Sommario: 1. Premessa. - 2. Autorizzazione. - 3. Prelazione. - 3.1. Qualificazione. - 3.2. Autorizzazione e prelazione. - 3.3. Procedura della prelazione. - 3.4. Denuncia. - 3.5. Termine per la denuncia. - 3.6. Contenuto della denuncia. - 3.7. Tipologia degli atti. - 3.8. Effetti dell'atto nell'attesa del provvedimento di esercizio della prelazione. - 4. Beni culturali dello Stato o degli enti territoriali. - 4.1. Autorizzazione. - 4.2. Trascrizione dell'autorizzazione. - 4.3. Risoluzione del contratto. - 4.4. Prelazione. - 4.5. Conclusione. - 5. Nullità.
La mia relazione si concentra sulla commercializzazione dei beni culturali e soprattutto sulla commercializzazione dei beni culturali immobili, che, chiamando in causa il notaio, ha determinato particolari approfondimenti dell'argomento, in linea con la consueta serietà con cui il notaio interpreta la sua attività di operatore del diritto, in consonanza con il suo ruolo di ufficiale super partes, che intende garantire a tutti i contraenti adeguata tutela in una materia cosparsa di limitazioni e trabocchetti negoziali.
Parto pertanto dal presupposto che il bene culturale già esista, o per dichiarazione della competente autorità (per i beni dei privati o delle società commerciali), o per l'inerenza oggettiva al bene dell'aspetto culturale (per i beni degli enti pubblici e delle persone giuridiche prive di scopo di lucro).
Sulla base del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali approvato con decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 era possibile effettuare una triplice ripartizione di disciplina negoziale dei beni culturali, così sintetizzabile:
- se proprietario del bene è lo Stato o un ente locale: incedibilità assoluta, perché si tratta di demanio pubblico, salvo una preventiva sdemanializzazione;
- se il bene appartiene ad un ente pubblico diverso o a persona giuridica senza scopo di lucro: preventiva autorizzazione ministeriale per la cessione del bene e successivo procedimento di prelazione a favore dello Stato o anche di ente territoriale;
- se il bene è di proprietà di persona fisica o di persona giuridica con scopo di lucro (in sostanza, società commerciale, società cooperative, ma anche associazioni non riconosciute, comitati, insomma organismi senza personalità giuridica): solo prelazione.
Il regolamento [1] contenuto nel d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, il quale, trattandosi di regolamento delegato emanato sulla base della legge delega 23 dicembre 1998, n. 448 poteva portare modifiche alla vigente legislazione, ha recato forti modifiche alla disciplina dei beni culturali appartenenti allo Stato o agli enti territoriali, per cui si può affermare che attualmente i beni culturali di questi enti si sdoppino in una duplice disciplina:
a) determinati beni (ex art. 2 del regolamento) sono sempre inalienabili e quindi per questi è prevista un'inalienabilità assoluta e definitiva;
b) tutti gli altri beni sono alienabili se inseriti nell'elenco principale a disposizione della soprintendenza regionale; restano inalienabili se non inseriti nell'elenco e pertanto si ha una sorta di inalienabilità provvisoria, in attesa dell'inserzione nell'elenco.
Per la verità questa distinzione tra beni culturali demaniali (non suscettibili di alienazione) e beni culturali non demaniali (suscettibili di alienazione) era già riscontrabile sulla base del Testo Unico del 1999, con una norma che, da una parte era in linea con il codice civile (che stabilisce l'assoluta incedibilità dei beni demaniali), da un'altra parte in contrasto con lo stesso codice civile (che considera i beni culturali come demanio). Tant'è vero che, nella prima interpretazione del Testo Unico, si riteneva che la possibilità di cedere beni culturali dello Stato o di enti territoriali concernesse soltanto i beni mobili non costituenti collezione o raccolta.
Ora il regolamento del 2000 ha stabilito una disciplina concernente anche i beni culturali immobili. Ma di ciò parleremo più, avanti.
Ora concentriamoci sulla tematica della negoziazione più comune di questi beni, senza alcun riferimento ai beni culturali appartenenti allo Stato o agli enti territoriali. E per entrare subito nei problemi, vanno qui affrontati due istituti particolari: l'autorizzazione alla cessione del bene e la prelazione artistica a favore dello Stato.
L'autorizzazione è prevista per l'alienazione di bene culturale allorquando titolare del bene sia un ente pubblico o una persona giuridica senza scopo di lucro.
Quanto alla tipologia degli atti soggetti ad autorizzazione, il Testo Unico, in perfetta corrispondenza con la legge 1 giugno 1939, n. 1089, menziona: le alienazioni (art. 55), la permuta (art. 56), la costituzione di ipoteca o di pegno (art. 57) ed utilizza infine una formula residuale onnicomprensiva: "negozi giuridici che possono comportare l'alienazione dei beni culturali" (art. 57).
Unica eccezione alla norma, nel senso che non si richiede l'autorizzazione preventiva, è l'ipotesi di alienazione di bene culturale a favore dello Stato (art. 57, ultimo comma). La ragione giustificativa dell'eccezione è di intuitiva evidenza, considerato che la maggiore garanzia perché un bene culturale possa assolvere in pieno al suo compito di soddisfare l'interesse culturale dei cittadini è che il bene divenga di proprietà dello Stato.
Competente a rilasciare l'autorizzazione è il ministero, cui va inoltrata richiesta accompagnata da una relazione particolareggiata (art. 45 del regolamento). Occorre il parere obbligatorio ma non vincolante della soprintendenza competente per territorio.
La concessa autorizzazione non preclude la procedura di prelazione, che ha corso autonomo e che va impostata prescindendo del tutto dall'ottenuta autorizzazione, la quale si concentra soltanto sull'alienabilità del bene culturale senza nocumento per la collettività.
Va ricordato che, secondo una sentenza di merito, il notaio, cui le parti si siano rivolte per stipulare un atto di trasferimento di immobile appartenente ad un ente ecclesiastico, ha l'obbligo di informare le parti sulla necessità dell'autorizzazione ministeriale prevista dalla legge al fine di poter procedere ad un atto giuridicamente idoneo allo scopo perseguito. E che pertanto, è responsabile contrattualmente verso il cliente, il notaio che per sua colpa ha determinato l'acquisto di un bene inalienabile perché mancante dell'autorizzazione ministeriale [2].
In questo modo il tribunale di Orvieto afferma tre principi:
- quello che anche per la cessione del bene degli enti ecclesiastici occorre la preventiva autorizzazione;
- quello che l'atto senza autorizzazione è privo di effetti;
- quello che il notaio che roga senza preventiva autorizzazione deve informare le parti sulle conseguenze sanzionatorie del proprio atto.
L'atto privo di autorizzazione pertanto è certamente un atto privo di effetti giuridici, ferme restando le conseguenze che potrebbero derivare, in ordine alla validità dell'atto, dalla qualificazione della natura della nullità prevista dal Testo Unico come una sorta di sanzione forte residuale per coprire tutte le violazioni delle prescrizioni dettate in ordine alla commercializzazione di questi beni. Tanto è vero che la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che il diniego di autorizzazione alla vendita di beni sottoposti a vincolo, in quanto viene ad incidere sulla sfera giuridica del soggetto, sottraendo alla sua disponibilità un bene, richiede una congrua motivazione che giustifichi il sacrificio imposto al diritto di proprietà [3] e che a tale proposito è insufficientemente motivato il provvedimento che nega l'autorizzazione limitandosi ad affermare in astratto che la proprietà pubblica garantisce meglio la conservazione e la tutela del bene.
3.1. Qualificazione
Il Testo Unico parla più volte di "prelazione". Ma si tratta di una vera prelazione legale? Lo esclude la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale così dispone: "il diritto di prelazione artistica ha una propria configurazione giuridica che si differenzia nettamente dalla prelazione legale"; in quest'ultima il soggetto attivo, esercitando il suo diritto, si pone in un rapporto contrattuale rispetto al soggetto passivo, surrogandosi all'acquirente originario; nella prelazione artistica, invece, "lo Stato agisce mediante l'esplicazione di un potere di supremazia e per il conseguimento di un interesse pubblico; in tal caso il trasferimento del bene si attua non già attraverso rapporto negoziale, ma per effetto di una manifestazione della potestà di imperio dello Stato" [4].
In altre parole, mentre nella comune prelazione legale il trasferimento si verifica per effetto del negozio posto in essere, nella prelazione artistica il trasferimento si verifica per effetto del provvedimento dell'amministrazione pubblica, il quale va configurato come atto amministrativo di carattere negoziale, che determina un triplice effetto: a) produce il trasferimento coattivo della proprietà del bene a favore dello Stato; b) determina la caducazione del negozio di alienazione posto in essere; c) fa sorgere un rapporto obbligatorio tra l'alienante e lo Stato, caratterizzato dall'obbligo del primo di consegnare il bene e dall'obbligo dello Stato di corrispondere il prezzo pattuito.
3.2. Autorizzazione e prelazione
L'autorizzazione concerne solo i beni culturali degli enti pubblici e delle persone giuridiche prive di scopo di lucro; ma anche quando occorre, va distinto il procedimento inteso alla richiesta di autorizzazione dal procedimento inteso all'esercizio della prelazione statale: l'autorizzazione va richiesta per qualsiasi atto di alienazione, sia a titolo oneroso che a titolo gratuito, mentre la prelazione può essere esercitata soltanto per gli atti a titolo oneroso (anche se la denuncia, atto iniziale del procedimento, va fatta anche per gli atti a titolo oneroso).
L'autorizzazione deve precedere l'atto, la prelazione invece presuppone un atto già stipulato.
Questo, va ribadito, vale per i beni culturali degli enti pubblici, esclusi gli enti territoriali, per i quali, nel momento in cui si richiede l'autorizzazione, lo Stato può esercitare il diritto di prelazione, come si vedrà più avanti (quella che una dottrina qualifica come prelazione anticipata rispetto al contratto da realizzare).
3.3. Procedura della prelazione
L'atto di trasferimento del bene culturale, sia a titolo gratuito che a titolo oneroso, va denunciato entro 30 giorni.
La prelazione può essere esercitata solo per gli atti a titolo oneroso ed entro 60 giorni dalla ricezione della denuncia.
L'atto rimane sospeso negli effetti per tutti i 60 giorni se il ministero non si esprime e comunque fino al momento in cui, entro i 60 giorni, il ministero dichiari di non voler acquisire il bene.
Se viene positivamente esercitata la prelazione, il provvedimento di accettazione va notificato a tutte le parti contrattuali e la proprietà si trasferisce coattivamente a favore dello Stato a far data dall'ultima notificazione.
Questo in sintesi il meccanismo. Vediamo di analizzarne i punti salienti.
3.4. Denuncia
La denuncia è prevista in caso di alienazione di bene culturale a chiunque appartenente ed ha lo scopo da un lato di informare l'autorità sulle vicende circolatorie del bene e, da un altro lato, di porre la stessa autorità in grado di esercitare la prelazione, se di questa sussistano le condizioni.
L'art. 58, comma 1, del Testo Unico, prescrivendo che "gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o la detenzione di beni culturali sono denunciati al ministero" sostanzialmente riproduce la precedente norma, per cui l'obbligo di denuncia concerne:
- gli atti di trasferimento della proprietà (sia a titolo gratuito che a titolo oneroso);
- gli atti idonei a trasmettere la detenzione del bene (e quindi i contratti di locazione, di comodato, di deposito, di conferimento a terzo di un mandato ad amministrare con obbligo di custodia e di manutenzione).
La norma è da ritenersi applicabile anche ai negozi costitutivi o traslativi di diritti reali limitati (enfiteusi, usufrutto, uso, abitazione) ed anche alla cessione della nuda proprietà e certamente anche al contratto costitutivo di servitù, malgrado l'opinione contraria di qualche autore, perché nella servitù si costituisce un possesso a vantaggio del titolare del fondo dominante; mentre non sembra che sia applicabile alla costituzione di un diritto di garanzia ipotecaria, la quale non trasferisce per se stessa né il possesso né la detenzione del bene ipotecato.
Chi deve effettuare la denuncia? Il legislatore ha recato un elemento di chiarezza, stabilendo che la denuncia va effettuata:
a) dal proprietario o dal detentore del bene, in caso di alienazione a titolo oneroso a gratuito;
b) dall'acquirente, in caso di trasferimento avvenuto nell'ambito di procedure di vendita forzata o fallimentare ovvero in forza di sentenza che produca gli effetti di un contratto di alienazione non concluso;
c) dall'erede o dal legatario, in caso di successione a causa di morte.
3.5. Termine per la denuncia
L'art. 58 del Testo Unico prescrive che la denuncia è effettuata entro trenta giorni. Il termine è nuovo, perché nella previgente legge non era previsto alcun termine.
Il primo problema che sorge è quello di stabilire il dies a quo per la decorrenza del termine e sembra lineare rispondere che il dies a quo per gli atti tra vivi sia quello della data dell'atto.
Diverso discorso va fatto per gli atti mortis causa. In questo caso, tenuto conto della norma che stabilisce chi debba effettuare la denuncia, se il futuro erede o legatario è nel possesso dei beni, non vi è alcun dubbio che i 30 giorni debbano farsi decorrere dal giorno dell'immissione in possesso; in caso contrario occorre tener conto del momento in cui l'interessato abbia acquisito la veste di erede (e quindi tener conto della data di accettazione espressa o tacita) oppure del momento in cui sia stato informato della sua veste di legatario (e quindi presumibilmente tener conto della data in cui, avvenuta la pubblicazione del testamento, sia stato posto a conoscenza della sua nomina a legatario). La logica di questa conclusione è la considerazione che soltanto ad avvenuta acquisizione della conoscenza di essere titolare del bene trasmesso per successione il soggetto che vi è tenuto potrà dare effettivamente corso alla denuncia.
Il secondo problema è quello di stabilire se esista una sanzione per l'inosservanza del termine, o, meglio, quale sia l'effetto dell'atto di cessione posto in essere ed altresì quali siano gli effetti, nei confronti dello Stato, del ritardo nell'osservanza del termine.
Scopo della norma è presumibilmente quello di indurre il titolare del bene a presentare tempestiva denuncia, allo scopo di evitare che la sorte del negozio resti per troppo tempo in balia dell'evento incerto che lo Stato possa, anche a distanza di tempo, esercitare il diritto di prelazione.
Se questo è lo scopo della norma, va escluso che lo Stato, una volta ricevuta la denuncia in ritardo, possa attendere all'infinito di decidere se esercitare o meno la prelazione, perché in caso contrario esso si avvantaggerebbe oltre misura e senza alcun particolare motivo, solo sfruttando un'irregolarità formale del privato.
In definitiva, presentata la denuncia, lo Stato non può procrastinare all'infinito l'esercizio del diritto di prelazione. Ciò risulta anche dall'art. 60, comma 1, del Testo Unico, il quale, nel prevedere i due mesi di decadenza dalla prelazione per mancato esercizio di essa, non specifica che debba trattarsi di denuncia presentata entro i trenta giorni. Se lo Stato pertanto non esercita la prelazione entro questo periodo, esso perderà per sempre il diritto di esercitare la prelazione per l'atto posto in essere.
Vi è da chiedersi quali siano gli effetti negoziali nel periodo di 30 giorni dall'atto entro i quali va presentata denuncia e logica vuole che si risponda che anche per tale periodo il contratto resti sospeso negli effetti; infatti non si potrebbe affermare che il contratto sia produttivo di effetti immediatamente fino al raggiungimento dei 30 giorni dalla stipula e soltanto a far data dalla denuncia esso perda effetto. La soluzione più logica appare la seguente:
a) se la denuncia viene presentata entro i trenta giorni dalla stipula, l'atto posto in essere è privo di effetti dalla data della stipula fino al termine di due mesi dalla denuncia;
b) se la denuncia viene presentata oltre i 30 giorni, l'atto è privo di effetti fino al termine di 30 giorni, trascorsi i quali esso diviene inopponibile allo Stato per tutto il periodo di ritardo nella presentazione della denuncia; presentata invece ancorché tardivamente la denuncia, lo Stato può scegliere: se vuole esercitare il diritto di prelazione, deve effettuarlo nel termine di decadenza di due mesi dalla denuncia; oppure rinuncia all'esercizio del diritto di prelazione e in tal caso può fa valere l'inopponibilità dell'atto nei suoi confronti.
Quest'ultimo punto merita un approfondimento. Trascorso il termine di 30 giorni senza aver presentato denuncia, sono state violate le norme, per cui opera la sanzione dell'inopponibilità prevista dall'art. 135 Testo Unico (la norma parla di "nullità", ma come è stato già chiarito in precedenti studi, più propriamente si tratta di nullità relativa o, meglio, di inopponibilità allo Stato).
Ma se nel frattempo, ancorché con ritardo rispetto ai previsti trenta giorni, è stata presentata denuncia, lo Stato ha due possibilità: o disinteressarsi della prelazione e far valere l'inopponibilità degli effetti dell'atto di trasferimento nei suoi confronti, oppure esercitare il diritto di prelazione rispettando peraltro il termine decadenziale di due mesi dalla denuncia.
3.6. Contenuto della denuncia
L'art. 58 del Testo Unico, oltre a stabilire a chi va presentata la denuncia (al soprintendente, che la comunica alla regione e agli altri enti locali), ne precisa il contenuto:
a) dati identificativi dell'alienante e dell'acquirente;
b) dati identificativi dei beni alienati;
c) indicazione del luogo ove si trovano i beni alienati;
d) indicazione della natura e delle condizioni dell'alienazione;
e) indicazione del domicilio in Italia dell'alienante e dell'acquirente ai fini delle eventuali comunicazioni previste dalla normativa sui beni culturali.
Trattasi di elementi indispensabili allo scopo di porre l'amministrazione nella condizione di decidere se procedere o meno all'esercizio della prelazione senza pretendere ulteriori chiarimenti, con documentazione aggiuntiva.
E' importante l'ultimo comma dell'art. 58, il quale prescrive che "si considera non avvenuta la denuncia priva delle indicazioni previste dal comma 4 o con indicazioni incomplete o imprecise". Ciò basta per rendere necessaria una formulazione completa della denuncia e, a tale proposito, appare consigliabile che sia lo stesso notaio a predisporre il testo della denuncia, ad evitare che lo Stato possa avvalersi di una denuncia incompleta e intenda pertanto rendere operativa la prelazione senza incorrere nella decadenza del mancato rispetto del termine di due mesi. Ma occorre escludere che tra le parti ed il notaio vi sia un mandato tacito con il quale si impegni il professionista a presentare la denuncia.
Il notaio, insomma, non è tenuto a presentare la denuncia sul piano funzionale; né vi è tenuto sul piano professionale, nel silenzio dell'incarico ricevuto. Occorre pertanto un mandato apposito per impegnare il notaio professionalmente ad esplicare questo incarico.
3.7. Tipologia degli atti
L'art. 58, comma 1, del Testo Unico dispone che vanno denunciati "gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o la detenzione di beni culturali", il che importa che la denuncia va presentata sia per i trasferimenti a titolo oneroso, sia per quelli a titolo gratuito.
L'art. 59, comma 1, del Testo Unico dispone, peraltro, che "il ministero ha facoltà di acquistare i beni culturali alienati a titolo oneroso al medesimo prezzo stabilito nell'atto di alienazione". Da questa norma si desume che, mentre la denuncia si riferisce anche alle alienazioni a titolo gratuito, la prelazione può essere esercitata solo per le alienazioni a titolo oneroso.
Si tratta ora di vedere quali atti possano essere fatti rientrare nel concetto di "atti di alienazione a titolo oneroso". Si ritiene in dottrina che vi rientrino soltanto gli atti il cui effetto sia l'integrale trasferimento della titolarità del bene. Non vi rientrerebbero, pertanto, i negozi aventi per oggetto un diritto reale limitato (usufrutto, servitù), né quelli costitutivi di diritto di garanzia (ipoteca), né evidentemente i contratti preliminari.
Si è posta questione se vi rientri l'atto di cessione di quota. Deve ritenersi che sia consentita la prelazione su una singola quota, con la conseguenza che lo Stato, esercitandola, non diviene proprietario dell'intero bene, ma soltanto proprietario della quota negoziata. Ed appare pienamente giustificato affermare che in questo caso non si costituirà mai sul bene un diritto demaniale, ma soltanto un diritto patrimoniale, con la stessa valenza del diritto degli altri condomini.
Del resto la possibilità della prelazione artistica nella cessione del bene pro quota è affermata dalla giurisprudenza amministrativa [5] e sulla stessa lunghezza d'onda appaiono orientate la giurisprudenza di merito [6] e la dottrina [7] più recente.
E' stato anche posto il quesito se rientri nella disciplina della prelazione artistica il conferimento in società e si è risposto affermativamente, mentre si è ritenuto che non vi rientrino gli atti rivestenti natura semplicemente dichiarativa, come la divisione.
3.8. Effetti dell'atto nell'attesa del provvedimento di esercizio della prelazione
L'art. 60, comma 3, del Testo Unico dispone che "in pendenza del termine prescritto dal comma primo l'atto di alienazione è inefficace ed all'alienante è vietato effettuare la consegna della cosa".
La norma del Testo Unico parla di "atto di alienazione inefficace", il che comporta che l'effetto traslativo del bene resta privo di effetti per tutta la durata del termine di decadenza. E questa carenza di effetti vale non solo per lo Stato, ma anche per gli stessi contraenti.
Ma se questo vale per l'effetto negoziale primario concernente l'alienazione del bene, ciò non impedisce che l'atto possa rivestire effetti collaterali, specie di natura obbligatoria, purché evidentemente si tratti di effetti che non incidano sul trasferimento del bene e, in sintesi, purché non vengano a confliggere con il diritto di prelazione artistica: si pensi ad una regolamentazione pattizia che concerna l'ipotesi che lo Stato o l'ente locale esercitino il diritto di prelazione; si pensi ad eventuali clausole di pagamento del prezzo, non dimenticando in proposito di considerare che queste clausole non vincolano lo Stato, anche per l'esistenza di apposita norma in proposito (art. 60, comma 4, T.U.).
Si pone ora il problema concreto se sia opportuno far risultare l'inefficacia temporanea dell'atto nei registri immobiliari. Data la temporaneità di questa inefficacia, e dato soprattutto che si tratta di inefficacia non pattizia, bensì disposta per legge, non vi è alcun dubbio che essa sia operativa e riferibile ai terzi anche senza trascrizione. Per di più, ove trascritta, richiederebbe un'operazione di cancellazione una volta che lo Stato sia decaduto dal diritto di esercitare la prelazione. Va da sé che nel corpo dell'atto dovrà risultare l'inefficacia temporanea in discorso, per chiarezza negoziale e, al limite, si potrebbe suggerire di indicare questa inefficacia nel quadro D della nota di trascrizione.
4. Beni culturali dello Stato o degli enti territoriali
Ed ora il discorso va portato, in breve sintesi, sull'autorizzazione e sulla prelazione di bene culturale appartenente allo Stato agli enti territoriali - regione, provincia, comune.
Il regolamento d.p.r. 283/2000 individua una categoria di beni assolutamente inalienabili, quali menziona: i monumenti nazionali, i beni culturali di valore storico, i beni d'interesse archeologico. Questi non possono essere alienati sotto alcun profilo, ma soltanto eventualmente utilizzati singolarmente con particolare concessione, alla stessa stregua di tutti i beni demaniali.
Tutti gli altri beni culturali appartenenti allo Stato e agli enti territoriali sono alienabili, previa autorizzazione, a patto peraltro che siano precedentemente inclusi in un elenco che deve essere custodito dal soprintendente regionale per i beni e le attività culturali, elenco predisposto su iniziativa degli enti territoriali proprietari dei beni.
I beni inseriti nell'elenco possono rivestire carattere non culturale (ed in tal caso viene effettuata dal soprintendente apposita comunicazione all'ente proprietario del bene), oppure carattere culturale, nel qual caso, sempre previa autorizzazione, se ne può effettuare alienazione a terzi.
Certamente la norma che stabilisce come condizione per 1'alienabilità del bene il suo inserimento nell'elenco dei beni culturali ha una sua ragion d'essere, in quanto mira a costringere l'ente proprietario ad includere il bene nell'elenco: l'incommerciabilità provvisoria costringerà questi enti a provvedere all'inclusione del bene nell'elenco, allo scopo di potere, se del caso, sfruttare economicamente il bene con la sua alienazione.
Non si può negare che in questo modo il problema dell'individuazione del bene, problema critico sulla base delle precedenti norme, è stato in larga misura risolto.
Che accade se il bene, malgrado la sua mancata inserzione nell'elenco in discorso, venga alienato? Non vi è alcun dubbio che il negozio traslativo del bene in tal caso sarà affetto da nullità. Donde nasce questa nullità? Si può rispondere affermando che nel nostro caso viene ad essere violato un previsto divieto di legge (non va dimenticato che la norma regolamentare nel nostro caso è norma giuridica dal contenuto più forte di un semplice regolamento esecutivo, dovuta al fatto che trattasi di regolamento delegato e quindi supportato da una precisa disposizione di legge). Pertanto nel caso di specie sarebbe ipotizzabile la norma dell'art. 1418 cod. civ. sulla nullità virtuale.
Ma non va neppure dimenticato che il bene non inserito nell'elenco conserva ancora il suo connotato di bene demaniale, connotato che verrà a perdere soltanto per effetto dell'alienazione consentita dalla legge.
Pertanto l'alienazione contra legem di un bene demaniale viene certamente ad essere considerato come atto nullo, perché attinente ad oggetto impossibile, come ha dichiarato altra volta la Corte di cassazione [8].
Riassumendo, si possono verificare le seguenti due situazioni:
a) beni assolutamente inalienabili. In tal caso se il bene venisse alienato trasgredendo la norma, si avrebbe l'alienazione di un bene demaniale e quindi la nullità dell'atto per impossibilità dell'oggetto;
b) beni provvisoriamente inalienabili perché non appartenenti ai beni assolutamente inalienabili e perché ancora non inclusi nell'elenco: anche in questo caso il bene continuerebbe a mantenere il suo connotato di bene demaniale e quindi anche in tal caso l'atto di cessione sarebbe nullo per impossibilità dell'oggetto.
Pertanto entrambi i casi di atto avente per oggetto un bene assolutamente inalienabile, oppure di atto relativo a bene astrattamente alienabile ma concretamente inalienabile perché non inserito nell'elenco, sarebbero affetti dalla sanzione della nullità negoziale.
4.1. Autorizzazione
Gli articoli 7 e seguenti del regolamento affrontano, per la prima volta (se si esclude una norma di scarso rilievo contenuta nell'art. 45 del regolamento emanato con regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363) in modo completo la tematica dell'autorizzazione, soffermandosi sulle modalità per la sua richiesta.
Rilevano particolarmente, oltre ai dati identificativi del bene, le, informazioni che ne garantiscono: la conservazione, la possibilità di pubblica fruizione, un programma che evidenzi gli obiettivi di tutela e di valorizzazione.
L'autorizzazione viene rilasciata soltanto se l'alienazione non pregiudichi la conservazione del bene, la sua integrità, la sui fruizione pubblica e deve evidenziare tutta una serie di adempimenti che l'acquirente deve porre in essere per garantire detti risultati.
4.2. Trascrizione dell'autorizzazione
Il provvedimento autorizzativo e la dichiarazione che si tratta di bene particolarmente importante sul piano culturale sono trascritti, su richiesta del soprintendente regionale nei registri immobiliari "ed hanno efficacia nei confronti di ogni successivo proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo, anche ai fini dell'art. 11 del regolamento", articolo, quest'ultimo, che concerne appunto la risoluzione del contratto di acquisto del bene per inadempimento derivante dal mancato ossequio alle prescrizioni operative contenute nell'autorizzazione ai fini della conservazione e della fruibilità pubblica del bene.
E' questa la prima volta che il provvedimento di autorizzazione alla cessione del bene viene preso in considerazione dal legislatore, ai fini della pubblicità immobiliare, con norma che rispecchia quasi pedissequamente l'analoga norma contenuta nell'art. 8, comma 2, del Testo Unico sui beni culturali.
L'avere previsto la pubblicità immobiliare anche per l'autorizzazione si spiega, certamente, perché dalla stessa deve risultare il necessario inserimento nell'atto della clausola risolutiva espressa; ma anche, è da ritenere, perché il procedimento autorizzativo fa venir meno la demanialità del bene e apre la strada alla sua alienabilità.
4.3. Risoluzione del contratto
Una norma del regolamento stabilisce che l'autorizzazione prescrive la previsione, nel contratto di alienazione, della clausola risolutiva espressa di cui all'art. 11 (art. 10, comma 3, lettera b).
L'art. 11 del regolamento esordisce stabilendo che l'osservanza delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione "costituisce obbligazione principale dell'acquirente". Il significato della norma appare chiaro: sulla base del principio che "qualora l'inadempimento riguardi una delle obbligazioni primarie ed essenziali scaturenti dal contratto, non è necessaria alcuna valutazione della gravità di esso, essendo questa implicita nella circostanza stessa del mancato adempimento" [9].
In altre parole, allorquando 1'acquirente del bene non abbia adempiuto anche ad una minima delle prescrizioni inserite nel provvedimento di autorizzazione trascritto, l'ente alienante effettua la dichiarazione di avvalersi della clausola risolutiva espressa e l'acquirente non può opporre l'eccezione di scarsa rilevanza dell'obbligazione inadempiuta, appellandosi all'art. 1455 del codice civile.
Questo aspetto del contratto di alienazione richiederà evidentemente da parte del notaio chiamato alla stipula particolare attenzione, soprattutto allo scopo di porre l'acquirente nella condizione di conoscere i rischi del suo eventuale inadempimento.
Ma vi è da chiedersi: se è stata inserita nell'atto la clausola risolutiva espressa, che senso ha l'avere previsto altra norma atta a stabilire l'essenzialità della prestazione per i comportamenti conservativi e di fruibilità del bene posti a carico dell'acquirente? Infatti la giurisprudenza ha statuito che la pattuizione di una clausola risolutiva espressa elimina ogni necessità di indagine in ordine all'importanza dell'inadempimento [10].
Ma probabilmente l'avere incluso tale dizione vuole significare un effetto rafforzativo al di là delle regole generali poste dall'ordinamento giuridico.
4.4. Prelazione
L'art. 12 del regolamento disciplina la prelazione a favore dello Stato e modifica in varie parti il normale procedimento di prelazione previsto dagli artt. 59-61 del Testo Unico sui beni culturali.
In primo luogo disciplina un diritto di prelazione che opera prima dell'atto di cessione del bene, nella fase anteriore concernente il procedimento di autorizzazione. Il ministero, anziché rilasciare l'autorizzazione alla cessione del bene a terzi, può decidere di acquistare il bene culturale in proprio e sono previste vaie possibilità attinenti al prezzo d'acquisto: se esiste un prezzo d'asta il bene viene acquistato dallo Stato sulla base di questo valore; ma può accadere che il prezzo sia stabilito con apposito accordo tra ente territoriale alienante e Stato; o, in mancanza di accordo, che si proceda alla nomina di apposita commissione di arbitraggio cui viene affidato il compito di stabilire l'entità del prezzo congruo.
La prelazione va esercitata sempre entro il termine di due mesi, decorrenti in questo caso dalla ricezione della richiesta di autorizzazione ad alienare da parte del soprintendente regionale, che rappresenta l'autorità competente a rilasciarla.
Il provvedimento di esercizio della prelazione, da parte del ministero dei Beni e le Attività culturali, va notificato al solo alienante, perché ancora il contratto di cessione non è stato posto in essere e l'unico soggetto che pone in allarme la pubblica autorità è l'ente territoriale che richiede l'autorizzazione.
In definitiva in questo modo vengono sovrapposte nella stessa procedura sia l'autorizzazione che la prelazione; anzi l'esercizio della prelazione presuppone che l'autorità competente non dia il benestare per l'autorizzazione della cessione del bene a terzi; la prelazione si sovrappone al provvedimento di autorizzazione e rende inutile l'emanazione di quest'ultimo, risultando essa autorizzazione superata dal favore che viene per legge garantito all'acquisto del bene culturale da parte dello Stato.
Ma l'art. 12 del regolamento prevede anche una seconda fase di esercizio della prelazione: essa concerne l'ipotesi che sia stata concessa l'autorizzazione alla cessione del bene, sia stato stipulato il relativo atto a favore di soggetto estraneo, ma che il prezzo di cessione del bene sia risultato inferiore a quello indicato dall'alienante nella richiesta di autorizzazione.
In questo caso come opera la prelazione? Occorre pur sempre la denuncia da parte dell'ente alienante che abbia riscontrato l'inferiorità del prezzo rispetto a quello espresso in sede di procedimento autorizzativo e che, data la sua iniziale entità, può avere indotto il ministero a non esercitare la prelazione. L'ente territoriale alienante, in tal caso, effettua la denuncia prevista dal testo unico sui beni culturali, peraltro non più entro i 30 giorni dall'atto (ex art. 58 del Testo Unico), bensì entro i 60 giorni, che decorreranno evidentemente dalla data dell'atto di cessione del bene.
Va da sé che, per effetto del richiamo agli artt. 59 ss. del T.U., in tal caso debbono ritenersi applicabili tutte le norme concernenti la prelazione: obbligo dello Stato di esercitarla entro i 60 giorni, sospensione degli effetti dell'atto in questo periodo, trasferimento coattivo del bene allo Stato a far data dall'ultima notifica, ai contraenti, della volontà di esercitare la prelazione.
Riassumendo, pertanto, lo Stato può esercitare la prelazione:
a) o nella fase di autorizzazione alla cessione del bene entro i due mesi dalla ricezione della richiesta di autorizzazione;
b) oppure dopo la cessione del bene, ma soltanto se il prezzo di cessione sia inferiore a quello esplicitato nella fase autorizzativa.
4.5. Conclusione
Per concludere, di particolare rilievo appare il procedimento identificativo dei beni culturali previsto dal regolamento del 2000. Per la prima volta il legislatore si preoccupa di prevedere un procedimento inteso all'individuazione dei beni appartenenti agli enti pubblici, che resta peraltro limitato ai beni appartenenti ai beni appartenenti agli altri enti territoriali. La necessaria trasmissione dell'elenco al soprintendente regionale in un termine previsto, il contributo di documentazione che ogni ente è tenuto a fornire al soprintendente regionale e i termini tassativi che impongono a quest'ultimo, pena l'utilizzazione del commissario ad acta, di provvedere, denotano la volontà di completare l'auspicato elenco in termini adeguati. Il problema si sposterà poi sugli elenchi dei beni degli enti pubblici diversi dagli enti locali e degli enti ecclesiastici: è auspicabile che si provveda con analoga norma regolamentare di futura emanazione.
A conclusione di tutto il discorso, pare che non vi siano dubbi nell'affermare che questa disciplina, ancorché tracciata in ambito ristretto, potrà parzialmente essere utilizzata dallo Stato nell'applicazione concreta di determinate parti del Testo Unico, in special modo per quanto attiene al procedimento autorizzativo e per quanto concerne la prelazione di secondo grado a favore degli enti territoriali.
L'art. 135 del Testo Unico rappresenta la quasi pedissequa riproduzione dell'art. 61 della l. 1089/1939 e dispone: "le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni di questo Titolo, o senza l'osservanza delle condizioni e modalità da esso prescritte, sono nulli".
Si ripresenta quindi il problema di stabilire la natura giuridica di questa "nullità". Si tratta di vera e propria nullità, ai sensi degli artt. 1418 ss. del codice civile, oppure si tratta di nullità relativa, come ha sempre sostenuto la giurisprudenza della cassazione o, più correttamente allo scopo di evitare disfunzione nel sistema, si tratta di inopponibilità nei confronti dello Stato?
Parte della dottrina [11] ma soprattutto la giurisprudenza consolidata della Cassazione [12] affermano che si tratti di nullità relativa, cioè di nullità caratterizzata dal fatto che l'azione intesa a pronunciarla può essere fatta valere soltanto dallo Stato, sul presupposto che essa costituisca una sanzione intesa a tutelare soltanto un interesse dello Stato. Conseguenza di questa opinione è che, non potendo le parti contrattuali agire per far dichiarare la nullità, il negozio produce effetti tra le parti ma non per lo Stato; in tal modo l'acquirente del bene, sulla base di una nullità che non avrebbe riflessi nei suoi confronti, ma soltanto nei confronti dello Stato, diviene regolarmente proprietario del bene acquisito.
Il problema si innesta su quello dell'inquadramento sistematico della c.d. "nullità relativa" nella tematica di teoria generale delineata dal codice civile, contestandosi da buona parte della dottrina l'esistenza stessa dell'istituto della nullità relativa, perché esso verrebbe a confliggere con gli aspetti salienti della nullità assoluta (quale quello della sua operatività erga omnes, dell'azione intesa alla dichiarazione giudiziale della nullità concessa a chiunque vi abbia interesse e d'ufficio al giudice) [13].
Ed un'attenta dottrina afferma che "una nullità nella quale gli effetti negoziali non si producono relativamente a determinati soggetti ed operano invece relativamente ad altri, richiede una scelta in contrasto con i principi che regolano la categoria"; e conclude sostenendo che "la nullità è una qualificazione negativa del negozio e tale qualificazione, dettata dalla considerazione degli interessi della comunità, non può essere che unica di fronte a tutti" [14].
In effetti se si accettasse il concetto di nullità relativa, si verificherebbero le seguenti sfasature nel sistema:
a) si avrebbe la stranezza di una nullità che opera di diritto, ma che può essere fatta valere soltanto da alcuni soggetti, impedendo agli altri di ottenere una dichiarazione di nullità che valga a definire una sostanziale situazione di incertezza giuridica;
b) il negozio sarebbe per una parte valido e produttivo di effetti, per un'altra parte invalido e improduttivo di effetti, aggiungendo incertezza ad incertezza;
c) una sanzione quale è quella di nullità, dettata nell'interesse generale e pertanto a disposizione di tutti i cittadini che in qualsiasi momento sono legittimati a farla valere, finirebbe per agevolare soltanto alcuni soggetti, in tal modo venendo ad acquisire i connotati propri dell'annullabilità o quantomeno dell'inefficacia relativa.
Resta da stabilire perché il legislatore abbia utilizzato la parola "nullità". La dottrina ha posto in risalto che il codice civile del 1865, in vigore quando fu emanata la l. 1089/1939, stabiliva in ordine alla nullità una disciplina oltremodo articolata, prevedendo le seguenti categorie: nullità assoluta e nullità relativa; nullità rilevabile d'ufficio e nullità rilevabile a domanda di parte; nullità d'interesse pubblico e nullità d'interesse privato; nullità ipso iure e nullità pronunciabile ope iudicis [15]. Ed è stato anche precisato che dottrina e giurisprudenza effettuavano varie distinzioni, concordando peraltro sulla conclusione che la nullità non significava giuridica irrilevanza e che l'atto nullo era normalmente sanabile [16].
Sulla base di tutta una serie di considerazioni di ordine sistematico, pertanto, si è ritenuto di dover accedere alla conclusione che la violazione della norma non dà luogo a nullità del contratto, il quale continua a produrre i suoi effetti tra le parti, mentre esso contratto non è opponibile allo Stato per tutto il tempo in cui questo non ha ricevuto la denuncia e per i due mesi successivi a questa.
Che questa possa essere la soluzione più congruente con il sistema, lo si desume anche da alcune sentenze della Corte di cassazione, le quali esplicitamente aderiscono alla predetta conclusione: "questa Corte ha già avuto occasione di precisare che la nullità prevista dalla norma citata - cioè dall'art. 61 l. 1089/1939 - è stabilita nel solo interesse dello Stato e non può essere fatta valere nei rapporti tra i soggetti privati, mentre la più attenta dottrina ha sostenuto che tecnicamente la previsione dovrebbe essere annoverata nella categoria dell'inefficacia relativa od inopponibilità, anziché in quella dell'invalidità" [17].
Si potrebbe essere tentati di affermare che in questo modo venga tradita la portata della norma, che è quella di valorizzare al massimo il patrimonio culturale, vietandone l'utilizzazione distorta. Ma a questa riflessione si potrebbe obiettare che il vero interesse dello Stato non è quello di acquisire interamente il patrimonio culturale italiano, bensì quello di conservarne l'utilizzazione e di avvantaggiarne la fruizione da parte dell'intera collettività. La commercializzazione di questi beni, se resta all'interno dello Stato, se essi vengono conservati in modo appropriato, appare momento meno pregnante rispetto all'intento conservativo, e pertanto l'interesse che vi corrisponde non appare così intenso da meritare una nullità piena.
Sulla base delle enunciate difficoltà, la dottrina è portata a declassare la nullità in discorso in semplice inopponibilità: l'atto sarebbe sempre valido per le parti e produttivo di effetti, ma sarebbe inopponibile allo Stato, cioè privo di effetti nei suoi confronti [18].
Sopravvenuta la denuncia, l'atto diventerebbe opponibile allo Stato, che peraltro potrebbe esercitare su di esso il diritto di prelazione. In tal caso, ferma l'opponibilità, l'atto diventerebbe sospeso negli effetti per tutti fino al momento in cui venisse esercitato il diritto di prelazione.
[1] Regolamento emanato in attuazione dell'art. 32, l. 448/1998.
[2] Trib. Orvieto, 10 settembre 1997.
[3] Cons. Stato, 13 aprile 1983, n. 248, in Foro amm., 1983, I, 656 (s.m.); Cons. Stato, 19 gennaio 1985, n. 8, in Cons. St., 1987, II, 89.
[4] Cass., 21 agosto 1962, n. 2613, in Giust. civ., 1963, I, 324. La giurisprudenza prevalente assimila la prelazione agli atti coercitivi: vedi da ultimo Cass., sez. un., 1 luglio 1992, n. 8079, in Giur. it., 1993, I, 1, 812, con nota di De Mare, e in Corriere giur., 1993, 75, con nota di A. Pagano.
[5] Cons. Stato, 9 marzo 1988, n. 323, in Foro amm., 1988, 498; Tar Lazio, 17 ottobre 1983, n. 900, in Trib. amm. reg., 1983, I, 3112; Tar Lazio, 25 maggio 1979, n. 448, in Trib. amm. reg., 1979, 2029.
[6] Corte app. Roma, 18 giugno 1979, in Arch. civ., 1980, 396.
[7] T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, III ed., 1995, 439.
[8] Cass., 25 marzo 1966, n. 788, in Giust. civ., 1966, 1, 1059; Cass., 22 novembre 1990, n. 11265, in Foro it., 1990, I, 3396.
[9] Cass., 17 febbraio 1969, n. 550, in Giur. it., 1969, 1, 1, 618.
[10] Cass., 14 luglio 2000, n. 9356; Cass., 17 marzo 2000, n. 3102, per la quale la clausola risolutiva espressa in seno alla convenzione negoziale rende irrilevante ogni indagine intesa a stabilire se l'inadempimento sia sufficientemente grave, tale da giustificare l'effetto risolutivo; cfr. sempre in tal senso Cass., 17 ottobre 1995, n. 10815, in Foro it., 1996, 1, 3444.
[11] Si vedano gli scritti di E. Betti e L. Puccini.
[12] Cass., 21 giugno 1967, n. 1429; Cass., sez. un., 15 maggio 1971, n. 1440; Cass., sez. un., 24 novembre 1989, n. 5070, in Dir. giur. agr., 1992, 102; Cass., 12 giugno 1990, n. 5688, in Giust. civ. mass., 1990, fasc. 6; Cass., 26 aprile 1991, n. 4559, in Giust. civ. mass., 1991, fasc. 4.
[13] Così sostanzialmente L. Cariota Ferrara, in Scritti minori, Napoli, 1986; l'autore conclude affermando che "tale nullità nel nostro diritto non esiste come figura autonoma, come sottospecie della nullità contrapposta all'annullabilità".
[14] Così R. Tommasini, voce Nullità, in Enc. dir., 1978, 859 ss.
[15] Si vedano gli scritti di G. Filanti.
[16] Cass., 17 giugno 1967, n. 1429.
[17] Cass., sez. un., 15 maggio 1971, n. 1440, cit.; Cass., 14 febbraio 1975, n. 590, in Foro it., 1975, I, 1107, la quale dichiara espressamente: "si tratta di una nullità, o, se si vuole, di una inefficacia, che nonostante la drastica locuzione usata dall'art. 61, può essere fatta valere non dai privati contraenti, ma soltanto dallo Stato, nel cui esclusivo interesse è stata predisposta"; sostanzialmente nello stesso senso vedi Cass., 17 giugno 1967, n. 1429, cit.; Cass., 14 aprile 1947, n. 554, le quali ultime escludono trattarsi di nullità assoluta.
[18] T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, cit.