A conclusione di questa giornata di studio, per la cui organizzazione anch'io ringrazio l'università di Lecce, mi sembra che si possa esprimere una valutazione complessivamente favorevole sul regolamento da poco emanato che disciplina le alienazioni dei beni culturali che fanno parte del patrimonio pubblico.
Naturalmente ci sono problemi che restano aperti (farò qualche accenno più avanti) e certamente altre questioni si presenteranno nella fase di attuazione. Ma è bene ricordare che quando fu approvato in parlamento - con una maggioranza trasversale che comprendeva rappresentanti di tutti i gruppi - l'emendamento leghista che introduceva una illimitata possibilità di vendita dei beni culturali di proprietà degli enti locali, sembrò allora che si fosse aperto uno scontro senza possibilità di intesa fra le posizioni sostenute dalla maggioranza di comuni, regioni e province, e quella tradizionale del ministero e delle principali associazioni impegnate nel campo della tutela. Invece l'intesa è stata ora trovata, su una piattaforma che tutte le parti interessate hanno alla fine trovato soddisfacente: ed è bene, perciò, fare anzitutto una riflessione sul metodo che ha consentito di pervenire a questo risultato.
Il problema delle alienazioni si era infatti già posto - e a più riprese - anche in passato: ma non si era mai andati a fondo nell'analisi e nella ricerca delle soluzioni, essendo prevalsa la polemica sulla base di contrapposte, ma generiche affermazioni di principio. Questa volta - anche per l'impegno affidato dal parlamento al governo di approvare entro una data definita una circostanziata regolamentazione della materia - si è proceduto attraverso il lavoro approfondito di una commissione della quale facevano parte (come hanno ricordato il prof. Cammelli e il notaio Bellezza, che di tale commissione erano membri autorevoli) sia i funzionari del ministero e studiosi ed esperti in tema di patrimonio culturale, sia esponenti così delle regioni e delle autonomie locali come del mondo associativo. Ma soprattutto si è lavorato con grande pazienza, impegno, volontà costruttiva: evitando le accuse generiche (come quella, più volte ripetuta in passato, che la sola preoccupazione degli enti locali fosse quella di "far cassa"), distinguendo fra le diverse situazioni e categorie di beni, precisando con cura l'interesse pubblico che in ogni caso deve essere garantito. In questo modo è stato possibile arrivare, in conclusione, a una normativa che ha raccolto il consenso anche di chi rappresentava gli interessi apparentemente più contrastanti. Ho insistito su questa lezione di metodo perché sono convinto che se si fosse proceduto anche in altre occasioni - parlo sempre di leggi o regolamenti in materia di beni culturali - con un coinvolgimento altrettanto ampio di studiosi, esperti, esponenti delle diverse parti interessate, anche in quei casi si sarebbe probabilmente giunti a risultati più apprezzabili.
Durante questa giornata di studio è stato detto in più di un intervento, a partire dalla relazione del prof. Verde, che la normativa oggetto di questo regolamento era diventata urgente non solo per le posizioni degli enti locali, ma per l'accavallarsi negli ultimi anni di norme legislative che - in materia di alienazione - erano ispirate a principi contrastanti: e ciò anche per la confusione che i processi di semplificazione e delegificazione hanno determinato nelle fonti normative. In realtà - come giustamente ha osservato Marco Cammelli - almeno per quel che riguarda le alienazioni il contrasto risale a molti decenni addietro, precisamente alle contrastanti disposizioni della legge 1 giugno 1939, n. 1089 (che agli artt. 23 e 24 dichiarava inalienabili le cose tutelate di proprietà dello Stato o di altri enti pubblici, tranne che per autorizzazione del ministro) e del codice civile del 1942 (che negli articoli 822 e seguenti dedicati al demanio pubblico stabiliva più genericamente l'inalienabilità dei beni storici, artistici e archeologici di proprietà dello Stato o di province e comuni).
E' dunque da quel momento che era aperta la discussione se dovesse prevalere il principio dell'assoluta inalienabilità (come la giurisprudenza ha teso generalmente ad affermare) ovvero la limitata e circostanziata "alienabilità su autorizzazione del ministro" che era prevista dalla l. 1089/1939 in quanto "legge speciale". In effetti ai "modi e ai limiti" stabiliti dalle "leggi specifiche" faceva riferimento lo stesso art. 822 del codice civile, per eventuali deroghe all'inalienabilità.
Questa discussione avrebbe in realtà potuto trovare una soluzione normativa già molto tempo addietro: in sostanza una soluzione che precisasse le procedure, le circostanze, le garanzie (in sostanza "i modi e i limiti" richiesti anche dalla norma del codice civile) per l'esercizio da parte del ministro del potere di autorizzare l'alienazione dei beni "purché non ne derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento". Tale precisazione avrebbe potuto essere formulata già nel regolamento della l. 1089/1939, se esso non fosse stato bloccato dal sopraggiungere degli eventi bellici; oppure avrebbe potuto essere oggetto di successivi interventi, compreso il recentissimo Testo Unico. E' ben vero, infatti, che la delega limitava fortemente la facoltà di innovazione degli estensori del Testo Unico: ma nel "coordinamento formale e sostanziale" ad essi affidato poteva certamente rientrare l'armonizzazione tra le norme del '39 e quella del '42.
In ogni caso, se il problema si è posto negli ultimi tempi in modo particolarmente pressante, è non solo per le difficoltà finanziarie degli enti locali e per il costo crescente degli interventi di conservazione del patrimonio culturale; ma anche perché non è stata generalmente attuata la norma dell'art. 4 della l. 1089/1939 circa la presentazione da parte dei comuni, delle province e degli altri enti dell'elenco dei beni di interesse culturale da essi posseduti. Ciò ha fatto via via ingigantire il problema dello status dei beni che a un determinato momento raggiungevano i 50 anni: in molti casi è prevalsa la presunzione che, in quanto beni storici, essi fossero di valore culturale e quindi inalienabili. In questo modo si sono poste molte difficoltà per l'alienazione, o comunque la diversa destinazione, anche di beni del tutto privi di interesse culturale.
Giustamente, perciò, il nuovo regolamento ha innanzitutto sgombrato il campo da questo problema, stabilendo norme e procedure per escludere dall'elenco dei beni per la cui alienazione è richiesta l'autorizzazione del ministero quei beni che siano privi di interesse storico e/o artistico; e semplificando ulteriormente la procedura con la norma transitoria stabilita all'art. 23.
Quanto al regime delle alienazioni (o delle concessioni in uso) la normativa appare chiara e soddisfacente: sia perché si è con rigore definito, nell'art. 2, quali sono i beni del tutto inalienabili; sia perché sono stati fissati procedure, vincoli, modalità e garanzie molto chiare così per l'alienazione come per la concessione in uso. Il dato che va particolarmente sottolineato è, però, il profondo cambiamento di impostazione rispetto alla legge del '39: in quella legge l'alienazione era comunque vista come un'eccezione, possibile a condizione che la cosa non corresse pericoli di deterioramento e non ne fosse diminuito il godimento pubblico; invece nella nuova normativa il fine fondamentale diventa proprio quello di potenziare la conservazione del bene, il suo recupero, la sia fruibilità da parte del pubblico. Questa nuova impostazione corrisponde alla consapevolezza - diventata via via sempre più diffusa - che la conservazione e la valorizzazione di un patrimonio culturale dell'entità di quello italiano non possono essere opera solo dell'azione dello Stato né di una normativa prevalentemente vincolistica, ma richiedono un'attiva collaborazione tra le diverse istituzioni pubbliche (Stato, regioni, enti locali), altri enti e istituzioni, i soggetti privati singoli o associati. La normativa sulle alienazioni, e soprattutto sulla concessione in uso, appare, nel nuovo regolamento diretta appunto a promuovere questa collaborazione.
Il giudizio positivo che ho sin qui formulato, e che corrisponde - del resto - alla valutazione che è largamente prevalsa in questa giornata di studio, non esclude, naturalmente, che vi siano alcuni aspetti del regolamento che appaiono discutibili e che occorrerà correggere. Già il notaio Bellezza ha notato, per esempio, che un termine di due mesi è davvero troppo poco per l'esercizio del diritto di prelazione: tanto più che questo diritto può oggi essere esercitato dallo Stato anche a favore di altri enti pubblici territoriali che ne facciano richiesta. E' un punto in cui si manifesta una grave carenza compiuta nella stesura del Testo Unico. L'inserimento in tale testo della norma del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 che prevede che alla prelazione possano concorrere anche regioni, comuni, province avrebbe infatti richiesto - per ragioni di coordinamento sostanziale - un ampliamento dei termini temporali che inizialmente erano stati fissati considerando l'esercizio della prelazione come un diritto limitato esclusivamente allo Stato. Le sole procedure previste per informare regioni, province e comuni della possibilità di esercitare una prelazione e per dar loro la possibilità di prendere una decisione in merito sono tali da occupare gran parte dei due mesi previsti: occorre perciò introdurre una revisione per prolungare adeguatamente tale termine e a tal fine, trattandosi di norma del Testo Unico, si richiede una modifica legislativa e non solo una correzione del regolamento. Come vicepresidente del Consiglio nazionale posso assumere l'impegno, sollecitato dal notaio Bellezza, di far presente nelle sedi opportune la necessità e l'urgenza di questa modifica.
M al di là di singole norme che - come quella appena citata - richiedono una correzione, ciò che maggiormente deve preoccupare è, come ha notato Marco Cammelli, se l'amministrazione dei beni culturali è attrezzata a sufficienza per esercitare i compiti, non semplici, ad essa assegnati dal regolamento sulle alienazioni. In concreto, le funzioni attribuite al ministero dovrebbero essere svolte dall'istituendo soprintendente regionale; e, in attesa della sua istituzione, dal soprintendente ai beni ambientali e architettonici competente per territorio. Ma è legittimo chiedersi se le future soprintendenze regionali, sulla cui concreta strutturazione ancora nulla si sa di preciso, e le attuali soprintendenze ai beni ambientali e architettonici, che in molti casi dispongono di strutture assai fragili, saranno in grado di esercitare efficacemente le competenze ad esse affidate da questo regolamento. E' questa una ragione di più - accanto alle tante altre che emergono in sede di discussione della riforma del ministero - per rivendicare un potenziamento urgente del personale e delle attrezzature tecniche di cui, specie in sede periferica, l'amministrazione dei beni culturali attualmente dispone e che certamente sono oggi sottodimensionati rispetto all'entità dei compiti di tutela, gestione, valorizzazione del patrimonio culturale italiano.