Ringrazio gli organizzatori di questo convegno, così come i collaboratori del commentario al testo unico per i beni e le attività culturali. Li ringrazio per due motivi. Innanzitutto per la qualità del volume, che come ha ricordato Marco Cammelli era in elaborazione da tempo, e del resto noi stessi ne abbiamo discusso più volte, anche nei mesi antecedenti alla conclusione dell'iter legislativo, verificatasi con l'emanazione del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490. Quindi per la tempestività, ma anche per la sicurezza e puntualità nell'individuazione dei molti problemi che oggi il testo unico pone, taluni risolti, altri lasciati aperti, alcuni forse non sospettati, ma è sempre così quando si affronta un'opera di tale complessità.
Il lavoro di commento è particolarmente importante, e si integra con il lavoro di redazione del testo unico. Se chi cura la redazione si deve scontrare con tutti gli inevitabili problemi della reductio ad unum, evidentemente chi effettua il commento, ed anzi in questo caso interviene ad accompagnare l'elaborazione delle norme, svolge un'opera assai utile, anche in vista di quella che deve necessariamente essere la seconda fase della "vita" del testo unico. La fase che già la legge delega, e qui abbiamo il consigliere Gallucci che ne è l'autore materiale, individuava nel processo di "testo-unificazione" (parola non bella ma ormai entrata nel linguaggio corrente), ossia nell'aggiornamento del testo unico una volta emanato. E ciò non solo con la dettatura di disposizioni correttive, ma anche con la cattura delle disposizioni poste in seguito da altre fonti legislative.
E' una concezione per così dire da codificazione perpetua, che corrisponde all'esigenza di integrare il testo unico con tutte le norme di cui i riscontri successivi evidenzino la mancanza, mantenendo al contempo la forma e il corpus del testo unico.
In proposito, non sono convintissimo che la recente normativa sulla redazione dei testi unici, e in particolare l'art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, risolva tutti i problemi tecnici in materia, e anzi sono personalmente convinto che rimangano molte questioni aperte, forse anche qualcuna in più di quelle che avremmo pensato.
In particolare, credo che la collocazione in uno stesso testo unico di norme primarie e secondarie, su cui già si è soffermato Marco Cammelli, comporti necessariamente un processo di legificazione delle disposizioni provenienti da fonte regolamentare.
Ma forse il problema può essere in parte risolto accompagnando alla redazione di un testo unico delle norme primarie il ricorso ad uno strumento che raccolga e coordini le norme secondarie, secondo uno schema non dissimile da quello utilizzato - è l'esempio più celebre, e non è una novità - dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e del relativo regolamento di attuazione, una disciplina che, pur con tutte le critiche ideologiche e tecniche a cui è stata sottoposta, resiste da un numero non indifferente di anni.
Quindi vi è la necessità di porsi anche un problema dell'accorpamento della normativa regolamentare, a valle di quella legislativa. Del resto, e il punto non sfugge a tutti coloro che operano sulle fonti del diritto, l'irrigidimento delle norme in un atto di livello primario non giova, soprattutto dal punto di vista dell'adeguamento alle successive evenienze, nel senso che la situazione cui le norme si riferiscono viene a mutare nel tempo, e il periodo previsto per l'adozione di correttivi al testo unico ad un certo punto giunge a scadenza.
Dunque non solo un riordino legislativo, grazie al testo unico, ma anche un riordino regolamentare. Ciò tramite il ricorso a uno strumento che sia riconducibile alla figura del regolamento di attuazione, e non a quella del regolamento di delegificazione, o del regolamento ex art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (ammesso che quest'ultima fattispecie preveda dei regolamenti di delegificazione, perché io li chiamerei regolamenti di attuazione spinta, nella migliore delle ipotesi). Senza dimenticare che la fonte regolamentare si sta rivelando foriera di problemi innumerevoli, e frutto di procedimenti di adozione se si vuole ancora più pesanti di quelli della stessa norma primaria.
E' evidente, perciò, e mi pare giusto sottolinearlo, la necessità di intervenire subito, immediatamente. Esistono difficoltà che già la pratica dei primi giorni di attuazione sta mettendo in evidenza. Abbiamo dei problemi in tema di catalogazione, di garanzia assicurativa dello Stato sulle esportazioni temporanee, di espropriazione, specie quanto al rapporto con la disciplina generale sul procedimento espropriativo e sulla misura dell'indennità; abbiamo qualche problema anche in tema di norme penali, il che è leggermente di più preoccupante rispetto alle altre correzioni, pur importanti, che devono essere fatte.
Ma questa evidentemente non è una critica, e mai potrebbe venire da parte mia anche solo uno spunto critico verso chi ha lavorato all'elaborazione del testo unico. Il fatto è il testo unico inevitabilmente mette in chiaro i problemi, diversamente dal rimbalzo da fonte a fonte, che tende a nasconderli, o a farli risolvere in una sede non evidente e più o meno legittimata, ossia nell'interpretazione dell'amministrazione e dei giudici.
Quindi, è necessario un intervento sul testo unico, e forse una riflessione sulla necessità di lavorare ad una fonte regolamentare di completamento, ad un regolamento unico di attuazione, se posso chiamarlo così, che non soltanto accompagni il testo unico ma inoltre tenga conto di tutte le novità che le leggi finanziarie successive, sedi quanto mai irrituali per parlare di beni culturali, vanno stratificando nel nostro settore.
Enrico Bellezza citava prima il problema della dismissione dei beni del patrimonio storico-artistico. Confessiamolo chiaramente: con le finanziarie dal '96 al '99, e adesso con il regolamento ai sensi dell'art. 32 della finanziaria del '99, si tenta di mettere un po' d'ordine, ma in realtà in tema di dismissione ormai non si capisce più nulla. Ci si muove tra norme contraddittorie, tra procedure che si intersecano, tra discipline diverse a seconda che il bene appartenga agli enti previdenziali, al demanio dello Stato gestito dal ministero delle Finanze, al demanio affidato dal ministero delle Finanze al ministero per i Beni e le attività culturali, al demanio regionale, al demanio provinciale, al demanio degli enti locali, o che infine si tratti di beni di proprietà privata.
Ci troviamo di fronte a norme variamente richiamantisi, a procedimenti di natura diversa, ad un guazzabuglio fonte di non poca confusione, causato da spinte e controspinte che nascono tra logiche di cassa e logiche di tutela del patrimonio artistico, e che non potranno trovare una soluzione univoca e chiara fino a quando saranno trattate in una sede impropria e con le convulsioni tipiche delle manovre finanziarie di fine anno.
C'è un altro aspetto che voglio sottolineare, riprendendo uno spunto emerso dall'introduzione di Marco Cammelli, e che è rappresentato dalla collocazione del nuovo testo unico nel panorama della legislazione sui beni culturali. Forse è il momento di voltarsi un attimo indietro e fare una riflessione sul pesante lavoro svolto nei quattro anni appena trascorsi. Probabilmente, lo sforzo derivante dall'importanza delle modifiche, degli adeguamenti, delle razionalizzazioni ha reso concitato il lavoro. Probabilmente, a volte non si è ragionato per vasi comunicanti.
Veniva citato il problema della collocazione del testo unico nel quadro del regime delle autonomie territoriali, alla luce del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, ed al contempo nel contesto del riordino dell'amministrazione dello Stato e specificamente del ministero per i Beni e le attività culturali, delineato prima dal decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 e poi dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, nonché nell'orizzonte della compartecipazione delle forze private alla gestione del patrimonio culturale.
Sono convinto che il lavoro dei prossimi anni dovrà essere quello di mettere il testo unico in condizione di dialogare di più con le altre fonti normative. A volte si ha l'impressione di una visione delle cose non sempre identica tra il d.lg. 112/1998 e il d.lg. 490/1999, dovuta senz'altro ai vincoli propri della redazione di un testo unico, oltre che alla nota vicenda della stesura in parallelo dei due testi. Mi riferisco anche, ma non esclusivamente, alla parte definitoria, dato che il d.lg. 112/1998 si era assunto l'arduo compito arduo di definire le macro-funzioni sui beni culturali. In tema di valorizzazione, ad esempio, è chiaro che il testo unico ha fatto una scelta ben precisa, comprensibile e secondo me esatta, nell'ottica della "codificazione": la scelta di costruire un concetto di valorizzazione sulla base del materiale normativo esistente, che nelle sue punte più ardite arrivava ai servizi aggiuntivi della legge Ronchey.
Invece credo, e un altro commentario a cui pure ha partecipato Marco Cammelli lo ha messo in risalto, che il concetto di valorizzazione contenuto nel d.lg. 112/1998 sia qualche cosa di più della semplice ricognizione dei metodi di fruizione dei beni culturali sulla base della normativa esistente. Inoltre mi riferisco alla filosofia di fondo dell'intervento. Certo non si può chiedere al testo unico di articolare il riparto di competenze tra Stato e autonomie territoriali, la cui disciplina non è propria di tale fonte.
Ecco, questi sono forse concetti sui quali, con un dialogo più serrato tra le disposizioni del d.lg. 112/1998 e quelle del d.lg. 490/1999 - che non era possibile ieri perché si doveva redigere il testo unico, ma che sicuramente è possibile oggi che il testo unico esiste e deve dialogare con le altre fonti - forse può rendere più chiara una linea complessiva di intervento. Intendiamoci: sempre che la linea complessiva di intervento sia chiara allo stesso legislatore o comunque all'interprete, dato che sui concetti espressi dal d.lg. 112/1998, e in specie su cosa si intenda per decentramento nel campo dei beni e delle attività culturali, già tra Marco Cammelli e chi vi parla vi sono profondissime differenze di vedute.
Un'altra osservazione, che è relativa proprio al tema del decentramento, e che incrocia pure il tema dell'organizzazione del ministero. Colgo una frase, detta da Marco Cammelli, sulla quale siamo sicuramente d'accordo: non possiamo avere una politica di decentramento se non abbiamo una rivisitazione organizzativa - e, aggiungo io, rafforzativa - del centro. Non esiste decentramento senza un centro forte, poiché diversamente si è in presenza di una semplice forza centrifuga. Il dialogo, l'interazione, il coordinamento delle competenze tra Stato, regioni, enti locali, sono sicuramente obiettivi da perseguire. Ciò peraltro tenendo conto della legge 15 marzo 1997, n. 59, e in particolare del comma 3 dell'art. 1, a cui ogni tanto va rivolto un tributo: sappiamo tutti che la norma esclude la funzione di tutela dei beni culturali dal conferimento alle regioni ed agli enti locali; e come che sia è questa la legge da cui prendono le mosse il processo di conferimento e la riorganizzazione degli apparati dello Stato. Comunque, dicevo, senza una rivisitazione forte dell'amministrazione centrale dello Stato una politica di decentramento segna inevitabilmente il passo.
Analogamente non ci possono sfuggire taluni problemi ulteriori. Ad esempio, la l. 59/1997 è realmente "a costo zero"? E' possibile pensare ad un conferimento di funzioni e compiti se prima non si risolve il problema della riallocazione del personale, oltre che dei mezzi strumentali e finanziari? O invece prima si riallocano funzioni e compiti, e poi si pensa alla gestione delle strutture? Quest'ultima logica è quella propria della riforma del 1970: se andiamo a vedere la legge delega da cui ebbero origine i quattordici decreti legislativi delegati del 1972, troveremo che è ispirata esattamente alla riallocazione di funzioni e compiti prima che degli uomini e dei mezzi; e che anche in tal caso si presume che il tutto avvenga a risorse invariate, perché si ritiene - illuministicamente - se transita una funzione e, congiuntamente, transitano il personale e i mezzi, si sposta solo il centro di riferimento, ma i costi non possono lievitare. Ma il fatto vero è che se si passa dall'ufficio ministeriale alla regione Lazio il discorso funziona, e già non è impresa da poco, ma nel passaggio da Roma a Rieti il conferimento di funzioni si ferma. E allora vi è da pensare.
Sono convinto di aver inserito un elemento minimalista in una prospettiva di grande riforma. Tuttavia la mia esperienza di questi anni nell'amministrazione ministeriale mi sta convincendo che le grandi riforme spesso diventano legge, mentre le piccole riforme normalmente sono quelle che non si fanno, perché toccano più da vicino gli interessi in gioco.
Un'ulteriore osservazione. In uno scambio di battute prima dell'inizio dei lavori, un collega diceva, trovandomi perfettamente d'accordo, che il ministero per i Beni e le attività culturali oggi è forse l'unico che, istituzionalmente, incide sul diritto soggettivo di proprietà: in altri termini, ha il compito di intervenire sul diritto di proprietà, così come il ministero dell'Interno ha il compito di intervenire sui diritti di libertà. Aggiungo un'altra considerazione. Il ministero per i Beni e le attività culturali viene ad intersecare funzioni fondamentali attualmente attribuite alle autonomie territoriali. Dunque, il ministero dialoga non pacificamente con i soggetti "altri", diciamo i privati per semplificare; del pari, dialoga non pacificamente con le regioni e gli enti locali.
Il che pone dei problemi, anche relativamente al conferimento di funzioni, e relativamente al tema delle autonomie. Spesso, nell'affrontare le tematiche dei beni culturali, si estrapola una parte dal tutto. Questo accade anche in tema di autonomia degli organi periferici del ministero, mentre invece sarebbe necessario chiarirsi sul concetto di autonomia. La questione abbisognerebbe di approfondimenti molto più articolati, ma chiediamoci almeno questo: qual è l'idea che noi abbiamo delle funzioni che devono svolgere gli organi periferici del ministero, quando parliamo di autonomia? Perché, se il ministero deve incidere, oltre che sulla proprietà privata, sull'indirizzo politico-amministrativo di regioni ed enti locali, allora pare opportuna una riflessione sul quantum di autonomia che può essere conferito agli organi periferici di un'amministrazione dello Stato, laddove alla stessa amministrazione, in virtù di un malinteso principio di sussidiarietà, si contesta l'incidenza sulle funzioni - ad esempio, di programmazione del territorio - proprie del livello regionale e locale.
In questi anni si è fatta una riflessione profonda su quel che è funzione di indirizzo e su quel che è funzione gestionale. Anche alla luce di ciò, a che cosa ci riferiamo parlando di autonomia degli organi periferici? Al fatto che la funzione di indirizzo politico-amministrativo, spettante al ministro che ne risponde politicamente in parlamento, cessi di essere tale, e finisca col diventare appannaggio di un apparato amministrativo? Oppure al fatto che gli uffici decentrati svolgano compiti sostanzialmente di gestione e valorizzazione? Perché in quest'ultimo caso il discorso è diverso. Se pensiamo all'esempio più spinto di autonomia presente nella legislazione dei beni culturali, che è rappresentato dalla soprintendenza archeologica di Pompei, ci rendiamo conto che abbiamo un organo cui è stata sì conferita una certa sfera di autonomia, ma per l'esercizio di funzioni essenzialmente di conservazione, gestione, valorizzazione, e null'altro. Allora, la mia richiesta per il prossimo dibattito che si terrà sull'argomento è tra l'altro quella di abbandonare l'universalità di significato dei termini, di scavare nelle parole e ricostruire i concetti, perché anche quando parliamo di autonomia degli organi periferici del ministero non possiamo tenere disgiunto questo tema da tutti i problemi che la nozione di autonomia pone.
Del resto siamo in presenza di un titolare dell'organo periferico dotato di discrezionalità tecnica ma non legittimato dalla diretta investitura popolare, come spesso molti sindaci o presidenti di provincia ci dicono, e questo è un problema. Ecco perché - giustamente - si è prospettato il riposizionamento della discrezionalità tecnica come discrezionalità amministrativa tout court, ed è una suggestione che riprendo senz'altro.
Concludo. Abbiamo un lavoro impegnativo davanti a noi, per i prossimi anni. Abbiamo la necessità di adeguare questo testo alle nuove disposizioni normative, dandogli una capacità di dialogo con altre fonti, dal d.lg. 112/1998, al d.lg. 368/1998, al d.lg. 300/1999, a quello che sarà il nuovo regolamento di organizzazione del ministero. Abbiamo però bisogno anche di un'altra cosa, in una prospettiva più ampia: del fatto che questo decreto, più che un testo unico onnicomprensivo sulla legislazione relativa ai beni culturali, diventi un testo unico delle funzioni in materia di beni culturali. Ricordiamo che oggi sono attribuite al ministero funzioni molto più vaste di quelle ad riconosciute nel passato: pensiamo alle competenze in materia di spettacolo e di attività culturali ampiamente intese. Competenze che hanno ampiamente diritto di entrare in una versione aggiornata del testo unico, a disposizione degli operatori e degli studiosi. E che, per concludere con una battuta, diano lo spunto per una seconda edizione del commentario curato da Marco Cammelli.