I musei: organizzazione e gestione
La gestione di musei e parchi archeologici e il coinvolgimento dei privati nel settore culturale: l'Italia nel confronto con la Francia, la Germania e la Spagna
di Donato Messineo e Roberta Occhilupo [*]
Sommario: 1. Introduzione. - 2. L'intervento dello Stato e il coinvolgimento dei privati nel settore culturale: cenni di teoria economica e confronto tra i principali modelli di riferimento. - 2.1. La Francia. - 2.2. La Germania. - 2.3. La Spagna. - 3. L'Italia. - 3.1. La distribuzione delle funzioni amministrative. - 3.2. Le modalità di coinvolgimento dei privati nella gestione: la "gestione indiretta": a) nel Codice dei beni culturali; b) nel Codice dei contratti pubblici; c) nel Testo unico degli enti locali: i "servizi culturali". - 3.3. I servizi di assistenza culturale e di ospitalità. - 3.4. Le fondazioni. - 3.5. L'intervento dei privati nel finanziamento del settore culturale: cenni in materia di sponsorizzazione di beni culturali. - 4. Conclusioni: le contrastanti tendenze di politica del diritto e gli ostacoli all'intervento dei privati.
The Management of Museums and Archeological Sites and the Role of the Private Sector in Cultural Heritage: Italy in Comparison with France, Germany and Spain
In spite of the richness of the Country's
cultural heritage, in Italy the number of visitors to museums and archeological
sites and the profits derived from the "additional services" (e.g.
bookshops, bars, restaurants) are relatively low. Donations and sponsorships
from the Private sector are also limited in comparison with other European
countries. After analyzing the economic rationale for Public intervention in
the cultural heritage, the paper describes the Italian regulation on the
involvement of the Private sector (firms and not-for-profit entities) in the
management and funding of the cultural sites and identifies some critical
aspects that emerge from comparative analyses with France, Germany and Spain.
It is thereby argued that the involvement of Private Sector in Italy is limited
by: i) the absence of a clear identification of the applicable rules,
due to the unsatisfactory quality of the relevant legislation; ii) the
exclusion on grounds of legislative decree n. 42/2004 of firms from taking part
to the design and development of plans and programs concerning the use of
public cultural heritage; iii) some inefficiencies in the governance of
cultural foundations.
Keywords: Cultural Heritage; Valorization of Cultural Heritage;
Museums; Management; Sponsorship.
Il patrimonio culturale rappresenta un asset produttivo strategico per l'Italia, primo paese al mondo per numero di siti iscritti nel Patrimonio mondiale dell'Unesco (47 su 936) e primo tra i paesi europei per la dotazione di patrimonio in rapporto alla popolazione (7,8 siti museali, monumentali e archeologici ogni 100 mila abitanti). La sua valorizzazione potrebbe contribuire a innalzare il livello di competitività del paese: tenendo anche conto della crescita di domanda aggregata di cultura registrata negli ultimi anni (anche desumibile dall'incremento della domanda di turismo culturale) [1], l'adozione di interventi tesi ad accrescerne la fruizione pubblica non solo determinerebbe un incremento dell'occupazione, ma avrebbe anche effetti indiretti sul comparto turistico e sulla qualità del capitale umano e sociale.
Nonostante l'ampiezza dell'offerta di cultura, il confronto internazionale mostra però che il numero di visitatori è più basso rispetto a quello atteso. I siti museali, monumentali e archeologici italiani attirano ogni anno circa 100 milioni di visitatori (valore che tra i paesi europei è inferiore solo a quello della Germania); tuttavia, se rapportato all'offerta esso risulta contenuto per i siti sia di piccola sia di grande dimensione. Il numero medio di visitatori per singola struttura (poco più di 21 mila) è lievemente superiore alla media della Germania, ma pari a circa la metà di quanto si registra in Francia, nel Regno Unito e in Spagna. Sui ricavi derivanti dalla vendita dei biglietti pesa la quota relativamente elevata di ingressi a titolo gratuito, a fronte di prezzi sostanzialmente in linea con quelli europei. Anche i proventi dei servizi aggiuntivi (es. ristorazione, bar, servizi editoriali che si offrono all'interno di musei e aree archeologiche) e il contributo finanziario dei privati appaiono modesti rispetto agli altri paesi europei [2].
Sul divario in termini di afflusso medio per struttura potrebbero influire diversi ostacoli frutto delle caratteristiche gestionali dell'offerta, oltre che la dimensione più ridotta delle singole strutture.
Analogamente a quanto avviene, in generale, nel settore dei servizi pubblici (soprattutto locali), in alcuni casi un maggior coinvolgimento dei privati (sia profit sia no profit) nel settore culturale potrebbe favorire una gestione più efficiente dei musei e dei parchi archeologici, nell'ambito di un contesto in cui è difficile reperire finanziamenti pubblici. Il maggiore coinvolgimento dei privati nel settore culturale dovrebbe comunque avvenire in un quadro di regole che garantiscano l'accessibilità e la fruibilità pubblica nel rispetto delle finalità che vi sono alla base come l'accrescimento del capitale umano e sociale e lo sviluppo del territorio [3].
Per far fronte alla riduzione di risorse pubbliche, dalla fine degli anni novanta l'Italia ha introdotto alcune forme di coinvolgimento dei privati nella gestione e nel finanziamento del settore culturale. Relativamente alla gestione, è stata, in particolare, introdotta la possibilità di affidare per concessione la gestione dei c.d. servizi aggiuntivi (es. bar, ristorazione e servizi editoriali) nei musei e nei parchi archeologici e delle intere strutture; è stata anche prevista la possibilità di ricorrere a forme di partnership pubblico-private no profit per la loro gestione (principalmente, le fondazioni).
Nei fatti, il coinvolgimento dei privati appare però ancora scarso. Complessivamente, il 62 per cento dei musei è gestito da enti pubblici (in prevalenza dai comuni, cui competono 1.934 musei e istituti similari). La gestione dei musei e dei parchi archeologici statali è prevalentemente rimessa alle articolazioni centrali e periferiche del ministero per i Beni e le Attività culturali e il turismo (Mibact), le soprintendenze di settore e quelle speciali e, in alcuni casi, ai commissari straordinari.
Di seguito, si analizzano le modalità di coinvolgimento dei privati nella gestione e nel finanziamento del settore culturale italiano e si individuano i principali fattori che ne ostacolano l'ingresso, anche alla luce dell'analisi comparativa con esperienze estere particolarmente significative. Il secondo paragrafo illustra le principali motivazioni economiche sottese all'intervento dello Stato nel settore culturale e ricostruisce i tratti fondamentali della politica culturale in Francia, Germania e Spagna in relazione alle modalità di gestione e di finanziamento del settore e allo spazio di intervento riconosciuto ai privati. Il terzo illustra più in dettaglio il modello italiano, descrivendo dapprima il riparto di competenze tra Stato ed enti locali, quindi le modalità di coinvolgimento dei privati (profit e no profit) nella gestione e nel finanziamento del settore culturale. Nelle conclusioni si segnalano i fattori che ostacolano il coinvolgimento dei privati e si formulano alcune indicazioni di policy.
2. L'intervento dello Stato e il coinvolgimento dei privati nel settore culturale: cenni di teoria economica e confronto tra i principali modelli di riferimento
Nel settore culturale l'intervento pubblico è tradizionalmente dovuto al carattere di meritorietà attribuito ai beni culturali e alla presenza di esternalità positive. In relazione al primo aspetto, i beni culturali sono qualificati come beni meritori che soddisfano bisogni superiori che migliorano il livello di civiltà di un paese; in relazione al secondo, la maggiore fruizione pubblica del patrimonio culturale ha effetti (diretti e indiretti) sull'occupazione, sul comparto turistico e su quello dell'artigianato locale e determina un miglioramento del capitale umano e sociale (anche contribuendo a ridurre le disuguaglianze sociali) [4]. L'intervento pubblico è anche dovuto alla presenza di fallimenti del mercato derivanti dalla stessa natura dei beni culturali (siano essi indivisibili, collettivi o misti) [5].
L'intervento pubblico è poi dovuto alla struttura dei costi. Generalmente i costi fissi sono elevati e superano le risorse disponibili; quelli variabili costituiscono una percentuale relativamente bassa del totale [6]. Il costo marginale di un visitatore aggiuntivo di un sito culturale è pressoché nullo (almeno fino a quando essi si mantengono al di sotto di una certa soglia) e, di conseguenza, si sviluppano economie di scala. Inoltre, il capitale è immutabile nella sua composizione (le vendite sono generalmente proibite [7]) e l'investimento culturale, soprattutto quando implica un elevato grado di innovazione, comporta una forte incertezza quanto ai risultati.
L'intervento pubblico può articolarsi in una serie di soluzioni intermedie tra due opposti. Lo Stato può decidere da un lato, di intervenire direttamente nella gestione e nel finanziamento del settore escludendo del tutto i privati, dall'altro, di affidare la gestione e il finanziamento a questi ultimi, mantenendo per sé un ruolo di programmazione della politica culturale (ex ante) e controllo (ex post) sulla qualità dell'offerta culturale. Nel caso in cui lo Stato lo consenta, l'intervento dei privati può rivestire diversi ruoli. In particolare, può: i) finanziare e gestire i singoli beni culturali; ii) contribuire alla tutela del patrimonio culturale (pubblico) effettuando donazioni ("mecenatismo") e/o concludendo contratti di sponsorship. Nel secondo caso, l'azione dei privati dipende in misura rilevante dalle scelte regolamentari adottate dallo Stato da cui dipende il grado di convenienza e di rischio dell'investimento [8].
Indipendentemente dalla soluzione che adotta, lo Stato deve comunque garantire l'accessibilità e la fruibilità pubblica del servizio culturale e l'elevata qualità dell'offerta in modo da sfruttare le esternalità positive connesse al settore e innalzare la qualità del capitale umano e sociale.
I due modelli di politica culturale di riferimento, ovvero quello europeo-continentale e quello statunitense, hanno adottato soluzioni diverse. Il modello europeo-continentale si è caratterizzato per un forte intervento pubblico (soprattutto diretto) nella gestione e nel finanziamento del settore culturale. Lo Stato si è reso garante della conservazione e della fruizione del patrimonio culturale attraverso l'attribuzione della funzione di tutela e di promozione del settore alle amministrazioni pubbliche (alcune delle quali tenute a esercitare controlli di natura tecnico-scientifica) e l'erogazione di finanziamenti pubblici. Il modello statunitense si è, invece, caratterizzato per un minor intervento diretto dello Stato e per un maggiore coinvolgimento dei privati sia sul lato gestionale sia su quello finanziario: l'offerta culturale è stata prevalentemente gestita da privati che perseguono scopi filantropici e non lucrativi e la maggior parte delle risorse proveniva da elargizioni private e da relazioni con fondazioni, imprese e individui. A partire dagli anni ottanta, i due modelli hanno modificato in parte il loro approccio alla politica culturale a seguito, da un lato, della contrazione della spesa pubblica destinata al settore e dell'incremento dei costi di gestione (dovuto anche all'apertura di nuovi musei) e, dall'altro, all'incremento della domanda di cultura dovuto all'innalzamento del livello di istruzione e all'interesse verso il settore di un pubblico più vasto e meno specializzato [9]. Peraltro, il consumatore è apparso particolarmente attento anche all'offerta di servizi come l'accessibilità e la comprensibilità delle opere esposte, il contributo educativo e l'intrattenimento [10].
Per sostenere i costi e intercettare la nuova domanda di cultura (e, dunque, per favorire una maggiore fruizione pubblica di musei e aree archeologiche), i paesi europei e gli Stati Uniti hanno adottato alcune strategie comuni. L'attrazione della domanda è stata prevalentemente determinata da una generale ri-definizione della missione tradizionale del museo e dal suo ripensamento come luogo di socializzazione e sede di eventi di varia natura. Non senza contrasti nei paesi europei, l'offerta museale è stata profondamente modificata al fine di renderla più accessibile e attraente al pubblico (superando così un precedente approccio di tipo più "elitario"). Le tradizionali funzioni conoscitiva ed educativa sono state affiancate a una funzione di intrattenimento e di coinvolgimento attivo del visitatore; in molti casi, la ri-definizione della missione del museo ha generato effetti indiretti e positivi anche sotto il profilo della riqualificazione urbana [11].
La nuova formulazione della missione museale è passata attraverso da un lato, l'offerta di una serie di attività connesse a quella tradizionale (la visita della collezione permanente), come i servizi di bar, ristorazione, caffetteria, i servizi editoriali, la commercializzazione di prodotti derivati, guide e audio-guide, i servizi per attrarre le famiglie (come l'intrattenimento per bambini), e dall'altro, l'allestimento di mostre temporanee.
Inoltre, la contrazione delle risorse pubbliche e la necessità di intercettare la nuova domanda di cultura ha reso necessario introdurre modalità di gestione dei musei più efficienti e di incentivare il finanziamento del settore da parte dei privati. Per intercettare un pubblico più ampio sono state anche adottate strategie di marketing e promozionali. La necessità di ridefinire le relazioni pubbliche dei musei in un senso più orientato al marketing è stata, d'altronde, oggetto di un documento pubblicato dall'International Council of Museums (Icom) dell'Unesco [12].
Un altro tratto che accomuna le misure intraprese dai paesi considerati è anche l'utilizzo di forme di gestione eterogenee caratterizzate da assetti decisionali e organizzativi flessibili in relazione alla dimensione e all'importanza del sito culturale e alle finalità che si intendevano perseguire. Si è, in particolare, registrato il maggior ricorso a forme di gestione "ibride" caratterizzate da un maggior coinvolgimento dei privati, per la maggior parte no profit. In alcuni casi si sono anche sviluppate forme di coinvolgimento attivo (nella gestione e nel finanziamento) della popolazione dei comuni che ospitano i siti culturali. Dal punto di vista regolamentare si è, dunque, registrata un'accentuata diversificazione dei modelli di gestione e finanziamento dovuta anche alla presenza di profonde differenze nella regolazione dell'assetto proprietario dei musei e delle collezioni [13].
Sotto il profilo del finanziamento, la riduzione della spesa pubblica destinata al settore culturale ha portato i paesi appartenenti al modello europeo-continentale a favorire il coinvolgimento dei privati attraverso l'introduzione di misure di sgravio fiscale e l'utilizzo di contratti di sponsorizzazione.
Nonostante si sia registrato un avvicinamento tra i due modelli, rimangono, comunque, alcune sostanziali differenze che derivano dalla presenza di assetti giuridico-istituzionali e tradizioni amministrative, storiche e culturali diverse (in termini di strumenti giuridici utilizzati e forme di coinvolgimento dei privati e modalità del controllo esercitato dallo Stato o dagli enti locali) [14]. Di seguito si analizzano i tratti essenziali dell'evoluzione delle modalità di gestione e finanziamento dei musei in Francia, Germania e Spagna, paesi più affini all'Italia [15].
2.1. La Francia
Fin dai tempi della rivoluzione, in Francia l'intervento dello Stato sulla gestione e sul finanziamento del settore culturale è stato tradizionalmente molto rilevante. Lo Stato si è fatto garante della tutela e della promozione del patrimonio culturale, intervenendo direttamente sia sul fronte della gestione sia su quello del finanziamento.
La gestione dei musei è stata affidata ad articolazioni interne all'amministrazione statale, prive di personalità giuridica e sottoposte al controllo pervasivo del Ministero della cultura. La Réunion des musées nationaux ne è stato l'organo gestore sin dal 1895.
Negli anni ottanta, a livello politico e accademico, è sorto un acceso dibattito (intensificatosi poi negli anni novanta) sulla funzione da assegnarsi ai musei e sulle modalità di gestione e finanziamento dei siti culturali più appropriate per superare la crisi che stava colpendo il settore [16]. Alle posizioni più tradizionali basate sul forte interventismo dello Stato nel settore culturale ne sono gradualmente emerse altre più inclini a mettere in discussione la tradizione interventista (accusata di generare una burocrazia più sensibile alle proprie rendite piuttosto che allo sviluppo del settore) e a individuare forme di gestione più adatte ad allargare il pubblico dei visitatori [17].
A seguito di tale dibattito, ha prevalso il superamento della concezione tradizionale della gestione pubblica accentrata della cultura e la necessità di modificare profondamente le modalità di gestione per renderle più responsabilizzate e più adatte a attrarre un maggior numero di visitatori. La Francia ha così ridotto la gestione diretta dell'amministrazione statale avviando una progressiva opera di decentramento che ha portato al trasferimento della titolarità della maggior parte dei musei alle autonomie territoriali (regioni, dipartimenti e comuni) e a un loro progressivo coinvolgimento nella definizione delle politiche culturali (culminato con la riforma costituzionale del 2003) [18]. Per consentire una più stretta cooperazione tra collettività territoriali nella gestione dei servizi culturali, nel 2002 è stata offerta loro la possibilità di costituire etablissements publics de cooperation culturelle, strumento particolarmente flessibile che favorisce una maggiore partecipazione dei soggetti coinvolti alle scelte decisionali e una velocizzazione dell'assetto decisionale.
Inoltre, già a partire dagli anni novanta, ha preso avvio un processo di progressiva autonomizzazione dei musei nazionali attraverso la loro trasformazione in établissements publics administratifs (Epa), ovvero in enti pubblici amministrativi dotati di personalità giuridica di diritto pubblico.
Il primo museo nazionale a essere trasformato in Epa è stato il Louvre (con decreto del 22 dicembre 1992), a cui è stata riconosciuta un'autonomia ancora più accentuata rispetto a quella attribuita agli altri musei successivamente trasformati in Epa (come il Musée national Eugène Delacroix, il Musée d'Orsay, il Musée Auguste Rodin, il Musée du Quai Branly, il Musée Gustave Moreau, il Musée et domaine national de Versailles, il Musée Jean-Jacques Henner, il Musée national des Arts asiatiques - Guimet, la Cité nationale de l'histoire de l'immigration) [19].
L'atto di costituzione dei musei costituiti sotto forma di Epa ne definisce la missione (di interesse generale), le modalità di prestazione di servizi aggiuntivi di carattere commerciale, la composizione degli organi interni e l'allocazione delle funzioni tra questi ultimi. Per quanto concerne, la governance, generalmente negli Epa la funzione di gestione è affidata al consiglio di amministrazione composto da esperti del settore e presieduto da un presidente. In particolare, esso stabilisce la politica scientifica e culturale dell'istituto, programma le mostre e le altre attività culturali, vota il bilancio preventivo, assume le decisioni riguardanti la politica tariffaria, fissa le condizioni generali di impiego del personale dipendente e decide sulla strategia di marketing più adatta a promuovere l'offerta culturale [20]. Il consiglio ha, inoltre, il potere di decidere l'utilizzo delle fonti di finanziamento, usufruendo (oltre che delle sovvenzioni statali) anche delle risorse derivanti dalle vendite dei biglietti, dalle attività commerciali interne e da varie forme di sponsorizzazione e mecenatismo [21]. A questo si affianca il consiglio scientifico che elabora il progetto di politica culturale e formula i progetti di acquisizione, i prestiti e i depositi che devono, poi, essere approvati dal consiglio di amministrazione. L'operato dei membri del consiglio di amministrazione è sottoposto a un procedimento di valutazione teso a verificare che i risultati assegnati siano effettivamente raggiunti.
Accanto al riconoscimento dell'autonomia si è sviluppato anche il processo di "contrattualizzazione". Nel 2003 il ministero della Cultura e della comunicazione ha concluso il primo "contratto di prestazione" (di durata pluriennale) con il Louvre, con cui sono stati definiti obiettivi, mezzi e obblighi reciproci delle due parti. Il processo di contrattualizzazione dei rapporti tra il ministero e i singoli musei ha conosciuto un'accelerazione nel 2007, con la conclusione dei contratti di prestazione con il Musée d'Orsay e il Musée et domaine national de Versailles.
La trasformazione in Epa e la contrattualizzazione dei rapporti tra musei e ministero della Cultura hanno, dunque, consentito da un lato, il riconoscimento di un'ampia autonomia gestionale e finanziaria ai musei, dall'altro, una significativa responsabilizzazione della dirigenza in relazione ai risultati raggiunti (non solo di fronte al ministero della Cultura ma anche nei confronti di tutta la collettività). Al ministero della cultura è stata gradualmente affidata la funzione di programmazione (ex ante) della politica culturale nazionale e quella di controllo (ex post) sulla qualità dell'offerta museale e sulla capacità di promozione dei siti culturali [22].
Il resto dei musei nazionali sono di stretta competenza del ministero della Cultura (in particolare della direzione dei Musei di Francia) e rivestono la qualifica di servizi a competenza nazionale. Nel 2011 le funzioni di carattere commerciale della quasi totalità dei musei statali francesi e il Grand Palais sono state affidate alla la Réunion des musées nationaux, già trasformata nel 1990 in ente pubblico economico e poi fusa con il Grand Palais allo scopo di creare un operatore culturale internazionale (sotto forma di établissement culturel public). Il nuovo ente gestisce i proventi delle attività economiche dei musei nazionali (diritti di entrata, visite guidate, servizi aggiuntivi ecc.) investendoli al fine di arricchire e conservare i beni di pertinenza dei musei da lei gestiti; organizza mostre, svolge il servizio di accoglienza e i servizi editoriali per quasi tutti i musei statali e per il Grand Palais.
La disciplina di riferimento dei musei francesi è contenuta nella legge 4 gennaio 2002, n. 5 (loi n. 2002-5 du 4 janvier 2002) (trasposta nel 2004 nel Code du patrimoine), nata per garantire un'offerta culturale di elevata qualità, favorire gli ingressi di un maggior numero di visitatori, armonizzare la disciplina dei musei (a prescindere dal soggetto proprietario) e disciplinare più chiaramente i rapporti tra Stato ed enti locali in relazione alla gestione dei musei. Anche questo intervento normativo rispecchia la ridefinizione della missione del museo, in seguito alle grandi trasformazioni sociali, come attore di sviluppo e democratizzazione culturale. In particolare, i musei francesi hanno lo scopo di conservare, restaurare e arricchire le loro collezioni, rendere queste ultime accessibili al maggior numero di persone, ideare e attuare attività di educazione e diffusione della conoscenza e della ricerca.
Il codice prevede una serie di requisiti minimi che le strutture museali devono possedere per essere riconosciute da parte dello Stato come musée de France. Tale qualifica può essere riconosciuta alle collezioni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici, ma anche a persone giuridiche di diritto privato a fini non lucrativi ed è attribuita su domanda del museo interessato a seguito di un procedimento amministrativo cui prende parte anche l'Haut conseil des musées de France, un organo con funzione consultiva istituito dalla legge 2002-5 stessa, di cui fanno parte sia membri dell'Assemblée nationale sia rappresentanti del governo, degli enti locali, oltre che esponenti della concreta realtà museale francese ed esperti in materia [23]. La legge prevede disposizioni specifiche e vincolanti relative alla qualificazione del personale, alle attività di restauro o messa in sicurezza delle collezioni, all'acquisizione di nuovi beni, al regime di inalienabilità dei beni facenti parte delle collezioni; dispone anche che sia garantito l'accesso a un numero di visitatori più ampio possibile e che un adeguato servizio di accoglienza, diffusione e mediazione culturale. Le nomine dei direttori sono effettuate previa consultazione di una commissione nazionale di valutazione formata da due rappresentanti dell'amministrazione statale e da sette esperti del settore al fine di garantire l'elevata competenza nel settore.
Sui musei di Francia lo Stato svolge una funzione di controllo scientifico e tecnico; può, in particolare, compiere ispezioni e sopralluoghi per verificare lo stato dei musei e accertare l'effettiva corrispondenza dell'attività svolta con le finalità affidate ai musei.
Per quanto concerne il lato finanziario, i musei di Francia beneficiano di risorse pubbliche. I musei le cui collezioni non appartengono allo Stato o a enti pubblici devono stipulare delle convenzioni con lo Stato al fine di precisare le modalità di svolgimento della loro attività. Tuttavia, a partire dalla legge 1 agosto 2003, n. 709 (loi n. 2003-709 du 1er août 2003), la Francia ha anche particolarmente favorito l'ingresso di capitali da parte delle imprese e dei privati introducendo agevolazioni fiscali molto vantaggiose per il "mecenatismo culturale". Ad esempio, le imprese che effettuano una donazione a favore dell'organizzazione di mostre di arte contemporanea hanno diritto a una riduzione d'imposta pari al 60 per cento dell'ammontare della donazione; quelle che effettuano una donazione per finanziare l'acquisto di un bene culturale riconosciuto "tesoro nazionale" o "opera di grande interesse patrimoniale" a vantaggio di una collezione pubblica hanno diritto a una riduzione d'imposta pari al 90 per cento dell'ammontare versato (nel limite del 50 per cento dell'imposta dovuta dalla società). Dal 2007 è stata inoltre prevista l'applicazione della riduzione d'imposta per mecenatismo alle donazioni delle imprese destinate ai lavori di restauro e di accessibilità del pubblico ai monumenti storici privati. Incentivi analoghi sono anche previste per il "mecenatismo in natura", per cui si contribuisce a realizzare un progetto o un evento attraverso la fornitura di prodotti e/o servizi. Anche i privati godono di particolari agevolazioni fiscali (la riduzione d'imposta è pari al 66 per cento delle somme versate, nel limite annuale del 20 per cento del reddito imponibile (se tale limite è superato il beneficio della riduzione può essere ripartito sui 5 anni successivi) [24].
2.2. La Germania
Anche in Germania il settore pubblico ha tradizionalmente rivestito un forte ruolo nella gestione del patrimonio culturale, svolto - a differenza della Francia - dai singoli Stati federati. La Legge fondamentale del 1949, infatti, attribuisce prevalentemente ai länder e ai comuni le competenze in materia di politica culturale (in relazione alla conservazione, alla valorizzazione e alla gestione del relativo patrimonio, che rappresentano compiti fondamentali dello Stato) e al Bund quelle in tema di politica fiscale (rilevante per il finanziamento pubblico al settore), oltre che quelle in materia di diritti d'autore, creazione e promozione di programmi culturali internazionali e sostegno al cinema [25].
La politica culturale tedesca è coerente con il modello federale. Lo Stato incoraggia la libertà di manifestazione artistica e garantisce l'auto-disciplina dei diritti delle istituzioni e delle organizzazioni culturali (c.d. Kulturstaat - Stato culturale). I länder, insieme ai comuni, finanziano la maggior parte degli enti culturali. Lo Stato assume una posizione prevalentemente neutrale nella politica culturale: non esiste una disciplina federale in materia e non vi sono requisiti di qualità (procedure di riconoscimento) validi su tutto il territorio nazionale; il ministro della Cultura (il cui dicastero è stato istituito solo nel 1998) ha poteri poco significativi in materia di programmazione del settore (esercita soprattutto un ruolo di coordinamento delle iniziative dei singoli länder) anche se decide l'ammontare di risorse pubbliche derivanti dal prelievo fiscale a favore del settore. La regolazione delle modalità di gestione e organizzazione dei musei variano, dunque, da länder a länder [26]. Il coordinamento delle iniziative in ambito culturale è affidato a una conferenza permanente dei ministri degli affari culturali dei länder.
Fino agli anni novanta, la gestione dei musei tedeschi (sia federali sia locali) era prevalentemente pubblica. I musei erano articolazioni delle amministrazioni pubbliche proprietarie. Soprattutto a seguito della crisi che ha colpito la Germania nel biennio 2002-2003 (che ha portato anche a rilevanti riduzioni di risorse pubbliche al settore culturale) la gestione pubblicistica è apparsa troppo rigida, inefficiente e poco capace di attrarre investimenti e donazioni da parte dei privati, anche a causa dell'inadeguatezza dei sistemi di contabilità accentrata. E' sorta, dunque, la necessità di individuare soluzioni organizzative innovative tese a garantire un maggior livello di autonomia gestionale e finanziaria ai musei e l'ingresso di nuove competenze manageriali, pur non pregiudicando l'intervento di sostegno e promozione al settore culturale che la Costituzione assegna allo Stato e ai länder. E' così cominciato un processo di ripensamento e trasformazione della gestione museale che ha condotto al riconoscimento di una maggiore autonomia gestionale, finanziaria e contabile ai singoli musei, alla restrizione dell'intervento diretto dell'amministrazione pubblica e a un maggior coinvolgimento di privati no profit nella gestione. I singoli länder hanno previsto un'ampia serie di formule gestionali e organizzative come le fondazioni di diritto pubblico, di diritto privato e fiduciarie e le imprese comunali (assimilabili alle aziende speciali previste nel nostro ordinamento), distinte per livelli di autonomia riconosciuta e grado di controllo pubblico esercitato. L'istituzione e il funzionamento di tali enti è previsto per legge (statale o federale a seconda dell'amministrazione proprietaria del museo). In ogni caso, il controllo esercitato dalle amministrazioni pubbliche sull'operato dei soggetti gestori è rimasto forte; in alcuni casi è garantito dalla presenza di rappresentanti politici negli organi interni di controllo (a prescindere dalla natura pubblica o privata del soggetto titolare del museo) [27].
In particolare, le fondazioni di diritto pubblico (Stiftungen des öffentlichen Rechts - dotate di personalità giuridica propria e di un patrimonio vincolato al perseguimento di uno specifico scopo previsto per legge) sono istituite per legge, statale o federale a seconda dei casi, che ne contiene l'intera disciplina. La legge istitutiva prevede, in particolare, la composizione e l'allocazione delle funzioni degli organi direttivi, il grado di autonomia dall'apparato pubblico e le modalità di finanziamento. All'amministrazione pubblica proprietaria rimane in ogni caso la funzione di vigilanza sulla conformità dell'operato della fondazione all'ordinamento. In particolare, gli organi direttivi sono generalmente costituiti da una presidenza e un consiglio; alla prima è attribuita la gestione, al secondo la funzione di controllo (ma in alcuni casi ha anche compiti gestionali); in alcuni casi vi è anche un comitato scientifico. Il grado di autonomia può variare notevolmente; tuttavia generalmente è prevista un'ampia partecipazione dell'apparato pubblico alla composizione degli organi direttivi e la nomina è affidata al ministro della Cultura. Il finanziamento dei privati è incentivato con agevolazioni fiscali e il personale è gestito in modo più flessibile rispetto a quello assunto nelle amministrazioni [28].
E', ad esempio, una fondazione di diritto pubblico lo Stiftung Historische Museen che gestisce i quattro musei storico-culturali di Amburgo (Hamburg Museum, Altonaer Museum, Helms Museum, Museum der Arbeit). La fondazione - istituita nel 2007 all'esito della fusione delle fondazioni che in precedenza gestivano singolarmente i quattro musei - è nata allo scopo di favorire una politica di raccolta ed esibizione unitaria, migliorare il reperimento delle risorse finanziarie e ridurre i costi di gestione. Alla fondazione (come peraltro già accadeva alle fondazioni da cui è sorta) è stata riconosciuta un'ampia autonomia gestionale e finanziaria e una piena responsabilità nella gestione. La gestione è affidata alla presidenza, composta da massimo di cinque membri (i quattro direttori dei singoli musei e un direttore commerciale); mentre la funzione di sorveglianza e controllo sulla presidenza è affidata al consiglio composto da rappresentanti delle autonomie territoriali: il direttore dell'ufficio per la cultura di Amburgo o un suo rappresentante e da altri due membri provenienti dallo stesso ufficio, quattro rappresentanti del personale dei musei, quattro rappresentanti dei comitati scientifici dei musei e dal landrat (una sorta di presidente di circondario) di Amburgo. Il consiglio nomina (e revoca) i direttori e ha competenze decisionali in materia di modifiche statutarie, cessione di beni appartenenti alle collezioni, approvazione del piano economico e determinazione dei prezzi di ingresso. E' poi previsto un sistema di controllo sulla gestione delle risorse finanziarie, affidato alla Corte dei conti di Amburgo; il suo operato è, poi, soggetto anche alla sorveglianza dell'ufficio per la cultura della città [29].
Al pari della Francia, la Germania facilita poi il finanziamento del settore culturale da parte dei privati, favorendo il mecenatismo (mäzenatentum), le sponsorizzazioni (sponsoring) e le donazioni (spendenwesen). Relativamente a queste ultime il sostegno finanziario a organizzazioni senza scopo di lucro che promuovono l'arte e la cultura da parte dei privati e delle imprese è qualificata come tale qualora vada a sostenere programmi di pubblica utilità e di interesse collettivo [30]. In particolare, le donazioni da parte dei privati e delle imprese godono di particolari vantaggi fiscali; sono riconosciute come spese straordinarie (sonderausgaben) e possono essere detratte nella misura massima del 20 per cento del reddito complessivo o, in alternativa e solo per le imprese private, entro il limite del 4 per mille del fatturato annuo e dei salari e stipendi [31].
2.3. La Spagna
Anche la Spagna - come la Germania e diversamente dalla Francia - vede un forte coinvolgimento delle autonomie locali nella definizione delle politiche culturale e nella gestione dei musei. La Costituzione spagnola prevede un preciso riparto di competenze tra lo Stato e le comunità autonome. L'articolo 148, 1° comma stabilisce che queste ultime potranno assumere competenze (inter alia) in materia di musei, biblioteche e conservatori di musica di loro interesse e valorizzazione della cultura. L'articolo 149 attribuisce, però, allo Stato la competenza esclusiva riguardo la "difesa del patrimonio culturale, artistico e monumentale spagnolo contro le esportazioni e le spoliazioni; musei, biblioteche e archivi di titolarità statale, senza pregiudizio della gestione da parte delle comunità autonome"; inoltre, "senza pregiudizio per le competenze delle comunità autonome, lo Stato considererà il servizio della cultura come dovere e attribuzione essenziale e faciliterà la comunicazione culturale tra le comunità autonome, d'accordo con loro". Dalle norme costituzionali scaturisce, dunque, un forte coinvolgimento dei diversi livelli di governo. L'accesso alla cultura dovrà promuoversi partendo dall'organizzazione e dal buon funzionamento dei "servizi pubblici culturali", per cui i poteri pubblici devono adottare misure positive di sviluppo, al fine di rendere accessibili a tutti i beni culturali [32].
In linea generale, la gestione dei musei spagnoli spetta alle istituzioni che ne sono titolari (per quanto riguarda i musei a titolarità pubblica, spetta dunque al ministero de Educación, Cultura y Deporte, alle comunidades autonomas, alle entitades locales) [33]. Il ministero de Cultura svolge le sue competenze in materia di gestione dei musei attraverso tre organi: a) la subdirección general de museos estatales (un'unità amministrativa, dipendente dalla Direzione Generale delle belle arti e dei beni culturali, che ha il compito di promuovere e coordinare l'intera gestione dei musei di cui lo Stato è titolare); b) la Junta superior de museos (l'organo consultivo del governo in materia di musei); c) il Sistema español de museos (composto dai musei che afferiscono al ministero della Cultura e ad altri ministeri, da quelli convenzionati con il ministero, dall'Instituto del patrimonio histórico español e dalla Subdireción general de museos estatales e atto a garantire la cooperazione e il coordinamento tra di loro) [34].
In particolare, la Subdirecion elabora il "piano strategico per la rete dei musei statali" che offre le linee guida che i musei sono tenuti a rispettare e mira a facilitare la creazione di una "rete" di poli museali. Tra le linee di azioni prioritarie contenute nel piano strategico vi sono la promozione dell'avvicinamento tra musei e società (mediante percorsi didattici e un'offerta culturale di attività culturali e di svago) che permettano di generare nuovi canali di comunicazione con il pubblico e la cooperazione con le amministrazioni variamente coinvolte nel settore museale, a livello nazionale e internazionale [35].
Dalla fine degli anni novanta, la ridefinizione della missione museale è stata principalmente perseguita con la previsione di discipline speciali per i musei nazionali di grandi dimensioni. Si è assistito, in particolare, alla trasformazione dei musei da enti pubblici a organismi, pur sempre prevalentemente pubblici, ma dotati di ampia autonomia gestionale e finanziaria.
Ad esempio, nel 1996 il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofíaè stato trasformato per legge da ente pubblico a "organismo autonomo di carattere amministrativo". Nel 2007 è stato modificato il procedimento di nomina del direttore artistico: non è più nominato direttamente dal ministro, ma scelto attraverso un procedimento pubblico cui partecipa anche l'organo collegiale del museo. Nel 2003 (con la legge 25 novembre 2003, n. 46) anche il Museo del Prado di Madrid è stato trasformato da museo statale a "organismo pubblico a carattere speciale" (a cui si applica un regime giuridico ibrido [36]) per riconoscergli un'ampia autonomia gestionale e finanziaria. Il Prado può, in particolare, svolgere attività commerciali e creare/partecipare a società o fondazioni, determinare il prezzo del biglietto (ma previa autorizzazione del ministero della Cultura), gestire autonomamente le risorse finanziarie (provenienti dallo Stato, dagli introiti dei biglietti e da patrocini e sponsorizzazioni), acquisire direttamente beni e diritti rientranti nelle sue funzioni.
La Spagna ha, poi, rafforzato i meccanismi di coordinamento tra i diversi livelli di governo, consentendone un'ampia partecipazione nella gestione dei musei anche nell'ottica di favorire lo sviluppo territoriale. Sono state anche previste forme di partecipazione della popolazione e degli stakeholders variamente coinvolti. A tal proposito, un esempio particolarmente interessante è rappresentato dal complesso archeologico di Merida (patrimonio dell'umanità del 1993). Dal 1996 la tutela e la valorizzazione del complesso archeologico è affidata al Consorcio ciudad monumental de Mérida, al cui interno è stato creato un organo (il Consejo rector) composto da rappresentanti delle amministrazioni territoriali competenti (il ministero della Cultura, il governo regionale, l'amministrazione provinciale e quella comunale). Il consorzio assume tutte le competenze di cui sono titolari le amministrazioni coinvolte e rilascia un'autorizzazione unica per consentire interventi urbanistici e archeologici, monitora l'andamento dei lavori di ristrutturazione effettuati all'interno del complesso, gestisce le risorse finanziarie destinate alla tutela e alla valorizzazione del sito e ha competenze in materia di tutela del paesaggio e interventi per sostenere e promuovere il turismo culturale [37]. Negli organi di gestione (il Consejo rector e la Comisión esecutiva) sono nominati anche rappresentanti delle associazioni di difesa del patrimonio archeologico, dei costruttori, degli architetti, del commercianti e dei lavoratori, così consentendo di massimizzare il consenso in relazione alle scelte da adottare in tema di tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico.
Sul fronte del finanziamento, nel 2002 la Spagna ha introdotto una disciplina specifica sul "mecenatismo culturale". La legge riconosce, in particolare, una serie di incentivi fiscali a chi effettua donazioni (in denaro o in beni) a favore di una pluralità di soggetti variamente coinvolti nel settore culturale (come gli enti senza fini di lucro, lo Stato, le comunità autonome, gli enti locali e i relativi organismi/enti autonomi, le università pubbliche e i relativi collegi, l'Instituto Cervantes, l'Institut Ramon Llull e altri organismi pubblici di ricerca). E', in particolare, possibile dedurre il 25 per cento dell'importo della donazione dall'imposta sul reddito delle persone fisiche e il 35 per cento dell'importo donato dall'imposta sul reddito delle società. Inoltre, la legge annuale sul bilancio può prevedere ulteriori agevolazioni per alcune attività prioritarie di mecenatismo [38].
Si fa, infine, ampio ricorso a forme di sponsorship. Ad esempio, nel complesso di Merida prima richiamato, per favorire l'attrazione di risorse finanziarie private è stato adottato il Programa Mecenasche consente a chiunque (singoli e gruppi organizzati) di devolvere contributi per l'esecuzione di un progetto volto a migliorare il complesso archeologico. I cittadini possono, in particolare, diventare membri del programma devolvendo una piccola somma di denaro e possono votare il progetto a cui devolvere il budget annuale tra tre proposte avanzate dal consorzio. I membri del programma ricevono informazioni sull'uso dei contributi.
L'esperienza italiana presenta caratteristiche assimilabili al modello europeo, per come sopra descritto. Sin dalla prima disciplina di sistemazione organica del settore culturale (le leggi Bottai nel 1939), allo Stato è stato attribuito un ruolo preminente nella conduzione della politica culturale.
A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001, allo Stato risulta espressamente attribuita potestà legislativa esclusiva (tra l'altro) in materia di "tutela... dei beni culturali", mentre le regioni ordinarie hanno potestà legislativa concorrente in materia di "valorizzazione dei beni culturali e ambientali e... promozione e... organizzazione di attività culturali" [39].
Per ricostruire le nozioni di tutela e di valorizzazione, la Corte costituzionale fa ricorso al criterio storico-normativo: al riguardo, la sentenza 26-28 marzo 2003, n. 94 ha affermato che "la distinzione fra tutela e valorizzazione dei beni culturali può essere desunta dalla legislazione vigente" [40]; dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, la sentenza 8-16 giugno 2005, n. 232 ha confermato che "ai fini del discrimine delle competenze, ma anche del loro intreccio nella disciplina dei beni culturali, elementi di valutazione si traggono dalle norme" del Codice dei beni culturali [41].
Per quanto concerne l'allocazione delle funzioni amministrative da parte del legislatore, va rilevato che, in virtù del principio di sussidiarietà (c.d. "verticale") sancito dall'art. 118 della Costituzione, le funzioni in materia di tutela sono attribuite, in via generale, dall'art. 4 del Codice, al ministero per i Beni e le Attività culturali, "al fine di garantir[n]e l'esercizio unitario". Per quanto riguarda, invece, le funzioni in materia di valorizzazione, in linea di principio queste dovrebbero essere allocate dai legislatori regionali nell'esercizio della menzionata potestà concorrente in siffatta materia, nel rispetto dei criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all'art. 118 Cost.
La competenza dei legislatori regionali (in materia di valorizzazione e nell'allocazione delle relative funzioni amministrative) incontra però due temperamenti. Per un verso, infatti, la Corte costituzionale, nella sentenza 25 settembre-1 ottobre 2003, n. 303, ha riconosciuto (in generale) che ogni qual volta la necessità di soddisfare esigenze unitarie determini l'attrazione in capo allo Stato di una funzione amministrativa, il principio di legalità comporta che allo Stato spetti anche il potere di organizzarla e regolarla con legge, se del caso in deroga ai criteri di riparto delle competenze legislative stabiliti dall'art. 117 Cost. [42]. Da ciò deriva che qualora lo Stato ritenga che talune funzioni amministrative inerenti alla valorizzazione debbano essere attratte a livello centrale per garantirne l'esercizio unitario, il loro esercizio dovrà essere disciplinato - fin nel dettaglio - dalla legge statale [43]. E' questo il caso, in particolare, dell'art. 114 del Codice dei beni culturali, secondo cui con decreto ministeriale sono fissati i "livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione", previa intesa con gli enti territoriali in sede di Conferenza unificata.
Per altro verso (con specifico riferimento alla valorizzazione dei beni culturali) il Giudice delle leggi, nella sentenza 19 dicembre 2003 - 20 gennaio 2004, n. 26, ha rilevato che - pur essendo, come detto, la valorizzazione dei beni culturali una materia di legislazione concorrente, nella quale dunque il Parlamento dovrebbe limitarsi a porre "principi fondamentali" - lo Stato è competente ad adottare anche norme "di dettaglio" al fine di disciplinare la valorizzazione dei beni culturali dei quali esso abbia la titolarità [44]. La Corte è giunta a tale conclusione sul presupposto che ciascun ente territoriale è competente "ad espletare quelle funzioni e quei compiti riguardo ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità".
Nel complesso, dunque, sebbene ai sensi dell'art. 117, comma 3 Cost. le regioni abbiano potestà legislativa concorrente quanto alla "valorizzazione dei beni culturali", tale previsione va letta in ottica sistematica. Ciò consente di affermare che - a dispetto del dato letterale - la legge statale può disciplinare nel dettaglio la materia tanto con riferimento alle pertinenti funzioni amministrative avocate in sussidiarietà per la cura di interessi insuscettibili di frazionamento territoriale, quanto relativamente ai beni culturali di proprietà dello Stato medesimo.
3.1. La distribuzione delle funzioni amministrative
Da quanto detto deriva tra l'altro che, salve le limitazioni derivanti dalla legislazione statale alla stregua dei due criteri surriferiti, spettano, in linea di principio, agli enti locali diversi dallo Stato le funzioni amministrative relative alla valorizzazione dei beni culturali di loro proprietà. La competenza a regolare l'esercizio di tali funzioni amministrative spetta, a sua volta, ai legislatori regionali. Inoltre, gli enti territoriali minori possono fissare norme regolamentari e integrative sulla gestione dei siti di interesse storico, artistico e culturale di cui sono proprietari [45] come pure sull'organizzazione dei "servizi culturali" di loro competenza (i quali rientrano nella più ampia definizione dei servizi pubblici locali) [46].
I soggetti dell'apparato istituzionale-amministrativo incaricati di tutelare e valorizzare il settore culturale sono molteplici (amministrazione centrale e rete territoriale del ministero, amministrazioni locali e amministrazioni straordinarie) e sono caratterizzati da diversi gradi di autonomia gestionale e contabile. Tra i soggetti dell'apparato istituzionale-amministrativo un ruolo importante è assegnato a organismi con competenze tecnico-scientifiche (le soprintendenze di settore e speciali), a organi consultivi e a una moltitudine di altri organismi di varia natura (enti, fondazioni, società), su cui il ministero esercita attività di controllo e vigilanza. Tra i diversi organi coinvolti si instaura una complessa rete di relazioni amministrative e finanziarie.
Per rimediare alla riduzione dei finanziamenti pubblici e per superare le inefficienze delle gestioni in economia (esercitate direttamente da articolazioni interne delle amministrazioni pubbliche proprietarie del bene), dagli anni novanta sono state introdotte alcune forme di esternalizzazione dei "servizi culturali" [47]. In particolare, come si dirà meglio oltre, il coinvolgimento dei privati è stato consentito nei c.d. servizi aggiuntivi nei musei, introdotti dall'art. 4 del decreto legge 14 novembre 1992, n. 433, convertito con modificazioni dalla legge 14 gennaio 1993, n. 4. Sono state anche introdotte varie tipologie di accordi e soluzioni organizzative in cui sono particolarmente coinvolti enti no profit (come associazioni, fondazioni e imprese sociali).
A differenza di quanto registrato in Francia, in Germania e in Spagna, non è stata riconosciuta autonomia gestionale e finanziaria ai musei. Quelli statali sono rimasti articolazioni delle direzioni regionali e sono regolati da decreti e determinazioni del ministero. Ad eccezione di quelli su cui ricade la competenza di una soprintendenza dotata di autonomia speciale o un istituto nazionale, sono privi di autonomia amministrativa, organizzativa, economica e finanziaria (sia di entrata sia di spesa). Sono sostanzialmente gestiti dalle competenti soprintendenze di settore o miste; su alcuni profili gestionali incidono le scelte adottate dalle direzioni regionali e da quelle generali. Inoltre, non hanno competenze in tema di programmazione economico-finanziaria, gestione del personale e acquisti di beni e servizi. Non possono stipulare autonomamente convenzioni con soggetti terzi (sia pubblici sia privati) e hanno difficoltà a produrre servizi per l'attrazione del pubblico.
Di recente, il decreto legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito con modificazioni in legge 7 ottobre 2013, n. 112 (recante "Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo" - c.d. decreto "valore cultura") ha previsto la riassegnazione degli introiti della vendita dei biglietti dei siti culturali al Mibact [48]; in precedenza, i proventi della vendita dei i biglietti erano invece versati nelle entrate del bilancio statale, in un fondo unico presso il ministero dell'Economia e delle Finanze; tali risorse potevano eventualmente essere destinate al museo che le aveva raccolte (non necessariamente per l'intero importo e per il perseguimento di scopi specifici) solo a seguito di una complessa procedura che ne prevedeva la gestione da parte del ministero dell'Economia e delle Finanze e la successiva ri-attribuzione al Mibact.
Dal 2004 alcuni musei statali sono stati trasformati in fondazioni pubblico-private partecipate, a seconda dei casi, da soggetti pubblici e/o privati no profit e caratterizzate da varie formule organizzative e gestionali [49]. Le fondazioni di partecipazione sono state introdotte per favorire una gestione dei musei più efficiente e per consentirne l'autofinanziamento [50].
3.2. Le modalità di coinvolgimento dei privati nella gestione: la "gestione indiretta"
Le discipline in tema di esternalizzazione della gestione dei servizi culturali sono contenute in fonti diverse, che in parte si sovrappongono. La loro analisi deve essere preceduta da un rilievo di ordine storico-normativo. Infatti, come notato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza 26/2004 [51], l'introduzione delle esternalizzazioni nel settore dei servizi culturali nell'ordinamento italiano è stata (e resta) assai controversa.
Da una parte, taluni autori (e una parte dell'opinione pubblica) avvertono che il coinvolgimento non sorvegliato dei privati potrebbe andare a detrimento degli imperativi costituzionali di tutela e di fruizione pubblica [52] del patrimonio culturale, i quali rischierebbero di diventare recessivi rispetto agli obiettivi di massimizzazione del profitto perseguiti dai soggetti imprenditoriali. Dall'altra parte, vi è chi ritiene, invece, che la gestione di beni culturali pubblici da parte di privati operanti a fini di lucro secondo logiche di efficienza aziendale oltre ad incrementarne la redditività potrebbe soddisfare in misura più elevata le stesse esigenze di tutela e fruizione collettiva, favorendo al contempo lo sviluppo del settore turistico.
A causa di questa contrapposizione irrisolta, i testi delle disposizioni di seguito esaminate riflettono compromessi politici faticosi e instabili, che hanno lasciato ampia traccia anche nei lavori preparatori del Codice dei beni culturali e dei relativi decreti correttivi. Per questo motivo, tali disposizioni hanno subito nel tempo "vari mutamenti" e risultano talvolta caratterizzate da "una certa oscurità di formulazione" [53]. La circostanza è alla base di difficoltà e incertezze interpretative [54].
a) nel Codice dei beni culturali
Per quanto concerne l'ambito applicativo del Codice, va ricordato innanzitutto che (come chiarito dal giudice costituzionale) il legislatore statale ha competenza esclusiva in relazione "ai servizi dei soli beni culturali di cui lo Stato ha la titolarità e la gestione" [55]: pertanto, con riferimento alla gestione dei beni culturali appartenenti ad altri enti territoriali, dalla normativa appresso descritta si desumono principi fondamentali [56] suscettibili di essere sviluppati da previsioni di dettaglio ad opera dalle fonti regionali e degli enti territoriali minori [57].
Gli artt. 115 e 117 del d.lg. 42/2004 (i quali, a loro volta, contengono rinvii ad altre disposizioni del Codice) regolano la partecipazione dei privati alle attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica che hanno luogo su iniziativa delle amministrazioni che hanno la disponibilità dei beni (si tratta delle cc.dd. "valorizzazioni ad iniziativa pubblica").
Al riguardo, l'art. 115, comma 3, quale risulta a seguito dei decreti legislativi correttivi 24 marzo 2006, n. 156 e 26 marzo 2008, n. 62 stabilisce che "le attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica" possono essere gestite in forma indiretta "tramite concessione a terzi delle attività di valorizzazione, anche in forma congiunta e integrata, da parte delle amministrazioni cui i beni pertengono [58]... mediante procedure di evidenza pubblica, sulla base della valutazione comparativa di specifici progetti" [59]. La concessione a terzi delle attività di valorizzazione rappresenta per le amministrazioni l'alternativa alla gestione diretta attraverso proprie strutture interne [60]: il ricorso alla gestione indiretta da parte dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali si giustifica, ai sensi dell'art. 115, comma 4, "al fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali". In ogni caso, secondo tale disposizione, "la scelta tra le due forme di gestione... è attuata mediante valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia, sulla base di obbiettivi previamente definiti".
La formula legislativa non esprime una preferenza a favore dell'una o dell'altra modalità di gestione; tuttavia, va segnalato che la Nota illustrativa dello schema di decreto correttivo a suo tempo sottoposto alla Commissione cultura della Camera dei Deputati [61] chiariva che - nelle intenzioni del Governo - il ricorso alla gestione indiretta era subordinato all'ipotesi che "il perseguimento dell'interesse pubblico alla migliore valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica non risulti praticabile o conveniente attraverso la gestione diretta, per le ragioni più varie, che possono andare dalla carenza di risorse alla opportunità di affidarsi agli strumenti ed alle logiche di tipo privatistico". L'architettura dell'art. 115 del Codice e l'esame dei lavori preparatori hanno indotto la prevalente dottrina a ritenere che la gestione diretta costituisca la regola e il coinvolgimento dei privati un'eccezione la cui scelta soggiace all'onere di un'adeguata motivazione da parte dell'amministrazione [62], sebbene tale soluzione secondo alcuni si porrebbe in tensione con il principio di sussidiarietà orizzontale [63].
In proposito, è necessario aprire una parentesi. Va ricordato, invero, che, ai sensi dell'art. 118, comma 4, Cost. "Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà". Tale disposizione ha determinato un innalzamento di piano di principi che avevano già formato oggetto di riconoscimento legislativo [64].
Al riguardo, è sorto il dubbio se il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale esiga oggi che i poteri pubblici favoriscano lo svolgimento di attività di interesse generale solo da parte di formazioni prive di scopo di lucro o se invece l'apertura all'iniziativa privata debba investire anche il mondo delle imprese.
Mentre l'esame della dottrina non offre al riguardo indicazioni decisive, nella giurisprudenza si riscontra un'evoluzione. Difatti, in un primo tempo il Consiglio di Stato (sez. atti normativi), nel parere n. 1440 del 25 agosto 2003, era giunto alla conclusione che "le imprese... nulla abbiano a che fare con il fenomeno della sussidiarietà orizzontale", sul presupposto che l'art. 118, comma 4 Cost. rifletterebbe soltanto il "fenomeno... della... cittadinanza societaria" e cioè l'esistenza "di ordinamenti di base muniti di una intrinseca capacità di gestione di interessi con rilievo sociale" [65]. Da ultimo, invece, la Corte costituzionale, nella sentenza 163 del 2012, ha ragionato in un'ottica del tutto diversa. Il giudice delle leggi, infatti, ha offerto un'interpretazione del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale sensibile alle evoluzioni del diritto dell'Unione europea, che porta a ricondurre anche le imprese tra i soggetti organizzati la cui partecipazione allo svolgimento di attività di interesse generale deve essere favorita dai pubblici poteri [66]. L'eventuale diffusione dell'esegesi proposta dal giudice delle leggi nella sentenza citata presenterebbe ricadute in tutti i settori dell'ordinamento, e così pure sull'interpretazione dell'art. 6, comma 3, del d.lg. 42/2004, secondo cui "la Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale"). La lettura affacciata dalla Corte costituzionale potrebbe, infatti, sollecitare il legislatore e le amministrazioni ad incentivare ulteriormente la partecipazione dei soggetti imprenditoriali anche alla gestione dei beni culturali.
Tanto osservato in relazione all'ambito applicativo del principio di sussidiarietà orizzontale, si può adesso tornare all'esame del dato legislativo.
E' stabilito espressamente che la gestione in forma indiretta va attuata "nel rispetto dei parametri di cui all'art. 114", e cioè dei "livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione" fissati (e periodicamente aggiornati) [67] in base a tale disposizione. Ai sensi dell'art. 115, comma 5, i rapporti tra le amministrazioni cui i beni pertengono (o i soggetti di cui all'art. 112, comma 5) e i concessionari delle attività di valorizzazione sono regolati da contratti di servizio, il cui contenuto necessario ricomprende "i contenuti del progetto di gestione delle attività di valorizzazione ed i relativi tempi di attuazione, i livelli qualitativi delle attività da assicurare e dei servizi da erogare, nonché le professionalità degli addetti". La disposizione aggiunge che "nel contratto di servizio sono indicati i servizi essenziali che devono essere comunque garantiti per la pubblica fruizione del bene".
La previsione ora richiamata prefigura la riproduzione all'interno dei contratti di servizio delle prescrizioni in tema di livelli minimi uniformi di valorizzazione fissati con provvedimento ministeriale ai sensi dell'art. 114. Tuttavia, l'enforcement dei "livelli essenziali di valorizzazione" [68] non rimane affidato esclusivamente alle dinamiche negoziali.
Al contrario, è espressamente stabilito che rimedi di natura pubblicistica (sostanzialmente riconducibili al potere di auto-tutela) si sovrappongano a quelli di diritto comune. L'art. 115, comma 6, ult. per., dispone infatti che "l'inadempimento da parte del concessionario, degli obblighi derivanti dalla concessione e dal contratto di servizio, oltre alle conseguenze convenzionalmente stabilite, determina anche, a richiesta delle amministrazioni cui i beni pertengono, la risoluzione del rapporto concessorio e la cessazione, senza indennizzo, degli effetti del conferimento in uso dei beni" [69].
Infine, ai sensi dell'art. 117, comma 4, anche "la gestione dei servizi" di "assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico" - tra i quali rientrano, per espressa previsione normativa, quelli elencati nel secondo comma della medesima disposizione [70] - "è attuata nelle forme previste dall'art. 115"; peraltro, in base all'art. 117, comma 3, tali servizi [71] "possono essere gestiti in forma integrata con i servizi di pulizia, di vigilanza e di biglietteria".
b) nel Codice dei contratti pubblici
Il Codice degli appalti contiene uno specifico Capo (artt. 197-205) dedicato ai contratti relativi ai beni culturali, nel tempo più volte modificato. La disposizione di apertura sancisce il principio di fondo circa la relazione tra la disciplina generale e quella speciale degli appalti nel campo dei beni culturali, stabilendo che le disposizioni richiamate "si applicano in quanto non derogate e ove compatibili" con la disciplina di settore [72].
Nel complesso, la disciplina recata dal Codice degli appalti si pone in continuità con quella introdotta dal d.lg. 42/2004, confermando, nel settore dei beni culturali, una serie di profili derogatori rispetto alla disciplina generale dei lavori pubblici [73].
Ai fini della presente analisi, la previsione più significativa tra quelle recate dal Codice degli appalti sembra quella di cui all'art. 197, comma 3, che ha esteso l'istituto della finanza di progetto "all'affidamento di lavori e servizi relativi ai beni culturali, nonché alle concessioni di cui agli articoli 115 e 117 del" Codice dei beni culturali.
Come notato sin dall'entrata in vigore della norma, l'introduzione del project financing nel settore dei beni culturali ha una portata potenzialmente dirompente.
Difatti, va ricordato che i citati articoli 115 e 117 del d.lg. 42/2004 prevedono la possibilità di affidare in concessione a imprese private attività finalizzate alla valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica e all'assistenza culturale e all'ospitalità per pubblico negli istituti e nei luoghi di cultura (e tra questi, particolarmente nei musei e nei parchi archeologici [74]); e che le attività di valorizzazione, ai sensi dell'art. 111 del medesimo d.lg. 42/2004 consistono "nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali", anche con il concorso o la cooperazione di soggetti privati. Orbene, per espressa previsione normativa, siffatte attività - a rigore - dovrebbero essere pur sempre "finalizzate all'esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all'articolo 6" del Codice dei beni culturali, cioè "a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso... fine di promuovere lo sviluppo della cultura".
Dal canto suo, l'istituto della finanza di progetto presuppone per definizione [75] la realizzazione di lavori pubblici con l'utilizzo di "risorse totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti" e che l'affidatario successivamente ritragga la propria remunerazione dalla gestione dell'opera che ha formato oggetto dell'intervento.
Nel complesso, sembra allora che, in caso di ricorso alla finanza di progetto con riferimento alle concessioni di cui agli artt. 115 e 177 del Codice dei beni culturali, il legislatore prefiguri la possibile erogazione delle prestazioni museali anche in forma imprenditoriale da parte di soggetti privati o almeno la possibilità di gestire a fini di lucro talune porzioni dei beni (immobili) culturali che hanno formato oggetto degli interventi di conservazione e recupero posti in essere dal promotore/aggiudicatario [76]. Correlativamente, nell'ottica del legislatore l'obiettivo della fruizione collettiva non sembra escludere sempre e comunque la possibilità che taluni privati sfruttino economicamente determinate porzioni di un bene culturale.
Al riguardo, le amministrazioni - ed eventualmente, in seconda battuta, i giudici amministrativi - risultano piuttosto chiamati ad accertare che il programmato impiego dei beni culturali sia "coerente con il valore culturale oggetto di tutela e... strumentale al pieno godimento di quest'ultimo da parte della collettività, in modo da preservare l'identità storico-artistica del bene e renderne partecipe la comunità" [77].
Tuttavia, la rilevata compatibilità della finanza di progetto con le finalità sociali immanenti al settore dei beni culturali ha faticato ad affermarsi nella giurisprudenza.
Ad esempio, nel caso della ristrutturazione dell'Ospedale Vecchio di Parma, il Tar Parma aveva reputato contraria al principio della necessaria fruizione pubblica la riqualificazione del complesso monumentale secondo un progetto - elaborato da talune imprese e fatto proprio dalla competente autorità comunale - che prevedeva la destinazione di circa il 44% della superficie complessiva ad uso privato, per l'adibizione ad attività alberghiera, ad esercizi commerciali e ad uffici. Il Tar era giunto a tale conclusione sul presupposto che trattavasi di "attività private completamente autonome e distinte, prive di un nesso di interdipendenza, o comunque di un collegamento operativo, con le funzioni espletate dal gestore pubblico nel complesso monumentale".
Il Consiglio di Stato è intervenuto due volte (nel 2008 e nel 2009) [78] per smentire tale ricostruzione. Le due sentenze del Consiglio di Stato hanno reputato "contraddittorio pensare che la legislazione in materia di beni culturali, da un lato, preveda l'istituto del project financing e, dall'altro, escluda, tuttavia, la possibilità di dare provvisoriamente in gestione al concessionario parte della struttura realizzata", in quanto "al contrario, proprio la previsione del project financing dimostra che la fruizione pubblica può essere compatibile con la gestione privata di una parte (minoritaria) del bene culturale". Su tali basi, è stata considerata legittima la surriferita realizzazione, in una parte del complesso monumentale, di strutture alberghiere e ricettive, esercizi commerciali e uffici.
Successivamente, peraltro, l'Autorità di vigilanza sui Contratti Pubblici, nella Deliberazione n. 37 del 22 aprile 2009 ha riconosciuto valenza generale al principio affermato dal Consiglio di Stato, riconoscendo che "è conforme al disposto dell'art. 197, comma 3, del d.lg. 12 aprile 2006, n. 163 la concessione a privati della gestione temporanea di beni culturali sottoposti a tutela ai sensi del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, mediante l'istituto del project financing, essendo la fruizione pubblica di tali beni compatibile con la gestione privata di una parte minoritaria degli stessi".
La soluzione interpretativa descritta appare in contrasto con la tesi che afferma l'incompatibilità ontologica tra gestione dei siti culturali e scopo di lucro [79].
Al riguardo, va rilevato in effetti che la nozione del museo quale organismo "senza scopo di lucro" era stata recepita dall'Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei - adottato con decreto ministeriale 10 maggio 2001, in attuazione dell'art. 150, comma 6, del d.lg. 112/1998 (vigente ratione temporis) [80] - sulla scia della definizione di esso fornita dal Codice etico professionale dell'Icom [81].
Tuttavia [82], tanto il criterio cronologico quanto quello gerarchico depongono, evidentemente, nel senso della prevalenza delle surriferite previsioni del Codice degli appalti [83].
Ad ogni modo, in caso di ricorso al project financing, il progetto proposto dal promotore deve tener conto della rilevanza culturale dei beni ed assicurarne - in prospettiva - la fruizione pubblica (in misura almeno prevalente rispetto a quella privata: tanto si ricava, a contrario, dal menzionato orientamento del Consiglio di Stato); il ministero mantiene i propri poteri di vigilanza sul rispetto della normativa in tema di tutela; e alle amministrazioni cui i beni pertengono spettano i consueti poteri di controllo sul rapporto concessorio (cfr. art. 115, comma 6 cit.).
Difatti, tenuto conto che ai sensi della ricordata previsione dell'art. 197 del Codice degli appalti le norme da esso richiamate "si applicano in quanto non derogate e ove compatibili" con la disciplina di settore, non appare condivisibile la tesi secondo cui "l'estensione dell'istituto della finanza di progetto ai lavori e servizi relativi ai beni culturali si prest[erebbe] a garantire molto di più di quanto non faccia lo schema dell'art. 115 la partecipazione dei soggetti privati alla gestione delle attività di valorizzazione, con la conseguenza di rendere problematica e dubbia l'applicabilità... dell'art. 115 del Codice in presenza di una disciplina (il citato art. 197, comma 3, d.lg. 163/2006) assolutamente diversa per presupposti e finalità" [84]. Questa tesi, comunque, non ha trovato seguito nella giurisprudenza.
c) nel Testo unico degli enti locali: i "servizi culturali"
L'art. 113-bis, comma 3, del Tuel menziona(va) i servizi culturali nel contesto della disciplina dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica [85], laddove disponeva che "gli enti locali possono procedere all'affidamento diretto dei servizi culturali e del tempo libero anche ad associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate".
Secondo una parte della dottrina, la sedes materiae sarebbe sintomatica dell'estraneità al sistema legislativo di una "concezione economicamente produttiva dei beni culturali" [86], nel senso che "la riserva di un apposito modello gestorio per i servizi culturali (e del tempo libero) tra quelli previsti per i servizi locali privi di rilevanza economica sottintende[rebbe] l'intenzione del legislatore di considerare le attività in questione come tipiche manifestazioni della categoria presa in considerazione dall'art. 113-bis" [87].
In senso opposto, però, appare decisivo il rilievo che - in linea generale - la rilevanza economica dei singoli servizi locali non può essere valutata "a priori come attributo riguardante la natura dell'attività, ma" rappresenta una "conseguenza del modello gestionale scelto dall'amministrazione per la loro organizzazione" [88]. Gli enti locali, nell'esercizio della propria autonomia organizzativa, sono dunque liberi di scegliere se organizzare o meno l'erogazione dei servizi culturali di propria competenza secondo un modello gestionale che implica il coinvolgimento di soggetti imprenditoriali [89]. Come ricordato, peraltro, l'attuale versione dell'art. 115, comma 4, del Codice dei beni culturali - diversamente dal passato [90] - dispone oggi che la scelta tra gestione diretta e indiretta sia effettuata dagli enti locali alla stregua del medesimo criterio stabilito per Stato e regioni (riferito sopra).
3.3. I servizi di assistenza culturale e di ospitalità
Il coinvolgimento dei privati nella gestione è stato consentito per la prima volta con la c.d. legge Ronchey (art. 4 del d.l. 433/1992, convertito con modificazioni in l. 4/1993), ma limitatamente ai "servizi aggiuntivi" da prestarsi all'interno dei musei.
La versione originaria della norma consentiva di affidare in concessione i soli servizi editoriali e quelli di caffetteria, ristorazione e guardaroba [91]. Con le successive modifiche e con la trasposizione della disposizione nell'art. 117 del Codice (che li ha denominati "servizi di assistenza culturale e di ospitalità"), si è assistito a un progressivo ampliamento del loro numero e dei luoghi in cui possono essere prestati [92].
L'art. 117 del Codice individua oggi come servizi di assistenza culturale e di ospitalità anche quelli riguardanti i beni librari e archivistici, la gestione dei punti vendita e l'utilizzazione commerciale delle riproduzione dei beni, i servizi di accoglienza (inclusi quelli di assistenza e intrattenimento per l'infanzia, di informazione, guida e assistenza didattica e i centri di incontro) e l'organizzazione di mostre, manifestazioni culturali e iniziative promozionali. Tali servizi possono essere gestiti in forma integrata con i servizi di pulizia, vigilanza e biglietteria.
Il progressivo incremento del numero dei servizi aggiuntivi in origine è stato mosso più che altro dalla necessità di garantire il loro regolare svolgimento in un contesto di progressiva riduzione del finanziamento pubblico. Ad ogni modo, l'inserimento di alcuni servizi strettamente connessi all'offerta museale tradizionale ha creato, nella pratica, numerose "tensioni" tra le amministrazioni pubbliche proprietarie del bene e i privati gestori del servizio (specie per quanto concerne i servizi di assistenza culturale e di ospitalità della organizzazione di mostre, manifestazioni culturali e iniziative promozionali) [93]. Se nella versione originaria della legge Ronchey l'intervento dei privati era concepito come completamento dell'offerta pubblica del servizio culturale, con le modifiche successive esso è stato esteso anche a servizi che afferiscono strettamente alla funzione di tutela e che esprimono scelte di politica culturale. L'assenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità assegnati all'amministrazione pubblica e ai soggetti privati ha, dunque, creato una profonda incertezza sugli obiettivi assegnati.
Peraltro, l'art. 117, del Codice rinvia alle forme di gestione previste nell'art. 115, riproponendone le numerose incertezze interpretative.
Al riguardo, occorre notare che, in forza di tale rinvio, sembra che anche in relazione ai servizi di assistenza culturale e di ospitalità il ricorso alla gestione indiretta sia subordinato alla verifica che tale soluzione sia idonea ad "assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali" coinvolti. Tuttavia, è stato osservato che l'elenco di cui all'art. 117 comprende una serie di attività molto diverse l'una dall'altra, le quali - per un verso - non sembrano tutte riconducibili alla definizione di "valorizzazione" di cui all'art. 111 del Codice, e - per altro verso - sembrano presupporre appalti di servizi, autorizzazioni all'esercizio di attività commerciali, concessioni in uso di beni demaniali, e solo talvolta vere e proprie concessioni di servizio pubblico [94]. Infine, assume particolare rilievo la controversa questione relativa alla natura esemplificativa (spesso data per scontata dalla dottrina) [95] o tassativa (per contro, talvolta affermata dalla giurisprudenza) [96] dei servizi per il pubblico elencati nel citato art. 117. Dalla soluzione di tale questione sono infatti destinati a dipendere tanto il novero delle iniziative imprenditoriali esercitabili dai concessionari quanto il rendimento degli investimenti effettuabili. Anche dalla soluzione di tale interrogativo dipende la possibilità di attirare capitali privati da utilizzare per interventi di tutela del patrimonio culturale pubblico, qualora gli enti ai quali i beni pertengono siano privi delle risorse necessarie.
3.4. Le fondazioni
Dagli inizi della decade scorsa, il legislatore italiano ha fatto un uso sempre più ricorrente del modello fondazionale per la gestione dei musei statali [97]. Risale al 2004 la trasformazione (da museo statale a fondazione) del Museo Egizio di Torino, a cui è seguita (solo per citare alcuni casi particolarmente significativi) quella della Triennale di Milano, della Biennale di Venezia e della Quadriennale di Roma. L'ultima trasformazione è stata prevista nel c.d. decreto crescita (d. l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni in l. n. 134 del 2012) con la costituzione della Fondazione La Grande Brera.
L'uso del modello fondazionale nel settore culturale è apparso particolarmente vantaggioso in quanto consente da un lato, di destinare un patrimonio per il perseguimento di uno specifico scopo di pubblica utilità (fondatori e successivi aderenti, anche se privati, non possono perseguire lo scopo lucrativo) e dall'altro, di sottoporne l'attività a un pervasivo e costante controllo pubblico (teso a garantire la sussistenza del legame tra patrimonio e scopo e a verificare il perseguimento dello scopo di pubblica utilità). La fondazione non può, quindi, in alcun caso distribuire o assegnare quote di utili o qualsiasi altra forma di utilità economica; con la concessione in uso alla fondazione di una quota del patrimonio culturale da parte dello Stato o degli enti locali si riconosce ai suoi organi la potestà decisionale in ordine alla sua gestione. Ciò consente, dunque, di riconoscere alle fondazioni quel livello di autonomia gestionale e finanziaria assente nei musei statali o locali (gestiti direttamente dalle amministrazioni pubbliche proprietarie) e di esercitare più efficacemente il controllo contabile.
Il testo normativo di riferimento per le fondazioni operanti nel settore culturale è il decreto ministeriale del 27 novembre 2001, n. 491 (d'ora in poi regolamento) che disciplina le fondazioni costituite e partecipate dal Mibact; a questo dovrà naturalmente aggiungersi la disciplina civilistica [98]. All'interno della cornice normativa così delineata le singole fondazioni possono adottare specifiche scelte organizzative e gestionali.
Le fondazioni sono caratterizzate da:
i) una governance particolarmente complessa basata su funzioni e responsabilità distribuite tra organi di indirizzo, gestione, consulenza scientifica e controllo; per via statutaria può essere prevista la presenza dell'organo assembleare [99]. In particolare, la determinazione della programmazione dell'attività e la verifica dei risultati di gestione sono attribuiti all'organo di indirizzo; l'organo di gestione (collegiale o monocratico) si atteggia come organo meramente esecutivo delle scelte adottate dall'organo di indirizzo. L'organo di controllo ha poteri incisivi (i suoi membri partecipano alle riunioni degli organi di indirizzo e gestione e in qualsiasi momento possono procedere ad atti di ispezione e controllo) ed è tenuto a informare immediatamente il ministero - ed eventualmente altri organi della fondazione - delle irregolarità di cui sia venuto a conoscenza. L'organo di consulenza scientifica fornisce un parere sui programmi posti dall'organo di indirizzo e sull'attività di promozione di attività culturali e segnala al ministero le attività difformi agli obiettivi programmati. Altrettanto complessi sono i meccanismi di nomina: i fondatori pubblici nominano i propri rappresentanti nell'organo di indirizzo che, a sua volta, nomina i componenti degli organi di gestione e di consulenza scientifica; quelli privati nominano i propri rappresentanti nell'assemblea, che a sua volta nomina i rappresentanti nell'organo di indirizzo (che, come detto sopra, a sua volta nomina i componenti dell'organo di gestione e di consulenza scientifica) [100];
ii) un ruolo predominante del Mibact, allo stesso tempo fondatore, prevalente finanziatore nella fase di costituzione del patrimonio, regolatore e autorità di vigilanza (in quanto autorità governativa preposta al controllo delle fondazioni ex art. 25 c.c.) [101]. In particolare, il ministero esercita un controllo di legittimità (che spesso rischia di appesantire la conduzione della gestione), ponendo scarsa attenzione al raggiungimento di obiettivi gestionali (quindi al controllo di gestione) [102]. Inoltre, il ministero adotta gli atti a contenuto generale che individuano le modalità di partecipazione dei privati, i requisiti soggettivi dei membri degli organi della fondazione e le relative cause di incompatibilità, le ipotesi di conflitto di interesse e la definizione della "sana e prudente gestione". Il preminente ruolo attribuito al ministero non consente di separare adeguatamente poteri e responsabilità attribuite all'organo politico e a quello fondazionale.
iii) la disparità di trattamento tra il ministero, da un lato, e gli altri fondatori pubblici e privati, dall'altro, in relazione alle entità conferibili e alla loro sorte in caso di estinzione della fondazione. In particolare, il ministero può conferire in uso solo i beni culturali che ha in consegna; gli altri fondatori pubblici e privati, oltre ai beni culturali, possono partecipare al patrimonio della fondazione attraverso il conferimento di risorse finanziarie. In caso di estinzione della fondazione, i beni conferiti dal ministero sono destinati a ritornare nella sua disponibilità; mentre quelli conferiti da altri soggetti pubblici e dai privati, in assenza di una specifica clausola statutaria, sono destinati a essere devoluti a enti che perseguono fini analoghi alla fondazione ex art. 31 c.c. Tra l'altro, in dottrina è aperto il dibattito sulla possibilità di prevedere per statuto di destinare i beni ai soggetti conferenti, posto che secondo alcuni tali clausole sarebbero incompatibili con lo scopo di pubblica utilità che caratterizza la fondazione [103].
Il modello fondazionale che potrebbe risultare più adatto a contemperare le esigenze del settore pubblico e dei privati risulta la c.d. fondazione di partecipazione, caratterizzata dal coinvolgimento di enti territoriali e privati no profit e da una struttura personalistica (analoga a quella presente nelle associazioni). La forte valenza dell'elemento personale si evince da un'articolazione organizzativa che garantisce la partecipazione dei fondatori/conferenti agli organi di indirizzo, amministrazione e controllo, dall'ampliamento delle competenze assegnate all'organo gestorio (che sta assumendo la connotazione di un organo dotato di discrezionalità operativa), dalla presenza di un organo assembleare (che dovrebbe fungere da contrappeso all'organo gestorio) e dalla tendenziale apertura a soci fondatori/sovventori [104].
3.5. L'intervento dei privati nel finanziamento del settore culturale: cenni in materia di sponsorizzazione di beni culturali
Al pari di quanto avviene soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, anche in Italia si fa ricorso allo strumento delle sponsorship per attrarre finanziamenti da privati che beneficiano di un ritorno di immagine. I contratti di sponsorizzazione rappresentano anzi una forma assai diffusa di intervento dei privati nel settore dei beni culturali e secondo taluno persino "la più utilizzata" [105].
E' pur vero che tale figura contrattuale non dà luogo a forme di gestione dei luoghi della cultura da parte di soggetti privati e pertanto - a rigore - esorbita dai confini della presente trattazione. Tuttavia, sono opportuni alcuni cenni, poiché la pertinente evoluzione legislativa è sintomatica della progressiva apertura del settore culturale all'intervento dei soggetti imprenditoriali, anche in forme nuove e atipiche.
Quanto alla causa del contratto, secondo l'ampia definizione offerta dalla sentenza della Corte di cassazione, sez. III, n. 12801 del 29 maggio 2006, "il contratto di sponsorizzazione comprende una serie di ipotesi nelle quali un soggetto detto sponsorizzato si obbliga dietro corrispettivo a consentire ad altri l'uso della propria immagine pubblica ed il proprio nome per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marcato". Con particolare riferimento alla "sponsorizzazione di beni culturali", poi, va richiamata la nozione accolta nel decreto ministeriale 19 dicembre 2012, n. 67128 [106], secondo cui la sponsorizzazione integra un "peculiare rapporto di partenariato pubblico-privato che si caratterizza per l'associazione del nome, del marchio, dell'immagine o del prodotto di un'impresa a un bene o a un'iniziativa culturale" [107].
La facoltà degli enti pubblici di ricorrere alle sponsorizzazioni, in assenza di un'apposita disciplina legislativa (intervenuta, come si dirà, solo nel 1997), è stata a lungo controversa. Il pertinente dibattito si inquadra nell'ambito dell'interrogativo, di carattere più generale, relativo ai margini di autonomia negoziale delle pubbliche amministrazioni [108]. In tale contesto, in passato si discuteva altresì della possibilità che le amministrazioni facessero ricorso a contratti atipici, quale un tempo era la sponsorizzazione, sul presupposto che l'applicabilità (anche) ai soggetti pubblici dell'art. 1322 cod. civ. in materia di autonomia contrattuale fosse dubbia [109].
Con riferimento alle sponsorizzazioni, la questione è stata comunque risolta - in via generale - dall'art. 43, legge 27 dicembre 1997, n. 449 (l. finanziaria 2008) [110], al quale fa rinvio anche l'art. 119 del Tuel [111].
Con particolare riguardo ai beni culturali, è intervenuto, poi l'art. 120 del d.lg. 42/2004, il quale definisce "sponsorizzazione di beni culturali ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l'attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l'immagine, l'attività o il prodotto dell'attività del soggetto erogante"; prescrive che "l'associazione del nome, del marchio, dell'immagine, dell'attività o del prodotto all'iniziativa oggetto del contributo" avvenga "in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l'aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilirsi con il contratto di sponsorizzazione"; attribuisce al ministero "la verifica della compatibilità di dette iniziative con le esigenze della tutela".
Il riferimento testuale alla possibile erogazione da parte dello sponsor di un contributo "anche in beni o servizi" non vale ad escludere contributi consistenti nell'esecuzione di lavori. Tale possibilità, originariamente esplicitata dall'art. 2, comma 1, decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 30, è poi confluita nella disciplina dettata dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (artt. 197 e ss.).
L'ampiezza dei possibili contribuiti apportati dello sponsor è oggi confermata dall'art. 199-bis, comma 1, del citato d.lg. 163/2006, che effettua un ampio riferimento ai "lavori, i servizi e le forniture in relazione ai quali [le amministrazioni] intendono ricercare sponsor per il finanziamento o la realizzazione degli interventi" [112].
Il Codice degli appalti reca una disciplina generale della sponsorizzazione e, a seguito del decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con modificazioni in legge 4 aprile 2012, n. 35, una speciale (della sponsorizzazione) in materia di beni pubblici, che - per espressa indicazione legislativa - si aggiunge a quella generale senza sostituirla.
La disciplina generale è contenuta nell'art. 26 del Codice, secondo cui, tra l'altro, ai contratti della specie "si applicano i principi del Trattato per la scelta dello sponsor nonché le disposizioni in materia di requisiti di qualificazione dei progettisti e degli esecutori del contratto". Il comma 2-bis della medesima disposizione stabilisce poi che "ai contratti di sponsorizzazione di lavori, servizi e forniture aventi ad oggetto beni culturali si applicano altresì le disposizioni dell'articolo 199-bis del presente codice".
La disciplina speciale è contenuta nell'art. 199-bis: la disposizione, con riguardo ai lavori, ai servizi e alle forniture aggiudicati dalle amministrazioni competenti per la realizzazione degli interventi relativi ai beni culturali, detta regole procedurali specifiche per la scelta dello sponsor [113], "al fine di assicurare il rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità". Ciò sul presupposto che, quando la sponsorizzazione non comporti alcun onere finanziario per l'amministrazione, il relativo accordo - non essendo qualificabile come contratto 'passivo' - non è in generale assoggettato alla disciplina europea e nazionale sugli appalti pubblici (ma solo alle norme in tema di contabilità di Stato dettate dal regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, per i contratti da cui derivi un'entrata per il soggetto pubblico, nonché, come detto "ai principi del Trattato").
Prima dell'introduzione dell'art. 199-bis, l'esigenza di identificare i "principi" applicabili alle sponsorizzazione nel settore dei beni culturali determinava incertezze in ordine alla ricostruzione della disciplina in concreto applicabile. Siffatte incertezze sono emerse, ad esempio, nella vicenda della sponsorizzazione dei lavori di restauro del Colosseo. Nel gennaio 2011, l'allora Commissario straordinario per la realizzazione degli interventi urgenti nelle aree archeologiche di Roma e Ostia antica - a seguito dell'esito negativo della gara originariamente indetta, nell'agosto 2010, per la ricerca di uno sponsor "tecnico" (il quale avrebbe dovuto farsi carico, oltre che di un onere di circa 25 milioni di euro, anche della realizzazione di lavori) - ha definito, a trattativa privata, un contratto di sponsorizzazione "pura", nell'ambito della quale lo sponsor si limitava a conferire un finanziamento, mentre il promotore e la soprintendenza assumevano l'impegno di realizzare i lavori di restauro contenuti nel Piano degli interventi e di dare periodiche notizie allo sponsor sullo stato di avanzamento dei lavori. In cambio del finanziamento, lo sponsor acquisiva, tra l'altro, il diritto di sfruttare in esclusiva le riproduzioni fotografiche e filmiche delle operazioni di restauro, per tutta la durata delle operazioni medesime e per i due anni successivi; nonché di associare al proprio marchio i lavori in discorso, attraverso la partecipazione ad una associazione senza fini di lucro avente il fine di promuovere e dare visibilità agli interventi effettuati sull'Anfiteatro Flavio, per un periodo di quindici anni prorogabili.
La vicenda descritta è stata sottoposta all'attenzione dei giudici amministrativi, con riferimento, tra l'altro, alla differenza tra il tipo di contratto messo a gara (sponsorizzazione tecnica) e quello successivamente stipulato a trattativa privata (sponsorizzazione pura); nonché alla durata e all'estensione - ritenute eccessive da un'associazione consumeristica (il Codacons) - dei diritti di sfruttamento esclusivo dell'immagine del monumento. Per quanto ostacoli di natura processuale [114] abbiano impedito che il Tar Lazio e il Consiglio di Stato si pronunciassero sul merito del ricorso, la difficoltà di ricostruire la normativa in concreto applicabile ha indotto taluno a notare che i "candidati sponsor privati hanno bisogno di certezze e di percorsi facili e chiari, che invoglino queste operazioni anziché scoraggiarle e renderle impervie e difficoltose già sul piano delle procedure" [115].
Le modifiche legislative del 2012, peraltro, non hanno risolto tutte le incertezze, anche perché è dubbio il loro stesso ambito applicativo. Secondo il citato d.m. 67128/2012, "l'ambito oggettivo di operatività del nuovo articolo 199-bis" riguarderebbe i "soli lavori relativi ai beni culturali e ai servizi e alle procedure strumentali" e non anche i "contratti di servizi e di forniture in sé, non strumentali alla realizzazione di lavori". Tale posizione è argomentata sulla base della circostanza che "la quasi totalità delle norme" contenute nel Capo del Codice degli appalti dedicato ai "Contratti relativi ai beni culturali" sarebbero "relative ai soli lavori sui beni culturali o, al massimo, a quelli misti, mentre il richiamo ai servizi di gestione museale è solo accennato nel riferimento contenuto al comma 3" [116] dell'art. 197; nonché della considerazione dei "contenuti propri del programma triennale dei lavori di cui all'art. 128 del Codice c.p., nel cui ambito si inquadra, sia pur con tutte le sue peculiarità, questo nuovo allegato previsto dalla norma".
L'esegesi proposta nel citato decreto ministeriale suscita però perplessità, per una serie di motivi: innanzitutto, la sedes materiae dell'art. 199-bis è il Capo del Codice degli appalti dedicato, in genere, ai "Contratti relativi ai beni culturali" (apparentemente, tutti); in secondo luogo, come notato nello stesso d.m., il detto Capo contiene anche norme dettate per appalti di servizi e/o forniture non strumentali a lavori (questo è certamente il caso dell'art. 197, comma 3, che rinvia agli artt. 115 e 117 del d.lg. 42/2004); ancora, con riferimento all'allegato previsto dall'art. 199-bis, comma 1, la legge dice semplicemente che esso "indica i lavori, i servizi e le forniture in relazione ai quali intendono ricercare sponsor per il finanziamento o la realizzazione degli interventi", senza ulteriori specificazioni; infine, la rubrica dell'art. 199-bis fa riferimento alla "disciplina delle procedure per la selezione di sponsor", anche in questo caso senza ulteriori specificazioni.
Alla luce dei dati evidenziati - e, più ancora, della ratio di tutela della concorrenza perseguita dal legislatore del 2012, che si impone con uguale cogenza a prescindere dalla natura del contributo erogato dallo sponsor - sembra allora che il concetto di "sponsor" cui ha riguardo l'art. 199-bis vada ricostruito in via sistematica, facendo riferimento, cioè, alla nozione di "sponsorizzazione di beni culturali" di cui all'art. 120, comma 1, d.lg. 42/2004.
Può chiedersi, allora, se - contrariamente a quanto indicato dal citato decreto ministeriale - la procedura introdotta dal legislatore del 2012 non debba in effetti applicarsi a tutte le ipotesi di sponsorizzazione contemplate dal Codice dei beni culturale, e dunque con riferimento ad "ogni contributo comunque erogato per la progettazione o l'attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale" - sia esso in beni, servizi o lavori.
L'applicazione dell'art. 199-bis sembra comunque subordinata alla circostanza che "i lavori, i servizi, le forniture... acquisiti o realizzati a cura e a spese dello sponsor" siano di "importi superiori a quarantamila euro", secondo quanto previsto dall'art. 26, comma 1 del Codice degli appalti: in tal senso depone la circostanza che, giusta il comma 2-bis della medesima disposizione, "ai contratti di sponsorizzazione di lavori, servizi e forniture aventi ad oggetto beni culturali... le disposizioni dell'articolo 199-bis... codice" si applicano in aggiunta alle restanti prescrizioni dell'art. 26 medesimo (lo si deduce inequivocabilmente dall'uso dell'avverbio "altresì").
4. Conclusioni: le contrastanti tendenze di politica del diritto e gli ostacoli all'intervento dei privati
Dall'analisi svolta è emerso che nei paesi europei analizzati il processo di ri-definizione dell'offerta museale è rimasto prevalentemente ancorato nelle mani del settore pubblico: lo Stato, nei paesi caratterizzati da un forte accentramento della politica culturale (la Francia); gli Stati federati o le comunità autonome, nelle esperienze federali o comunque caratterizzate dal decentramento della politica culturale (la Germania e la Spagna).
Tuttavia, la necessità di affrontare la crisi che ha colpito il settore a partire dagli anni novanta ha condotto a una profonda modifica delle modalità di intervento pubblico mantenendo la programmazione di indirizzo politico e il controllo alle amministrazioni che svolgono l'attività di indirizzo politico e decentralizzando la funzione di gestione ai singoli musei (soprattutto quelli di grande dimensione) a cui è stata riconosciuta un'ampia autonomia gestionale. Sono state introdotte forme di controllo sui risultati raggiunti sulla base di indicatori individuati dall'amministrazione pubblica titolare/proprietaria del sito per consentire una maggiore responsabilizzazione dei titolari della funzione di gestione. Le singole strutture hanno così potuto adottare delle strategie promozionali e commerciali e avviare numerose attività satellite all'offerta museale tradizionale per favorirne l'autofinanziamento.
Inoltre, è emersa una tendenza comune a prevedere una disciplina ad hoc per i musei statali di grandi dimensioni, sul presupposto che tali strutture museali offrono "l'immagine culturale" dell'intero paese. Si è, in particolare, avvertito che tali strutture debbano godere di un livello accentuato di autonomia gestionale e finanziaria e di una maggiore libertà da parte dell'apparato pubblico.
Infine, il coinvolgimento dei privati è cresciuto prevalentemente sul fronte del finanziamento per sopperire alla contrazione della spesa pubblica destinata al settore culturale. Sono state, in particolare, favorite le donazioni ("mecenatismo culturale") ed è stata facilitata la conclusione dei contratti sponsorizzazione.
A differenza di quanto è avvenuto nei paesi analizzati, il legislatore italiano: i) non ha riconosciuto una piena autonomia alla maggior parte dei musei (che continuano a essere articolazioni delle amministrazioni pubbliche); ii) ha previsto una disciplina specifica per i grandi poli museali ma meno efficace di quella prevista nelle altre esperienze straniere; iii) ha prestato uno spiccato interesse al coinvolgimento delle imprese nella gestione del settore culturale; iv) non ha favorito forme di finanziamento privato particolarmente convenienti.
Dall'analisi svolta risulta, in primo luogo, che la legislazione vigente esprime una linea di tendenza precisa nell'ambito del rapporto tra impresa e cultura. Le discipline esaminate offrono infatti una pluralità di strumenti idonei a coinvolgere (anche) soggetti privati operanti a scopo di lucro nella gestione del patrimonio culturale pubblico. Questa linea di tendenza emerge particolarmente negli istituti del project financing (su cui si tornerà subito appresso) e della sponsorizzazione.
Al riguardo, è significativo che il legislatore del 2012 [117], nell'inserire nel Codice degli appalti una disposizione appositamente dedicata alle sponsorizzazioni nel settore dei beni culturali (l'art. 199-bis), non si sia limitato a introdurre una disciplina speciale per la scelta del contraente: invero, accanto alla sponsorizzazione di puro finanziamento, il legislatore ha riconosciuto la possibilità per le amministrazioni di realizzare, con la sponsorizzazione c.d. "tecnica", una vera e propria "forma di partenariato" [118], affidando la "progettazione e... la realizzazione" di taluni interventi in tutto o in parte "a cura e a spese dello sponsor". In questo caso, il corrispettivo pagato dallo sponsor per vedere associati il proprio nome e la propria immagine al bene culturale in questione consiste nell'esecuzione di un appalto pubblico. La previsione esplicita di tale fattispecie da parte del legislatore del 2012 ha consentito di superare i dubbi circa l'ammissibilità di questa figura contrattuale, talvolta addotti in passato sul presupposto che la capacità di diritto privato delle amministrazioni non avrebbe carattere generale, ma sarebbe limitata agli strumenti negoziali positivamente indicati dalla legge. Il recente intervento legislativo è sintomatico della cennata tendenza ad ampliare progressivamente l'apertura del mondo della cultura all'apporto delle imprese.
Naturalmente, l'apertura ai privati non è mai operata in modo non sorvegliato. Nelle ipotesi di gestione indiretta dei beni culturali, il legislatore tiene fermi i poteri di vigilanza e controllo del ministero e degli enti territoriali ai quali i beni culturali pertengono così da assicurare costantemente che il coinvolgimento dei privati non pregiudichi gli imperativi di corretta conservazione (tutela) e di fruizione collettiva (prodromica allo sviluppo della cultura) riconducibili all'art. 9 Cost.
Peraltro, occorre notare che secondo una parte della letteratura non è affatto scontato che i menzionati interessi siano - sempre e comunque - in rapporto di tensione reciproca. Talune dottrine avvertono, infatti, che il coinvolgimento dei privati si giustifica proprio allo scopo di garantire agli interessi costituzionalmente rilevanti una soddisfazione più intensa: al riguardo, si è osservato che una gestione economicamente redditizia delle attività culturali genererebbe maggiori risorse anche per le amministrazioni, che potrebbero reinvestirle nelle attività di tutela del patrimonio collettivo [119].
Va notato però che la rilevata apertura alle imprese è stata in concreto prevista con una regolazione spesso poco chiara e talvolta caratterizzata da contraddizioni.
Le criticità riscontrate sono richiamate subito appresso, ma si anticipa che l'assetto delle discipline sulla partecipazione dei privati alla gestione dei luoghi della cultura presenta - nel complesso - una serie di ostacoli e disincentivi, i quali concorrono a determinare lo scarso afflusso di capitali privati al settore dei beni culturali. Un primo elemento di criticità riguarda la pluralità delle fonti che insistono sulla materia.
Almeno in parte, il dato è fisiologico ed ineliminabile, poiché rappresenta una conseguenza del pluralismo istituzionale e del riconoscimento costituzionale delle autonomie. Si è ricordato infatti che gli enti di cui si compone la Repubblica (ai sensi dell'art. 114 Cost.) sono coinvolti, a titolo diverso e in varia misura, nella gestione del patrimonio culturale.
Tuttavia, l'applicazione dei criteri di riparto delle competenze normative tra centro e periferia individuati dalla Costituzione ha dato luogo a dubbi e problemi, alcuni dei quali derivanti dalle scelte legislative. Al riguardo, si è ricordato che la Costituzione fa ricorso alle nozioni di "tutela" e di "valorizzazione" per ripartire la potestà legislativa tra Stato e regioni, e che la Corte costituzionale a più riprese ha affermato l'esigenza di ricostruire tali nozioni alla luce del dato legislativo [120]. A rigore, però, i privati sono coinvolti ai sensi del Codice nella "gestione" dei beni culturali, categoria non del tutto sovrapponibile a nessuna delle due menzionate dalla Costituzione: talune attività rientranti nella gestione presentano infatti addentellati con la tutela, in quanto strumentali alla conservazione dei beni che ne sono oggetto. Nella sistematica del testo unico degli enti locali, poi, i servizi culturali sono stati fatti rientrare tra i servizi pubblici locali: in proposito, si è visto che il dato legislativo ha fatto sorgere dubbi circa la possibile rilevanza economica di tali servizi [121]. Si è concluso comunque che la rilevanza economica dei servizi culturali non può essere esclusa una volta per tutte ed in astratto, ma dipende dalle concrete scelte operate dall'ente locale in ordine alle modalità di gestione di tali servizi.
Alla disciplina dei beni e dei servizi culturali si aggiunge poi quella adottata (in esclusiva, dal legislatore statale) a tutela della concorrenza, in attuazione delle direttive europee sui contratti pubblici. A questo riguardo, va rilevato che le critiche talvolta mosse al legislatore, accusato di imporre alle stazioni appaltanti adempimenti numerosi e laboriosi, in alcuni casi peccano per eccesso. Bisogna tenere presente, infatti, che la disciplina legislativa dell'evidenza pubblica - proprio in forza della sua ratio di tutela della concorrenza - per definizione non si concilia con forme troppo spinte di semplificazione.
Ad ogni modo, esiste una pluralità di fonti competenti a disciplinare la gestione dei beni culturali. Ciascuna di essere investe il medesimo fenomeno da punti di vista diversi e persegue rationes particolari. Tali fonti, a loro volta, contengono una fitta trama di riferimenti e rinvii reciproci. La complessità dell'assetto delle fonti rappresenta di per sé un elemento di difficoltà, perché - complicando la ricostruzione della normativa applicabile al caso concreto - mina i valori di conoscibilità e certezza del diritto.
Ma non è tutto. Un secondo fattore critico attiene alla diffusa presenza di antinomie all'interno delle discipline sopra esaminate. Tali antinomie sono dovute alla circostanza che alcuni dei segmenti normativi surriferiti sono espressione di tendenze di politica del diritto a volte inconciliabili.
Si è ricordato che da una parte taluni autori (e una parte dell'opinione pubblica) sono sensibili al timore che il coinvolgimento non sorvegliato dei privati nella gestione dei beni culturali possa andare a detrimento degli imperativi costituzionali di tutela e di fruizione pubblica di questi ultimi: tali imperativi, si dice, rischierebbero di diventare recessivi rispetto agli obiettivi di massimizzazione del profitto perseguiti dai soggetti imprenditoriali.
Dall'altra parte vi è chi ritiene, invece, che la gestione di beni culturali pubblici da parte di privati operanti a fini di lucro secondo logiche di efficienza aziendale oltre ad incrementarne la redditività potrebbe soddisfare in misura più elevata le stesse esigenze di tutela e fruizione collettiva, e potrebbe al contempo favorire lo sviluppo del settore turistico.
La contrapposizione descritta - sempre latente nei lavori preparatori e tuttora presente tra gli addetti ai lavori - ha determinato, tempo per tempo, l'introduzione di norme ispirate a logiche tra loro in conflitto: da ciò conseguono incertezze nella ricostruzione del quadro normativo, che certo non incoraggiano gli investimenti privati.
Il rapporto tra la disciplina del project financing in materia di beni culturali contenuta nel Codice degli appalti (da un lato) e il Codice dei beni culturali (dall'altra) offre l'esempio più significativo dell'evocata tensione irrisolta. Si è ricordato che l'art. 197, comma 3 del Codice degli appalti rende applicabile la disciplina del promotore e della società di progetto al settore dei beni culturali. A ragionare pianamente, parrebbe che - per sua natura - il ricorso alla finanza di progetto consenta a un soggetto promotore di proporre progetti che contemplino l'effettuazione a proprie spese di interventi di conservazione e recupero di beni culturali in cambio della possibilità di gestire a fini di lucro i luoghi della cultura che hanno formato oggetto di tali interventi, o almeno alcune porzioni di essi [122].
In concreto, però, tale soluzione (apparentemente lineare) ha faticato ad affermarsi nella giurisprudenza amministrativa; come detto, in un'occasione [123], il Consiglio di Stato è dovuto intervenire ben due volte (nel 2008 e nel 2009) [124] per smentire l'idea, sostenuta dai giudici di primo grado, secondo cui l'art. 117, d.lg. 42/2004, identificherebbe "in modo tassativo le... attività compatibili con la natura [culturale] del bene" [125].
Le due sentenze del Consiglio di Stato hanno reputato "contraddittorio pensare che la legislazione in materia di beni culturali, da un lato, preveda l'istituto del project financing e, dall'altro, escluda, tuttavia, la possibilità di dare provvisoriamente in gestione al concessionario parte della struttura realizzata", in quanto "al contrario, proprio la previsione del project financing dimostra che la fruizione pubblica può essere compatibile con la gestione privata di una parte (minoritaria) del bene culturale". Su tali basi, è stata considerata legittima la realizzazione in una parte del complesso surriferito di strutture alberghiere e ricettive, esercizi commerciali e uffici. Successivamente, peraltro, l'Autorità di vigilanza sui Contratti Pubblici [126] ha generalizzato il principio affermato dal Consiglio di Stato, riconoscendo che "è conforme al disposto dell'art. 197, comma 3, del d.lg. 163/2006, la concessione a privati della gestione temporanea di beni culturali sottoposti a tutela ai sensi del d.lg. 42/2004, mediante l'istituto del project financing, essendo la fruizione pubblica di tali beni compatibile con la gestione privata di una parte minoritaria degli stessi".
Al di là dell'esito della vicenda descritta (peraltro, giunto solo al termine di un articolato contenzioso) è chiaro comunque che la difficoltà di identificare le regole esistenti disincentiva i privati dall'investire nel settore dei beni culturali.
Da questo punto di vista, sarebbe certo auspicabile un'opera di razionalizzazione delle norme relative alla partecipazione dei privati alla gestione del patrimonio culturale, al duplice scopo di superare sovrapposizioni e antinomie e di accorpare tutte le pertinenti disposizioni all'interno di un solo testo. A livello di drafting, tale opera di razionalizzazione dovrebbe in particolare superare l'infelice scelta legislativa (di cui al cit. art. 197 cod. appalti) di scaricare sull'interprete il compito di vagliare la compatibilità di determinati strumenti negoziali o forme di partenariato pubblico privato con la disciplina di settore.
Un terzo ostacolo regolamentare all'afflusso di capitali privati deriva, poi, dall'esclusione delle persone aventi fini di lucro dalla programmazione degli interventi tesi alla valorizzazione del patrimonio culturale, e, più in generale, delle iniziative di sviluppo culturale, stabilita per tabulas dall'art. 112, comma 8 del Codice dei beni culturali. I soggetti imprenditoriali, infatti, possono intervenire solo a valle, nell'ambito degli interventi autonomamente programmati dai soggetti pubblici; essi, invece, non possono contribuire all'elaborazione e allo sviluppo dei piani strategici di sviluppo culturale [127]. Resta il fatto che la ratio della previsione è chiara: essa tende a non contaminare le scelte attuative dell'interesse pubblico allo sviluppo della cultura con la considerazione di interessi economici privati. Al riguardo, allora, vale ancora una volta il riferimento, sopra effettuato, alle due opzioni di politica del diritto che si contendono il campo in questa materia.
Inoltre, con particolare riguardo alle fondazioni pubblico-private costituite per la gestione di alcuni musei, va rilevato che esse sono caratterizzate dalla presenza di numerosi profili pubblicistici e dal riconoscimento (di fatto) di una scarsa autonomia gestionale. Il rischio di scoraggiare l'intervento dei privati sorge in quanto il controllo delle amministrazioni pubbliche variamente coinvolte rimane molto penetrante e non è adeguatamente garantita ai privati la possibilità di incidere sulla programmazione e sulla gestione (si pensi al meccanismo di nomina indiretta negli organi).
In definitiva, l'analisi svolta denota che nel complesso nella regolazione della gestione indiretta e dei servizi aggiuntivi non sono chiaramente individuati gli obiettivi e le responsabilità assegnati agli attori (pubblici e privati) coinvolti e non sono offerti adeguati incentivi all'ingresso dei privati. Inoltre, non sono previste adeguate garanzie di autonomia gestionale e finanziaria generando un elevato grado di incertezza dell'investimento.
Oltre a quanto osservato sopra sul piano della razionalizzazione delle fonti e del recepimento di alcune tendenze di origine extra-statale, deve aggiungersi che nel contesto attuale sarebbe utile:
i) riconoscere autonomia gestionale, finanziaria e contabile ai musei, prevedere dei meccanismi di selezione dei dirigenti museali che consentano di selezionare in modo trasparente coloro che hanno competenze adatte a ricoprire il ruolo e dei meccanismi di responsabilizzazione del loro operato;
ii) valorizzare l'uso del modello fondazionale, a condizione che tale modello sia modificato, nel senso di prevedere un maggiore riconoscimento dell'apporto dei privati e forme di semplificazione del controllo pubblico. Sarebbe anche opportuno semplificare e rendere più trasparenti le procedure di nomina degli organi dei relativi organi di gestione e controllo (anche al fine di garantire una maggiore accountability). D'altronde, il confronto con le esperienze straniere mostra la necessità di conferire piena autonomia gestionale e finanziaria ai musei per consentirne una piena valorizzazione al fine di attrarre nuovi visitatori e accrescere il senso di appartenenza della collettività al patrimonio culturale;
iii) intervenire sul fronte del finanziamento, proseguendo il percorso intrapreso con il c.d. decreto "valore cultura" (d.l. 91/2013) convertito con modificazioni in l. 112/2013 e il decreto legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito con modificazioni in legge 29 luglio 2014, n. 106 che hanno riconosciuto agevolazioni fiscali (sotto forma di crediti di imposta) per le erogazioni liberali effettuate nel settore cinematografico, in quello musicale e per interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici e per il sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura pubblici; il primo provvedimento ha anche previsto un procedimento semplificato per le donazioni di importo inferiore ai 10 mila euro.
Note
[*] Le opinioni espresse sono esclusivamente degli autori e non impegnano in alcun modo l'Istituzione di appartenenza. Il presente lavoro è la versione integrata e aggiornata di un contributo prodotto nell'ambito dei lavori della "Commissione per il rilancio dei Beni culturali ed il turismo e per la riforma del ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa" istituita con decreto ministeriale 9 agosto 2013. Pur essendo frutto di una riflessione comune, i paragrafi 2, 2.1, 2.2, 2.3, 2.4, 3.3 e 3.4 sono stati redatti da Roberta Occhilupo, i paragrafi 3, 3.1, 3.2 e 3.5 da Donato Messineo. L'introduzione e le conclusioni sono state formulate da entrambi.
[1] Secondo la rilevazione del 2012 fornita dall'ufficio di Statistica del Mibact su musei, monumenti e aree archeologiche statali, si registra un incremento del numero di visitatori dal 1996. I dati sono consultabili in http://www.statistica.beniculturali.it/Index.htm. Inoltre, i dati raccolti nell'indagine della Banca d'Italia sul turismo internazionale mostrano un aumento del turismo per cultura sia in termini di notti di soggiorno, sia di arrivi, sia di spesa sostenuta. I turisti stranieri diretti verso le città d'arte contribuiscono alla domanda estera complessiva di soggiorno per circa un quarto e per quasi la metà a quella relativa ai soli viaggi per vacanze. I dati sono consultabili in http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/collana-seminari-convegni/2013-0012/n.12_turismo_internazionale.pdf.
[2] Banca d'Italia, Economia delle regioni italiane, 2013. Secondo i dati forniti dal Mibact, nel 2011 l'insieme dei servizi aggiuntivi offerti nei musei statali ha fatturato meno di 45 milioni di euro, a fronte dei 20 milioni fatturati da quelli offerti (singolarmente) dal Louvre e dal British Museum. Uno studio pubblicato congiuntamente dal Centro Ask-Bocconi e Intesa San Paolo nel 2011, dal titolo La gestione del patrimonio artistico e culturale in Italia: la relazione fra tutela e valorizzazione, riconduce tale divario sia a una spesa individuale contenuta sia a un rapporto tra il numero dei clienti dei servizi aggiuntivi e i visitatori di musei (pari al 7 per cento) più basso nel confronto internazionale (pari al 16 per cento per il solo Louvre, per il 31 per cento per il British Museum e per il 33 per cento per la London National Gallery).
[3] In linea generale nel Libro verde su partenariati pubblico-privati, appalti pubblici e concessioni presentato nel 2004 dalla Commissione europea (COM(2004)327), con riferimento tanto alla "necessità di assicurare il contributo di finanziamenti privati al settore pubblico" in "presenza delle restrizioni di bilancio cui gli Stati membri devono fare fronte", quanto alla "volontà di beneficiare maggiormente del know-how e dei metodi di funzionamento del settore privato nel quadro della vita pubblica".
[4] Cfr. F. Benhamou, L'economia della cultura, Bologna, 2011, pag. 129 ss.
[5] F. van Der Ploeg, The Making of Cultural Policy. A European Perspective, Handbook of the Economics of Art and Culture, Vol. I, (a cura di) V. Ginsburgh, D. Thorsby, Amsterdam, 2006, pagg. 1183-1222.
[6] Cfr. B.S. Frey, S. Meier, The economics of museums, in V. Ginsburgh, D. Throsby (a cura di), op. cit., pag. 1024.
[7] Solo negli Stati Uniti è consentito il de-accessioning.
[8] I. Rizzo, D. Throsby, Cultural Heritage: Economic Analysis and Public Policy, in V. Ginsburgh, D. Throsby (a cura di), op. cit., pag. 1008 ss.
[9] L'importanza del grado di istruzione emerge dai risultati di uno studio condotto negli Stati Uniti nel 1997 che dimostra che il livello di educazione prevale sul reddito nella diversa frequentazione di concerti di musica classica o di spettacoli teatrali. Cfr. Report to the National Endowment for the Arts, 1998, in J. Heilbrun, C.M. Gray, The Economics of Art and Culture. An American Perspective, Cambridge, 2001; cfr. anche B. A. Seaman, Empirical studies of demand for the performing arts, in V. Ginsburgh, D. Throsby (a cura di), op. cit., pag. 416 ss.
[10] Il consumatore, preoccupato di massimizzare la propria utilità è indotto, se il suo grado di avversione al rischio è elevato, a scegliere tra i diversi spettacoli quelli più "sicuri" (nel senso di più comprensibili), la cui qualità può essere colta con una relativa certezza ex ante. Nel complesso, le analisi tendono ad avvalorare l'ipotesi di una debole risposta della domanda al prezzo e al reddito; nella determinazione della domanda un ruolo centrale è svolto dalla quantità di tempo libero a disposizione. Cfr. B.F. Frey, S. Meier, The economics of museums, cit., pag. 1021; J.W. O'Hagan, National museum: To charge or not to charge?, in Journal of Cultural Economics, 1995, pag. 19.
[11] Ciò è ad esempio accaduto per il Macba di Barcellona. Ex multis, cfr. F. Mairesse, A. Desvalles (a cura di), Vers une redéfinition du musée?, Paris, 2007; P. Marani, R. Pavoni, Musei. Trasformazione di un'istituzione dall'età moderna al contemporaneo, Padova, 2006; N. Kotler, P. Kotler, Marketing dei musei, Torino, 2004; T. Gubbels, A. van Hemel (a cura di), Art museums and the price of success, Amsterdam, 1993.
[12] Sul profilo, cfr. T. Gubbels, A. van Hemel (a cura di), op. cit.
[13] Cfr. G. Cerrina Feroni, Profili giuridici della gestione dei musei nelle esperienze del Regno Unito, Francia, e Germania e Spagna, in G. Morbidelli, G. Cerrina Feroni (a cura di), I musei. Discipline, gestioni, prospettive, Torino, 2010, pag. 82.
[14] Cfr. K. Schubert, Museo. Storia di un'idea. Dalla rivoluzione francese a oggi, Milano, 2004.
[15] Sugli Stati Uniti, si rimanda a D. Netzer, Cultural Policy: an American View, in V. Ginsburgh, D. Throsby (a cura di), op. cit., pag. 1225 ss.
[16] Cfr. sul punto E. Fatome, Les musées ed l'idée de service public, in E. Bonnefous (a cura di), Droit de musée, droit des musées, Dalloz, Paris, 1994; J. Galard (a cura di), Lavenir des musées: Actes du colloque organisé au musée du Louvre par le Service Culturel les 23, 24 et 25 mars 2000, Réunion des musées nationaux, Parigi, 2001.
[17] Cfr. M. Fumaroli, L'Etat culturel. Essai su une religion moderne, Paris, Fallois, 1991; B. S. Frey, R. Eichenberger, On the Rate of Return in the Art Market: Survey and Evaluation, in European Economic Review, 39, 1995, pag. 528-537.
[18] Le modalità di utilizzo sono contenute nella circolare congiunta del 18 aprile 2003 del ministero dell'Interno, del Ministero degli enti locali e del ministero della Cultura.
[19] Com'è noto, il Louvre è il museo più visitato al mondo, con una media di 8,7 milioni di visitatori l'anno.
[20] Il successo del Louvre, ad esempio, è anche dovuto all'adozione di una strategia promozionale "spinta" che lo ha reso anche oggetto di pesanti critiche. Nel 2009 tale strategia è culminata con la capitalizzazione del suo business e con l'avvio del progetto M21 (che sta per Museo del ventunesimo secolo) che ha concluso il processo di "brandizzazione" avviato nel 2007 con la creazione di una sua "succursale" ad Abu Dhabi (Louvre Abu Dhabi).
[21] Il museo di Versailles, ad esempio, si autofinanzia completamente.
[22] La ridefinizione della missione dell'amministrazione centrale è d'altronde coerente con la Révision générale des politiques publiques, avviata nel 2007 e tesa a ridefinire il ruolo dell'amministrazione centrale orientandola verso la programmazione strategica e il controllo. V. anche Rapport d'information par la commission des finances, de l'économie générale et du plan en conclusion des travaux de la Mission d'évaluation et de contrôle sur le musée du Louvre, depositato il 3 giugno 2009 all'Assemblea nazionale, in cui si è proposto di riconoscere un elevato livello di autonomia gestionale e di estendere la contrattualizzazione a tutti i musei nazionali. Per una ricostruzione delle riforme che hanno interessato il patrimonio museale in Francia, in rinvia ampiamente a Cour des comptes, Le musees nationaux apres une decennie de transformations (2000-2010).
[23] Le modalità di presentazione della domanda sono precisate nel decreto 25 aprile 2002, n. 628.
[24] V. Code Géneral des Impôts, art. 200, Bollettin Official du Impôts C-5-04, n. 112 del 13 luglio 2004 e Bollettin Official du Impôts 5 B-9-04, n. 66 del 9 aprile 2004.
[25] La ripartizione di competenze tra Bund e länder in materia di cultura presenta comunque alcuni elementi di complessità poiché anche se il Grundgesetz non attribuisce espressamente al Bund competenze legislative, amministrative e di finanziamento delle diverse espressioni culturali, ci sono competenze federali che si realizzano come competenze implicite derivanti da altre disposizioni costituzionali.
[26] Per un'analisi dell'ordinamento tedesco, si rinvia a G. Cerrina Feroni, op. cit., pag. 104 ss.; e A. J. Wiesand, Politiche del patrimonio e marketing museale in Germania. Prospettive dall'esperienza di Colonia, in AA.VV., Il museo relazionale. Riflessioni ed esperienze straniere, Torino, 2003, pag. 103 ss.
[27] Secondo il Tribunale costituzionale tedesco le fondazioni di diritto pubblico devono perseguire scopi di pubblica utilità e, a differenza di quanto previsto per quelle di diritto privato, devono trovarsi in stretta correlazione organizzativa con un organo pubblico.
[28] A. Denuzzo, La disciplina costituzionale dell'intervento delle fondazioni nel settore museale (e un confronto con l'esperienza tedesca), in Aedon, 2013, 3.
[29] Sulla Germania, si rinvia ampiamente a G. Cerrina Feroni, op. cit., pag. 104 ss.
[30] V. § 10b, 1° comma della legge sull'imposta sul reddito, § 9, 1° comma, n. 2 della legge relativa alle imposte sulle società e § 9, n. 5 della legge relativa all'imposta sull'industria, §§ 52, 53 e 54 del Codice delle imposte.
[31] V. § 10b Abs. 1, S. 1, EStG.
[32] Per un approfondimento sulla ripartizione delle competenze, si rinvia a G. Terragno, Inquadramenti della cultura nel diritto costituzionale spagnolo, Torino, 2014.
[33] Il sistema museale spagnolo è regolato principalmente dalla legge 25 giugno 1985, n. 16, dal Real decreto 10 gennaio 1986, n. 111 e dal Real decreto 10 aprile 1987, n. 620; all'interno di tale quadro normativo si inseriscono tutte le successive leggi e atti normativi sui musei.
[34] Cfr. G. Cerrina Feroni, op. cit., pag. 81 ss.
[35] Il piano strategico è consultabile in http://www.mecd.gob.es/cultura-mecd/areas-cultura/museos/informacion-general/lineas-de-actuacion.html.
[36] In particolare, si applica il regime pubblicistico, ma con la possibilità di utilizzare le norme privatistiche per le attività contrattuali e commerciali.
[37] Relativamente al primo aspetto, il consorzio ha adottato un piano urbanistico speciale per consentire che le nuove costruzioni siano compatibili con lo sviluppo sostenibile della città e con la preservazione del patrimonio archeologico; relativamente al secondo, il consorzio promuove una serie di iniziative (ad es., festival del teatro classico, celebrazioni annuali dei giochi romani e greci, etc.) per attrarre visitatori. Inoltre, è utilizzato un sistema unico di documentazione per facilitare la circolazione delle informazioni e realizzare una standardizzazione dei processi.
[38] I contratti di sponsorizzazione sono regolati dalla Ley General de Publicidad e il patrocinio dalla Ley de Régimen Fiscal de las Entidades sin Fines Lucrativos Mibac de los Incentivos Fiscales al Mecenazgo (legge 23 dicembre 2002, n. 49).
[39] Assumono rilievo tuttavia anche altre materie oggetto di potestà legislativa concorrente, come quella relativa al governo del territorio e al turismo. Per quanto concerne le regioni a statuto speciale, esse hanno, sulla base dei rispettivi statuti, potestà legislativa anche in materia di tutela dei beni culturali. Ai sensi dell'art. 116, comma 3, del d.lg. 42/2004, alle regioni ordinarie possono essere attribuite "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" (attraverso leggi statali "atipiche", adottate sulla base di intese con le regioni interessate) anche in materia di tutela dei beni culturali. Le regioni (tutte) conservano comunque le funzioni di tutela con riferimento ai manoscritti, autografi, carteggi, incunaboli, raccolte librarie, nonché libri, stampe e incisioni, non appartenenti allo Stato: cfr. l'art. 5, comma 2, del cit. d.lg. 42/2004. Sul profilo, G. Sciullo, La tutela dei beni librari, in Aedon, 2006, 2.
[40] "...ed in particolare dagli articoli 148, 149 e 152 del decreto legislativo 11 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) e dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352)".
[41] Le definizioni di "tutela" e di "valorizzazione" sono oggi contenute negli artt. 3, comma 1 e 6, comma 1, del Codice, secondo i quali, rispettivamente, "la tutela consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un'adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione"; mentre "la valorizzazione consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale". La circostanza che la valorizzazione comprenda anche la promozione e il sostegno degli interventi di conservazione - interventi che di per sé rientrerebbero nella nozione di tutela - manifesta l'esistenza di intersezioni tra le due nozioni. Più in generale, in ordine alle "difficoltà nel dare un contenuto preciso alla valorizzazione", a causa delle "caratteristiche stesse di questa funzione, la cui nozione è aperta, perché comprensiva di ogni possibile iniziativa diretta ad incrementare la fruizione dei beni culturali, e dinamica, in quanto espressione di un processo di trasformazione delle modalità di godimento dei valori di cui i beni stessi sono portatori", cfr. L. Casini, Pubblico e privato nella valorizzazione dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2005, 7, pag. 787.
[42] ... e sempre che l'avocazione delle funzioni sia compensata dall'introduzione di adeguati strumenti di raccordo con le autonomie, tesi a realizzare l'adozione di determinazioni consensuali. In una vasta letteratura, cfr. C. Mainardis, Chiamata in sussidiarietà e strumenti di raccordo nei rapporti Stato-Regioni, in Le Regioni, 2011, pag. 455 ss., anche per ulteriori riferimenti.
[43] E ciò, malgrado la valorizzazione dei beni sia - in teoria - una materia di potestà legislativa concorrente.
[44] Anche sotto tale profilo, dunque, si realizza una deroga all'art. 117, comma 3, Cost. secondo cui, com'è noto, nelle materie concorrenti spetta alle regioni porre le disposizioni di dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali sanciti (o desumibili) dalle leggi statali.
[45] Al riguardo cfr. la sentenza della Corte costituzionale 26/2004, ove è stato notato, a proposito dell'"art. 152 del d.lg. 112/1998", che tale norma, la quale "stabili[va], sia pure ai fini della definizione delle funzioni e dei compiti di valorizzazione dei beni culturali, che Stato, regioni ed enti locali esercitano le relative attività, 'ciascuno nel proprio ambito', presuppone[va] un criterio di ripartizione di competenze, che viene comunemente interpretato nel senso che ciascuno dei predetti enti è competente ad espletare quelle funzioni e quei compiti riguardo ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità". La Corte ha osservato appunto che "tale criterio, pur essendo inserito nel d.lg. 112/1998, anteriore alla modifica del Titolo V della Costituzione, conserva tuttora la sua efficacia interpretativa non solo perché è individuabile una linea di continuità tra la legislazione degli anni 1997-98, sul conferimento di funzioni alle autonomie locali, e la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ma soprattutto perché è riferibile a materie-attività, come, nel caso di specie, la tutela, la gestione o anche la valorizzazione di beni culturali, il cui attuale significato è sostanzialmente corrispondente con quello assunto al momento della loro originaria definizione legislativa".
[46] Si ritiene che la riconduzione dei "servizi culturali" all'interno della categoria dei servizi pubblici locali trovi fondamento nella definizione che ne aveva dato, a suo tempo, la legge 8 giugno 1990. n. 142, poi transitata nell'art. 112, 1° comma Testo unico degli enti locali, secondo cui "gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali". V. inoltre gli artt. 101, 3° comma e 111, 3° comma del Codice dei beni culturali.
[47] Le esternalizzazioni sono state previste per la prima volta nell'art. 10 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368.
[48] L'art. 3, comma 1, del citato d.l. 91/2013 stabilisce infatti che "i proventi di cui all'articolo 110 del... decreto legislativo n. 42 del 2004 sono riassegnati a decorrere dall'anno 2014, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, allo stato di previsione della spesa dell'esercizio in corso del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo". Il secondo comma della medesima disposizione ha inoltre modificato l'art. 110, comma 3 del Codice dei beni culturali, il quale prevede adesso che "i proventi derivanti dalla vendita dei biglietti d'ingresso agli istituti ed ai luoghi appartenenti o in consegna allo Stato sono destinati alla realizzazione di interventi per la sicurezza e la conservazione e al funzionamento degli istituti e dei luoghi della cultura appartenenti o in consegna allo Stato, ai sensi dell'articolo 29, nonché all'espropriazione e all'acquisto di beni culturali, anche mediante esercizio della prelazione".
[49] E' esclusa la partecipazione di soggetti privati che perseguono finalità lucrative (ad es., società).
[50] I primi esempi di fondazione di partecipazione sono La Triennale di Milano e La Biennale di Venezia.
[51] A proposito dell'abrogato articolo 10, comma 1, lett. b)-bis del d.lg. 368/1998.
[52] Quest'ultima, menzionata dall'art. 6 del Codice, è comunque un corollario dello "sviluppo della cultura" di cui all'art. 9, comma 2, Cost.
[53] Così, appunto, secondo il lessico della citata sentenza della Corte costituzionale, v. n. 3 Cons. dir.
[54] Per il rilievo che "è lo stesso legislatore a dimostrarsi incerto fra esigenze, e perciò amministrazione, della tutela e autonomia della gestione del servizio pubblico", v. già F. Merusi, La disciplina giuridica dei musei nella Costituzione tra Stato e regioni, in G. Morbidelli, G. Cerrina Feroni, op. cit.
[55] Così, Corte cost., sent. 26/2004 cit.
[56] Secondo il meccanismo descritto dall'art. 1, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131. V. poi, con riferimento agli enti minori, l'art. 4, comma 4 della stessa legge.
[57] Si ricordi che le regioni hanno potestà legislativa concorrente in materia di valorizzazione dei beni culturali (art. 117, comma 3, Cost.) e potestà regolamentare in tutte le materie non attribuite alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 6, Cost.); e che "i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite" (ibidem).
[58] O da parte dei soggetti cui sono affidati l'elaborazione e lo sviluppo dei piani strategici di sviluppo culturale ex art. 112, comma 5, del Codice, qualora i beni pubblici oggetto di valorizzazione siano stati conferiti in uso a tali soggetti dalle pertinenti amministrazioni.
[59] La disposizione esclude però la possibilità di individuare quali concessionari i privati che eventualmente partecipino ai soggetti cui sono affidati l'elaborazione e lo sviluppo dei piani strategici di sviluppo culturale, ai sensi dell'art. 112, comma 8.
[60] Ai sensi dell'art. 115, comma 2, "la gestione diretta è svolta per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico. Le amministrazioni medesime possono attuare la gestione diretta anche in forma consortile pubblica".
[61] Vedila in http://documenti.camera.it/Leg15/Dossier/Testi/CU0005.htm.
[62] Ex multis, P. Carpentieri, Art. 115, in Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, (a cura di) R. Tamiozzo, Milano 2005, pag. 514; C. Barbati, Le forme di gestione, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) c. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2011, pag. 204.
[63] Secondo A.L. Tarasco, Art. 115, in Commentario al Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, (a cura di) Id. e G. Leone, Padova, 2006, pag. 730, "sia i lavori preparatori del Codice che l'interpretazione sistematica degli artt. 115 e 117 inducono a ritenere che sia la gestione pubblica ad essere privilegiata", ma la scelta legislativa si porrebbe in tensione con il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale di cui all'art. 118, comma 4 Cost., che imporrebbe al legislatore di dare preferenza, laddove possibile, al coinvolgimento di soggetti privati, anche di natura imprenditoriale.
[64] In particolare, la legge 15 marzo 1997, n. 59, nel prevedere il conferimento delle funzioni amministrative da parte delle regioni agli enti minori, aveva indicato, tra l'altro, all'art. 4, comma 3, lett. a), la finalità "di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità". Inoltre, l'art. 3 del Tuel, dispone tuttora che "i comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali". Occorre notare che le tre formulazioni riportate (le due di fonte legislativa e quella successivamente introdotta nella Costituzione) presentano contorni via via più ampi, perché dall'originaria matrice di tipo "comunitario" si passa dapprima alla nozione di "formazione sociale" e infine alla contrapposizione tra "singoli" e "associati". Sulla sussidiarietà orizzontale nella legislazione, cfr. L. Grimaldi, Il principio di sussidiarietà orizzontale tra ordinamento comunitario e ordinamento interno, Bari, 2006, pag. 163 ss.
[65] Su tali basi, il Consiglio di Stato ha espresso parere sfavorevole circa la possibilità, prefigurata da uno schema di regolamento, di consentire la partecipazione di imprese private alla selezione per l'assegnazione delle risorse di un fondo pubblico istituito per il finanziamento di determinate misure di salvaguardia ambientale e di sviluppo.
[66] Nell'occasione, il giudice delle leggi si è pronunciato sulla legittimità del "progetto strategico" previsto dall'art. 30, comma 1, decreto legge 6 giugno 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui - appunto - "il ministero dello sviluppo economico, con il concorso delle imprese e gli enti titolari di reti e impianti di comunicazione elettronica fissa o mobile, predispone un progetto strategico nel quale, sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale e di partenariato pubblico-privato, sono individuati gli interventi finalizzati alla realizzazione dell'infrastruttura di telecomunicazione a banda larga e ultralarga, anche mediante la valorizzazione, l'ammodernamento e il coordinamento delle infrastrutture esistenti". La Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disposizione, nella parte in cui non prevede che la predisposizione del progetto strategico avvenga d'intesa con la Conferenza unificata Stato-regioni. Merita inoltre di essere sottolineato che secondo la Corte "la previsione del 'concorso delle imprese e gli enti titolari di reti e impianti di comunicazione elettronica fissa o mobile' ed il riferimento al principio di sussidiarietà orizzontale e di partenariato pubblico-privato costituiscono mera attuazione della indicazione comunitaria secondo la quale i programmi operativi degli Stati membri devono definire un 'insieme equilibrato di interventi destinati a incentivare e a completare gli interventi del settore privato' ed incoraggiare gli investimenti privati 'attraverso un appropriato coordinamento della pianificazione e delle norme in materia di condivisione delle infrastrutture fisiche e attraverso misure finanziarie mirate a ridurre i rischi e promuovere la creazione di nuove infrastrutture aperte' (Comunicazione della Commissione Ue del 2010 su 'La banda larga in Europa')".
[67] Con decreto del ministro, previa intesa in sede di Conferenza unificata.
[68] Per utilizzare la terminologia generale di cui all'art. 117, comma 2, lett. m) Cost.
[69] Malgrado il riferimento letterale alla "risoluzione" (che potrebbe evocare l'art. 1453 cod. civ.), la norma sembra tipizzare una speciale figura di revoca incidente su rapporti negoziali (secondo il modello generale dell'art. 21-quinquies, legge 7 agosto 1990, n. 241 ss. mm.), avente presupposti ed effetti peculiari. Tra i più vistosi, appaiono la possibilità di determinare la cessazione del rapporto senza necessità di verificare se "l'inadempimento" contrattuale superi in concreto la soglia di cui all'art. 1455 cod. civ.; e l'esclusione dell'indennizzo (altrimenti dovuto ex art. 21-quinquies cit., comma 1-bis) per la conseguente cessazione del conferimento in uso dei beni. Se si accoglie tale ricostruzione, il riferimento testuale alla "richiesta delle amministrazioni" sembra - più correttamente - da interpretarsi come relativo all'esercizio da parte delle amministrazioni delle pretese conseguenti alla revoca (concernenti, ad esempio, obblighi di rilascio/restituzione).
[70] Si tratta del servizio editoriale e di vendita riguardante i cataloghi e i sussidi catalografici, audiovisivi e informatici, nonché ogni altro materiale informativo, e le riproduzioni di beni culturali; dei servizi riguardanti beni librari e archivistici per la fornitura di riproduzioni e il recapito del prestito bibliotecario; della gestione di raccolte discografiche, di diapoteche e biblioteche museali; della gestione dei punti vendita e l'utilizzazione commerciale delle riproduzioni dei beni; dei servizi di accoglienza, ivi inclusi quelli di assistenza e di intrattenimento per l'infanzia, di informazione, di guida e assistenza didattica, dei centri di incontro; dei servizi di caffetteria, di ristorazione, di guardaroba; dell'organizzazione di mostre e manifestazioni culturali, nonché di iniziative promozionali.
[71] Esaminati infra, al par. 3.2.2.
[72] E' stato osservato da C. Vitale, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali nel nuovo codice degli appalti, in Aedon, 2006, 2, che "la tecnica utilizzata dal legislatore lascia in qualche modo presumere una preferenza per la specialità della disciplina dei contratti relativi a beni culturali, perché il rinvio non viene operato alla disciplina generale in quanto tale, ma alle parti (ed in alcuni casi agli articoli) di essa di cui si intende estendere l'applicazione al settore dei beni culturali".
[73] Riguardanti, in particolare, gli appalti misti, il divieto di affidamento congiunto, la qualificazione degli esecutori dei lavori, la progettazione e la direzione dei lavori, i sistemi di scelta del contraente e di affidamento dei lavori e le varianti. Cfr. le analisi di D. Vaiano, Contratti relativi ai beni culturali, in AA.VV., Codice dei contratti pubblici, Milano 2006, pag. 1716 ss.; e L. Del Prete, Contratti relativi a beni culturali, in Appalti, contratti, convenzioni, (a cura di) V. Italia, Milano 2008, pag. 687 ss.
[74] Giusta la definizione di cui all'art. 101 del d.lg. 42/2004.
[75] Cfr. l'art. 153 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.
[76] Dal punto di vista letterale, in tal senso depone inequivocabilmente il riferimento contenuto nell'art. 153, comma 13, del Codice degli appalti alla "gestione dell'opera".
[77] Così, Tar Emilia Romagna-Parma, sez. I, sentenza n. 618 del 4 dicembre 2007.
[78] Cfr. le citt. sentt. nn. 3507 del 2008 e 4639 del 2009.
[79] Sul profilo cfr. D. Vaiano, Contratti, cit., pag. 1724. A suo tempo, S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino 2001, pag. 190, aveva osservato che "l'utilizzazione di associazioni, fondazioni o cooperative con determinati vincoli statutari potrebbe costituire la ragione essenziale dello strumento concessorio, specialmente ove si ritenga che solo tali autonomie giuridiche garantiscano la necessaria sensibilità a soddisfare correttamente una particolare domanda di servizio pubblico".
[80] La disposizione stabiliva quanto segue: "con proprio decreto il ministro per i Beni Culturali e ambientali definisce i criteri tecnico-scientifici e gli standard minimi da osservare nell'esercizio delle attività trasferite, in modo da garantire un adeguato livello di fruizione collettiva dei beni, la loro sicurezza e la prevenzione dei rischi. Con apposito protocollo tra il ministro per i Beni Culturali e ambientali e l'ente locale cui è trasferita la gestione possono essere individuate ulteriori attività da trasferire".
[81] Vedine l'ultima versione in http://icom.museum/fileadmin/user_upload/pdf/Codes/italy.pdf.
[82] Anche senza considerare la dubbia portata di un atto di indirizzo adottato in una materia non rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, su cui cfr. D. Messineo, La doppia tutela dei diritti "incomprimibili", in Foro amm. TAR 2009, pag. 2481.
[83] Nel senso che l'art. 197, comma 3, "permette di superare i dubbi manifestati circa l'effettiva e concreta possibilità di utilizzare il project financing anche" alle "attività di manutenzione e restauro dei beni culturali", L. Del Prete, Contratti, cit., pag. 697.
[84] Il riferimento è ad A.L. Tarasco, La redditività del patrimonio culturale, Torino, 2006, pag. 91.
[85] L'art. 113-bis cit. è stato dichiarato illegittimo dalla sentenza della Corte costituzionale 272/2004 siccome recante una disciplina dettagliata ad auto-applicativa in un ambito non riconducibile alla competenza legislativa esclusiva spettante Stato in materia di tutela della concorrenza.
[86] "... che considera il bene culturale come una realtà non solo da conservare e trasmettere in favore delle generazioni future, ma anche come risorsa economica da sfruttare a benefizio dell'economia complessiva del Paese e dello stesso patrimonio culturale", così - ma criticamente - A.L. Tarasco, sub art. 115, in Commentario, cit., pag. 732.
[87] Così G. Piperata, I servizi culturali nel nuovo ordinamento dei servizi degli enti locali, in Aedon, 2003, 3, il quale però prende le distanze dalla tesi riportata.
[88] Ancora G. Piperata, op. ult. cit., sulle orme di S. Foà, La gestione dei beni culturali, cit., pag. 139, ove pure ulteriori riferimenti. Più nel dettaglio, è stato osservato da G. Piperata, op. ult. cit., che "la rilevanza economica del servizio pubblico locale deriverebbe dalla decisione dell'ente di procedere alla gestione dello stesso secondo modalità in astratto idonee a garantire le entrate necessarie per coprire quantomeno i costi di produzione. Viceversa, la rilevanza economica andrebbe esclusa per quei servizi per i quali l'amministrazione intende assicurare la copertura dei costi ricorrendo alla fiscalità generale ovvero applicando prezzi politici".
[89] In tal senso depone anche la definizione dell'oggetto dei servizi pubblici locali di cui all'art. 112 del Tuel, come "produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali", che riecheggia la definizione di "imprenditore" contenuta nell'art. 2082 cod. civ.
[90] Sulla soluzione normativa previgente, cfr. per tutti P. Carpentieri, sub art. 115, cit., pag. 515; e A.L. Tarasco, sub Art. 115, cit., pag. 728.
[91] La gestione era affidata in concessione dal soprintendente competente (previa autorizzazione rilasciata dal Ministero), previa licitazione privata con almeno tre offerte valide, a soggetti privati, anche costituenti società o cooperative.
[92] La modifica di maggior rilievo è stata rappresentata dall'art. 47 quater del decreto legge 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni in legge 22 marzo 1995, n. 85 con il quale sono stati aggiunti i servizi di "accoglienza, di informazione, di guida e assistenza didattica e di fornitura di sussidi catalografici, audiovisivi ed informatici, di utilizzazione commerciale delle riproduzioni, di gestione dei punti vendita, dei centri di incontro e di ristoro, delle diapoteche, delle raccolte discografiche e biblioteche museali, dei servizi di pulizia, di vigilanza, di gestione dei biglietti di ingresso, dell'organizzazione delle mostre e delle altre iniziative promozionali, utili alla migliore valorizzazione del patrimonio culturale ed alla diffusione della conoscenza dello stesso".
[93] Cfr. M. Cammelli, Pubblico e privato nei beni culturali: condizioni di partenza e punti di arrivo, in Aedon, 2007, 2.
[94] Cfr. A.L. Tarasco, sub art. 117, in Commentario, cit., pag. 742; G. Piperata, Servizi per il pubblico e sponsorizzazioni di beni culturali: gli artt. 117 e 120, in Aedon, 2008, 3; C. Barbati, Le forme di gestione, cit., pag. 218.
[95] Cfr. A.L. Tarasco, sub art. 117, in Commentario, cit., pag. 740; C. Barbati, Le forme di gestione, cit., pag. 217; Bellomia, sub art. 117, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. A. Sandulli, Milano 2012, pag. 880 ss.
[96] Cfr. la sentenza del Tar Emilia Romagna-Parma, sez. I, n. 618 del 4 dicembre 2007, confermata in appello dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4639 del 23 luglio 2009, per l'affermazione secondo cui "l'esplicita previsione dei c.d. 'servizi aggiuntivi'" da parte dell'art. 117 del Codice, "escludendo implicitamente ogni altra modalità di impiego, identifica in modo tassativo le ulteriori attività compatibili con la natura del bene".
[97] L'art. 10 del d.lg. 368/1998 (successivamente modificato dall'art. 22 della legge finanziaria per il 2002) ha riconosciuto per la prima volta al Mibac (e successivamente agli enti locali) la possibilità di costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società per la gestione del patrimonio culturale. Successivamente il Codice ha consentito allo Stato e agli altri enti pubblici territoriali di costituire soggetti giuridici (a cui possono partecipare persone giuridiche prive di scopo lucrativo) cui affidare l'elaborazione o lo sviluppo di piani strategici di sviluppo culturale e di programmi relativi ai beni culturali pubblici e privati (art. 112). L'articolo 10 ha trovato attuazione con il decreto del Mibac del 27 novembre 2001, n. 491, regolamento sulla costituzione e la partecipazione a fondazioni da parte del Mibac.
[98] Il regolamento aggiunge al modello civilistico una serie di previsioni riguardanti le competenze assegnate al Mibac. Cfr. S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni culturali a partecipazione statale, in Giorn. dir. amm., 2002, 8, pag. 832 ss. Per un'analisi approfondita dell'uso del modello fondazionale nel settore culturale, si rinvia a E. Mitzman, Le fondazioni della pubblica amministrazione nel settore della cultura: un prospettiva di diritto comparato, in Pubblico e privato oltre i confini dell'amministrazione tradizionale, (a cura di) B. Marchetti, Padova, 2012.
[99] E' prevista la presenza di cinque organi obbligatori (il Presidente e gli organi di indirizzo, gestione, controllo e consulenza scientifica) e di un organo facoltativo (l'assemblea).
[100] La composizione degli organi di indirizzo e del comitato scientifico deve assicurare l'apporto di personalità con professionalità, competenza ed esperienza nei settori in cui opera la fondazione; per l'organo di indirizzo sono anche stabilite modalità di designazione e di nomina dirette a consentire un'equilibrata rappresentanza di ciascuno dei soggetti che partecipano alla fondazione. La composizione dell'organo di controllo deve prevedere in ogni caso la partecipazione di un componente designato dal ministero dell'Economia e delle Finanze e di un altro designato dal Mibact. Cfr. S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni, cit., pag. 833 s.; critica il sistema delle "nomine a cascata", A. Canuti, Il regolamento attuativo dell'art. 10 d.lg. 368/1998: un primo commento, in Aedon, 2000, 2.
[101] In quanto autorità di vigilanza, il ministero può effettuare ispezioni e chiedere la comunicazione di dati/notizie e l'esibizione dei documenti, disporre che i bilanci siano sottoposti a revisione e certificazione, sospendere temporaneamente gli organi di amministrazione e controllo e nominare un commissario straordinario e disporre (su indicazione dell'organo di controllo o del comitato scientifico) la revoca della concessione in uso dei beni conferiti. In quanto regolatore, adotta atti di indirizzo di carattere generale aventi a oggetto, tra l'altro: i) i criteri e i requisiti relativi alla partecipazione di privati alla fondazione; ii) i requisiti di professionalità e onorabilità, le ipotesi di incompatibilità e le cause che determinano la sospensione temporanea della carica dei componenti degli organi delle fondazioni, nonché la disciplina del conflitto di interessi; iii) i parametri dei adeguatezza delle spese di funzionamento in base a criteri di efficienza e di "sana e prudente gestione".
[102] Inoltre, il ministero approva con decreto le modifiche statutarie (con provvedimento da emanarsi entro 60 giorni dal ricevimento della relativa documentazione). Qualora siano formulate osservazioni il termine è interrotto e ricomincia a decorrere dalla data di ricevimento della risposta da parte della fondazione interessata.
[103] Cfr. S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni, cit., pag. 834.
[104] Cfr. E. Bellezzam, F. Florian, Le fondazioni nel terzo millennio, Firenze, 1998, pag. 63 ss.
[105] Così, G. Fidone, Il ruolo dei privati nella valorizzazione dei beni culturali: dalle sponsorizzazioni alle forme di gestione, in Aedon, 2012, 1-2.
[106] Recante "Approvazione delle norme tecniche e linee guida in materia di sponsorizzazioni di beni culturali e di fattispecie analoghe o collegate", ai sensi dell'art. 61, comma 1, decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con modificazioni in legge 4 aprile 2012, n. 35.
[107] Il cit. d.m. 67128/2012 individua le ragioni del "crescente interesse sia da parte della pubblica amministrazione, sia da parte degli operatori economici" nella circostanza che "la prima [vi] rinviene... una modalità duttile e agevolmente percorribile per il reperimento di risorse, o anche di beni e servizi, da destinare al perseguimento dei propri scopi istituzionali; i secondi dimostrano di ritenere particolarmente appetibile il vantaggio promozionale che può essere tratto dall'accostamento dell'azienda o dei suoi prodotti al prestigioso patrimonio culturale nazionale".
[108] In base a una prima tesi gli enti pubblici (al pari dei soggetti privati) avrebbero "capacità generale", (non solo giuridica, ma) anche di agire: essi - in linea di principio - potrebbero realizzare qualsiasi attività negoziale, salve le limitazioni espressamente previste dalla legge o dallo statuto (così, in maniera marcata, M. S. Giannini, Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, pag. 351 ss.).
Secondo l'opposta ricostruzione, gli enti pubblici (a differenza dei privati) potrebbero porre in essere solo gli specifici negozi tassativamente stabiliti per ciascun (tipo di) ente dalla legge istitutiva e/o dallo statuto: tali enti avrebbero dunque "capacità speciale" (cfr. S. Buscema, A. Buscema, I contratti della pubblica amministrazione, in Trattato di Diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, VII, Padova, 2008, pag. 35 ss.).
In giurisprudenza prevale un'impostazione intermedia, secondo cui gli enti pubblici possono servirsi di tutti gli strumenti civilistici e porre in essere tutti i negozi che risultino funzionali alla cura degli interessi pubblici attribuiti alla loro cura (un parere dell'Adunanza generale del Consiglio di Stato del 17 febbraio 2000 (gab. n. 2), ha affermato, tra l'altro, che "se è vero che nell'ordinamento italiano la posizione di autonomia privata e la legittimazione negoziale delle amministrazioni pubbliche sono regolate dalle norme di diritto positivo relative alle persone giuridiche in genere, è altrettanto vero che, in conformità ai principi dell'evidenza pubblica, le persone giuridiche pubbliche non possono assumere impegni se non nei limiti e nei modi stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che ne funzionalizzano l'attività al perseguimento di interessi pubblici" (su tali basi, il Consiglio di Stato ha ammesso ha ammesso il ricorso da parte della Pubblica amministrazione alla compravendita di cosa futura, purché sorretto da congrua motivazione). V. poi il parere della medesima Adunanza generale del Consiglio di Stato 1504/2000, per l'affermazione che "lo Stato gode di piena capacità di diritto privato e quindi può porre in essere tutti quei contratti che siano compatibili con la sua natura, ovviamente seguendo la disciplina dettata in materia dalla normativa sulla contabilità di Stato e nel rispetto delle regole comunitarie sia espresse che implicite... in base all'autonomia negoziale di cui lo Stato gode come qualsiasi altro soggetto dell'ordinamento, deve ritenersi ammissibile che l'Amministrazione proceda alla stipulazione di contratti che non trovino una precisa disciplina nell'ambito dei contratti tipici, purché, ovviamente, risulti rispettata la conformità alla normativa vigente, sia nazionale che comunitaria". Per quanto il parere dell'A.G. da ultimo citato sia relativo alle amministrazioni statali, i principi da esso enunciati si attagliano alla generalità degli enti pubblici. Più di recente, la sentenza del Tar Veneto, sez. I, n. 1368 del 6 maggio 2009, ha rilevato che "in linea di principio le pubbliche amministrazioni tenute all'osservanza del "sistema" (dei contratti ad evidenza pubblica) sono comunque titolari - proprio in quanto soggetti giuridici - di una piena capacità giuridica, la quale, salvo il limite connesso al rispetto dei propri fini istituzionali, attribuisce loro un'autonomia negoziale di carattere generale che può per certo estrinsecarsi anche nel modulare, secondo quanto ritenuto più conveniente nel pubblico interesse, figure contrattuali tipizzate ex lege". L'orientamento giurisprudenziale richiamato sembra avere recepito l'autorevole insegnamento di G. Zanobini, Corso di Diritto amministrativo, IV, Milano 1958, pag. 466, secondo cui "in linea astratta, gli enti pubblici possono valersi, pel conseguimento dei loro fini, di tutti i contratti conosciuti dal diritto privato e possono anche ricorrere a figure che da questi si allontanano, ossia ai contratti misti e ai così detti contratti innominati. Questa libertà incontra, tuttavia, dei limiti nella natura stessa degli enti e nel dovere che essi hanno di agire esclusivamente per il conseguimento dei propri fini. Per questo, sono certamente da escludere... quelli che non servono di mezzo al conseguimento di alcun fine utile per l'ente pubblico").
[109] La giurisprudenza amministrativa è ormai orientata in senso positivo: v. almeno Cons. Stato, sent. 4 dicembre 2001, n. 6073.
[110] La disposizione, al dichiarato scopo di "favorire l'innovazione dell'organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestare", ha riconosciuto alle amministrazioni la possibilità di stipulare contratti di sponsorizzazione e accordi di collaborazione sia con soggetti privati che con associazioni (con queste ultime, a condizione che non perseguano scopi di lucro e siano costituite con atto notarile). L'esercizio della facoltà è stato esplicitamente subordinato alla presenza di tre requisiti: (i) che la sponsorizzazione sia diretta al perseguimento di interessi pubblici; (ii) che non ingeneri situazioni di conflitto di interessi fra l'attività pubblica e quella privata; (iii) che comporti risparmi di spesa per il soggetto pubblico.
[111] Secondo cui "in applicazione dell'art. 43 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, al fine di favorire una migliore qualità dei servizi prestati, i comuni, le province e gli altri enti locali indicati nel presente testo unico, possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione, nonché convenzioni con soggetti pubblici o privati diretti a fornire consulenze o servizi aggiuntivi".
[112] In tal modo, si è tenuto conto, tra l'altro, della determinazione dell'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici n. 24 del 5 dicembre 2001, la quale ha riconosciuto che "le attività di progettazione, ed accessorie, nonché l'esecuzione di lavori pubblici... possano formare oggetto di contratti di sponsorizzazione alle condizioni fissate dall'art. 43, comma 2, della legge 23 dicembre 1997, n. 449". Nel caso di specie, trattavasi di lavori di ristrutturazione e manutenzione.
[113] La disciplina introdotta nel 2012 è ispirata all'esigenza che l'amministrazione programmi gli interventi da effettuare piuttosto che subire le iniziative spontanee dei privati. Essa, tra l'altro, differenzia il contenuto necessario del bando, che deve essere più dettagliato in caso di sponsorizzazione "tecnica", dovendo indicare i parametri i criteri di valutazione delle offerte. Maggiori ragguagli in P. Carpentieri, Art. 199-bis. Disciplina delle procedure per la selezione di sponsor, in Codice degli appalti pubblici, (a cura di) R. Garofoli e G. Ferrari, Roma 2012, pag. 2070 ss.
[114] Ossia, l'acclarato difetto di legittimazione attiva del Codacons in relazione a liti della specie, cfr. Cons. Stato, sez. VI, sent. 4034/2013; e Tar Lazio-Roma, sez. I, sent. 6028/2012.
[115] Così, P. Carpentieri, Art. 199-bis, cit., pag. 2074.
[116] Secondo cui "la disciplina della parte II, titolo III, capo III (promotore finanziario e società di progetto), si applica all'affidamento di lavori e servizi relativi ai beni culturali, nonché alle concessioni di cui agli articoli 115 e 117 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, secondo le modalità stabilite dal regolamento di cui all'articolo 5".
[117] Art. 20, d.l. 5/2012, conv. in l. 35/2012.
[118] Questo appunto il tenore letterale del cit. art. 199-bis.
[119] Cfr. partic. A. L. Tarasco, La redditività del patrimonio culturale: risorsa o pregiudizio?, in Urb. app. 2008, 137 ss., sulle orme di F. Merusi, Pubblico e privato e qualche dubbio di costituzionalità nello statuto dei beni culturali, in Dir. Amm., 2007, pag. 5.
[120] In questo ambito, la Corte ha fatto applicazione della tesi che raccomanda di ricostruire le materie indicate dall'art. 117 Cost. alla luce del criterio storico-normativo, per la quale cfr., in generale, A. D'Atena, L'autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, pag. 117 ss.; S. Mangiameli, La proprietà privata nella Costituzione, Milano, 1986, pag. 37 ss; pag. 72 ss.; Id., Le materie di competenza regionale, Milano, 1992, pag. 103 ss. Con particolare riferimento al settore dei beni culturali, prima dell'adozione del Codice dei beni culturali, era stato evidenziato, però, che la legislazione offriva indicazioni contraddittorie: cfr. partic. l'analisi di F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano 2002, pag. 241 ss. (ma passim). Alcuni degli argomenti indicati da tale A. restano peraltro attuali anche alla luce delle disposizioni del d.lg. 42/2004 ricordate nel testo.
[121] A causa delle sedes materiae nella quale i servizi culturali erano menzionati, ossia il terzo comma dell'art. 113-bis del Tuel, rubricato "gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica". Come detto, la disposizione è stata poi dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale per l'incompetenza della legge statale a porre una disciplina di dettaglio della materia.
[122] Dal punto di vista letterale, in tal senso depone inequivocabilmente il riferimento contenuto nell'art. 153, comma 13 del Codice degli appalti alla "gestione dell'opera".
[123] Nella vicenda relativa alla ristrutturazione dell'Ospedale Vecchio di Parma.
[124] Cfr. le citt. sentt. nn. 3507/2008 e 4639/2009.
[125] V. ancora la cit. sent. del Tar Emilia-Romagna 2007, n. 618.
[126] Nella Deliberazione 22 aprile 2009, n. 37.
[127] Cfr. partic. i commi 4, 5 e 8. Al riguardo, merita un cenno, però, la progressiva implementazione da parte dell'Unesco di strategie per la gestione dei siti costituenti Patrimonio mondiale dell'umanità che tendono a coinvolgere in modo sempre più stretto i privati. Il loro coinvolgimento è perseguito al dichiarato scopo di attrarre da tali partnership risorse economiche non già in una logica di mecenatismo, bensì sul presupposto che da esse derivino "benefits for all parties" (v. il report WHC-13/37.COM/INF.5D). In tale contesto, l'Unesco ha realizzato pure un'iniziativa tesa alla ricognizione a livello globale delle best practices nella gestione dei siti costituenti Patrimonio mondiale dell'umanità. Nel quadro dell'iniziativa, potrebbe apparire significativo che la palma del vincitore sia andata ai resti di una città coloniale spagnola nelle Filippine (Vigan) con una motivazione che valorizza espressamente la capacità delle autorità locali di coinvolgere anche il business sector - e segnatamente, gli operatori del settore turistico - nella programmazione delle iniziative legislative ed amministrative di conservazione e tutela del sito (cfr. il pertinente assessment). Sembra insomma che a livello di Nazioni Unite si vada affermando l'idea che il patrimonio culturale rappresenti una risorsa da valorizzare in modo sostenibile anche al fine di incrementare il benessere economico delle collettività di riferimento. A ragionare in quest'ottica, l'idea di introdurre forme di consultazione dei soggetti imprenditoriali nella fase di programmazione delle iniziative di sviluppo culturale potrebbe risultare tutt'altro che peregrina.