Come tutti gli incontri dedicati alla prima lettura di un nuovo testo, il criterio principale da seguire è quello di procedere alla ricognizione dei problemi risolti e di quelli eventualmente sollevati dalla nuova disciplina.
Gli uni e gli altri, naturalmente, non sono isolati e spesso si ricollegano a tematiche più generali che magari non possono essere tutte richiamate, ma che certo è bene tenere presenti.
Mi atterrò dunque ad una analisi ravvicinata del testo, ma prima vorrei riprendere alcuni aspetti sollevati dalle relazioni precedenti, e in particolare da quella del prof. Verde.
C'è innanzitutto un serio problema, che è quello dello statuto ancora non del tutto definito della delegificazione, rispetto alla quale probabilmente i fatti sono andati più veloci del dibattito culturale e scientifico. Detto questo, e riconosciuto il fatto che vi sono alcuni aspetti anche rilevanti non sufficientemente approfonditi, c'è però da riequilibrare un quadro un po' troppo nero e pessimistico.
Fra l'altro, dobbiamo riconoscere che per la verità le confusioni c'erano anche quando il sistema delle fonti era tranquillo ed ordinato perché, senza essere costretti a cercare altri esempi, possiamo partire subito dall'antinomia di fondo del tema di cui qui ci occupiamo. Due leggi adottate nell'arco di 3 anni, tra il 1939 e il 1942, in un tempo certo non sospetto di pluralismo delle fonti e (relativi) sforzi di semplificazione dispongono, sul medesimo oggetto, una il contrario dell'altra.
La seconda, vale a dire la norma del codice civile, afferma che in quanto demaniali i beni culturali non si vendono e non circolano, l'altra (della legge 1089) dispone invece che i beni possono essere alienati previa autorizzazione.
Dunque, dobbiamo sempre stare attenti a non attribuire ai difetti (non pochi e non piccoli) che esistono e che vediamo al giorno d'oggi problemi che sono in realtà probabilmente dovuti al difficile equilibrio tra normativa di settore e normativa generale e cioè, in questo caso, alla difficile convivenza tra lo statuto dei beni pubblici e quello dei beni culturali, che in parte è bene pubblico ma in parte non lo è perché può essere in mano ai privati.
Questo è il nodo del nostro problema, dove è chiaro che, quando (come nel caso che qui ci interessa) un bene oltre ad essere culturale è anche bene pubblico si apre il problema del conflitto tra due normative distinte. Se questo è vero, è inevitabile che questo nodo si sia ripresentato in occasione della elaborazione della nuova normativa che qui intendiamo approfondire, e che è stata frutto di un lavoro complesso e approfondito.
Anzi, ne approfitto per dire che questa è stata un occasione di un lavoro che ritengo apprezzabile svolto presso il ministero e l'ufficio legislativo all'interno di una commissione molto ampia di cui, oltre a noi, facevamo parte molti altri saperi ed esperienze che si sono confrontate, come credo anche il sen. Chiarante potrà confermare, in modo aperto e collaborativo. Vorrei confessare, anzi, una mancanza di cui porto l'esclusiva responsabilità, e cioè il mancato invito del titolare o di qualche collaboratore dell'ufficio legislativo e del ministero, che sicuramente sarebbe prezioso nella discussione odierna e che altrettanto sicuramente avrebbe partecipato ai nostri lavori.
Tornando a noi, dicevo dunque che anche nel buon tempo antico i pasticci succedevano e anzi in questa materia succedono continuamente, anche se ovviamente lo si dice non perché gli errori di ieri giustifichino quelli di oggi ma solo per ricordare che le antinomie sono proprie di ogni ordinamento.
Quanto al secondo punto, a me pare che la semplificazione non nasca da una errata concezione culturale, vale a dire dall'ingenuo tentativo di dare una risposta per così dire di basso profilo alla complessità: il tema è amplissimo e certo non possiamo qui affrontarlo, ma mi pare che non potremo mai venirne a capo senza chiederci come mai le cose si complessificano e dunque da dove nasce l'esigenza di semplificarle.
Non si tratta dell'ingenua, e in parte come si è visto infondata nostalgia del buon tempo antico, perché in realtà è proprio la complessità a richiedere il ricorso ad alcuni elementi semplificatori, senza i quali non sarebbe possibile operare. Per questo io non vedo tensione tra la complessità e la semplificazione, anzi mi pare che questi elementi viaggino insieme. Il problema, semmai, è di ordine pratico e consiste a mio giudizio nella tensione, di ordine squisitamente politico-istituzionale, tra riforme avviate per il tramite di normative ordinarie e riforme per via costituzionale.
Noi viviamo una stagione, è bene ricordarcelo anche se lo sappiamo tutti bene, che da 10 anni pratica la strada di incisive riforme passando attraverso la legislazione ordinaria proprio perché risulta bloccata, per cause anch'esse ben note, la strada della riforma costituzionale.
Si tratta di una contraddizione di enormi dimensioni, naturalmente, e nello stesso tempo costituisce un costo rilevante che un sistema politico che non riesce a cambiare compiutamente impone al resto del Paese. Finisce così che le innovazioni sono effettuate in modo incrementale, vale a dire non solo per singoli segmenti ma dal basso (legislazione ordinaria) verso l'alto (assetto istituzionale e costituzionale) ed è un costo che sopportiamo tutti perché è chiaro che in questo modo molte innovazioni rimangono senza adeguati sostegni e senza fare i conti con i dati sistematici dell'ordinamento, che si tratti di fonti o di autorità indipendenti, di sussidiarietà o di ordinamento regionale, e via dicendo.
Il che, oltretutto, genera una serie di alterazioni imprevedibili, basti pensare a quella delle regioni a statuto speciale che in una fase ad accelerato ritmo di trasformazione finiscono paradossalmente per essere penalizzate dalla propria specialità perché quello che era stato concepito in funzione di garanzia aggiuntiva di autonomia diventa invece un ostacolo, una sorta di un collo di bottiglia attraverso il quale le riforme transitano con difficoltà e ritardi.
Ma di nuovo, tornando al punto che qui ci interessa, è innegabile la preoccupazione suscitata dal vedere una norma del codice civile, quella appunto sui beni pubblici, modificata da un regolamento di delegificazione, e questo riguarda chiunque abbia un minimo di sensibilità giuridica.
Detto questo, dobbiamo anche aggiungere che la norma legislativa che abilita la delegificazione, vale a dire 32 della legge 448/1998, è tutto sommato uno degli esempi più corretti di autorizzazione alla delegificazione, sia perché (purtroppo) conosciamo ben altro in materia, sia perché non direi proprio che sia una norma in bianco dato che identifica con chiarezza l'oggetto, il soggetto, detta criteri in modo abbastanza puntuale e fissa il termine entro il quale va adottata. Sicché, almeno da questo punto di vista, mi pare di poter dire che nel panorama delle norme che dispongono la delegificazione quella in esame si colloca nella fascia alta, dal punto di vista della correttezza e dei requisiti richiesti.
Ma veniamo alle sue ragioni, cioè alle esigenze da cui è scaturita. Il problema nasce, direi, da una doppia antinomia: quella che abbiamo già richiamato tra legge 1089 e codice civile, che è quella storica, e da un più specifico e recente contrasto tra la drastica intenzione di un gruppo parlamentare che l'aveva proposta per superare i lacci e laccioli del Sovrintendente ed arrivare alla liberalizzazione dei beni immobili di interesse storico, artistico e culturale a disposizione degli enti pubblici, con il dichiarato intento di realizzare risorse per fare cassa, e il tentativo non solo di evitare che tutto questo avvenisse senza i dovuti e seri riscontri, tali da garantire nello stesso tempo la tutela del bene culturale e quello dell'ente titolare a poterne disporre, sia pure a determinate e definite condizioni.
Ebbene, da queste premesse, che potevano generare un autentico vulnus all'intero sistema, mi pare si sia arrivati ad una normativa tutto sommato abbastanza bilanciata che apre il discorso, che si integra con l'art. 822 del codice civile, che supera l'inalienabilità assoluta filtrandola con forme e possibilità di trasferimento accompagnate da seri riscontri. E così si parte dalla individuazione del bene e delle sue caratteristiche, che è sempre il problema non solo pregiudiziale in astratto ma anche più scoperto in concreto, e poi si prevede una autorizzazione basata, è un aspetto che vale la pena sottolineare, su un progetto che contempla un arco di cose da fare e una serie di condotte da tenere. In questo modo il bene viene sempre accompagnato da una specie di scheda identificativa che ne descrive le modalità di uso, le necessarie migliorie, la fruizione, la valorizzazione, gli usi compatibili. Insomma, una specie di identikit, o se volete una vera e propria carta d'identità del bene.
Da questo punto di vista semmai, come dirò poi alla fine, ho l'impressione che la debolezza e i rischi della normativa in esame risiedano in questa scommessa che è, non neghiamocelo, di notevole complessità e ambizione. In breve, di dice sì al trasferimento, ma specificando che quest'ultimo è subordinato a questo progetto, a queste condizioni, a questi limiti.
Anzi, si aggiunge, tutto questo deve essere soddisfatto anche per forme di trasferimento d'uso senza dunque che sia in discussione la cessione della titolarità, il che anzi in un certo senso mi sembra rappresentare un'ipotesi altrettanto frequente, se non addirittura prevalente, rispetto a quella della vendita. Mi sembra giusto, allora, riconoscere che di quello che poteva costituire un rozzo strappo al regime di tutela, una semplicistica semplificazione dei problemi (reali) incontrati dagli enti locali nel disporre dei propri beni, si sia fatta (o comunque si sia cercato di fare) una regola più generale e una soluzione equilibrata.
Sicché, un regolamento generato da una norma legislativa che muoveva dalla premessa della alienazione finisce per indicare, scopertamente, un'altra strada, quella cioè della cessione in uso o dell'affidamento del bene accompagnato da una sorta di statuto che ne definisce caratteristiche, esigenze, utilizzazioni compatibili ecc. indipendentemente da chi ne abbia immediata disposizione. In questi termini, e se l'applicazione in concreto ne rispetterà le premesse (qualche problema, come vedremo, c'è), potremmo dire che lo strappo iniziale si è rivelato una felix culpa e il rischio di badare semplicemente a fare cassa si trasforma nella definizione di uno statuto della gestione in uso, della convenzione, della concessione: in definitiva, nella soddisfazione delle esigenze che abbiamo detto.
Veniamo ora ad alcune considerazioni conclusive.
La prima riguarda l'oggetto di quella che è una vera e propria scommessa del regolamento, e cioè che sia possibile e praticamente utile, anche in modo potenzialmente generalizzato, scindere il momento della proprietà o più in generale della titolarità di un bene dal profilo della sua utilizzazione, nel pieno rispetto di tutti i vincoli e le prescrizioni che riguardano quest'ultimo.
Si tratta di un passaggio importante per due motivi: intanto, perché segna in qualche modo il superamento di alcune ambiguità sottostanti allo statuto particolare della proprietà pubblica dei beni culturali e in particolare della inesatta premessa che di per sé la mano pubblica è migliore. Dico ambigua perché se sono evitati certi pericoli non ne sono evitati altri, e in particolare quelli derivanti dalla mancanza di risorse e dal conseguente deterioramento. Da questo, l'idea che sta alla base della normativa in esame secondo cui è possibile instaurare un rapporto con altri soggetti pubblici o privati che dispongano delle risorse necessarie, riuscendo così a soddisfare in concreto le esigenza di conservazione e valorizzazione. Naturalmente, e si tratta del secondo motivo, tutto ciò è possibile solo valorizzando il ruolo di regolazione, rispetto alla gestione o all'intervento diretto, da parte delle autorità predisposte alla tutela, il che va dunque considerato un presupposto centrale dell'intera normativa.
Proprio per quanto appena detto, tra le scommesse ce n'è un'altra molto impegnativa quella del ruolo del Sovrintendente, cui è richiesto uno sforzo culturale, organizzativo e amministrativo straordinario. Tutto il sistema degli elenchi delle cose, su cui torneremo, ma ancor più quello delle valutazioni e degli apprezzamenti che gli sono richiesti, poggia infatti su questo soggetto. Ricordo, ad esempio, che in base all'art. 10 comma 4 il sovrintendente deve, al momento della autorizzazione ad alienare, valutare non solo il progetto ma le alternative fra "il programma proposto e le altre possibili modalità di valorizzazione del bene", e cioè compiere una valutazione di notevole delicatezza ed ampiezza i cui elementi tra l'altro, incidendo sulla disponibilità riconosciuta al titolare, andranno adeguatamente motivati. C'è da aggiungere, inoltre, che valutazioni di ampiezza corrispondente sono previste anche successivamente, per tutta la durata del rapporto di concessione.
Ce n'è abbastanza, insomma, per concludere che si tratta di un punto cruciale e che un ruolo siffatto può essere svolto solo da un soprintendente adeguatamente attrezzato e organizzato, il che fa sì che questa normativa si colleghi direttamente alla vicenda e all'esito del riordino del ministero. Riordino operato dal decreto legislativo 368/1998 e dal regolamento ministeriale di organizzazione, sui quali invece proprio in questi giorni si sono allungate dense ombre dovute alle obiezioni sollevate in sede di controllo dalla Corte dei conti. E' evidente che se questo dovesse comportare un blocco del riordino del ministero, verrebbe a mancare la sponda decisiva alla quale questa normativa deve appoggiarsi.
Veniamo ad un altro aspetto, quello del sistema della individuazione dei beni, su cui già sono intervenuti il prof. Verde e il dott. Casu e quindi non mi ci soffermo. Nel congegno introdotto vedo però alcuni aspetti problematici che vorrei soltanto richiamare. In particolare: è chiaro che la cosa funziona se entrambi gli attori della vicenda sono fortemente incentivati a rispettarne i tempi e le regole, anche attraverso sanzioni.
Ebbene, mentre è chiara la sanzione per gli enti locali, nel senso che dalla mancata presentazione degli elenchi deriva il blocco della disponibilità del proprio patrimonio immobiliare, meno chiara è la sanzione nel caso in cui le sovrintendenze non rispettino i termini previsti. Certo, il regolamento ci dice che nelle more dell'entrata a regime del sistema, al posto dello statuto definito ex ante per ogni bene si provvederà invece di volta in volta con apposite autorizzazioni (art. 22), ed è vero che lo stesso articolo stabilisce un termine preciso (120 giorni) entro il quale il soprintendente deve pronunciarsi.
Ma se consideriamo la larghezza con cui amministrazione e giudici tendono a trasformare i termini in semplici indicazioni di carattere ordinatorio, se ricordiamo che nel regolamento il carattere perentorio dei termini è esplicitamente riconosciuto solo ad altre ipotesi (artt. 9 e 15) per le quali è prevista anche la sostituzione del sovrintendente inerte con un commissario ad acta (art. 20) e se aggiungiamo che in base alle norme della legge 241/1990 non à applicabile in questi casi alcun principio di silenzio-assenso, è facile concludere che i contenuti del regime transitorio sono assai simili a quelli della disciplina attualmente vigente.
Vale a dire, che la mancata formazione degli elenchi comporta una sanzione per gli enti locali ma non per le soprintendenze, con il risultato che queste ultime potrebbero essere tentate a indulgervi e a non collaborare con la necessaria determinazione alla piena attuazione del regime ordinario previsto. Si tratta solo di una preoccupazione, naturalmente: la cosa certa è invece che l'esaurimento dell'opera di individuazione richiederà tempo e che dunque, ai fini del regolamento che stiamo esaminando, la disciplina del regime transitorio ha una particolare importanza.
Un'ulteriore ragione per giungere con la maggiore celerità possibile alla realizzazione del sistema di individuazione dei beni così come immaginata dal regolamento, è che l'azione combinata delle due misure previste dal regime transitorio (blocco disponibilità beni immobiliari dell'ente, regime delle autorizzazioni ad hoc del sovrintendente) rischia di portare ad un risultato aberrante che, se si generalizzasse, comporterebbe l'illegittimità di questa parte del regime transitorio.
Il problema giuridico più delicato nel sistema degli elenchi, infatti, non è né il bene culturale che vi è compreso (perché, ovviamente, è proprio il risultato perseguito) né il bene culturale che ne è restato fuori perché, come ripete il T.U. e già affermava la legge 1089 nella lettura prevalente, il bene culturale fuori l'elenco resta tale ed è assoggettato al regime vincolistico. Il vero problema è posto da ciò che pur non essendo bene culturale è dentro l'elenco: se infatti non ne viene "sfilato" con le modalità stabilite dall'art. 4, comma 1, lettera a), perché ad esempio il meccanismo si è inceppato e vale il regime transitorio delle autorizzazioni ad hoc del sovrintendente, avremo una sorprendente innovazione nel regime dei beni immobili degli enti territoriali, e cioè la sottoposizione alla autorizzazione del soprintendente di tutti i beni immobili dell'ente locale. Il che da un lato non risolverebbe nessuno dei nostri problemi aggiungendone invece altri di cui non si avvertiva i bisogno, e dall'altro creerebbe comprensibili conflitti con il governo locale.
Passiamo ad un altro aspetto. Dopo l'autorizzazione nasce un rapporto e i rapporti tengono se hanno basi solide di partenza e anche questo è stato un obbiettivo che ci si è proposti anche se non so in che misura sia stato interamente centrato. Intanto, i rapporti tengono se hanno regole chiare, il che però è particolarmente difficile nel caso di rapporti così complessi come quelli in esame perché i soggetti implicati non sono solo due (il nuovo titolare e il soprintendente) ma tre, perché non solo nella concessione (il che è ovvio) ma anche quando c'è stata alienazione l'ente pubblico dante causa resta sullo sfondo: basti pensare al fatto che qualora non venga rispettato il programma definito all'inizio, il contratto è risolto (art. 11) per il mancato rispetto delle clausole che lo accompagnano. Dunque abbiamo rapporti per certi profili triangolari (l'ente pubblico, il sovrintendente, il soggetto che ne fa uso) e certo non sarà facile tenere bene insieme questi elementi. Credo anche che sia importante avere molta chiarezza all'inizio, e cioè una soprintendenza in grado di indicare preventivamente e chiaramente quali sono gli elementi che vanno considerati dall'atto di conferimento e dalla disciplina del rapporto. Se questi mancassero, o non fossero chiari o fossero frutto di interventi puntuali e successivi operati di volta, sarà molto difficile avviare un serio e soddisfacente rapporto di collaborazione con i privati: nel senso, cioè, che o mancheranno i privati o non saranno quelli più seri. E' dunque necessario che come il privato prima dell'autorizzazione presenta il proprio programma, altrettanto faccia la pubblica amministrazione indicando le variabili da considerare o i veri e propri vincoli cui attenersi, con la conseguenza che salvo fatti gravi e sopravvenuti che impongono valutazioni diverse quelle originarie, per il resto il sistema delle regole del caso concreto resta fermo ed è fondante del legittimo affidamento da parte del soggetto (pubblico o privato, su questo non c'è differenza) interessato.
Sarà poi compito degli studiosi di diritto civile e dei notai chiarire, e mi pare che ce ne sia l'esigenza, la natura delle clausole che accompagnano l'autorizzazione, e in particolare se siano oneri reali che gravano sul bene o obbligazioni che riguardano i soggetti, o gli uni e gli altri.
Concludendo, mi pare che la normativa in esame abbia significative potenzialità che potranno tradursi in atto se verranno assicurati i presupposti organizzativi e la chiarezza delle regole che ne costituiscono il presupposto necessario.