Sommario: 1. Note introduttive. - 2. Mutamenti istituzionali e caratteri della disciplina contenuta in questo capo: una ancor più accentuata arretratezza. - 3. In particolare: il problema della riserva statale a fronte della libertà della scienza e del ruolo istituzionale delle università. - 4. Il regime previsto dalla norma in oggetto (i beni, il contenitore, il tipo di attività rilevante). - 5. I rapporti con il proprietario; l'indennizzo.
Il Capo V, che si apre con la norma in esame, contiene le disposizioni in materia di "ritrovamenti e scoperte". Si compone di sei articoli (da 85 a 90) e si occupa della ricerca dei beni culturali e della relativa concessione (artt. 85-86), della scoperta fortuita (art. 87), dell'appartenenza e qualificazione dei beni ritrovati (art. 88), del premio per i ritrovamenti (artt. 89 e 90). A questo Capo sono collegate altre norme, come, in particolare, l'art. 53 sulle aree archeologiche e l'art. 146 sulle zone di interesse archeologico, l'art. 93 sull'espropriazione "strumentale" a fini di ricerca archeologica e di ritrovamento di beni culturali, l'art. 124 sulle sanzioni, l'art. 132 sui poteri di reintegra.
La materia è inoltre regolata da altre disposizioni: innanzitutto, quanto al regime generale dei beni, dagli articoli 822 e 826 del codice civile.
Questo insieme di disposizioni riguarda anche, in mancanza di apposite norme, i ritrovamenti subacquei [1]. Quando si tratta di "relitti di mare", si debbono considerare gli artt. 510 e 511 del codice della navigazione.
Le disposizioni in oggetto prendono il posto degli artt. 43-50, anch'essi collocati in un Capo V, con intitolazione pressoché identica ("Disciplina dei ritrovamenti e delle scoperte"), della legge 1 giugno 1939, n. 1089, che aveva sostituito la legge 20 giugno 1909, n. 364 (artt. 15-19, per la parte che interessa), la quale aveva a sua volta abrogato l'originaria disciplina adottata con la legge 12 giugno 1902, n. 185.
Occorre infine tenere conto anche di norme secondarie. L'art. 12 del presente Testo Unico, riprendendo quanto già previsto dagli articoli 71 e 73 della l. 1089/1939, precisa che, fino al promesso nuovo regolamento, "restano in vigore, in quanto applicabili" (art. 73, comma 2), i regolamenti vigenti e in particolare il r.d. 30 gennaio 1913, n. 363 (regolamento di esecuzione della l. 364/1909), il quale giunge dunque al traguardo di un secondo "miracolo di reviviscenza giuridica" [2]. E il r.d. 363/1913, dedica a ritrovamenti e scoperte quarantacinque articoli (da 83 a 127), di cui peraltro si deve caso per caso verificare l'applicabilità, compresi nel Capo IV (Degli scavi e delle scoperte fortuite), suddivisi in cinque Sezioni (I - Dell'azione dello Stato in generale; II - Scavi governativi in fondi di proprietà di enti morali e di privati; III - Scavi per opera dei privati; IV - Delle scoperte fortuite; V - Disposizioni comuni alle sezioni precedenti; VI - Disposizioni generali).
Ma la pur sommaria elencazione della normativa rilevante non può finire qui. Qui ha termine il Testo Unico ma non il diritto (l'insieme dei principi e delle qualificazioni giuridiche) che, unitamente al Testo Unico, regola la materia.
L'attività di ricerca
archeologica e di beni culturali è (o può essere) anche attività
"di ricerca scientifica" (cioè attività per "finalità
di studio e di indagine sistematica finalizzata allo sviluppo delle conoscenze
scientifiche in uno specifico settore", secondo la definizione dell'art.
1, comma 2, lett. b), del decreto
legislativo 281/1999 sul trattamento dei dati personali per scopi storici,
statistici e di ricerca scientifica) e dunque comporta l'ingresso dei principi
e delle qualificazioni giuridiche che a tale fenomeno (l'attività di
ricerca scientifica) in generale si riferiscono. Questo aspetto non pare ancora
a sufficienza collocato al centro del problema ed è una situazione
paradossale: evidentemente, nella tradizione della normativa del settore in
esame ha prevalso finora l'appartenenza (la proprietà, sia pure pubblica)
sulla funzione (ricerca e fruizione) e dunque, in definitiva, la cosa sulla
cultura.
2. Mutamenti istituzionali e caratteri della disciplina contenuta in questo capo: una ancor più accentuata arretratezza
Con riferimento alla l. 1089/1939, si trovano valutazioni ben precise. "La legislazione del 1939-41 (l. 1089/1939 e artt. 822 e 826 cod. civ.) è ormai superata, se non perenta, e forse già era vecchia quando fu emanata"; l'incremento del mercato archeologico e il "gigantesco progresso tecnico nel campo della ricerca archeologica" hanno completamente trasformato la situazione presa in considerazione dalla l. 1089/1939 [3].
La "vetustà" della disciplina è sottolineata pure negli anni ottanta [4]. Si afferma la necessità di uscire da un'impostazione prevalentemente concepita come un rapporto fra due autorità (quella pubblica, con il potere autoritativo) e quella privata (i poteri del proprietario) per concentrare l'attenzione sull'attività volta al reperimento dei beni culturali e sulle sue molteplici caratteristiche organizzative (imprenditoriali e non), e si conclude con l'invito a trasformare il ritrovamento dei beni culturali da fine a mezzo di una strutturazione giuridica e istituzionale volta a valorizzare il bene culturale, fino al punto da riprendere [5] lo stesso interrogativo di un regime di appartenenza necessariamente pubblico: "è... importante stabilire che le cose archeologiche ritrovate sono non dello Stato ma a disposizione dello Stato [6].
Da altro lato, gli studiosi e gli operatori del settore segnalano le contraddizioni e l'impotenza delle politiche conservative e l'urgenza di trovare strumenti giuridici per una flessibile capacità di selezione e di governo delle attività di ricerca e di valorizzazione dei beni [7]. Infine, la legislazione di questi ultimi anni cerca di impiantare un nuovo sistema di intervento e di governo dei beni culturali, che faccia spazio a tecniche di programmazione (si pensi ai programmi di cui all'art. 3 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368) e che si apra alla collaborazione in primo luogo dei poteri pubblici regionali e territoriali locali competenti in materia di gestione del territorio e dell'ambiente (il che è conseguenza della stessa dilatazione della cosa qualificabile come bene di interesse archeologico e della sua disseminazione sull'intero territorio), nonché di altri soggetti pubblici e privati, con scopi di profitto e non: si vedano gli artt. 148 ss. del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, gli artt. 7 e 10 del d.lg. 368/1998 [8].
Nel quadro continua però a spiccare una sostanziale (e giuridicamente incomprensibile) assenza: quella di un'istituzione che parrebbe esserne un naturale protagonista, l'università. Invero, non può certo bastare la presenza di due rappresentanti designati dal ministero dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica nelle commissioni per i beni e le attività culturali previste dall'art. 154 del d.lg. 112/1998 a livello regionale. Sul punto si tornerà fra poco [9].
A fronte di quanto accennato, l'attuale Testo Unico (nella parte in esame) si colloca su un piano assolutamente arretrato. Le variazioni più significative riguardano la riorganizzazione del sistema della disciplina, con un diverso raggruppamento delle varie prescrizioni contenute nella l. 1089/1939, e la precisazione di alcuni aspetti specifici. Esso costituisce indubbiamente, secondo quanto voluto dalla delega (art. 1, comma 2, lett. b, legge 8 ottobre 1997, n. 352), una razionalizzazione e "semplificazione" del "diritto esistente" (come affermato nella relazione alla prima bozza di articolato del gennaio 1999) e contribuisce a risolvere alcuni problemi, recependo indirizzi giurisprudenziali da tempo consolidati, ma per i punti di maggiore rilievo riproduce uno schema e un linguaggio "datati". Infatti, come vedremo, ai (grossi) difetti già accennati (una disciplina impostata non in termini di attività ma di appartenenza; un regime dei compensi inutilmente premiale per il proprietario in quanto tale) altri se ne aggiungono, in conseguenza dell'ulteriore tempo trascorso [10].
Naturalmente, si potrebbe pensare che tutta questa premessa sia un fuor d'opera: la ristrettezza delle novità è imputabile ai rigidi vincoli imposti dalla delega (l. 352/1997).
Sia consentito dissentire. Alla fin fine, quando arriva il prodotto (nel caso il testo delegato), bisognerà pur dire qual è il risultato complessivo dell'intera operazione (delegante più delegato) e dunque, nel caso, si deve notare che si sta celebrando l'emanazione di un testo inadeguato. Che, poi, la responsabilità sia soprattutto del delegante, non è di grande conforto.
D'altra parte, la consapevolezza di quanto osservato è indispensabile anche per comprendere se si sarebbe potuto fare egualmente qualche cosa di più, quanto meno per un aggiornamento agli odierni (in parte) e prospettati (in altra parte) contesti normativi ed istituzionali.
Suggerimenti e proposte, del resto, non sono mancati. Nel corso della procedura di elaborazione del Testo Unico, la VII Commissione della Camera ha richiamato l'attenzione sulla valorizzazione del "rapporto, esistente in molti casi nei fatti, tra il ministero, le università e i centri di ricerca pubblici e privati, sia per quanto riguarda gli scavi archeologici, che per quanto concerne la ricerca in genere", e nello stesso senso si è espresso il Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali (risoluzione del 24 febbraio e 2 marzo 1999, punto 1.h e art. 80, su cui fra poco).
Comunque la vicenda non
è del tutto finita. Vi è da fare il regolamento (art. 12); è
un regolamento "esecutivo" e dunque lo spazio è sempre più
ridotto. Tuttavia, non bisogna trascurare, almeno per questo Capo V, che la
discrezionalità attribuita all'amministrazione è talmente ampia
che anche lo strumento del regolamento esecutivo può risultare utilissimo.
E, poi, ovviamente vi è la previsione dell'aggiornamento del Testo
Unico (art. 1, comma 4, l. 352/1997).
3. In particolare: il problema della riserva statale a fronte della libertà della scienza e del ruolo istituzionale delle università
L'art. 85 in esame corrisponde all'art. 43 l. 1089/1939 ma esprime in modo più netto e radicale il principio della riserva dell'attività di ricerca allo Stato. Un segno ulteriore si può trovare anche nell'art. 86, dove, diversamente da quanto previsto - almeno in via testuale - dalla normativa previgente, l'unico titolo che legittima altri soggetti all'esercizio dell'attività riservata è la "concessione".
La riserva si spiega comunemente con la prescrizione del regime di proprietà pubblica delle cose ritrovate (art. 88): in una logica dunque - come già detto - proprietaria. Il versante pubblico conferma che non riesce a inventare nulla di nuovo e di più specificamente adeguato ai compiti che il potere pubblico stesso deve assolvere.
Sotto il profilo della legittimità costituzionale, questa riserva è stata considerata in relazione alla libertà di iniziativa economica privata (art. 41). La Corte costituzionale (in riferimento all'art. 45 l. 1089/1939) si è pronunziata per la legittimità dell'assoggettamento dell'attività dei privati a concessione, fra l'altro aggiungendo che sarebbe legittima anche una "disciplina che precludesse qualsiasi iniziativa privata" [11].
In realtà, non è questo il profilo più importante, come risulta da quanto si è anticipato. Via via che si prende consapevolezza della struttura pluralista del nostro ordinamento e del rilievo giuridico da attribuire alla libertà della scienza e delle istituzioni di alta cultura [12], non si può ignorare il conflitto fra questa riserva e la sfera di quelle libertà. Il dato "nuovo" (nuovo nel senso di solo recentemente diffuso in modo generale) è proprio nell'acquisizione che la ricerca del bene culturale corrisponde di per sé e ad un autonomo interesse pubblico (la ricerca scientifica come tale), intestato sia ad un apparato ministeriale differente da quello di (questo) settore sia ad enti dotati di garanzia costituzionale (le università), nonché a specifiche situazioni e diritti di libertà (i ricercatori).
A riprova, il Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali aveva richiesto un inserimento organico delle istituzioni di ricerca, suggerendo di aggiungere al primo comma, dopo la parola "Stato", la frase seguente: "che li esercita attraverso le soprintendenze archeologiche o attraverso istituzioni con specifica competenza scientifica, ivi comprese le università, all'interno di programmi di ricerca pluriennali da definire su base territoriale con le relative soprintendenze"; e in un altro testo, c.d. "bozza Cammelli", si trova indicata la necessità di precisare che le limitazioni poste per ragioni di tutela non dovessero comunque "precludere l'esercizio effettivo della libertà di ricerca scientifica".
Proposte non accolte.
Ha prevalso una logica parziale. Come se il fenomeno di cui si tratta potesse
essere monopolio di certi apparati. Ma ciò non può essere: ai
beni culturali provvede la Repubblica, come prescrive l'art. 9 Cost., e dunque
provvede l'insieme delle diverse articolazioni in cui la Repubblica - secondo
la Costituzione - si suddivide. Un'occasione perduta, con l'aggravante del
conseguente affacciarsi di uno scenario di contenzioso anche in sede giurisdizionale.
Infatti, in ogni caso, il principio della libertà della scienza e della
ricerca nonché il ruolo costituzionale delle università impongono,
sul piano applicativo, interpretazioni e prassi che siano coerente esplicazione
di tali principi (vedi, in proposito, il numero seguente e sub art.
86). Se così non dovesse essere, sarebbe inevitabile reclamare l'intervento
dei giudici, compresa la Corte costituzionale.
4. Il regime previsto dalla norma in oggetto (i beni, il contenitore, il tipo di attività rilevante)
Il testo dell'art. 85
presenta alcune modifiche. Il tema centrale, anche ai fini delle misure sanzionatorie,
riguarda l'identificazione dell'attività da assoggettare alla norma.
L'esperienza precedente mette in rilievo che, al riguardo, i profili essenziali
sono i seguenti: quali i beni; quale il "contenitore" (dei beni);
quale il contenuto (dell'attività).
A) Beni
La norma parla di "ricerche archeologiche e, in genere, (di) opere per il ritrovamento di beni culturali indicati all'art. 2".
Un primo problema riguarda il rapporto fra "ricerche archeologiche" e, "in genere, opere per il ritrovamento di beni". Secondo quanto già emerso a proposito della disciplina precedente si tratta di fenomeni non necessariamente coincidenti cosicché rientrano nell'ambito di applicazione dell'art. 85 sia tutto ciò che è qualificabile come "ricerca archeologica" sia tutto ciò che è qualificabile come opera rivolta al ritrovamento di certi beni.
Un'altra notazione si
riferisce ai beni che vengono in rilievo. Nella formulazione originaria della
norma il rinvio non è ai beni di cui all'art. 2, ma "ai beni di
cui all'art. 2, comma 1, lett. a". Questa limitazione è stata
soppressa, in conformità al parere del Consiglio di Stato 11 marzo
1999 (sezione consultiva per gli atti normativi), dove si sottolineavano i
rischi derivanti da una simile delimitazione. Da aggiungere che l'attuale
più ampia versione corrisponde pienamente a quella usata quando si
disciplina l'appartenenza (art. 88).
B) Il "contenitore"
L'art. 826, comma 2, cod. civ. parla di beni ritrovati nel "sottosuolo", il che ha ad esempio indotto a ricostruire un diritto eminente dello Stato sul sottosuolo medesimo per meglio giustificare l'appartenenza dei beni [13].
Sotto altro e più importante aspetto, si è messo in evidenza [14] che i beni a cui si riferisce l'art. 85 si possono trovare anche in contenitori materiali diversi dal sottosuolo. Il punto è di rilievo, visto che incide sull'appartenenza: il regime previsto dall'art. 932 cod. civ. (tesoro) è infatti ben differente da quello previsto in materia (vedi art. 88).
Secondo le prospettazioni
preferibili, "sottosuolo" è da assumere in "senso lato",
comprensivo di costruzioni sopra il suolo: prevale "il fatto del ritrovamento
su quello del luogo di ritrovamento" [15].
Le nuove disposizioni, questo art. 85 ed il successivo art. 88 (come il precedente
art. 43 l. 1089/1939, in verità), non contengono la specificazione
"sottosuolo" e dunque parrebbero confermare la tesi ora esposta.
C) Quale il contenuto (dell'attività)
L'ultima serie di quesiti riguarda l'esigenza di una più precisa definizione dell'attività dal punto di vista non del suo orientamento finalistico (volta a ritrovare beni archeologici o altri beni indicati dall'articolo) ma delle sue caratteristiche di contenuto.
Inutile insistere sull'importanza dell'argomento, che la nuova disciplina ha invece sostanzialmente ignorato.
In materia, l'attività genericamente diretta al ritrovamento può consistere sia in una mera attività di studio sia in un'attività che comporta una manomissione del contenitore materiale in cui si presume che si trovi il bene oggetto della ricerca.
Ebbene, a che cosa si riferisce l'art. 85 quando prevede la riserva? In linea con la tradizione (ma anche per ragioni ulteriori) l'oggetto della riserva non può che essere riferito ad attività che comportino la manomissione del bene "contenitore" (alle "ricerche sul campo") e non anche riferito ad un'attività (di indagine, di studio, di ricerca, con le più diverse tecnologie) che non entri in contatto con il bene - contenitore. E ciò per le formule letterali usate (il termine "opere") e per la circostanza che il regolamento ripetutamente e continuamente parla di "scavi" (vedi artt. 83 ss.).
Ma l'argomento fondamentale
sta nella necessità di coordinare l'interpretazione della norma con
quei principi concernenti la libertà di studio e di ricerca di cui
sopra si è detto, i quali quanto meno inducono a restringere il campo
ad attività di scavo [16].
5. I rapporti con il proprietario; l'indennizzo
I commi 2 e 3 riguardano i rapporti con il proprietario. Si conferma la possibilità di utilizzare il decreto di occupazione per consentire lo svolgimento dell'attività di ricerca (che può giungere fino all'espropriazione, vedi art. 93). L'occupazione dovrà trovare ragione nella tutela di questo interesse pubblico e dovrà darne adeguata motivazione, aspetto che è oggetto di un frequente contenzioso; in particolare si dovrà rendere conto della "serietà di indizi e attendibilità dell'attività di ricerca" (Consiglio di Stato (VI), 7 novembre 1996, n. 1520), in specie quando si tratti di rinnovare una già disposta occupazione (Consiglio di Stato (VI), 6 febbraio 1981, n. 33).
Per l'indennizzo si rinvia alla legge 25 giugno 1865, n. 2359. Esso, da non confondere con il premio (art. 89) e perciò comunque rientrante nell'ambito della giurisdizione ordinaria [17], può essere versato in "natura". La previsione è identica alla norma precedente. Questa forma di adempimento è peraltro rimessa ad una richiesta da parte dell'interessato. Restano superati i dubbi concernenti il presupposto per l'indennizzo in natura: rimane confermato che i beni che possono essere lasciati al privato sono beni meritevoli di tutela (altrimenti - del resto - non opererebbe l'effetto dell'acquisizione allo Stato).
È invece da chiedersi quale sia la natura dell'atto con cui l'amministrazione prende posizione sulla richiesta del privato. Trattandosi di decidere sulla sorte di un bene rientrante nella proprietà oggettivamente pubblica pare difficile - in mancanza di espresse norme di segno contrario - non qualificare l'atto come espressione di discrezionalità amministrativa. Da un altro lato, è sicuro che la norma attribuisce specifica rilevanza all'interesse del proprietario (lo legittima a chiedere) e dunque costui è portatore di una situazione soggettiva tutelabile in giudizio nei limiti - naturalmente - dei profili di legittimità.
La circostanza che il bene possa essere trasferito solo su richiesta del privato e che l'amministrazione sia a vario titolo investita di poteri di intervento autoritativo su beni privati comportano la necessità di osservare precise regole di correttezza [18]. L'amministrazione deve indicare i limiti che in quel momento intende imporre: non pare corretto che possa cambiare la condizione giuridica del bene subito dopo il suo trasferimento al privato.
[1] Cfr. W. Cortese, I beni culturali e ambientali, Padova, 1999, 203; T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 1995, 3 ed., 545 e nota 5; A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Padova, 1993, 383 ss., con indicazioni bibliografiche; vedi anche N. Ajello, La ricerca archeologica nell'evoluzione del diritto del mare, in AA.VV., Ritrovamenti e scoperte di opere d'arte, Milano, 1989, 101 ss.
[2] Cfr. V. Panuccio, Musei e disciplina giuridica dei ritrovamenti di oggetti di interesse storico ed artistico: realtà e prospettive, in AA.VV., Ritrovamenti e scoperte cit., 9.
[3] M. S. Giannini, Disciplina della ricerca e della circolazione delle cose d'interesse archeologico, in AA.VV., Tecnica e diritto nei problemi della odierna archeologia, C.N.R., Roma, 1964, rispettivamente 234 e 249; e sulle lacune e difetti porta l'attenzione anche A. Sandulli, Parole d'introduzione al dibattito economico-giuridico, ivi, 210.
[4] Cfr. S. Alagna, Ritrovamento e scoperta di beni aventi valore culturale, in Contratto e impresa, 1986, 434 ss.
[5] S. Alagna, Ritrovamento cit., 447 e 471-472.
[6] M.S. Giannini, Disciplina cit., 252; e vedi anche, più in generale, M. Cammelli, Il federalismo alla prova: il caso dei beni culturali - Editoriale, in Le Istituzioni del Federalismo, 1997, 248-249; G. Corso, Relazione conclusiva, in L'istituzione del Ministero per i beni e le attività culturali nel quadro delle riforme amministrative, in Aedon, 1/1999.
[7] Cfr., per un recente quadro sintetico e incisivo, A. Ricci, I mali dell'abbondanza. Considerazioni impolitiche sui beni culturali, Roma, 1996.
[8] Sottolineano il rilievo delle anzidette novità A. Serra, Il regime dei beni culturali di proprietà pubblica, in Aedon, 2/1999; E. Bruti Liberati, Il Ministero fuori dal Ministero, in Aedon, 1/1999.
[9] Si vedano comunque i saggi e le osservazioni degli studiosi e operatori del settore raccolti in Annali dell'Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, L'università nel sistema della tutela dei beni archeologici, Roma, 1999, in specie le pagine 38-39, 54 e 56, 64, 74, 82, 95, 135, rispettivamente di R. Cantilena e G. Sassatelli, R.C. De Marinis, G.P. Brogiolo, M. Cordaro, A. Ricci, D. Manacorda, I. Berlingò.
[10] e del progressivo affermarsi, anche, della dimensione comunitaria: vedi, in generale, M. P. Chiti, Beni culturali, in M.P. Chiti, G. Greco, Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte speciale, I, Milano, 1997, 349 ss.
[11] Cfr. sentenza della Corte costituzionale 23 giugno 1964, n. 54, in Giur. Cost., 1964, 640.
[12] Su cui si rinvia a F. Merloni, Autonomie e libertà nel sistema della ricerca scientifica, Milano, 1990.
[13] Vedi M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Roma, 1952, 485.
[14] Vedi S. Alagna, Ritrovamento cit., 447-448.
[15] M.S. Giannini, Disciplina cit., 235 e 238; Cassazione penale, 27 marzo 1980, n. 4215, in Cass. pen., III; vedi però S. Alagna, Ritrovamento cit., 448-449 e 472; T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali cit., 544.
[16] Si veda ancora una volta il parere del Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali dove propone di sostituire, in questa norma e nella successiva, "ricerche archeologiche" con "scavi archeologici".
[17] Cassazione (sez. un.), 17 marzo 1989, n. 1347, in Giust. civ., 1991, I, 313.
[18] Vedi le prescrizioni di cui agli arrtt. 97 e 98 regolamento 363/1913.