile 2022, n. 375, che rigetta il ricorso presentato dagli aggiudicatari uscenti di alcuni servizi culturali di cui all’art. 117, decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, consistenti nello svolgimento di attività di guida, informazione e assistenza didattica per i visitatori del polo museale presso il comune di Ravenna [1]. In particolare, i ricorrenti lamentavano la scelta del ministero della Cultura, in accordo con lo stesso comune, la provincia e la regione, di affidare in via diretta l’esecuzione dei menzionati servizi alla fondazione partecipata “RavennAntica” ai sensi dell’art. 151, comma 3, decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, norma che consente l’attivazione di forme speciali di partenariato tra enti pubblici e soggetti privati per la valorizzazione di beni culturali.

La contestazione veniva rimessa a tre principali ordini di motivazioni.

Il primo insisteva sul fatto che l’attivazione della formula partenariale avrebbe dovuto essere accompagnata da una pur flessibile procedura ad evidenza pubblica, la cui mancanza ha causato una violazione dei principi di concorrenza di derivazione europea.

Il secondo, strettamente connesso, evidenziava l’assenza del carattere in house della fondazione, che non può ritenersi articolazione interna del comune perché difetta del requisito del controllo analogo [2]: infatti, meno di un terzo dei componenti del consiglio di amministrazione sono nominati dall’ente comunale, con relativa preclusione dell’affidamento diretto. A maggior ragione considerando che per “RavennAntica” dovrebbe escludersi la qualifica in termini di soggetto privo di scopo di lucro, in quanto le attività svolte sono a prevalente carattere commerciale ed imprenditoriale.

Il terzo motivo del ricorso sottolineava, nella prospettiva di una più efficace valorizzazione, l’insufficienza della motivazione circa la preferibilità del modello in house rispetto all’esternalizzazione, con conseguente violazione dell’art. 115, d.lg. n. 42/2004.

Il Tar respinge tutte le contestazioni argomentando nei seguenti termini: i servizi di assistenza culturale in oggetto sono qualificabili come servizi privi di rilevanza economica [3] e, pertanto, vanno preferibilmente affidati in via diretta ai sensi dell’art. 115, d.lg. n. 42/2004, senza che sia necessario sviluppare una motivazione approfondita in ordine alla scelta di non procedere all’esternalizzazione [4]; proprio in ragione della mancanza di carattere economico, il requisito del controllo analogo non deve essere esaminato in modo rigoroso - ovvero inteso in termini di controllo societario - essendo sufficiente la presenza di una stretta dipendenza finanziaria, nel caso di specie sussistente grazie agli ingenti finanziamenti versati dal comune di Ravenna alla fondazione [5].

Per i suesposti motivi, l’affidamento diretto a favore di “RavennAntica” è ritenuto legittimo.

Muovendo dalle decisioni della pronuncia, il lavoro intende riflettere sui suoi passaggi più significativi, estendendo il ragionamento sia alla natura giuridica delle fondazioni partecipate dalle amministrazioni sia alle modalità con cui queste possono ottenere l’affidamento dei servizi culturali, senza dimenticare di soffermarsi sulla presa di posizione del Tar attorno alla quale l’intera decisione è costruita: i servizi culturali per il pubblico ex art. 117, d.lg. n. 42/2004, sono ritenuti servizi privi di rilevanza economica.

2. Caratteristiche delle fondazioni partecipate per lo svolgimento dei servizi culturali

Un preliminare, e pur generico, inquadramento del modello delle fondazioni partecipate è utile perché, ormai da più di vent’anni, esso può considerarsi uno strumento tipico per la gestione dei beni culturali (statali), costituito o comunque partecipato dal ministero della Cultura per un più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, della valorizzazione del patrimonio culturale; modello che ha peraltro goduto di crescente fortuna, come dimostrato oggi dal suo frequente utilizzo (anche) nello specifico ambito museale [6].

Sotto un profilo più strettamente legislativo, le fondazioni partecipate costituiscono una species del modello delle fondazioni di cui agli artt. 14 ss. c.c. [7], differenziandosene principalmente per la composizione eterogenea, dovuta alla compartecipazione di più associati, generalmente distinti tra soggetti fondatori e sostenitori, i quali sono chiamati a conferire beni materiali e/o immateriali per favorire il raggiungimento dei fini statutari [8]. A differenza del modello “tradizionale”, che si caratterizza appunto per la presenza di un unico soggetto che mette a disposizione parte del proprio patrimonio per scopi di pubblica utilità, la fondazione partecipata costituisce un modello ibrido - o meglio, atipico - originatosi nella prassi, in cui la compresenza di più soggetti giustifica la costituzione dell’assemblea (altrimenti prevista solo per le associazioni [9]); si viene così a delineare uno strumento elastico, in grado di reperire con maggiore facilità il patrimonio adeguato a perseguire gli scopi statutari [10].

Da questi brevi cenni, è evidente che le fondazioni partecipate si contraddistinguono per il carattere della patrimonialità [11], il quale rimane invero l’elemento di discrimine rispetto alle associazioni: infatti, mentre per le prime il fondo di dotazione è condicio sine qua non per la costituzione, per le seconde non è presupposto necessario, in quanto la peculiarità consiste nel raggruppamento di un complesso di persone che rivolgono la propria attività verso un preciso scopo. E, dunque, se nella fondazione il patrimonio è imprescindibile per raggiungere gli obiettivi statutari, nell’associazione esso è lo strumento con cui perseguire il vincolo di scopo, ottenibile anche attraverso l’opera degli associati [12].

Oltre a ciò, non devono dimenticarsi gli altri tratti fondamentali della fondazione partecipata, direttamente ripresi dal modello generale del codice civile, ossia il fine di utilità sociale e perciò non lucrativo, il vincolo di destinazione del patrimonio al raggiungimento dello scopo, l’organizzazione volta all’attuazione del controllo del vincolo di destinazione del patrimonio conferito.

Tutto quanto ritenuto, ben si comprende come lo strumento delle fondazioni di origine pubblica, cioè partecipate da pubbliche amministrazioni ancorché in via non esclusiva, abbia indotto la dottrina talvolta a non escluderne la natura pubblica [13] e, talvolta, a rimarcarla con maggiore convinzione [14], benché sembri ragionevole non esprimersi a priori ed in modo generalizzato, perché l’inquadramento del modello dipende piuttosto dalla sussistenza di specifici requisiti circostanziali [15]. Nel caso ora esaminato, il Tar Bologna ha propeso per la natura pubblica, poiché ha visto nella fondazione “RavennAntica” un organismo di diritto pubblico (più nel dettaglio infra, § 6) [16].

Del resto, se la fondazione è finanziata a maggioranza da una pubblica amministrazione, difficilmente potrà invocarsi la riduzione della sfera pubblica e negare la sottoposizione dell’ente alla disciplina dei contratti pubblici, della trasparenza, della selezione concorsuale del personale [17]. Così dicendo, non si vuole entrare nel dibattito, ostico e di difficile soluzione, della natura giuridica del modello delle fondazioni, su cui anche la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi (seppure con specifico riferimento, a quelle di origine bancaria) [18]; ben più modestamente, l’obiettivo è quello di ricordare come, anche alla luce di vari arresti del giudice amministrativo e di quello ordinario, la presenza di amministrazioni finanziatrici [19], unitamente alla funzione pubblicistica svolta [20], comporta l’applicazione di numerose disposizioni di diritto pubblico in deroga al codice civile, che di fatto definiscono una natura sostanzialmente pubblicistica per questa tipologia di fondazioni partecipate [21].

3. I servizi culturali come servizi di rilevanza economica

Stando alle ricostruzioni del giudice bolognese, la valorizzazione dei servizi culturali ex art. 117, d.lg. n. 42/2004, deve intendersi come un complesso di azioni rivolte in primis alla fruizione e conoscenza del patrimonio culturale, mentre la stretta remuneratività dell’operatore privato costituisce un profilo del tutto secondario [22]; ancora, i servizi in questione sono ritenuti privi di rilevanza economica [23] perché “RavennAntica”, per fini statutari, è estranea alla logica del profitto, condizione che a sua volta escluderebbe la redditività di tali servizi [24].

Entrambe le considerazioni non convincono del tutto nei termini che seguono.

Non è nostra intenzione contestare che la fruizione e la conoscenza del patrimonio culturale siano le finalità prioritarie della valorizzazione [25], come desumibile anche dal testo dell’art. 6 del codice [26]; tuttavia, senza stare a scomodare chi pure opportunamente ricorda che ai sensi dell’art. 1 del codice Urbani “fruizione” e “valorizzazione” sono concetti diversi [27], la preminenza della prima rispetto alla seconda (intesa nella sua accezione economica) [28] non è sufficiente ad escludere che i servizi culturali possano essere messi a reddito [29]. Infatti, seguendo una ricostruzione teorica oramai consolidata da cui non vi è motivo di discostarsi, poiché le attività di valorizzazione svolte sui beni culturali sono qualificabili in termini di servizio pubblico [30] con la conseguente applicazione dei principi di derivazione europea - e dunque dell’universalità, continuità del servizio, parità di trattamento e rispetto della procedura ad evidenza pubblica nella scelta dell’affidatario per motivi di trasparenza - allora tale qualifica porta con sé anche il profilo della retribuzione del gestore attraverso i contributi resi dai beneficiari della prestazione (c.d. utenti) [31]. Con l’ulteriore effetto che i servizi culturali, avendo mercato, non possono considerarsi privi di rilevanza economica, a maggior ragione se si riconosce che fruizione e valorizzazione non costituiscono un’endiadi quanto, piuttosto, concetti complementari, nel senso che la produzione di ricchezza da parte del bene culturale ne consente una più efficace tutela e, per l’appunto, conoscibilità [32]. Di qui, il passo è breve per riconoscere che il patrimonio culturale e le relative azioni di valorizzazione vanno considerati come elementi non solo in grado di produrre ricchezza da destinare al bene in sé, ma anche di generare un positivo indotto nel territorio, potenziando il turismo e, di conseguenza, apportando significativi benefici alle strutture ricettive ed ai servizi di prossimità [33].

Quel che si intende sostenere è che, nonostante i radicati pregiudizi legati alla dimensione economica del patrimonio culturale, oggi la separazione tra economia e cultura è un preconcetto ideologico e finanche un assunto errato, dovendo questi due profili coordinarsi per assicurare la migliore forma di utilizzo del patrimonio stesso [34]. Assunto che, inoltre, non è nemmeno coerente con l’impostazione delle politiche europee in tema di “dimensione economica” dei beni culturali, intesa come volano per lo sviluppo del territorio e la creazione di posti di lavoro [35].

Con riferimento, invece, alla seconda considerazione del Tar Bologna - “RavennAntica” è estranea alla logica del profitto, il che esclude la redditività dei servizi culturali - il ragionamento appare debole nella sua costruzione logica. La debolezza sta nel fatto che un elemento soggettivo - l’assenza dello scopo di lucro dell’ente - incide sulla qualifica del servizio e, perciò, sulla sua capacità di produrre ricchezza in sé e nel contesto territoriale di riferimento.

Se così fosse, la natura dei servizi culturali muterebbe a seconda del soggetto gestore, senza che l’oggetto dell’attività risulti davvero rilevante. Diversamente, sarebbe stato più ragionevole riconoscere che la gestione di un servizio culturale da parte di una fondazione partecipata senza scopo di lucro non priva per ciò solo il servizio stesso della sua capacità di produrre ricavi, i quali evidentemente non possono essere redistribuiti come utili ma andranno investiti nel potenziamento delle finalità statutarie.

In definitiva, affermare che i servizi culturali di cui all’art. 117, d.lg. n. 42/2004, sono privi di rilevanza economica al fine di legittimarne l’affidamento diretto dal ministero al comune, e di qui alla fondazione, costituisce un’inversione di ragionamento che alla luce delle precedenti considerazioni non è condivisibile.

Ciò ritenuto, occorre verificare se i menzionati servizi possano essere comunque aggiudicati senza una selezione competitiva. Anticipando in parte le successive considerazioni, l’impressione è che un eventuale affidamento diretto sia giustificabile non tanto sotto il profilo oggettivo della (ir)rilevanza del carattere economico delle attività di cui all’art. 117, d.lg. n. 42/2004, quanto alla luce del profilo soggettivo della natura sostanzialmente pubblicistica delle fondazioni partecipate da enti pubblici.

4. Una tesi che non convince: l’affidamento diretto in ragione del carattere privo di rilevanza economica dei servizi culturali

Come sopra già anticipato, nella lettura del Tar la mancata rilevanza economica dei servizi culturali è funzionale a legittimarne l’affidamento in via diretta. Tale caratteristica, infatti, consente di derogare alla disciplina concorrenziale per due motivi: la legge individua nella gestione diretta la regola e in quella indiretta l’eccezione; la configurazione di un modello in house meno rigido basato esclusivamente su una dipendenza finanziaria della fondazione dal comune.

Con riferimento al primo aspetto, il Tar offre un’interpretazione dell’art. 115, d.lg. n. 42/2004, per la quale i servizi culturali andrebbero prioritariamente gestiti internamente, dovendosi ricorrere alla gestione indiretta, e dunque alla gara, solo quando sia ritenuto opportuno garantire un più elevato livello di valorizzazione; per motivare questa affermazione viene proposto un parallelo con l’art. 192, comma 2, d.lg. n. 50/2016, dal quale invece si evince chiaramente la preferibilità per il ricorso al mercato. Poiché l’art. 115, d.lg. n. 42/2004, non si esprime in termini altrettanto netti a favore dell’esternalizzazione, ne deriverebbe che la gestione diretta è la regola per i servizi privi di rilevanza economica di cui all’art. 117 del codice Urbani [36].

Anche tralasciando il fatto che il ragionamento parte da premesse non condivise - i servizi culturali sono privi di rilevanza economica - questa lettura dell’art. 115, d.lg. n. 42/2004 [37], non convince innanzitutto per l’interpretazione letterale del dato normativo: nella disposizione non si rinviene una specifica gerarchia tra le due forme gestorie, là dove invece il legislatore ha generalmente utilizzato formule molto chiare quando ha deciso di propendere per la primazia dell’una sull’altra [38]. Senza dimenticare che in letteratura sono rinvenibili posizioni contrarie a quella del Tar, secondo le quali nell’art. 115, d.lg. n. 42/2004, non si registra una modalità di gestione prioritaria ex lege, spettando all’amministrazione valutare la forma da prediligere e motivarne le ragioni, specificando la necessità di ricorrere al procedimento di evidenza pubblica se la scelta ricade sull’esternalizzazione [39].

Ancora, la teoria della preminenza della gestione diretta per il carattere privo di rilevanza economica dei servizi culturali non persuade anche per alcune evidenti contraddizioni con le ultime evoluzioni della giurisprudenza europea e, prima ancora, con le determinazioni del libro verde della Commissione sui Sig e Sieg del 2003 [40]. In particolare, la Corte di giustizia ha aperto al riconoscimento del valore economico dei servizi sociali, tradizionalmente ritenutine privi [41], in quanto operanti nel mercato e perciò in grado di produrre reddito; se così è, analoghe riflessioni dovrebbero valere anche per le attività di carattere culturale, il che consiglierebbe di rivedere le riflessioni del Tar in merito al rapporto tra mercato e servizi in grado di generare proventi [42].

Con riferimento alla seconda motivazione con cui viene legittimato l’affidamento diretto, cioè la configurazione di un modello in house meno rigido in quanto basato esclusivamente sulla stretta dipendenza finanziaria di “RavennAntica” dal comune [43], il giudice bolognese esclude che, ai fini della deroga alla gara, sia necessario rinvenire il requisito del controllo analogo così come inteso dalla sentenza Teckal nella sua accezione strutturale [44]. Non si contesta il fatto che il finanziamento possa di per sé garantire un controllo di fatto sulla fondazione, considerazione molto probabilmente veritiera. Tuttavia, e qui sta il problema, il riferimento ad una versione più “temperata” di controllo analogo è invocata - ancora una volta - in ragione dell’assenza di rilevanza economica dei servizi culturali [45], mediante un ragionamento che, da un lato, pone una premessa non condivisibile come più volte osservato [46] e, dall’altro, richiama con una certa arbitrarietà un modello ibrido di affidamento in house, del quale non si rinviene specifica regolazione all’interno delle fonti richiamate, ossia il Codice Urbani e il Codice dei contratti pubblici.

Per quanto premesso, la gestione diretta dei servizi culturali non sembra giustificabile mediante il richiamo al profilo oggettivo dell’irrilevanza economica dei servizi culturali, premessa da cui discendono una serie di affermazioni del Tar che appaiono quantomeno contestabili in un ipotetico giudizio di secondo grado.

Rimane ora da verificare se la forma di gestione diretta di cui all’art. 115, d.lg. n. 42/2004, possa comunque giustificarsi alla luce di altri profili, che la sentenza ha sì accennato, ma sui quali avrebbe probabilmente dovuto incentrare il dispositivo, senza sviluppare le considerazioni in merito alla carenza di rilevanza economica dei servizi culturali.

Il riferimento è alla natura sostanzialmente pubblicistica delle fondazioni partecipate (e controllate) da enti pubblici.

5. L’affidamento diretto alle fondazioni tramite accordi di valorizzazione ex art. 112, d.lg. n. 42/2004

Se non convince la legittimità dell’affidamento diretto motivato in ordine al carattere non economico dei servizi culturali, il discorso è in parte diverso per quanto riguarda la possibilità di considerare la fondazione partecipata, controllata dal comune, quale un’articolazione interna dello stesso, peraltro senza bisogno di scomodare il modello in house riletto nella sua versione “temperata” [47]. Infatti, l’attuale quadro giuridico-normativo sembra offrire più di qualche appiglio in questo senso, consentendo di ipotizzare un affidamento diretto pur senza disconoscere la rilevanza economica dei servizi ex art. 117, d.lg. n. 42/2004.

Certo, anche questo percorso presenta alcune difficoltà, soprattutto se si pensa al fatto che la versione originaria dell’art. 115 del Codice Urbani ammetteva esplicitamente l’affidamento diretto della gestione dei servizi culturali a favore delle fondazioni [48], possibilità oggi non prevista nella nuova versione della norma, riformulata ad opera del d.lg. n. 156/2006 [49].

L’espunzione di questa eventualità potrebbe far dubitare della possibilità di affidare direttamente i servizi culturali alle fondazioni medesime [50], anche alla luce della versione vigente dell’art. 115, d.lg. n. 42/2004, il quale prevede tale affidamento a favore di strutture interne dell’amministrazione dotate, tra le altre cose, di autonomia finanziaria. Condizione sulla cui sussistenza si potrebbe discutere per “RavennAntica” in virtù del sostentamento comunale.

Tuttavia, sono rinvenibili all’interno del Codice Urbani altre disposizioni che sembrano permettere l’affidamento diretto dei servizi culturali alle fondazioni partecipate da parte delle amministrazioni.

L’art. 112, comma 5, consente agli enti pubblici territoriali di costituire appositi soggetti giuridici a cui affidare l’elaborazione e lo sviluppo dei piani di cui al comma 4, e cioè di quei piani strategici di sviluppo culturale e relativi programmi da sottoscrivere tramite appositi accordi tra amministrazioni, rivolti a valorizzare beni culturali di pertinenza pubblica. Il combinato disposto dei commi 4 e 5 dell’art. 112 permette la costituzione di soggetti giuridici - di cui non è specificato il modello civilistico, dunque anche le fondazioni - sottoposti alla dipendenza finanziaria degli enti territoriali costituenti; ciò è desumibile dall’art. 115, comma 7, che consente alle amministrazioni, e dunque anche ai comuni, di partecipare al patrimonio dei soggetti così costituiti, ai quali possono essere conferiti in uso i beni culturali oggetto della valorizzazione, le cui strategie saranno concordate assieme agli enti pubblici conferitari.

In altre parole, dalla lettura congiunta delle tre disposizioni citate - art. 112, commi 4 e 5, art. 115, comma 7 - emerge la possibilità per le amministrazioni di affidare tramite accordo, e dunque in modo diretto, a soggetti appositamente costituiti l’elaborazione di piani strategici e programmi di sviluppo culturale, anche attraverso l’uso dei beni conferiti; non si vede come all’interno dei piani e programmi menzionati non possano rientrare anche le azioni di valorizzazione su singoli beni o complessi di beni, e dunque anche i servizi culturali di cui all’art. 117 [51].

Si potrebbe obiettare che, laddove la fondazione fosse partecipata non solo da pubbliche amministrazioni ma anche da privati, non sarebbe legittimata a stipulare gli accordi di cui sopra e, pertanto, a beneficiare dell’affidamento diretto dei servizi culturali. Né servirebbe replicare che l’accordo sarebbe nondimeno legittimo perché gli eventuali privati affiliati non possono perseguire fini lucrativi stante l’utilità sociale della fondazione: infatti, la loro partecipazione potrebbe comunque creare un disequilibrio nel mercato, frustrando le aspirazioni di terzi interessati ad ottenere la gestione indiretta dei servizi culturali.

Piuttosto, la possibilità per le amministrazioni di coinvolgere anche i privati nella costituzione dei soggetti ex art. 112, comma 5, si desume dalla stessa disciplina codicistica: infatti l’art. 112, comma 8, prevede che i soggetti istituiti per i piani/programmi di valorizzazione culturale possano essere costituiti anche da persone giuridiche private senza scopo di lucro. Ciò significa che altre fondazioni possono certamente partecipare, mentre pare da escludere analoga possibilità per le società in ragione del loro carattere lucrativo [52]; condizione non verificatasi nel caso di specie, per cui l’affidamento in via diretta non pare porsi in contrasto con il quadro normativo appena ricostruito [53]. Semmai, bisognerebbe prestare attenzione alla composizione della fondazione, nel senso che se questa fosse partecipata da privati con scopo di lucro (c.d. “fondazione mista”), secondo alcuni sarebbe più prudente che l’affidamento del servizio culturale avvenisse previo esperimento della procedura ad evidenza pubblica [54].

In definitiva, se la fondazione è partecipata da amministrazioni territoriali e soggetti privati senza scopo di lucro, è legittima la scelta della gestione in via diretta ex art. 112, commi 5 e 8, d.lg. n. 42/2004: ciò significa che la deroga alla procedura ad evidenza pubblica non va ricercata nell’oggetto della prestazione svolta dalla fondazione ma nella natura sostanzialmente pubblicistica della fondazione partecipata, la quale giustifica l’affidamento in via diretta.

6. L’affidamento diretto dei servizi culturali per accordi: uno sguardo al d.lg. n. 50/2016

Volgendo lo sguardo anche ad altre fonti normative, l’affidamento diretto di servizi culturali tramite accordi è disciplinato anche dal d.lg. n. 50/2016 (c.d. Codice dei contratti pubblici), che come noto si occupa anche di appalti nel settore dei beni e servizi culturali.

Il richiamo ad altre disposizioni evidentemente complica il quadro giuridico di riferimento per le pericolose sovrapposizioni che richiedono un accurato lavoro di coordinamento tra i d.lg. n. 50/2016 e il d.lg. n. 42/2004, tema di cui la dottrina, peraltro, si è già occupata, concludendo per l’opportunità di un’integrazione da parte del Codice dei contratti pubblici - più recente - nei confronti del Codice Urbani [55].

Il punto è cruciale: riconoscere la necessità di un coordinamento ed integrazione consente di estendere alcune disposizioni del d.lg. n. 50/2016 ai servizi culturali ex art. 117, d.lg. n. 42/2004, tra cui quelle che consentono di derogare alla procedura ad evidenza pubblica tramite appositi accordi.

Il riferimento è all’art. 5, comma 6, d.lg. n. 50/2016, il quale in modo analogo a quanto sopra già osservato in tema di gestione diretta [56] permette di stipulare convenzioni tra amministrazioni aggiudicatrici evitando la procedura ad evidenza pubblica. Più specificamente, l’art. 5, comma 6, ammette l’affidamento di un appalto, e dunque anche di un appalto di servizi culturali [57], tra amministrazioni aggiudicatrici purché ricorrano contemporaneamente tre requisiti: l’accordo stabilisce una cooperazione tra gli enti coinvolti affinché i servizi pubblici siano prestati nell’ottica di un obiettivo comune; la cooperazione è retta esclusivamente da finalità di interesse pubblico; le amministrazioni aggiudicatrici svolgono sul mercato meno del 20 per cento delle attività interessate alla cooperazione.

Ora, presupponendo che tutti e tre i requisiti siano rispettati da “RavennAntica” in ragione della sua stretta dipendenza finanziaria con il comune, dei suoi compiti statutari e dell’assenza di scopo di lucro, rimane da verificare se questa possa qualificarsi in termini di “amministrazione aggiudicatrice” o di “ente aggiudicatore”, cioè la precondizione per stipulare l’accordo ai sensi dell’art. 5, comma 6, del Codice dei contratti pubblici.

L’art. 3, comma 1, lett. a), d.lg. n. 50/2016, offre la definizione di amministrazione aggiudicatrice senza includere espressamente nel novero le fondazioni, ma menzionando gli organismi di diritto pubblico (Odp) [58], a loro volta regolati dalla successiva lett. d); questa, oltre a delineare i requisiti costitutivi [59], ricorda che un elenco non tassativo degli Odp è contenuto nell’allegato IV del Codice, al cui interno sono nominati gli «enti culturali e di promozione artistica»; la mancata specificazione della integrale composizione pubblica suggerisce che non sia vietata la presenza di privati [60]. Pertanto, alla luce del combinato disposto di cui alle lett. a) e d) dell’art. 3, d.lg. n. 50/2016, è possibile sostenere che le fondazioni partecipate svolgenti servizi culturali possano qualificarsi in termini di Odp e, pertanto, di amministrazioni aggiudicatrici, con l’ulteriore effetto di poter stipulare accordi ex art. 5 comma 6, d.lg. n. 50/2016, rendendo superflua la procedura ad evidenza pubblica [61].

7. Brevi appunti conclusivi. L’inutilità del richiamo all’in house providing “temperato”

La conclusione cui giunge il Tar Bologna - è legittimo l’affidamento diretto tramite accordo - è condivisibile nel merito, ma non nel metodo o comunque nel percorso logico seguito, perché struttura la decisione sulla base della non convincente premessa della privazione del carattere economico per i servizi culturali di cui all’art. 117, d.lg. n. 42/2004.

Diversamente, sarebbe stato più opportuno incentrare la pronuncia esclusivamente sulla dipendenza finanziaria della fondazione con il comune: non che il giudice - si badi - non abbia correttamente ritenuto che “RavennAntica” possa qualificarsi come Odp [62], ma proprio qui sta il punto. In luogo delle considerazioni sul carattere (non) economico dei servizi culturali, sarebbe forse stato più opportuno circoscrivere le motivazioni sulla legittimità dell’affidamento diretto richiamando l’art. 112, d.lg. n. 42/2004, ovvero in forza dell’integrazione tra le norme dei due codici, e dunque all’art. 5, comma 6, d.lg. n. 50/2016, in combinato disposto con le previsioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), d.lg. n. 50/2016 [63].

Dagli atti non risulta che le amministrazioni resistenti abbiano giustificato l’affidamento diretto in forza dell’art. 5, comma 6, d.lg. n. 50/2016, per cui potrebbe anche darsi che la norma non sia stata richiamata per mancato riferimento da parte dei litiganti [64]. Tuttavia, lo stesso non può dirsi per l’art. 112, sul quale i ricorrenti hanno costruito le loro censure: ciò nonostante, il Tar Bologna non prende in specifica considerazione il combinato disposto tra i commi 5 e 8, che avrebbe invece potuto giustificare l’affidamento diretto ad una fondazione non finanziata da privati con scopo di lucro.

In conclusione, per il quadro normativo esistente all’interno del nostro ordinamento, e considerate le influenze del diritto europeo in termini di concorrenza, le deroghe alla procedura ad evidenza pubblica nell’affidamento di servizi culturali alle fondazioni sono più facilmente giustificabili sotto il profilo soggettivo, senza addentrarsi nelle creative ricostruzioni sul requisito dell’in house “temperato”, ma limitandosi a richiamare la dipendenza finanziaria della fondazione dal comune [65].

 

Note

[*] Gabriele Torelli, ricercatore Rtb B di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di culture del progetto dell'Università IUAV di Venezia, Santa Croce 191, Tolentini, 30135 Venezia, gabriele.torelli@iuav.it.

[1] Per un primo commento alla sentenza, M. Atelli, Per le fondazioni in house attive nel campo dei beni culturali la gestione diretta è la regola, in Diritto e pratica amministrativa, 2022, 3, pag. 45 ss.

[2] È doveroso il richiamo alla sentenza Teckal, Corte giust., 18 novembre 1999, C-107/98. La letteratura sul controllo analogo originatasi dalla pronuncia del giudice europeo è notoriamente molto vasta. Senza pretese di completezza, G. Greco, Gli affidamenti ‹‹in house›› di servizi e forniture, le concessioni di pubblico servizio, e il principio della gara, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, pag. 1462 ss.; G. Sciullo, La procedura di affidamento dei servizi pubblici locali tra disciplina interna e principi comunitari, in lexitalia.it, 2003; M. Dugato, Le società per la gestione dei servizi pubblici locali, Milano, Ipsoa, 2001.

[3] Punti 2.1. e 2.2. della sentenza. E comunque, in ordine all’importanza degli operatori nel settore della valorizzazione dei beni culturali, M. Cammelli, Il diritto del patrimonio culturale: sfide aperte, risposte possibili, in Aedon, 2017, 3.

[4] Punto 4.4. della sentenza.

[5] Punti 3.1., 3.2. e 3.3. della sentenza, in cui si legge che il modello in house trova la sua collocazione nelle attività economiche da svolgersi con criteri imprenditoriali: se, per presupposto, il metodo imprenditoriale è incompatibile con i servizi culturali, ne deriva che per i servizi privi di rilevanza economica lo strumento in house non può che essere interpretato in modo meno rigoroso.

[6] Rileva S. Foà, Lo statuto-tipo della fondazione museale: il caso del Museo egizio di Torino, in Aedon, 2003, 2, che in particolare il d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368, ha tipizzato le modalità di costituzione e funzionamento delle fondazioni partecipate per la gestione dei beni culturali. Cfr. anche Id. Il regolamento sulle fondazioni culturali a partecipazione statale, in Giorn. dir. amm., 2002, pag. 829 ss. Per ulteriori contributi in dottrina sull’utilizzo delle fondazioni partecipate in ambito culturale, si v. E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero (art. 10 del d.lg 368/1999), in Aedon, 1999, 1; ed ancora S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni costituite e partecipate dal Ministero per i beni e le attività culturali, in Aedon, 2002, 1.

[7] Per una ricostruzione del modello nella prospettiva civilistica, M. Tamponi, Art. 14, in Il Codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger e diretto da F. Busnelli, Milano, Giuffrè, 2018, pag. 125 ss.

[8] Tra i riferimenti in letteratura, si segnalano in particolare M.P. Chiti, La presenza degli enti pubblici nelle fondazioni di partecipazione tra diritto nazionale e comunitario, in Fondazione italiana per il notariato, www.fondazionenotariato.it, 37 ss.; G. Napolitano, Le fondazioni di origine pubblica: tipi e regole, in Dir. amm., 2006, pag. 579 ss.

[9] M. Tamponi, Art. 14, cit., pag. 154 ss.

[10] Così anche M. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, Jovene, 1995, passim.

[11] Elemento che, evidentemente, sussiste anche per il modello tradizionale di fondazione.

[12] Sui caratteri distintivi tra associazioni e fondazioni, G. Dinacci, Delle associazioni e delle fondazioni, in Delle persone, vol. II, (a cura di) A. Barba e S. Pagliantini, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, Utet, 2014, pag. 25 ss., che appunto rimarca come la fondazione sia un complesso di beni rivolti ad uno scopo, mentre l’associazione un complesso di persone rivolte ad uno scopo. Che nelle fondazioni il fondo di dotazione adeguato sia l’elemento fondamentale trova indiretta conferma nell’art. 28 c.c., il quale individua per la sola fondazione la causa di estinzione nell’insufficienza del patrimonio. Sulla patrimonialità della fondazione comune universitas bonorum, anteposta alla universitas personarum dell’associazione, anche M. Tamponi, Art. 14, cit., pag. 125 ss.

[13] G. Napolitano, Le fondazioni di origine pubblica: tipi e regole, cit., pagg. 574-575.

[14] F. Merusi, Privatizzazione per fondazioni tra pubblico e privato, in Dir. amm., 2004, pag. 447 ss., spec. 508 ss.

[15] Di cui infra.

[16] Punti 3.4. ss. della sentenza.

[17] M. Dugato, La riduzione della sfera pubblica?, in Dir. amm., 2002, pag. 169 ss.

[18] Corte cost., 29 settembre 2003, nn. 300 e 301, in cui la Corte evidenzia la natura privata delle fondazioni bancarie, affermando che «anche alla luce della disposizione contenuta nell’art. 118 comma 4 cost., le fondazioni di origine bancaria devono essere inquadrate fra i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali, e non delle funzioni pubbliche». A commento, S. Foà, Le fondazioni di origine bancaria quali soggetti privati espressione delle “libertà sociali”: “ordinamento civile” e sussidiarietà orizzontale, in Foro amministrativo Cds, 2003, pag. 2838 ss.

[19] Tar Lazio, Roma, sez. II, 7 settembre 2020, n. 9346; Cass. civ., sez. un., 27 marzo 2020, n. 7562, che individua la natura privata di una fondazione in ragione degli esigui finanziamenti pubblici, ragionamento da cui si desume a contrario che ingenti contributi resi dalle amministrazioni consiglierebbero l’applicazione delle discipline pubblicistiche. Un analogo ragionamento, basato sul fatto che la penuria dei finanziamenti pubblici esclude l’assoggettamento alla procedura ad evidenza pubblica per una fondazione, si rinviene in Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 24 novembre 2017, n. 11733.

[20] Cons. Stato, sez. III, 21 giugno 2022, n. 5089; Cass. pen., 21 giugno 2021, n. 33779.

[21] Così anche F. Manganaro, Le amministrazioni pubbliche in forma privatistica: fondazioni, associazioni e organizzazioni civiche, in Dir. amm., 2014, pag. 46 ss., spec. pagg. 66-67, in cui si legge che “quanto alla natura giuridica, la disciplina largamente derogatoria rispetto alle previsioni codicistiche fa fondatamente dubitare che sia avvenuta una vera privatizzazione, ma soprattutto che le nuove fondazioni possano essere riportate tout court sotto il modello legale codicistico”.

[22] Punto 2.1. della sentenza.

[23] Punto 3.1. della sentenza.

[24] Punti 2.1. e 2.2. della sentenza.

[25] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 24 ss.; L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, pag. 651 ss., spec. 656 ss. Più di recente, anche G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e ... di come addomesticare gli scoiattoli, in Aedon, 2018, 3, spec. 4.

[26] G. Severini, Commento all’art. 6, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, pag. 53 ss., spec. 58. Nella prospettiva sovranazionale, M. Cammelli, Per uno sguardo oltre la siepe, in Aedon, 2008, 1.

[27] L. Zanetti, Art. 112, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 435 ss., spec. 436. Anche G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3, passim, ricorda che la valorizzazione non è solo fruizione, ma è anche accrescimento del valore economico del bene.

[28] Distingue tra valorizzazione economica e valorizzazione culturale, nel senso che la prima è una derivazione della seconda, G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, cit., spec. § 5.

[29] Id., op. ult. cit., § 5.

[30] L. Casini, Valorizzazione e gestione, in AA.VV., Diritto del patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2020, pag. 195 ss., spec. 210, 213. Ancora, lo stesso A. ricorda (a pag. 231) che lo stesso giudice ordinario identifica i servizi culturali come servizio pubblico, in ragione di quanto disposto da Cass. civ. n. 24824/2015. Anche C. Barbati, La valorizzazione (art. 111), in Aedon, 2004, 1, ritiene che, sebbene dal testo promulgato dell’art. 111 del codice sia stata espunta la previsione delle prime bozze, per la quale le attività di valorizzazione del patrimonio culturale costituiscono un servizio pubblico, la medesima qualifica è nondimeno sottintesa ex art. 111, comma 3. Stando a questa norma, infatti, tali attività di valorizzazione debbono conformarsi ai principi di libertà di partecipazione, pluralità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione, ovvero quegli stessi principi caratterizzanti la disciplina dei servizi pubblici. Nella prospettiva del giuslavorista, la qualifica di servizio pubblico delle attività di valorizzazione è descritta da C. Zoli, La fruizione dei beni culturali quale servizio pubblico essenziale, in Aedon, 2015, 3. Si giunge alla stessa conclusione anche esaminando il dato normativo: l’art. 117, d.lg. n. 42/2004, identifica, infatti, i servizi di assistenza culturale ed ospitalità come “servizi per il pubblico”, in base alla rubrica della stessa norma.

[31] Sul pagamento della prestazione da parte dell’utenza quale uno dei profili caratterizzanti il servizio pubblico, per tutti, R. Villata, Pubblici servizi. Discussioni e problemi, Milano, Giuffrè, 2008.

[32] S. Cassese, Dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1996, pag. 673 ss. Per il primo inquadramento della valorizzazione (e gestione) come servizio pubblico vedasi S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2001; Id., Gestione e alienazione dei beni culturali, in Dir. amm., 2004, pag. 349 ss., pubblicato anche in AA.VV., Associazione italiana professori di diritto amministrativo, Annuario 2003, Milano, Giuffrè, 2004, pag. 137 ss.

[33] M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, in Aedon, 2018, 3.

[34] Per tutti, G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e ... di come addomesticare gli scoiattoli, cit., passim.

[35] A.O. Cozzi, La dimensione economica del patrimonio culturale. Dimensione economica e dimensione culturale europea, in Aedon, 2018, 2.

[36] Punti 4.2. e 4.3. della sentenza.

[37] Da cui per di più il Tar fa derivare la legittima scelta delle amministrazioni di non motivare in modo specifico la decisione di procedere con accordo e non rifare le gare: si v. il punto 4.4. della sentenza.

[38] Il riferimento è alle note vicende dell’art. 23-bis, d.l. n. 112/2008, che rendevano il modello in house uno strumento del tutto residuale rispetto all’esternalizzazione ed alla società mista nell’affidamento dei servizi pubblici locali. In merito, la letteratura è molto estesa: per tutti, si v. F. Merusi, Le modalità ordinarie di gestione dei servizi pubblici locali, in Nuove autonomie, 2009, pag. 571 ss.; Id., La tormentata vita della concorrenza nei servizi pubblici locali, in Munus, 2011, pag. 413 ss.; M. Dugato, I servizi pubblici locali (art. 23-bis), in Giorn. dir. amm., 2008, 12, pag. 1219 ss.; sulle vicende referendarie e costituzionali successive al 2011, Id., La legge nei rapporti economici nella giurisprudenza della Corte costituzionale: una strana e complessa teogonia, in Munus, 2013, pag. 439 ss.

[39] C. Barbati, Art. 115, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, cit., pag. 456 ss., spec. 461; in una prospettiva più generale, sulla necessità di motivare le ragioni dell’esternalizzazione di qualsiasi servizio, G. Piperata, Le esternalizzazioni nel settore pubblico, in Dir. amm., 2005, pag. 963 ss., spec. 975 ss. Per completezza, va comunque segnalato contra G. Leone e A.L. Tarasco, Valorizzazione del patrimonio culturale, in AA.VV., Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) G. Leone e A.L. Tarasco, Padova, Cedam, pag. 66 ss., spec. 72-73, in cui gli A. ritengono che la sussidiarietà orizzontale non sia stata tradotta all’interno del diritto dei beni culturali ed in particolare dell’art. 6, comma 3, d.lg. n. 42/2004, il quale si limita a riconoscere l’ovvietà della lecita partecipazione dei privati alla valorizzazione. Se ne avrebbe conferma dall’analisi dell’art. 115, il quale sottoporrebbe ad un preliminare test di qualità ed efficienza la scelta di far gestire gli interventi di valorizzazione direttamente dall’ente pubblico.

[40] Il libro verde evidenziava l’erroneità di una classificazione aprioristica e per materie del carattere economico (o meno) del servizio, essendo invero necessario procedere a valutazioni nel caso specifico.

[41] Sulla lettura tradizionale a livello nazionale che escludeva il carattere economico per i servizi sociali, si v. per tutte la sentenza della Corte cost. 27 luglio 2004, n 272, che trattava della questione in ordine al riparto di competenze, sancendo di fatto la potestà legislativa esclusiva dello Stato per la disciplina dei servizi pubblici locali per questioni di tutela della concorrenza e, al contempo, dichiarava la competenza legislativa regionale per i servizi sociali in quanto scevri di rilevanza economica. Per alcuni commenti alla pronuncia, G. Marchi, I servizi pubblici locali tra potestà legislativa statale e regionale, in Giorn. dir. amm., 2005, pag. 27 ss.; W. Giulietti e A. Police, Servizi pubblici, servizi sociali e mercato: un difficile equilibrio, in Serv. Pubbl. e app., 2004, pag. 831 ss.; per riflessioni più generali, pregresse alla pronuncia della Consulta, G. Franchi Scarselli, Appunti sul modello dell’istituzione per l’esercizio dei servizi sociali, in Le Regioni, 1999, pag. 925 ss. Per una lettura sul rilievo economico dei servizi pubblici locali, e perciò contrapposti ai servizi sociali, M. Dugato, La disciplina dei servizi pubblici locali, in Giorn. dir. amm., 2004, pag. 121 ss.

[42] Corte giust., 21 marzo 2019, C-465/17; Corte giust., 28 gennaio 2016, C-50/14; Corte giust., 11 dicembre 2014, C-113/13; Corte giust., 29 novembre 2007, C-119/06. Con riferimento agli atti della Commissione sulla transizione dei servizi sociali da attività prive di interesse economico ad attività economicamente rilevanti, si veda la Comunicazione sui servizi di interesse generale nell’UE del 26 aprile 2006, COM(2006)177. In dottrina, sull’evoluzione in senso concorrenziale dei servizi sociali, cfr. A. Albanese, I servizi sociali nel codice del Terzo settore e nel codice dei contratti pubblici, in Munus, 2019, pag. 139 ss.; A. Moliterni, Solidarietà e concorrenza, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, pag. 89 ss.

[43] Punti 3.1. e 3.2. della sentenza.

[44] E dunque in termini di controllo da parte del comune sugli organi decisionali della fondazione, e cioè sul consiglio di amministrazione. Controllo che, nel caso di specie, non sussisteva perché il comune nominava solo tre consiglieri su un totale di sedici.

[45] Punto 3.1. della sentenza.

[46] Per l’appunto il carattere privo di rilevanza economica dei servizi culturali.

[47] La sentenza non si esprime propriamente con questa formula, ma è tale il senso.

[48] Cfr. art. 115, comma 3, lett. a), nella sua versione originaria. Per un commento, si v. S. Foà, Art. 113-117, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2004, pag. 450 ss.

[49] Ricorda lo iato normativo C. Barbati, Art. 115, cit., pagg. 459-460.

[50] Sebbene fosse probabile che, nella versione originaria, l’art. 115 si riferisse al modello generale delle fondazioni, senza dettare specifiche previsioni con riguardo alla species delle fondazioni partecipate da enti pubblici.

[51] Così anche L. Zanetti, Art. 112, cit., pag. 444.

[52] Sembra proprio questa la lettura resa anche da C. Barbati, Art. 115, cit., pag. 462, che ricorda come i privati diversi dai conferitari del bene culturale e diversi da soggetti senza scopo di lucro non possano che ottenere l’affidamento previo esperimento di procedura ad evidenza pubblica. Negli stessi termini anche G. Sciullo, Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006?, in Aedon, 2006, 2, spec. § 2.

[53] Infatti, il punto 2.1. della sentenza, segnala che RavennAntica è composta da due soli soggetti privati, ovvero altre due fondazioni e l’arcidiocesi di Ravenna, oltre alle amministrazioni territoriali e l’Università di Bologna.

[54] Così anche G. Sciullo, Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali, cit., § 3.

[55] G. Sciullo, La gestione dei servizi culturali tra Codice Urbani e Codice dei contratti pubblici, in Aedon, 2018, 1. Cfr. anche F. Liguori, I servizi culturali come servizi pubblici, in Federalismi.it, 2018.

[56] Il riferimento è agli artt. 115, comma 2, e 112, comma 5, d.lg. n. 42/2004.

[57] È di questo avviso G. Sciullo, La gestione dei servizi culturali, cit., spec. § 6., in cui l’A. dimostra come l’art. 5, comma 6, d.lg. n. 50/2016, sia applicabile ai servizi culturali ex art. 117, d.lg. n. 42/2004.

[58] Per alcuni contributi in letteratura, tra i lavori più significativi, a V. Caputi Jambrenghi, L’organismo di diritto pubblico, in Dir. amm., 2000, pag. 13 ss.; R. Caranta, Organismo di diritto pubblico e impresa pubblica, in Giur. it., 2004, pag. 2415 ss.; R. Garofoli, Organismo di diritto pubblico: criteri di identificazione e problemi di giurisdizione, in Urb. app., 1997, pag. 960 ss.

[59] E cioè lo svolgimento di attività di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale; la personalità giuridica; il finanziamento in modo maggioritario da parte di un’amministrazione territoriale o di altro organismo di diritto pubblico, ovvero il controllo sostanziale da parte di tali soggetti.

[60] Come avviene nel caso di specie, si v. punto 2.1. della sentenza.

[61] G. Sciullo, La gestione dei servizi culturali, cit., §§ 6 e 8. Soprattutto, nel § 8., l’A. sostiene che rientri nello schema dell’accordo ex art. 5, comma 6, d.lg. n. 50/2016, e dunque della superfluità della gara, l’ipotesi in cui uno dei partners dell’accordo stesso sia un soggetto misto, quale un organismo di diritto pubblico.

[62] Punti 3.4., 3.5., 3.6. e 3.7. della sentenza.

[63] Sul partenariato pubblico-pubblico già M. Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica: dall’in house al Partenariato Pubblico-Pubblico, in Giur. it., 2013, pag. 1416 ss.

[64] Eppure, il giudice non si fa scrupolo di esaminare la figura degli Odp, che avrebbe a quel punto richiesto qualche riferimento più specifico al codice dei contratti pubblici.

[65] Seppur con riferimento alle fondazioni bancarie, una simile conclusione è avvalorata anche dalla delibera ANAC del 20 ottobre 2021, n. 3796, in cui viene riconosciuta la natura privatistica delle fondazioni bancarie in mancanza di un’influenza pubblica dominante, intesa in termini finanziari. Di contraltare, ne deriva che il controllo economico è l’elemento che giustifica la natura pubblicistica di altro tipo di fondazioni, come ad esempio quelle partecipate da pubbliche amministrazioni.

 

 

 



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