Tutela del patrimonio culturale
I beni culturali pubblici e la disciplina giuridica di riferimento [*]
di Nicola Aicardi [**]
Sommario: 1. I beni culturali pubblici: regime di proprietà pubblica non necessaria e profili di specialità della disciplina rispetto a quella dettata per i beni culturali privati. - 2. Peculiari norme e procedimenti per l’individuazione dei beni culturali pubblici. - 3. Comunanza di disciplina con i beni culturali privati relativamente alle misure di protezione e di conservazione (ivi compreso il divieto di uscita dal territorio nazionale). - 4. Ragioni e contenuti dei limiti alla circolazione giuridica stabiliti per i (soli) beni culturali pubblici. - 5. Principio di destinazione dei beni culturali pubblici alla fruizione collettiva e relative regole.
Il contributo riflette sui beni culturali pubblici e sulla disciplina di riferimento, approfondendo il regime di proprietà pubblica non necessaria, così come i profili di specialità della disciplina rispetto a quella prevista per i beni culturali privati. Il lavoro esamina pertanto il procedimento di individuazione dei beni culturali pubblici ed i profili di comunanza con la disciplina dei beni culturali privati in tema di protezione e conservazione e le ragioni dei limiti alla circolazione previsti per i beni culturali pubblici.
Parole chiave: beni culturali pubblici; proprietà pubblica; circolazione giuridica.
Public cultural heritage and the relevant legal framework
The contribution reflects on public cultural heritage and the relevant regulations, examining in depth the regime of unnecessary public ownership, as well as the specific features of the regulations compared to those applicable to private cultural heritage. The work therefore examines the process of identifying public cultural heritage and the similarities with the regulations governing private cultural heritage in terms of protection and conservation, as well as the reasons for the restrictions on the circulation of public cultural heritage.
Keywords: public cultural heritage; public property; legal circulation.
1. I beni culturali pubblici: regime di proprietà pubblica non necessaria e profili di specialità della disciplina rispetto a quella dettata per i beni culturali privati
Nel nostro ordinamento giuridico non vige un principio di necessaria proprietà pubblica dei beni culturali; vi sono soltanto, come si dirà, alcuni strumenti privilegiati di acquisto dei beni culturali al patrimonio pubblico. I beni culturali, pertanto, possono essere, indifferentemente, di proprietà pubblica o privata.
Del resto, data la consistenza del patrimonio culturale italiano, una sua integrale pubblicizzazione sarebbe operazione del tutto impensabile e neppure giustificata. Solo agli albori dello Stato unitario si ebbe un’ampia vicenda di apprensione pubblica di beni di proprietà privata, molti dei quali di interesse culturale anche molto rilevante, in esito alle c.d. “leggi eversive”, le quali imposero la soppressione di larga parte degli enti religiosi allora esistenti e la devoluzione dei loro beni al demanio dello Stato [1].
All’indicata regola di indifferenza proprietaria fanno eccezione, come è noto, solo i beni culturali “da chiunque o in qualunque modo ritovat[i] nel sottosuolo o sui fondali marini”, la cui proprietà è riservata allo Stato [2]: così l’art. 91, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 e s.m.i. (di seguito il “codice”).
Peraltro, questa riserva originaria di proprietà non dipende da un’intrinseca incompatibilità dell’appartenenza privata delle tipologie di beni culturali ora indicate, tant’è vero che, come si dirà, il codice, in certi casi, ne ammette l’alienazione; essa si giustifica, piuttosto, per ragioni di tipo scientifico, perché il divieto di apprensione dei beni in questione da parte degli scopritori consente allo Stato - e per esso all’amministrazione di settore, ossia il ministero oggi denominato della Cultura [3] (di seguito “ministero”), al quale vanno resi noti tutti i ritrovamenti e le scoperte, anche fortuite - di disporre di informazioni, utili a ricostruire la storia della nostra civiltà, che altrimenti potrebbero andare perse [4].
La riserva originaria di proprietà risponde, pertanto, al medesimo scopo della riserva allo Stato dell’attività di ricerca archeologica (esercitabile solo dal ministero o da terzi su concessione del ministero) e dell’obbligo di denuncia delle scoperte fortuite (cfr. artt. 88-90 del codice): e cioè lo scopo di assicurare al ministero, a fini di interesse generale, il controllo totale di ogni rinvenimento di materiale archeologico. Si consideri, infatti, che in virtù della riserva originaria di proprietà, la lotta agli scavi clandestini dispone anche di strumenti quali la contestazione del reato di furto di beni culturali, che include anche la fattispecie di chi “si impossessa di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini” (cfr. art. 518-bis, comma primo, cod. pen.), e, sotto il profilo civilistico, la presunzione, salvo prova contraria, della proprietà statale di reperti archeologici in possesso di privati [5].
Ferma dunque restando l’insussistenza di una riserva di proprietà pubblica sui beni culturali (fatti salvi, come si è appena detto, quelli ritrovati nel sottosuolo o sui fondali marini), quando i beni culturali appartengono, come molto frequentemente accade, allo Stato o ad altro ente pubblico - e cioè si tratta di beni culturali pubblici - essi sono fatti oggetto di una disciplina differenziata da parte del codice, la quale si discosta per vari aspetti, talora anche sensibilmente, da quella valida per i beni culturali di proprietà privata.
Come sarà illustrato nei paragrafi che seguono, per i beni culturali pubblici il codice pone, anzitutto, peculiari regole di individuazione (cfr. infra § 2) e quindi detta, per i beni così individuati, regimi giuridici specifici soprattutto in tema di (limitazione della loro) circolazione giuridica (cfr. infra § 4) e di (promozione della loro) fruizione da parte del pubblico (cfr. infra § 5); è invece sostanzialmente equiparata, per i beni culturali pubblici e privati, la disciplina in tema di protezione e di conservazione, ivi comprese le norme in tema di circolazione fisica verso l’estero (cfr. infra § 3).
Merita segnalare, in via incidentale, che le speciali regole di individuazione dei beni culturali pubblici e i conseguenti speciali regimi giuridici, soprattutto in tema di limitazione della loro circolazione giuridica, sono estesi dal codice, in larga parte, anche ai beni culturali di proprietà delle persone giuridiche private senza fine di lucro. Dunque, queste figure soggettive, in ragione delle finalità non lucrative che perseguono, vengono per buona parte assimilate dal codice agli enti pubblici; ciò nel presupposto che il tratto che le accomuna a questi ultimi - e cioè il perseguimento di fini non “individualistici” - consente il tendenziale assoggettamento dei loro beni culturali allo statuto della proprietà pubblica, il quale, come si è detto, è complessivamente più rigoroso di quello dettato dal codice per i beni culturali di proprietà privata in senso stretto, ossia per i beni di proprietà di persone fisiche o di persone giuridiche private con fine di lucro.
Di seguito, pertanto, ogni riferimento che sarà fatto ai beni culturali di proprietà privata va inteso - salvo diversa indicazione - solo a quest’ultima tipologia di beni, e cioè i beni culturali privati “in senso stretto”. Come si vedrà, anche sui beni culturali pubblici il codice assegna ampie funzioni di tutela al ministero.
La natura pubblica degli enti proprietari, ivi compresi gli enti esponenziali delle autonomie territoriali, non sottrae, quindi, i loro beni culturali ai poteri amministrativi dello specifico apparato dello Stato preposto alla materia, il quale resta investito in via esclusiva, mediate i propri appartati centrali e periferici, non solo dell’indirizzo politico-amministrativo, ma anche dell’esercizio di tutte le funzioni puntuali di tutela dei beni culturali, indifferentemente pubblici e privati; questo a garanzia del rigore tecnico e della piena imparzialità e uniformità delle valutazioni e delle conseguenti decisioni da assumere.
Gli enti pubblici, anche autonomi, relativamente al loro patrimonio culturale, sono di conseguenza destinatari, al pari dei privati, dell’azione amministrativa del ministero. Essi sono cioè, a tutti gli effetti, degli “amministrati”, titolari di situazioni di interesse legittimo, e non dispongono di facoltà di autogoverno della tutela dei beni culturali di loro appartenenza; peraltro, come si dirà, per taluni profili il codice incentiva, sui beni culturali degli enti pubblici, i modi consensuali di esercizio dei poteri ministeriali di tutela.
Ovviamente, i poteri del ministero, qualora abbiano ad oggetto i beni culturali pubblici in consegna al ministero medesimo, non possono essere esercitati per il tramite di formali provvedimenti amministrativi; ciò per l’evidente ragione che il ministero non può rilasciare assensi o imporre obblighi a sé stesso, dato che i provvedimenti amministrativi devono necessariamente avere per destinatari figure soggettive in posizione di alterità rispetto all’autorità che li emana. Il ministero, pertanto, adotta con semplici atti gestionali interni le misure relative ai beni culturali che ha in consegna, nel rispetto delle esigenze di tutela e di valorizzazione di cui lo stesso è istituzionalmente responsabile.
Sono invece sottoposti, a tutti gli effetti, ai poteri del ministero, esercitati per il tramite di formali provvedimenti amministrativi, i beni culturali di proprietà statale in consegna o in uso ad amministrazioni o soggetti diversi dal ministero. Quest’ultimo aspetto è reso esplicito dall’art. 4 del codice, il quale stabilisce, al comma 2, che il ministero “esercita le funzioni di tutela sui beni culturali di appartenenza statale anche se in consegna o in uso ad amministrazioni o soggetti diversi dal Ministero”; la norma poggia sul presupposto che le singole amministrazioni dello Stato sono dotate di legittimazione separata, anche sostanziale, sicché è da ammettersi che il ministero esplichi, mediante atti formali, poteri amministrativi incidenti sulla loro sfera [6].
2. Peculiari norme e procedimenti per l’individuazione dei beni culturali pubblici
2.1. Per i beni culturali pubblici, il codice, come si è detto, pone in primo luogo le regole di individuazione, e cioè le regole volte a stabilire quali beni pubblici abbiano interesse culturale e, conseguentemente, vadano assoggettati allo speciale regime giuridico per essi dettato dal codice stesso.
Rispetto ai beni di proprietà privata, per i quali l’assoggettamento alle norme stabilite dal codice può conseguire, come è noto, solo a uno specifico provvedimento, assunto dal ministero, di dichiarazione del loro interesse culturale particolarmente importante (cfr. art. 10, comma 3, lett. a), b) e c), del codice), per i beni pubblici l’individuazione come beni culturali avviene - salvo alcuni casi limitati, di cui si dirà, in cui occorre la dichiarazione - in base a una qualificazione che, per un primo gruppo di beni, è stabilita direttamente per legge, mentre per i restanti beni è affidata a una presunzione legale relativa di sussistenza dell’interesse culturale, verificabile attraverso un apposito procedimento (di “verifica”, appunto) di competenza del ministero.
La non necessità di specifici atti di accertamento per assoggettare i beni pubblici alla disciplina dei beni culturali si giustifica, anzitutto e principalmente, per la natura pubblica degli enti proprietari, e quindi per l’assenza di un dovere di motivazione puntuale del sacrificio imposto al loro diritto di proprietà; dovere che invece senz’altro sussiste, anche ai sensi dell’art. 42, comma secondo, Cost., per i beni di proprietà privata.
In secondo luogo, viene data per presupposta una naturale propensione di ogni ente pubblico alla corretta conservazione del proprio patrimonio culturale, e cioè una spontanea convergenza verso gli obiettivi di tutela perseguiti dal ministero anche a prescindere dalla declaratoria del valore culturale dei singoli cespiti che lo compongono. D’altra parte, il dovere di tutti i soggetti appartenenti alla sfera pubblica (la “Repubblica”) di assicurare la tutela del patrimonio storico-artistico - e quindi, in primo luogo, dei beni culturali di loro appartenenza, anche senza la mediazione di atti espressi di accertamento del relativo interesse - trova fondamento immediato e diretto già nell’art. 9, comma secondo, Cost., oltre a essere confermato dal codice fin dalle sue disposizioni di apertura [7], ed è comunque insito nella natura di tali soggetti di entità che agiscono per il perseguimento di finalità di interesse generale (e non privatistico-lucrative).
Infine, sotto il profilo pratico, non va tralasciato che la vastità del numero dei beni culturali, immobili e mobili, di proprietà pubblica, renderebbe immane qualsiasi operazione di dichiarazione uno a uno, con atto amministrativo, del loro interesse culturale.
2.2. Del primo dei suindicati gruppi di beni culturali pubblici fanno parte, ai sensi dell’art. 10, comma 2, del codice, “le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi” pubblici, “gli archivi e i singoli documenti” pubblici e le “raccolte librarie” delle biblioteche pubbliche [8].
I beni appartenenti alle tipologie ora indicate sono qualificati come beni culturali direttamente dal citato art. 10, comma 2 [9]; tuttavia - eccezion fatta per i documenti, che la norma qualifica come beni culturali dal momento stesso della loro venuta a esistenza e in ragione della loro obiettiva natura - per gli altri beni di questo gruppo si può parlare solo descrittivamente di qualificazione ex lege come beni culturali, perché in realtà la norma si limita a rinviare alle decisioni assunte dagli enti pubblici proprietari, che ne hanno già apprezzato l’interesse culturale al momento del loro inserimento nella raccolta museale, archivistica o libraria.
Peraltro, una volta che tali beni siano stati inseriti nella raccolta, i medesimi enti pubblici proprietari non possono autonomamente revocare l’apprezzamento del loro interesse culturale al fine di escluderli dalla raccolta stessa; infatti, l’esclusione costituisce, ai sensi del codice, atto di “smembramento di ... raccolte” o atto di “scarto” di “documenti degli archivi pubblici” o di “materiale bibliografico delle biblioteche pubbliche” ed è perciò subordinato all’autorizzazione del ministero, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. c) e d), del codice.
La qualificazione come beni culturali dei documenti pubblici e dei beni inclusi nelle raccolte museali, archivistiche e librarie vale anche per i beni di autore vivente o di esecuzione posteriore al settantennio: infatti, l’esonero dalla disciplina di tutela per i beni culturali pubblici “che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni”, ai sensi dell’art. 10, comma 5, del codice, opera solo per i beni pubblici soggetti al procedimento di verifica, ma non per quelli di cui ora si tratta [10].
2.3. Nel gruppo dei restanti beni sono invece compresi - ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 12 con il comma 1 dell’art. 10 del codice - tutti i beni immobili degli enti pubblici e i loro beni mobili diversi da quelli inclusi nel primo gruppo (e cioè diversi dai documenti e dai beni inseriti nelle raccolte museali, archivistiche e librarie), purché siano eseguiti da oltre settant’anni [11] e siano opera di autore non più vivente [12].
Questa doppia condizione - e cioè l’esecuzione ultra settantennale e la morte dell’autore (sempre che si tratti di beni attribuibili a un autore noto) - è stabilita dall’art. 12, comma 1, del codice a conferma di quanto previsto, in termini più generali, dal già citato art. 10, comma 5, del codice, che la pone come presupposto per l’assoggettamento a tutela di tutti i beni, sia pubblici sia privati, che abbiano un interesse culturale di tipo storico-artistico intrinseco [13].
Ciò si giustifica, da un lato, perché il valore storico-artistico, per poter essere considerato tale, almeno ai fini della tutela, deve risultare sedimentato, e quindi deve essere storicizzato e non essere il frutto di una tendenza del gusto che potrebbe anche non sopravvivere al giudizio del tempo [14]; dall’altro lato, perché in presenza di un autore vivente, l’immediata sottoposizione delle sue opere a forme di tutela vincolistica (anche nel caso delle committenze pubbliche) determinerebbe, in capo al medesimo, un’ingiustificata compressione di diritti costituzionalmente garantiti, come la libertà di lavoro ex art. 4 Cost. e la stessa libertà dell’arte ex art. 33, comma primo, Cost.: infatti, la tutela finirebbe per provocare una forte alterazione del mercato delle opere dell’autore in questione, che ne condizionerebbe la libertà espressiva oltre che la legittima aspirazione a trarre il giusto riconoscimento (anche economico) dal proprio lavoro [15].
Per il vasto (e multiforme) insieme di beni pubblici ora indicati il codice pone una presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale collegata al semplice dato oggettivo dell’età (fatti salvi i beni che, pur avendo raggiunto tale età, siano attribuibili a un autore vivente).
Questa presunzione, tuttavia, essendo affidata a un dato che non necessariamente connota l’interesse suddetto (potendosi trattare anche di cose soltanto “vecchie”, ma prive di ogni valenza culturale), è meramente relativa e può essere superata, ma unicamente all’esito negativo di un apposito procedimento di verifica della sussistenza effettiva e concreta dell’interesse culturale di competenza del ministero [16].
In sostanza, per i beni pubblici di cui ora si tratta, l’attività amministrativa di accertamento dell’interesse culturale di competenza del ministero è necessariamente richiesta dalla legge non quale presupposto per la loro sottoposizione a tutela (a differenza di quanto accade per i beni culturali tutelabili solo previa dichiarazione), ma quale condizione per eventualmente fare uscire i beni medesimi dall’orbita della tutela, in caso di esito negativo dell’accertamento.
Inoltre, a differenza di quanto occorre per le dichiarazioni ex art. 10, comma 3, del codice, che riguardano, come si è detto, eminentemente i beni culturali di proprietà privata, l’interesse richiesto ai fini della concreta verifica positiva del valore culturale dei beni pubblici è un interesse c.d. semplice o “senza aggettivazioni” [17] [18]. In sede di verifica, il ministero non è tenuto, cioè, a motivare la sussistenza di un interesse che si qualifichi come “particolarmente importante” o “eccezionale”, così come occorre ai sensi del citato art. 10, comma 3, lett. a), b) e c). Ancora una volta, questa differenza di regime si spiega per il fatto che - mentre in presenza di beni culturali appartenenti a privati il sacrificio del loro diritto di proprietà (privata) può trovare giustificazione, in un’ottica costituzionalmente orientata, solo in presenza di interessi pubblici particolarmente qualificati - per i beni pubblici questa esigenza non si pone.
Peraltro, sebbene per i beni pubblici sia sufficiente l’interesse culturale semplice, la non veridicità della presunzione di sussistenza di tale interesse è ragionevolmente prevedibile per una vastissima serie di beni pubblici ictu oculi privi di ogni caratteristica di pregio, malgrado l’età (e la morte dell’autore, se noto); ciò nonostante la presunzione può essere superata unicamente attraverso il procedimento di verifica, il che può comportare un dispendio eccessivo di mezzi, sia per l’amministrazione procedente sia per gli interessati.
Ciò è particolarmente vero nel campo degli immobili, specialmente dal momento (ormai prossimo) in cui risulterà temporalmente attratta all’orbita della tutela l’edilizia realizzata dal secondo dopoguerra, la quale costituisce la stragrande maggioranza del patrimonio immobiliare esistente nel nostro Paese [19]. Poiché non pochi di questi immobili appartengono a enti pubblici, è evidente che questo rischia di provocare un assoggettamento indiscriminato al regime di tutela di un’enorme massa di beni, della quale tutto si può dire, fuorché si tratti, indistintamente, di cose di interesse culturale.
Il problema, nel 2011, era stato soltanto differito dal legislatore, che aveva modificato il codice stabilendo, per gli immobili pubblici, la presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale al compimento del settantennio (e non più del cinquantennio, come invece era rimasto fissato per i beni mobili) [20]; oggi, tuttavia, a distanza di un quasi quindicennio, il problema sta per riproporsi.
La soluzione del problema potrebbe passare per la limitazione della presunzione di sussistenza dell’interesse culturale ai soli immobili pubblici realizzati prima di una data fissa (ad esempio, l’anno 1945), fatta salva la possibilità di dichiarazione espressa dell’interesse culturale, da parte del ministero, anche per singoli immobili di esecuzione successiva.
In ogni caso, si potrebbe quanto meno prevedere che i competenti organi del ministero, a fronte di richieste di verifica relative a beni di cui difetti in modo evidente l’interesse culturale, possano pronunciarsi in via immediata, a seguito di un accertamento meramente sommario. Ciò, magari, anche sulla scorta di “indirizzi di carattere generale”, assunti dal ministero ai sensi dell’art. 12, comma 2, del codice, con i quali siano individuate categorie astratte di beni, che, per le loro caratteristiche oggettive, possano ragionevolmente supporsi prive di ogni interesse culturale [21].
Sotto l’aspetto procedimentale, la verifica può essere disposta d’ufficio dal ministero o su istanza dell’ente pubblico proprietario del bene (così l’art. 12, comma 2, del codice).
La verifica d’ufficio non è ritenere, tuttavia, un presupposto giuridicamente necessario per l’esercizio, da parte del ministero, dei propri poteri di tutela sui beni culturali pubblici, atteso che, come appena illustrato, l’assoggettamento di questi beni al regime di tutela avviene direttamente in virtù della suddetta presunzione legale [22]. La verifica d’ufficio si pone, pertanto, come mera facoltà del ministero, cui verrà dato corso - si suppone - eminentemente nei casi in cui l’amministrazione stimi di poter giungere a un esito positivo riguardo alla sussistenza effettiva dell’interesse culturale, ma, allo stesso tempo, detto interesse risulti dubbio o, comunque, opinabile. In tali casi, difatti, può essere opportuno confermare espressamente la presunzione legale per evitare ogni possibile incertezza sull’operare del regime di tutela. Appare invece privo di immediate utilità pratiche l’avvio d’ufficio del procedimento di verifica in altre circostanze: ossia con riguardo a beni sforniti di effettivo interesse culturale (per i quali il procedimento sarebbe destinato a concludersi con una verifica negativa) ovvero, all’opposto, con riguardo a beni il cui valore culturale sia conclamato e indiscutibile.
Per quanto riguarda, invece, la verifica a iniziativa di parte, l’interesse pratico dell’ente pubblico proprietario all’avvio del relativo procedimento è da ritenere sussistente in relazione all’obiettivo - opposto - di sottrarre il bene alla tutela. Per tale ente, infatti, la verifica ha un rilievo giuridico concreto solo quando abbia esito negativo, perché in tal caso l’atto ha l’effetto di mutare il regime giuridico del bene negativamente verificato. La verifica positiva, invece, non si risolve altro che nella conferma espressa di un regime già comunque applicabile ex lege in virtù della suindicata presunzione legale. Per tali ragioni, è da ritenere che le verifiche a iniziativa di parte vengano domandate, perlopiù, su beni di cui gli enti pubblici proprietari ragionevolmente assumano insussistente, o quanto meno dubbio, il valore culturale, nell’auspicio che i relativi procedimenti si concludano con atti di verifica negativa, tali da affrancare i beni in questione dai vincoli del regime di tutela. Invece, laddove gli stessi enti pubblici proprietari siano già pienamente consapevoli del valore culturale dei beni di loro appartenenza, manca ogni interesse pratico a richiedere la verifica esplicita di detto valore.
Se il procedimento si conclude con la verifica negativa, questa rappresenta la prova contraria che smentisce la presunzione legale (relativa) di sussistenza dell’interesse culturale del bene pubblico negativamente verificato. Dunque, a seguito della verifica negativa, il bene va considerato, a ogni effetto, come bene non culturale e ad esso conseguentemente cessa di applicarsi il regime dei beni culturali, così come chiaramente dispone il comma 4 dell’art. 12 del codice [23].
La sottrazione al regime di tutela è da ritenere a effetto retroattivo, dal momento che la verifica negativa non solo fa cessare l’efficacia della presunzione legale, ma costituisce altresì prova della non veridicità di quanto sino a quel momento legalmente presunto, ossia della sussistenza dell’interesse culturale: l’applicazione, anche per il passato, del regime di tutela risulterebbe, perciò, priva di fondamento giuridico [24].
Se invece la verifica è positiva, essa costituisce atto amministrativo espresso di conferma della presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale del bene pubblico positivamente verificato. A seguito della verifica positiva, l’interesse culturale del bene pubblico non è più, cioè, soltanto legalmente presunto, ma effettivamente accertato, di talché non è più ammessa alcuna prova contraria su richiesta dell’ente pubblico interessato. Per tale ragione, l’art. 12 del codice, al comma 7, equipara la verifica positiva alla dichiarazione di cui al successivo art. 13: ossia a un atto di accertamento avente l’effetto costitutivo dell’applicazione del regime di tutela a tempo indeterminato (“definitivamente”, dice la norma in analisi), salvo eventuale revoca adottabile, tuttavia, unicamente dal ministero d’ufficio (nel senso che un’eventuale richiesta di avvio del procedimento di revoca da parte dell’ente pubblico proprietario del bene non determinerebbe comunque, secondo i princìpi, alcun obbligo di procedere in capo all’amministrazione).
Sempre in analogia alla dichiarazione ex art. 13, il medesimo comma 7 richiede, infine, la trascrizione dell’atto di verifica positiva sugli immobili nei registri immobiliari [25].
2.4. Per la sottoposizione a tutela di alcune particolari tipologie di beni culturali pubblici, il codice, in via derogatoria, richiede invece lo specifico provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale.
Dispone in questo senso l’art. 10, comma 3, del codice, rispettivamente all’alinea e alle lett. d), d-bis) ed e), a mente delle quali la dichiarazione ex art. 13 del codice occorre ai fini dell’individuazione come beni culturali dei beni, “a chiunque appartenenti”, e quindi anche di proprietà pubblica, che, alternativamente:
- rivestano un interesse particolarmente importante di tipo “relazionale” (ossia “a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere”) o “identitario” (e cioè “quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”) [26];
- presentino “un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione”, purché - come già si è accennato - siano opera di autore non vivente o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquant’anni (così il comma 5 del medesimo art. 10);
- siano da tutelare come universalità di beni in quanto costituenti “collezioni o serie di oggetti ... che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica, rivestano un eccezionale interesse”.
Dai beni del terzo tipo sono ovviamente escluse - come opportunamente esplicita l’art. 10, comma 3, lett. e), ora in esame - le raccolte pubbliche museali, archivistiche e librarie, perché già tutelate ex lege ai sensi dell’art. 10, comma 2, del codice, di cui sopra si è detto; questa disposizione, dunque, può riguardare, nel caso dei beni pubblici, solo collezioni o serie di oggetti non (ancora) ordinate in raccolta.
Nei casi ora indicati, l’individuazione previa dichiarazione anche per i beni pubblici si giustifica per l’impossibilità di ravvisare, altrimenti che con un atto puntuale di accertamento, sia l’interesse culturale di tipo non intrinseco, ma “relazionale” o “identitario”, sia l’eccezionalità dell’interesse per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione (che consente di sottoporre a tutela beni anche al compimento del cinquantennio dall’esecuzione, sempre che non attribuibili a autore vivente), sia il nesso di unitarietà che lega i beni appartenenti alla collezione o serie di oggetti.
3. Comunanza di disciplina con i beni culturali privati relativamente alle misure di protezione e di conservazione (ivi compreso il divieto di uscita dal territorio nazionale)
Il regime dei beni culturali comporta, anzitutto, l’assoggettamento degli stessi alle misure di protezione e di conservazione stabilite dal codice.
Le misure di protezione si sostanziano nella previsione legislativa, in capo ai proprietari dei beni culturali (o agli eventuali terzi detentori), di limiti in negativo - e cioè di divieti assoluti o, più spesso, rimuovibili con autorizzazione del ministero - alle facoltà di godimento materiale dei beni medesimi (uso, modificazione fisica, spostamento temporaneo o definitivo, smembramento, scarto ecc.), a difesa del loro valore culturale, e nella correlata previsione di poteri inibitori e sanzionatori in capo al ministero in caso di violazione dei limiti suddetti. Con le misure di conservazione, invece, sono imposti ai predetti proprietari (o terzi detentori), a garanzia della sicurezza o della conservazione in positivo dei beni culturali, obblighi di facere o di pati, che discendono dalla legge o, in caso di inadempienza, da provvedimenti c.d. “coattivi” del ministero (restauro coattivo, custodia coattiva).
Sono da considerare, a tutti gli effetti, misure di protezione anche le norme che regolano l’uscita dei beni culturali dal territorio nazionale: queste norme, infatti, non attengono ad atti di disposizione giuridica dei beni in questione in favore di soggetti stabiliti all’estero, ma unicamente allo spostamento fisico (materiale) di tali beni (ovviamente se mobili) al di fuori dei confini nazionali [27].
In materia di protezione e conservazione, tutti i beni individuati come culturali, di proprietà sia pubblica sia privata, sono soggetti - salvo talune differenze marginali - al medesimo regime.
Anzi, vi sono alcune disposizioni del codice che introducono elementi di maggiore flessibilità di disciplina per i beni culturali pubblici rispetto a quelli privati: si tratta delle norme (artt. 24 e 40 del codice) che solo per i primi espressamente consentono (ed anzi, nell’ipotesi dell’art. 40, richiedono, “salvo i casi di assoluta urgenza”) l’esercizio dei poteri del ministero a mezzo di accordi sostitutivi di provvedimenti, evidentemente al fine di favorire le relazioni collaborative tra i diversi livelli istituzionali [28].
Anche in materia di uscita dei beni culturali dal territorio nazionale il regime è, nella sostanza, coincidente: infatti, per tutti i beni culturali l’uscita definitiva dal territorio nazionale è sempre vietata, a prescindere che essi siano di proprietà pubblica o privata (cfr. art. 65, comma 1, del codice), e pure le norme in tema di uscita temporanea valgono, indistintamente, per gli uni e per gli altri (cfr. art. 66 e 67 del codice). Le differenze di disciplina, in questa materia, sono di tipo meramente procedurale e dipendono unicamente dalla diversa modalità di individuazione, a monte, dell’interesse culturale dei beni pubblici rispetto a quelli privati: per i beni pubblici, poiché tale individuazione avviene, come si è detto, in via generalizzata, per legge o sulla base di una presunzione legale, il divieto di uscita definitiva è posto in termini altrettanto generalizzati [29]; per i beni privati, invece, posto che l’individuazione avviene solo in virtù di un apposito atto di accertamento, il codice stabilisce che tutti i beni privati suscettibili di essere individuati come beni culturali (e cioè tutti quelli eseguiti da oltre settant’anni, di autore non vivente e per i quali sussista, in potenza, un qualche interesse culturale), purché di valore superiore a euro 13.500 (fatta eccezione per le cose di cui all’allegato a, lettera b, numero 1 del codice), siano sottoposti al filtro di detto accertamento come condizione per consentirne l’uscita dal territorio nazionale, la quale sarà ammessa solo in caso di esito negativo dell’accertamento stesso [30].
L’uniformità della disciplina in materia di protezione e conservazione dei beni culturali si spiega per il fatto che la protezione e la conservazione di tali beni vanno assicurate in ugual modo a prescindere da chi ne sia il proprietario: è evidente, infatti, che per tutti i beni individuati come culturali deve esservi un medesimo grado di protezione e conservazione, perché la salvaguardia del valore culturale da essi espresso - che costituisce lo scopo delle misure di cui si tratta - non può essere perseguita in maniera diversa (e tendenzialmente minore) per la sola circostanza, del tutto casuale, che detti beni siano di proprietà privata anziché pubblica.
D’altra parte, l’art. 9, comma secondo, Cost., ponendo come fine costituzionale primario la tutela del patrimonio storico artistico “della Nazione”, si riferisce senz’altro a tutti i beni culturali che lo compongono, senza distinzioni basate sul titolo proprietario; questo consente, perciò, di introdurre in via generalizzata regimi speciali della proprietà dei beni culturali, indifferentemente pubblica o privata, finalizzati alla loro protezione e conservazione.
Né la ravvisata uniformità di disciplina può dirsi smentita a causa delle (peraltro rare) norme di protezione e conservazione specificamente dettate dal codice per i soli beni culturali pubblici: queste norme, infatti, si giustificano in quanto collegate alla fruizione pubblica dei beni in questione, la quale, come si dirà, costituisce la specifica ragion d’essere (solo) della proprietà pubblica dei beni culturali [31].
L’equiparazione del regime di conservazione e protezione tra beni culturali pubblici e privati trova conferma, del resto, nella norma del codice (art. 55, comma 3-quinquies), della quale meglio si dirà oltre, secondo cui, in caso di alienazione (laddove consentita) di un bene culturale pubblico ai privati, il bene alienato “resta comunque sottoposto a tutte le disposizioni di tutela”; dunque, l’eventuale alienazione di beni culturali pubblici ai privati non determina alcun affievolimento del loro regime di tutela, perché tale regime è identico anche per i beni culturali di proprietà privata e rimane conseguentemente applicabile nonostante l’alienazione.
4. Ragioni e contenuti dei limiti alla circolazione giuridica stabiliti per i (soli) beni culturali pubblici
4.1. In tema di circolazione giuridica dei beni culturali, sono, all’opposto, particolarmente evidenti le differenze di regime a seconda che essi siano di proprietà pubblica o privata.
Per i beni culturali di proprietà privata non v’è alcuna limitazione della libertà di alienazione, fatta salva, come si dirà, in caso di alienazione a titolo oneroso, la prelazione del ministero o, in subordine, degli enti pubblici territoriali (il cui esercizio, peraltro, incide sulla libertà contrattuale non tanto dell’alienante, quanto piuttosto dell’acquirente, perché la prelazione si esercita su alienazioni già concluse e quindi su beni della cui proprietà l’alienante si è già spogliato).
Questa libertà di alienazione si spiega perché l’identità del privato proprietario di un bene culturale è del tutto indifferente ai fini dell’applicazione del regime di tutela, il quale rimane intatto ed è opponibile a tutti i successivi acquirenti del bene stesso [32]; dunque, non vi sono ragioni per limitare il diritto del proprietario privato di disporre dei propri beni culturali [33]. In disparte questa assorbente considerazione, sarebbe, in ogni caso, certamente incostituzionale impedire a un privato di alienare un proprio bene culturale: dal punto di vista del privato, infatti, il bene culturale è un valore materiale che, all’occorrenza, deve poter essere monetizzato.
Diversamente, per i beni culturali pubblici, il mantenimento della proprietà pubblica deve essere salvaguardato se consente di perseguire fini di interesse pubblico che la proprietà privata non è in grado di assicurare: il codice, pertanto, detta un regime di inalienabilità ai privati dei beni culturali pubblici collegato alla salvaguardia di tali fini.
Questo regime si applica a tutti i “negozi giuridici che possono comportare l’alienazione” di beni culturali pubblici ai privati [34] [35]: non solo, quindi, la vendita, ma anche, ad esempio, la costituzione di ipoteca e di pegno [36], la permuta (la quale, peraltro, se avviene con altri beni di interesse culturale è soggetta, come si dirà, allo speciale regime di cui all’art. 58 del codice), il conferimento in società [37] nonché ogni altro negozio avente un effetto traslativo di diritti reali sui beni suddetti in favore di privati, ivi compresa la costituzione di diritti reali minori [38].
L’art. 57-bis del codice estende, poi, il medesimo regime, limitatamente ai beni culturali pubblici immobili, a ogni altro atto di “dismissione”, “valorizzazione” o “utilizzazione, anche a fini economici”, anche se attuato non mediante atti di alienazione di diritti reali, ma attraverso “la concessione in uso o la locazione degli immobili medesimi” [39].
4.2. Per alcune tipologie di beni culturali pubblici, l’inalienabilità ai privati è stabilita in modo assoluto direttamente dal codice (art. 54, comma 1 e comma 2, lett. c). Questo, evidentemente, nel presupposto della totale incompatibilità della proprietà privata di questi beni rispetto ai fini pubblici che attraverso di essi devono essere perseguiti, ossia in ragione:
- della loro naturale e necessaria destinazione alla fruizione (o comunque all’accesso) da parte del pubblico, la quale può essere assicurata in via stabile e ordinaria solo nel presupposto del mantenimento di tali beni culturali entro la sfera pubblica: fanno parte di questa categoria “gli immobili e le aree di interesse archeologico”, “le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche” [40] [41], gli archivi e i singoli documenti [42];
- o del loro valore spiccatamente simbolico per la comunità nazionale o le collettività locali, il quale si perderebbe in caso di privatizzazione: fanno parte di questa categoria gli immobili dichiarati monumenti nazionali [43] e gli immobili dichiarati di interesse culturale “relazionale” o “identitario”.
Peraltro, tale inalienabilità assoluta vale per i beni, compresi nelle tipologie suddette, appartenenti a qualsiasi ente pubblico solo nel caso degli archivi e dei singoli documenti, mentre nei restanti casi è collegata alla loro natura demaniale ed è perciò limitata solo a quelli appartenenti agli enti pubblici territoriali [44].
In deroga al regime di inalienabilità, l’art. 58 del codice consente tuttavia, con l’autorizzazione del ministero, l’alienazione di singoli beni culturali appartenenti alle raccolte pubbliche suindicate, se ciò avviene mediante permuta con altri beni culturali “appartenenti ad enti, istituti e privati, anche stranieri, qualora dalla permuta stessa derivi un incremento del patrimonio culturale nazionale ovvero l’arricchimento delle pubbliche raccolte”.
4.3. Per tutti i rimanenti beni culturali pubblici, l’inalienabilità ai privati è invece stabilita solo in via provvisoria e cautelativa, fino all’esito del procedimento di verifica dell’interesse culturale: così l’art. 54, comma 2, lett. a), primo periodo, del codice [45]. Dopodiché - e cioè una volta che sia intervenuta la verifica positiva [46] - tale inalienabilità cessa, perché il ministero può autorizzare l’alienazione ai privati dei beni culturali positivamente verificati (nonché, per gli immobili, la concessione d’uso o la locazione, ai sensi dell’art. 57-bis del codice), alle condizioni stabilite dagli artt. 55, 55-bis e 56 del codice.
Per questi beni vige, pertanto, un regime di inalienabilità che può definirsi “relativa” [47].
Quanto ai beni culturali pubblici di natura demaniale rientranti in questa seconda categoria, per essi non vale più, di conseguenza, la regola dell’inalienabilità assoluta stabilita dal codice civile, ma opera la diversa regola dell’inalienabilità relativa, posta in via derogatoria dal codice. Il punto è chiarito dall’art. 53, comma 2, del codice, a mente del quale i beni culturali degli enti pubblici territoriali che fanno parte del loro demanio - denominati dal codice stesso beni del “demanio culturale” - “non possono essere alienati né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei limiti e con le modalità previsti dal ... codice”, e non (più) dal codice civile.
Tenuto conto delle tipologie di beni del demanio (non necessario) dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali, come indicate dall’art. 822, comma secondo, cod. civ. [48], rientrano nel demanio culturale “gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia” - e cioè, in base al criterio di individuazione oggi dettato dal codice, di cui già si è detto, gli immobili eseguiti da oltre settant’anni e di autore non vivente, finché eventualmente non ne intervenga la verifica negativa [49] - nonché le “raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche”.
Di tali beni, che formano il demanio culturale, restano dunque assolutamente inalienabili solo quelli indicati dal già esaminato art. 54 del codice (ossia, si ripete, i beni mobili inseriti nelle raccolte museali, archivistiche e librarie e, tra i beni immobili, quelli di interesse archeologico e quelli dichiarati monumenti nazionali o di interesse culturale “relazionale” o “identitario”); tutti i restanti beni del demanio culturale (e cioè tutti gli immobili del demanio culturale diversi da quelli appena ricordati) sono invece soggetti, dopo la verifica positiva, al regime dell’inalienabilità relativa.
Per quanto riguarda, invece, i beni culturali rinvenuti nel sottosuolo o sui fondali marini, per i quali sussiste, come già si è detto, la riserva originaria di proprietà statale, essi sono assolutamente inalienabili, ai sensi dell’art. 54 del codice, solo qualora appartengano al demanio culturale, e cioè quando siano beni immobili o beni mobili che, dopo il rinvenimento, siano stati assegnati a raccolte pubbliche. Invece, i rimanenti beni mobili oggetto della suddetta riserva originaria, ancorché rientrino nel patrimonio indisponibile dello Stato ex art. 826 cod. civ., sono da ritenere alienabili per decisione del ministero, perché non sono compresi tra i beni assolutamente inalienabili ai sensi dell’art. 54 del codice. D’altra parte, il codice stesso contempla espressamente alcune fattispecie in cui i beni in questione possono essere ceduti ai privati “quando non interessino le raccolte dello Stato” [50].
4.4. Le condizioni per superare l’inalienabilità relativa dei beni culturali pubblici - e cioè per ottenere dal ministero un’autorizzazione ad alienarli ai privati (nonché, per gli immobili, a cederli in concessione d’uso o in locazione ex art. 57-bis del codice, come d’ora innanzi si darà per sottinteso) - sono stabilite, come si è detto, dagli artt. 55, 55-bis e 56 del codice.
Gli artt. 55 e 55-bis riguardano i beni del demanio culturale diversi da quelli, già dianzi elencati, soggetti al regime dell’inalienabilità assoluta. L’art. 56 concerne invece i restanti beni culturali pubblici, e cioè: (a) i beni degli enti pubblici territoriali non rientranti nel loro demanio culturale, vale a dire tutti i loro beni culturali mobili diversi da quelli inseriti nelle raccolte museali, archivistiche e librarie (con l’esclusione dei documenti, i quali, pur non essendo beni demaniali, sono però soggetti, come già si è detto, al regime dell’inalienabilità assoluta), nonché (b) tutti i beni, immobili e mobili, degli enti pubblici non territoriali (eccezion fatta per i loro archivi e documenti, che sono parimenti soggetti al predetto regime dell’inalienabilità assoluta).
Queste disposizioni sono il frutto di ripetuti rimaneggiamenti operati dai decreti correttivi del codice. Esse non si distinguono, quindi, per particolare chiarezza (come si vedrà, vi sono norme duplicate, norme riferite a fattispecie particolari ma di indubbia valenza più generale ecc.); nondimeno, dal loro complessivo contenuto si può ragionevolmente desumere quanto segue.
Per la generalità dei beni culturali pubblici soggetti al regime dell’inalienabilità relativa, l’autorizzazione all’alienazione può essere accordata, dal ministero, a condizione che essa non cagioni pregiudizi agli interessi pubblici - di cui ora si dirà - sottesi al loro mantenimento entro la sfera pubblica. Per gli immobili del demanio culturale, eccettuati quelli “utilizzati a scopo abitativo o commerciale”, l’alienazione è invece ammessa, oltre che in assenza di tali pregiudizi, solo se essa costituisce uno strumento per conseguire specifici obiettivi di valorizzazione degli immobili alienati, sulla cui congruità il ministero si deve pronunciare.
Dunque, per la generalità dei beni culturali pubblici l’alienazione rappresenta (o può rappresentare) un semplice atto di dismissione, in relazione al quale il ministero deve limitarsi a verificare, in negativo, l’assenza dei suindicati pregiudizi; invece, per i soli immobili del demanio culturale non destinati a scopi abitativi o commerciali, l’alienazione è ammessa - oltre che in assenza di detti pregiudizi - solo se mira, in positivo, a permetterne una migliore valorizzazione; ciò evidentemente nell’assunto che l’ente pubblico proprietario non sia in grado di assicurare in via diretta tale migliore valorizzazione e valuti che questa possa essere meglio garantita tramite l’alienazione.
Gli interessi pubblici il cui pregiudizio osta all’alienazione dei beni culturali pubblici sono indicati dal codice mediante formule diverse, riferite alle varie tipologie dei beni in questione: per i beni del demanio culturale l’autorizzazione non può essere rilasciata qualora la destinazione d’uso conseguente alla privatizzazione “sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene o comunque risulti non compatibile con il carattere storico e artistico del bene medesimo” (art. 55, comma 3-bis, primo periodo); per i restanti beni degli enti pubblici territoriali, l’autorizzazione può essere rilasciata “a condizione che i beni medesimi non abbiano interesse per le raccolte pubbliche e dall’alienazione non derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomata la pubblica fruizione” (art. 56, comma 4); per i beni degli enti pubblici non territoriali l’autorizzazione può essere rilasciata “a condizione che dalla alienazione non derivi danno alla conservazione e alla pubblica fruizione dei beni medesimi” (art. 56, comma 4-bis).
Tuttavia, al di là delle differenze lessicali il principio espresso appare, nella sostanza, sempre il medesimo, e cioè che l’autorizzazione non può essere rilasciata se il ministero ravvisa che l’alienazione pregiudichi gli interessi pubblici attinenti alla conservazione, all’uso compatibile e/o alla pubblica fruizione dei beni culturali, nei termini garantiti dalla proprietà pubblica dei beni stessi [51]. Con tali disposizioni, il codice riprende, dunque, quanto a suo tempo stabilito dalla legge 1° giugno 1939, n. 1089, la quale, all’art. 24, già esprimeva il principio per cui l’alienazione dei beni culturali pubblici può essere autorizzata “purché non ne derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento”.
Per agevolare le valutazioni del ministero, il codice prevede (art. 55, comma 2, lett. a), b) ed e), e art. 56, comma 3) che l’istanza di autorizzazione indichi, oltre alla “destinazione d’uso in atto”, i seguenti dati: il “programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene” e le “modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso”. In relazione a ciò, il codice stabilisce che il ministero, se rilascia l’autorizzazione, “detta prescrizioni e condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate” e “stabilisce le condizioni di fruizione pubblica del bene, tenuto conto della situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso” (art. 55, comma 3, secondo periodo, lett. a) e b), e art. 56, comma 3).
Il primo dato (“programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene”), richiama la previsione dell’art. 29, comma 1, del codice, secondo cui la conservazione dei beni culturali va assicurata “mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro”. Dunque, l’ente pubblico alienante deve indicare il programma di misure che il bene richiede ai fini della sua corretta conservazione ai sensi di tale art. 29, comma 1, affinché il ministero ne valuti la sostenibilità a seguito della privatizzazione [52]; se l’autorizzazione è rilasciata, il ministero ha comunque titolo per impartire prescrizioni in ordine alle misure programmate.
Con riguardo a questo primo dato, è peraltro da ritenere che solo in presenza di circostanze peculiari e adeguatamente motivate il ministero possa negare l’autorizzazione alla privatizzazione di un bene culturale pubblico unicamente per esigenze legate alla sua corretta conservazione. Infatti, la privatizzazione dei beni culturali non li sottrae alle norme del codice e ai poteri del ministero in materia di protezione e conservazione, stante l’identità, di cui già si è detto, del regime di protezione e conservazione dei beni culturali di proprietà pubblica o privata (anche sotto lo specifico profilo dei limiti imprimibili alle destinazioni d’uso: cfr. l’art. 20, comma 1, del codice). Dunque, le esigenze conservative possono (e devono) essere assicurate allo stesso modo anche a seguito della privatizzazione del bene; e ciò tanto più che, come si è detto, nel provvedimento di autorizzazione il ministero può dettare prescrizioni circa le misure conservative programmate, così da precisare ulteriormente gli obblighi conservativi posti in capo al privato acquirente.
Di conseguenza, onde impedire un’alienazione ai privati solo per ragioni conservative, occorre comprovare l’esistenza di rischi concreti di degrado del bene derivanti dalla sua fuoriuscita dalla sfera pubblica; diversamente, il diniego di autorizzazione finirebbe per rappresentare null’altro che un’ammissione di impotenza del ministero, il quale si risolverebbe a vietare l’alienazione in un’ottica meramente prudenziale, al solo fine di non rischiare l’ineffettività dell’esercizio dei propri poteri di tutela nei confronti del bene privatizzato.
Il secondo dato (“modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso”), seppur formulato con una locuzione piuttosto involuta, va ragionevolmente letto nel senso che l’ente pubblico alienante deve indicare quali sono, se vi sono, le modalità di fruizione pubblica del bene e se l’alienazione determina un mutamento di questa situazione.
Ai fini del rilascio dell’autorizzazione, occorre perciò distinguere tra i beni culturali pubblici che sono aperti o, comunque, sono meritevoli di essere aperti alla fruizione pubblica (eventualmente anche in via concorrente rispetto alla destinazione a funzioni istituzionali) e quelli che non presentano tale carattere, ossia i beni che - seppur dotati di un obiettivo interesse culturale, sì da essere stati positivamente verificati come tali - non hanno requisiti o pregi che li rendano adatti a essere fruiti da parte della collettività.
Per i primi, l’autorizzazione all’alienazione ai privati non può essere rilasciata se pregiudica la fruizione pubblica del bene, in atto o potenziale. Che debba essere considerata anche la fruizione potenziale è desumibile dalla norma del codice - riferita al caso dei beni mobili degli enti pubblici territoriali, ma ragionevolmente espressiva di un principio più generale - secondo cui l’autorizzazione va negata per i beni culturali aventi “interesse per le raccolte pubbliche”, e cioè, in sostanza, per tutti i beni per i quali obiettivamente esiste un interesse a essere fruiti da parte del pubblico. In questi casi, l’ente pubblico alienante, onde poter aspirare a ottenere il rilascio dell’autorizzazione, deve perciò vincolare il privato acquirente a mantenere o a promuovere la fruizione pubblica del bene alienato e comunque l’alienazione può essere autorizzata solo nel rispetto delle “condizioni di fruizione pubblica” del bene stabilite dal ministero nell’atto di autorizzazione.
Per i secondi, invece, un diniego di autorizzazione all’alienazione ai privati non potrebbe essere validamente fondato sul pregiudizio per la fruizione pubblica del bene, perché tale fruizione pubblica manca e neppure è suscettibile di esservi. Del resto, la norma prevede che il ministero, nell’atto di autorizzazione, prescriva le condizioni di fruizione pubblica “tenuto conto della situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso”. Questo significa che la fruizione pubblica va stabilita se già c’era nelle destinazioni d’uso precedenti l’alienazione; diversamente, se tali precedenti destinazioni d’uso non presupponevano la fruizione pubblica del bene, non v’è ragione perché questa debba essere garantita a seguito della privatizzazione (a meno che non si versi in un caso di bene obiettivamente meritevole, come si è detto, di essere aperto alla fruizione pubblica). Quanto ora detto è avvalorato, del resto, anche dalla norma del codice che sottopone a meno stringenti condizioni l’alienazione degli immobili del demanio culturale destinati a scopi abitativi o commerciali: questa norma infatti postula, evidentemente, il carattere non “monumentale” di tali beni e quindi l’inidoneità a essere aperti alla fruizione pubblica.
Quando l’istanza di autorizzazione all’alienazione ai privati riguarda immobili del demanio culturale, salvo quelli destinati a scopi abitativi o commerciali, essa, oltre a quanto sinora indicato, deve altresì specificare - come già si è accennato - gli “obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l’alienazione”, i relativi tempi e modi di perseguimento e “la destinazione d’uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da conseguire”. In questo caso, il Ministero, se rilascia l’autorizzazione, “si pronuncia sulla congruità delle modalità e dei tempi previsti per il conseguimento degli obiettivi di valorizzazione indicati nella richiesta” (art. 55, comma 2, lett. c) e d), comma 3, secondo periodo, lett. c) e comma 3-quater). Per tutti gli immobili del demanio culturale l’autorizzazione è rilasciata sentita la regione e, per il suo tramite, “gli altri enti pubblici territoriali interessati” (art. 55, comma 3, primo periodo, del codice).
Il contenuto dell’autorizzazione ad alienare beni culturali pubblici può essere sempre concordato in forza, come è noto, della generale previsione dell’art. 11, comma 1, della legge n. 241/1990. In particolare, il codice (art. 55, comma 3-ter) contempla espressamente questa facoltà per le autorizzazioni relative agli immobili del demanio culturale, qualora il ministero, nel corso dell’istruttoria, effettui una “valutazione comparativa fra le proposte avanzate con la richiesta di autorizzazione ed altre possibili modalità di valorizzazione del bene”: in questo caso, dunque, sono oggetto di accordo le modalità di valorizzazione del bene alienato che, all’esito della valutazione comparativa, siano risultate migliori di quelle proposte dall’ente pubblico richiedente.
Opportunamente, il codice stabilisce che l’autorizzazione ad alienare beni culturali pubblici deve essere corredata da prescrizioni volte a garantire, in modo effettivo, che i presupposti che ne hanno consentito il rilascio non vengano disattesi una volta che il bene culturale sia passato in mani private: si tratta, come già si è detto, di prescrizioni in ordine alle misure conservative programmate [53], agli usi compatibili [54], alle condizioni di fruizione pubblica del bene (segnatamente, come si è detto, se il bene già era destinato alla fruizione pubblica o, comunque, sia successibile di esserlo) nonché, per gli immobili del demanio culturale non destinati a scopi abitativi o commerciali, ai tempi e modi di conseguimento degli obiettivi di valorizzazione positivamente valutati.
Per gli immobili, tali prescrizioni sono trascritte, a cura del ministero, nei relativi registri (così art. 55-bis, comma 1, secondo periodo, e art. 56, comma 4-ter, del codice), onde renderle opponibili a tutti i successivi danti causa del privato acquirente.
Inoltre, l’ente pubblico alienante deve riportare dette prescrizioni nell’atto di alienazione come obbligazioni contrattuali (così art. 55-bis, comma 1, primo periodo, e art. 56, comma 4-ter, del codice). Se l’alienazione riguarda gli immobili del demanio culturale, nell’atto di alienazione va altresì inserita una clausola risolutiva espressa per il caso di inadempimento delle obbligazioni stesse da parte dell’acquirente; ove tale inadempimento abbia luogo, il ministero, “fermo restando l’esercizio dei poteri di tutela”, ne dà comunicazione alle amministrazioni o enti alienanti, “ai fini della risoluzione di diritto dell’atto di alienazione” (così art. 55-bis, comma 1, primo periodo, e comma 2, del codice) [55].
L’autorizzazione ad alienare, se riferita a immobili del demanio culturale, ne comporta ovviamente la sdemanializzazione, come ad ogni buon conto testualmente precisa, al primo periodo, l’art. 55, comma 3-quinquies, del codice.
Peraltro, poiché, come già si è detto, l’autorizzazione all’alienazione di beni culturali pubblici presuppone l’avvenuta verifica positiva del valore culturale del bene alienato e tale verifica positiva costituisce dichiarazione di interesse culturale, il bene alienato è, a tutti gli effetti, un bene di interesse culturale e, come tale, resta assoggettato alla normativa di tutela anche dopo la sua privatizzazione. Anche questa conseguenza viene resa esplicita dal codice, con la previsione del secondo periodo dell’art. 55, comma 3-quinquies, cui già in precedenza si è fatto cenno, secondo la quale il bene alienato “resta comunque sottoposto a tutte le disposizioni di tutela” [56].
Si tratta, comunque, di una precisazione non priva di utilità: infatti, in sua assenza sarebbe stato possibile sostenere la necessità di un nuovo accertamento dell’interesse culturale del bene alienato, perché per l’assoggettamento a tutela dei beni di proprietà privata occorre, come si è detto, un interesse culturale “particolarmente importante”, e non meramente “semplice” come ai fini della verifica positiva dell’interesse culturale dei beni pubblici; dunque, solo in forza di tale norma risulta indubbio che per i beni culturali privatizzati l’applicazione del regime di tutela prosegue a prescindere dal grado dell’interesse culturale in essi riconoscibile e quindi senza alcuna necessità di atti confermativi o di riesame da parte del ministero.
4.5. Le previsioni sopra descritte valgono, come sin qui si è specificato, per le alienazioni dei beni culturali pubblici a soggetti privati. Per le alienazioni che mantengono comunque il bene culturale entro la sfera pubblica, il regime è invece il seguente.
L’art. 54, comma 3, del codice consente, con semplice comunicazione al ministero, la circolazione giuridica dei beni culturali tra gli enti pubblici territoriali [57]. La norma è testualmente riferita ai beni assolutamente inalienabili e a quelli provvisoriamente inalienabili prima della verifica dell’interesse culturale, ma è da ritenere senz’altro valida, a maggior ragione, anche per i beni positivamente verificati soggetti al regime dell’inalienabilità relativa.
Per quanto riguarda, invece, la circolazione giuridica dei beni culturali tra enti pubblici territoriali e non territoriali (o tra soli enti pubblici non territoriali), l’unica disposizione espressa che assume rilevanza è l’art. 57 del codice, il quale pone la regola per cui non sono soggette ad autorizzazione le alienazioni in favore dello Stato.
In virtù di questa norma, sono pertanto libere le alienazioni di beni culturali dagli enti pubblici non territoriali verso lo Stato. È da ritenere, peraltro, che questa stessa regola debba valere, in via quanto meno analogica, per le alienazioni dagli enti pubblici non territoriali in favore di qualunque ente pubblico territoriale (e non solo dello Stato); diversamente, non si comprenderebbe perché un ente pubblico territoriale diverso dallo Stato possa liberamente ricevere in alienazione, ai sensi del già citato art. 54, comma, 2 del codice, beni culturali di proprietà dello Stato o di altri enti pubblici territoriali, mentre tale stessa facoltà non sia ad esso consentita relativamente ai beni culturali di proprietà di enti pubblici non territoriali.
In mancanza di diversa previsione, sono invece da ritenere soggette ad autorizzazione del ministero, secondo le regole già sopra esaminate, le alienazioni di beni culturali da enti pubblici territoriali o non territoriali in favore di enti pubblici non territoriali. Peraltro, trattandosi di alienazioni che mantengono comunque il bene culturale alienato nella sfera pubblica, è da ritenere che l’autorizzazione all’alienazione possa essere negata, dal ministero, solo in presenza di motivazioni particolarmente rigorose.
4.6. Sempre in trema di circolazione giuridica dei beni culturali pubblici, va infine ricordato che il codice non solo limita la fuoriuscita dai beni culturali dalla sfera pubblica, ma contempla vari istituti che agevolano l’ingresso entro tale sfera, attraverso modi di acquisto, diversi dagli ordinari istituti civilistici, aventi fonte in poteri amministrativi di tipo ablativo.
Oltre all’espropriazione dei beni culturali (art. 95 del codice nonché art. 838, comma secondo, cod. civ.), sono consentiti la c.d. “prelazione artistica”, e cioè l’acquisto in via di prelazione sui beni culturali alienati a titolo oneroso (artt. 60-62 del codice) e il c.d. “acquisto all’esportazione”, e cioè l’acquisto coattivo dei beni presentati per richiedere l’assenso all’uscita definitiva dal territorio nazionale (art. 70 del codice). Questi poteri ablativi spettano in primo luogo al ministero, che può tuttavia rinunciare al loro esercizio: nel primo caso, dichiarando la pubblica utilità del bene da espropriare e autorizzando un altro ente pubblico a procedere all’espropriazione, nel secondo e terzo caso, lasciando tale esercizio, rispettivamente, a ogni altro ente pubblico territoriale eventualmente interessato o alla regione nel cui territorio ha sede l’ufficio esportazione del ministero che ha proposto l’acquisto coattivo.
È evidente, peraltro, che tali poteri ablativi possono essere esercitati solo se sono funzionali al perseguimento di interessi pubblici speculari a quelli che presiedono al divieto di fuoriuscita dei beni culturali dalla sfera pubblica; e cioè al fine di assicurare esigenze di conservazione e, soprattutto, di stabile e ordinaria fruizione pubblica dei beni culturali fatti oggetto dei poteri in questione, le quali non possano essere adeguatamente garantite mantenendo il regime di proprietà privata dei beni medesimi.
Questa condizione, del resto, è resa esplicita dalle norme in tema di espropriazione di beni culturali, le quali la consentono solo quando essa “risponda ad un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica” dei beni espropriati (così l’art. 95, comma 1, del codice) oppure quando il proprietario ha abbandonato la conservazione dei beni espropriati e il loro deperimento “ha per effetto di nuocere gravemente al decoro delle città o alle ragioni dell’arte ... [o] della storia” (così l’art. 838, comma secondo, cod. civ.).
Anche in tema di prelazione artistica il codice (art. 62, comma 2) stabilisce che essa va esercitata per “specifiche finalità di valorizzazione culturale del bene”. Questa previsione, invero, è testualmente dettata solo con riferimento alla decisione con cui gli enti pubblici territoriali formulano al ministero la proposta di esercizio della prelazione (per l’ipotesi in cui il ministero rinunci a esercitarla per sé); tuttavia, per ragioni di logica e coerenza, essa non può che essere espressiva di una regola più generale, applicabile anche alla prelazione esercitata dal ministero. In ogni caso, la giurisprudenza, con riguardo alla prelazione artistica, è orientata ad affermare che essa è giustificata quando “consenta una migliore tutela, e in particolare, una migliore valorizzazione e fruizione del pregio” del bene culturale che ne è oggetto [58].
5. Principio di destinazione dei beni culturali pubblici alla fruizione collettiva e relative regole
La specifica disciplina sin qui descritta - soprattutto le norme che pongono limiti alla fuoriuscita dei beni culturali dal patrimonio pubblico e, specularmente, ne agevolano l’ingresso attraverso modi di acquisto diversi dagli ordinari istituti privatistici - non è fine a sé stessa, ma, come già si è illustrato, è strumentale al conseguimento del fine ultimo cui deve rispondere, almeno di regola, la proprietà pubblica dei beni culturali, ossia quello della fruizione da parte del pubblico.
Il principio della destinazione dei beni culturali pubblici alla fruizione collettiva è posto, in modo assai chiaro, dall’art. 2, comma 4, del codice, a mente del quale “i beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività”, ancorché - si soggiunge - “compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela”. Peraltro, già lo stesso art. 1 del codice, recante i princìpi della materia, demanda agli enti pubblici territoriali di “favori[re] la pubblica fruizione» del patrimonio culturale (e quindi, in primo luogo, dei beni di tale patrimonio loro appartenenti) e agli “altri soggetti pubblici” di “assicura[re] ... la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale” (così, rispettivamente, i commi 3 e 4).
Questo principio, positivamente enunciato nelle disposizioni introduttive del codice, discende, a sua volta, dal comma primo dell’art. 9 Cost., e cioè del dovere costituzionale, posto in capo a tutti i livelli istituzionali che compongono la Repubblica, di promuovere lo sviluppo culturale della collettività: non v’è dubbio, infatti, che l’apertura, nel modo più ampio possibile, dei beni culturali pubblici alla fruizione collettiva rappresenti uno dei principali strumenti di crescita culturale della popolazione.
Peraltro, la destinazione dei beni culturali pubblici alla fruizione collettiva, come già si è osservato, può essere predicata quando essi siano oggettivamente suscettibili, per le loro caratteristiche, di essere aperti al pubblico; diversamente, la fruizione collettiva è priva di fondamento e i beni che non presentano tali caratteristiche - proprio in quanto oggettivamente non funzionali a soddisfare esigenze di fruizione collettiva - sono quelli per cui più facilmente potrà essere rilasciata l’autorizzazione all’alienazione ai privati.
La destinazione alla fruizione pubblica è l’aspetto che maggiormente distingue i beni culturali pubblici da quelli di proprietà privata (ivi compresi, in questo caso, anche i beni appartenenti alle persone giuridiche private senza fine di lucro). Per i secondi, infatti, l’esigenza di non compromettere il fondamento stesso del diritto di proprietà come diritto di godimento esclusivo del bene fa sì che la fruizione collettiva - qualora non derivi da scelte spontanee dei proprietari (o di chi, comunque, ne abbia la disponibilità) [59] - possa essere imposta solo in casi particolari, e cioè (a) come onere per accedere ai contributi concessi dal ministero per l’esecuzione di interventi conservativi sui beni stessi (art. 38 del codice) o (b) come condizione per rendersi acquirenti di beni culturali di proprietà pubblica o di enti privati non lucrativi [art. 55, comma 3, secondo periodo, lett. b), e art. 56, comma 3, del codice, già dianzi esaminati] o (c) come effetto di un apposito provvedimento del ministero, assunto ai sensi dell’art. 104 del codice, che assoggetti a “visita da parte del pubblico per scopi culturali” i beni culturali immobili di privati che “rivestono interesse eccezionale” nonché le collezioni dichiarate di interesse culturale (tenuto conto che tale dichiarazione già è avvenuta in ragione del loro “eccezionale interesse” in forza dell’art. 10, comma 3, lett. e), del codice).
Come stabilito dal già citato art. 2, comma 4, del codice, la fruizione pubblica dei beni culturali pubblici può incontrare due limiti [60].
Anzitutto, essa non può andare a scapito delle esigenze della tutela. La necessità di assicurare la sopravvivenza e la corretta conservazione fisica del bene è, difatti, naturalmente antecedente e condiziona quella di consentirne la più ampia fruizione collettiva. La fruizione pubblica, in quanto aspetto della valorizzazione dei beni culturali, va cioè attuata, come ribadisce anche l’art. 6, comma 2, del codice, “in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze”.
Tuttavia, una volta adeguatamente valutate le ragioni della tutela, le politiche di gestione del patrimonio culturale pubblico devono tendere, attivamente, a massimizzare la fruizione collettiva dello stesso e non limitarsi a garantirne la conservazione meramente statica e passiva.
In secondo luogo, la fruizione deve svolgersi in forme compatibili con le “esigenze di uso istituzionale”. Presupposto della norma è la circostanza - non infrequente - che beni del patrimonio culturale pubblico (immobili, arredi, raccolte librarie, archivi e documenti ecc.) servano anche per usi istituzionali degli enti pubblici proprietari. In tali casi, poiché i beni culturali hanno una destinazione duplice (uso istituzionale e fruizione collettiva), spetta agli stessi enti pubblici proprietari trovare il miglior bilanciamento tra tali due concorrenti destinazioni.
Peraltro, per prevenire gli ostacoli alla fruizione collettiva che possono derivare dal coesistente uso istituzionale, i beni culturali del patrimonio pubblico che presentano un più elevato interesse a essere oggetto di tale fruizione (ad esempio per la loro spiccata importanza storico-artistica) non dovrebbero essere destinati a usi istituzionali o, per lo meno, a usi istituzionali che rendano difficoltoso organizzare il concorrente accesso del pubblico; questo sempre che - è ragionevole ritenere - non si sia in presenza di esigenze di rappresentanza istituzionale del livello più elevato o di usi istituzionali storicizzati, che abbiano assunto essi stessi una valenza culturale.
Il criterio ora enunciato si ricava, del resto, dalle stesse norme dettate dal codice in argomento. Il codice infatti, tra i beni culturali pubblici, distingue quelli conservati negli istituti della cultura (musei, biblioteche e archivi) o costituenti luoghi della cultura (aree e parchi archeologici e complessi monumentali), stabilendo, incondizionatamente, che essi “sono destinati alla pubblica fruizione” (art. 101, comma 3); invece, per i rimanenti beni culturali pubblici (e cioè quelli “al di fuori” degli istituti e dei luoghi di cultura), la fruizione pubblica è assicurata solo “compatibilmente con lo svolgimento degli scopi istituzionali cui detti beni sono destinati” (art. 102, comma 3).
Questa norma non regola solo le conseguenze dell’appartenenza dei beni culturali pubblici all’una o all’altra delle due categorie ora indicate, ma intende evidentemente dettare, a monte, anche il parametro che deve orientare nell’inclusione nelle categorie in questione, stabilendo che debbano essere compresi tra i luoghi di cultura o tra i beni inseriti negli istituti di cultura tutti quelli in relazione ai quali la fruizione pubblica vada assicurata in via incondizionata e non solo compatibilmente con gli scopi istituzionali degli enti proprietari.
Le attività dirette ad assicurare la fruizione pubblica di beni culturali pubblici destinati a fini istituzionali non necessariamente raggiungono un livello di complessità tale da richiederne l’organizzazione in forma di servizio pubblico: ad esempio, non è insolito che immobili di interesse culturale sede di uffici o servizi della pubblica amministrazione con orari di apertura al pubblico (tribunali, università, ospedali, stazioni ecc.) possono essere liberamente fruiti, allo stesso tempo, non solo dagli utenti di tali uffici o servizi, ma anche da coloro che intendano visitarli unicamente a scopo culturale.
Diversamente, la gestione degli istituti e luoghi di cultura - ossia, si ripete, dei beni culturali pubblici destinati in via esclusiva e istituzionale alla fruizione collettiva - necessariamente costituisce un servizio pubblico e come tale deve essere organizzata: così stabilisce l’art. 101, comma 3, del codice, a mente del quale tali istituti e luoghi “espletano un servizio pubblico”, e cioè sono beni e strutture per mezzo dei quali gli enti pubblici proprietari svolgono - e devono svolgere, anche in attuazione del dovere costituzionale ex art. 9, comma primo, Cost. - servizi pubblici (culturali) rivolti alla collettività. Il codice (art. 103, commi 1 e 2) precisa altresì che la prestazione di tali servizi pubblici può essere gratuita o a pagamento, ma deve essere sempre gratuito l’accesso alle biblioteche e agli archivi “per finalità di lettura, studio e ricerca”.
Sulle forme di gestione dei servizi pubblici di cui si tratta, dispone l’art. 115 del codice. Esso reca, in termini generali, la disciplina delle forme di gestione delle attività di valorizzazione dei beni culturali pubblici e trova perciò applicazione anche in tema di organizzazione dei servizi pubblici di apertura al pubblico dei beni culturali: questa, infatti, è senz’altro un’attività riconducibile alla più ampia funzione di valorizzazione, la quale consiste nell’insieme delle attività rivolte, tra l’altro, “ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio culturale” (così l’art. 6, comma 1, del codice).
L’art. 115 ora citato distingue tra gestione diretta e indiretta dei suindicati servizi pubblici.
La gestione diretta deve avere luogo tramite “strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico”, anche in “forma consortile pubblica” (art. 115 cit., comma 1). Per quanto riguarda, in particolare, l’organizzazione del ministero, l’autonomia organica delle strutture esercenti compiti di servizio pubblico (e non funzioni amministrative), prevista tradizionalmente per gli archivi e le biblioteche, è stata estesa, in tempi più recenti, anche ai musei, ai parchi archeologici e ai siti monumentali. Questi, un tempo, salvo poche eccezioni, dipendevano organicamente, come meri uffici, dalle Soprintendenze territoriali; in virtù delle riforme più recenti, invece, essi sono ora configurati come organi autonomi, o singolarmente o raggruppati all’interno delle Direzioni regionali Musei nazionali [61].
La gestione indiretta, invece, ha luogo tramite “concessione a terzi” dei servizi pubblici in questione ovvero mediante “affidamento di appalti pubblici di servizi”, assegnati, tanto le concessioni quanto gli appalti, “mediante procedure di evidenza pubblica, sulla base della valutazione comparativa di specifici progetti” (art. 115 cit., comma 3).
La gestione diretta e indiretta non sono poste, peraltro, sullo stesso piano dal codice: alla seconda si può fare ricorso, infatti, solo “al fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali”, rispetto ai risultati conseguibili con la gestione diretta: in particolare, per mettere a confronto le due possibili forme di gestione, occorre effettuare una “valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia, sulla base di obbiettivi previamente definiti” (art. 115 cit., comma 4).
Nota bibliografica
Considerata la vastità della letteratura sul tema, si prescinde dal dare compiuto conto dei lavori di carattere generale sui beni pubblici, limitando il riferimento, per tutti, a G. della Cananea, Dalla proprietà pubblica alle proprietà pubbliche, in Aedon 2024, 3, pag. 190 ss., e alle indicazioni bibliografiche ivi racchiuse. Specificamente in tema di individuazione, protezione/conservazione, circolazione giuridica e fruizione dei beni culturali pubblici si vedano, con riguardo alla disciplina vigente: (a) i commenti ai pertinenti articoli del codice citati nel testo, con particolare riferimento a quelli contenuti nei commentari aggiornati almeno al c.d. “secondo correttivo” (d.lg. 26 marzo 2008, n. 62), e cioè Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, 3a ed., e Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, con il coordinamento di C. Barbati e G. Sciullo, Bologna, Il Mulino, 2007, 2a ed., con gli aggiornamenti pubblicati in Aedon, 2008, 3; (b) le più recenti trattazioni manualistiche, tra le quali si segnalano C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2025, 3a ed. e ivi in particolare i contributi di G. Sciullo, Patrimonio e beni, pag. 37 ss., e Tutela, pag. 153 ss.; A. Crosetti e D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino, Giappichelli, 2023, 6a ed., e ivi in particolare il contributo di D. Vaiano, I beni culturali di proprietà pubblica, pag. 81 ss.; Diritto dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Cabiddu, N. Grasso, Torino, Giappichelli, 2021, 3a ed., e ivi in particolare il contributo di M. Alterio, Individuazione e regime giuridico dei beni culturali, pag. 33 ss.; G. Clemente di San Luca, R. Savoia, Elementi di diritto dei beni culturali, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, 2a ed., e ivi in particolare il cap. III, La disciplina giuridica dei beni culturali nel «codice dei beni culturali e del paesaggio», pag. 117 ss.; (c) tra gli altri scritti, da ultimo, A. Fantin, La circolazione dei beni culturali immobili di proprietà pubblica a 20 anni dall’emanazione del Codice dei beni culturali: luci ed ombre, in Aedon, 2024, 1, pag. 41 ss., cui adde, sempre con riferimento alle norme del vigente codice, V. Caputi Jambrenghi, Beni culturali e nuova alienabilità, in Studi in onore di Alberto Romano, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, pag. 1895 ss.; N. Aicardi, L’individuazione dei beni culturali di appartenenza pubblica e di enti privati non lucrativi, in I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, (a cura di) A. Police, Giuffrè, Milano, 2008, pag. 313 ss.; A. Fantin, I beni immobili culturali di proprietà pubblica: aspetti pubblicistici, Padova, Cedam, 2008; A. Giuffrida, Contributo allo studio della circolazione dei beni culturali in ambito nazionale, Milano, Giuffrè, 2008, e ivi in particolare il cap. III, La circolazione dei beni culturali di proprietà pubblica. Il regime dell’autorizzazione amministrativa, pag. 123 ss.
Note
[*] Il contributo è frutto della relazione tenuta dall’Autore al convegno nazionale annuale dell’Aipda-Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo “I beni pubblici. Tradizione e innovazione”, Genova, 4 ottobre 2024, ed è in corso di pubblicazione anche nell’Annuario AIPDA 2024 con il titolo “I beni culturali come categoria tradizionale di beni pubblici”.
[**] Nicola Aicardi, professore ordinario di Diritto amministrativo nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna, Via Zamboni 22, 40126 Bologna, nicola.aicardi@unibo.it.
[1] Art. 11, r.d. 7 luglio 1866, n. 3036.
[2] O alla Regione Sicilia per i ritrovamenti nel sottosuolo regionale (così l’art. 33, comma secondo, dello statuto speciale).
[3] Artt. 1 e 6, d.l. 1° marzo 2021, n. 22, conv. con modif. in legge 22 aprile 2021, n. 55.
[4] Il punto è ben chiarito da Cass. civ., sez. I, 10 febbraio 2006, n. 2995, che così si esprime: “La riserva allo Stato ... funziona da meccanismo di tutela delle cose ritrovate nella prima delicata fase del ritrovamento e della classificazione da parte degli organi tecnici: il meccanismo mette al riparo le cose dall’applicazione, nella prima fase della loro vita giuridica, degli istituti del diritto comune (ad es., dell’art. 932 c.c.), impedendo il formarsi su di essi di diritti privati”. Infatti, “niente può essere trascurato nell’ottica ricostruttiva delle civiltà antiche. Per ogni area archeologica è indispensabile per lo studioso la conoscenza di tutti gli oggetti provenienti dal sottosuolo, singolarmente e nella reciproca connessione. Non è solo importante assicurare alla conservazione un determinato oggetto, nella sua integrità, quanto conoscerne la provenienza ed il contesto. ... Scriveva uno dei più insigni studiosi di archeologia classica, che “ogni scavo distrugge una documentazione accumulatasi in millenni. Perciò questa documentazione deve esser rilevata, via via che viene alla luce e che viene asportata, con estrema esattezza, in modo che la situazione originaria di ogni minimo oggetto reperito possa essere in qualunque momento ricostruita a tavolino e interpretata, anche a distanza di anni, da altri studiosi, sotto nuovi punti di vista”. ... Che in un secondo momento, dopo il compimento dei necessari rilievi e l’inventario degli oggetti rinvenuti, parte di essi possa essere scartata, ed eventualmente ceduta a terzi, non toglie che in linea di principio la cosa debba appartenere allo Stato, al fine di impedire che attraverso la libera occupazione da parte dei privati, si distrugga la stratificazione di dati conoscitivi, accumulati nei secoli”.
[5] Cass. civ., sez. II, 26 aprile 2017, n. 10303; Cedu, 23 settembre 2014, ricorso n. 61781/08, Torno vs. Italy.; Cass. civ., sez. II, 5 agosto 2008, n. 21114; Cass. civ., sez. I, 10 febbraio 2006, n. 2995; Cass. civ., sez. I, 1 dicembre 2004, n. 22501; Cass. civ., sez. I, 2 ottobre 1995, n. 10355.
[6] Questa regola è specificamente ribadita, per quanto riguarda le misure di conservazione, dall’art. 39, comma 1, del codice, a mente del quale “[i]l Ministero provvede alle esigenze di conservazione dei beni culturali di appartenenza statale, anche se in consegna o in uso ad amministrazioni diverse o ad altri soggetti, sentiti i medesimi”. Peraltro, a differenza di quanto previsto per gli altri beni culturali, su questi beni l’esecuzione diretta degli interventi conservativi da parte del ministero deve essere concordata; in mancanza, la progettazione e l’esecuzione di tali interventi spetta all’amministrazione o al soggetto che ha il bene in consegna o in uso, “ferma restando la competenza del Ministero al rilascio dell’autorizzazione sul progetto ed alla vigilanza sui lavori” (art. 39 cit., comma 2).
[7] Si veda l’art 1, commi 3 e 4, del codice nonché il successivo art. 30, comma 1, che ribadisce il medesimo concetto.
[8] Sono eccettuate le raccolte delle biblioteche che “assolvono alle funzioni” delle biblioteche indicate all’art. 47, comma secondo, del d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, e cioè alle funzioni delle “biblioteche popolari”, delle “biblioteche del contadino nelle zone di riforma” e dei “centri bibliotecari di educazione permanente”. Queste funzioni vengono interpretate, nella prassi, come riferibili, in generale, a quelle delle biblioteche degli enti locali costituite esclusivamente al fine di fornire un’informazione aggiornata ai lettori e di promuovere la pubblica lettura, e perciò comprendenti solo opere di narrativa e saggistica, manuali e periodici privi del carattere di rarità e di pregio.
[9] Che i beni in questione non siano assoggettati ad alcuna forma di accertamento espresso del loro interesse culturale è confermato anche dall’art. 13, comma 2, del codice, il quale testualmente li esonera dalla dichiarazione dell’interesse culturale e, quindi, anche dalla verifica dell’interesse culturale (giacché quest’ultima, come si vedrà, equivale alla dichiarazione).
[10] L’art. 10, comma 5, del codice applica difatti tale esclusione ai beni pubblici indicati al comma 1 (beni sottoposti a verifica), ma non a quelli indicati al comma 2 (beni tutelati ex lege).
[11] La giurisprudenza ha precisato che la condizione dell’esecuzione ultrasettantennale è soddisfatta solo qualora “la consistenza originaria” del bene non abbia “subito alcuna alterazione”, occorrendo che il bene, “nel tempo considerato dalla legge, rimanga lo stesso”: Cons. Stato, sez. VI, 10 gennaio 2024, n. 326; Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2019, n. 2205.
[12] Questo gruppo include anche i beni esemplificativamente elencati all’art. 10, comma 4, del codice, giacché quest’ultimo testualmente stabilisce che detti beni sono compresi tra quelli indicati (tra gli altri) all’art. 10, comma 1. Nel gruppo vanno dunque in particolare annoverati, ai sensi della lett. g) di tale comma 4, “le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico”: in questo senso cfr. Cons. Stato, sez. VII, 30 marzo 2023, n. 3293; Cons. Stato, sez. VII, 29 marzo 2023, n. 3246; Cass. pen., sez. III, (ud. 21 ottobre 2020) 11 novembre 2020, n. 31521 e 12 novembre 2020, n. 31760; Cons. Stato, sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 769; Cons. Stato, sez. VI, 1 dicembre 2014, n. 5934; Cons. Stato, sez. VI, 11 settembre 2013, n. 4497; Cons. Stato, sez. VI, 30 luglio 2013, n. 4010; Cons. Stato, sez. VI, 24 gennaio 2011, n. 482; peraltro - e ovviamente - questa tipologia di beni “non può ritenersi ricomprendere indiscriminatamente tutti gli edifici facenti parte del centro storico”: così Cons. Stato, sez. III, 28 giugno 2023, n. 6298.
[13] Tale doppia condizione è posta unicamente per i beni di interesse culturale di tipo storico-artistico intrinseco, perché l’art. 10, comma 5, del codice la riferisce solo ai beni di cui ai precedenti commi 1 e 3, lett. a) ed e): essa non riguarda dunque - per i beni tanto pubblici quanto privati - né i documenti, gli archivi e le raccolte librarie (per i beni pubblici vale l’art. 10, comma 2, di cui già si è detto; per i beni privati, le lett. b) e c) dell’art. 10, comma 3) né i beni di interesse culturale “relazionale” o “identitario” (contemplati dalla lett. d) dello stesso art. 10, comma 3, che detta, come si dirà, un identico regime per i beni pubblici e privati).
[14] Fermo restando il rispetto della concorrente condizione dell’esecuzione da parte di autore non vivente, è possibile, per i beni sia pubblici sia privati, al ricorrere dei presupposti indicati all’art. 10, comma 3, lett. d-bis), del codice, di cui si dirà infra al § 2.4, la riduzione del periodo minimo indicato in testo a cinquant’anni, vale a dire al periodo che aveva rappresentato per oltre un secolo - e cioè almeno dalla legge c.d. Nasi 12 giugno 1902, n. 185 (se ne veda l’art. 1, comma secondo) fino alle leggi di cui si dirà alla nota 20 - la soglia ordinaria per l’applicazione della tutela.
[15] Eccezionalmente, la doppia condizione indicata in testo non trova applicazione qualora i beni di interesse storico-artistico intrinseco siano inseriti in raccolte pubbliche (e perciò rientrino nel comma 2 dall’art. 10, cui, come già si è detto, il comma 5 non rimanda): questa differenza è peraltro giustificata, perché l’inserimento in tali raccolte, e cioè la “musealizzazione”, da un lato implica l’apprezzamento di un valore culturale del bene così significativo da non richiederne la sedimentazione nel tempo e, dall’altro lato, non ostacola, ma anzi esalta l’affermazione artistica (e, per tanti versi, anche economica) dell’autore.
[16] Invero, le previsioni del codice, nella loro formulazione testuale, sono apparentemente illogiche, perché richiedono la “verifica della sussistenza dell’interesse” culturale (art. 12, comma 2) sulle “cose indicate all’articolo 10, comma 1” (così l’art. 12, comma 1, cui il comma 2 rinvia), e cioè su cose che, secondo quanto espressamente dispone tale art. 10, comma 1, “presentano” interesse culturale. Questa apparente illogicità può essere, peraltro, ragionevolmente superata supponendo - come appunto si è detto in testo - che il combinato disposto delle norme ora indicate introduca una presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale in tutte le cose di proprietà pubblica indicate all’art. 12, comma 1, e, di conseguenza, sottoponga tali cose a tutela (art. 12, comma 1) in quanto beni culturali (art. 10, comma 1), facendo tuttavia salva la possibilità della prova contraria, da effettuarsi attraverso il procedimento amministrativo di verifica, disciplinato dai commi successivi del medesimo art. 12. Si noti, peraltro, come appaia più esatta la formulazione usata dall’art. 54, comma 2, lett. a), e dell’art. 65, comma 2, lett. a), del codice (rispettivamente in tema di inalienabilità e di inesportabilità dei beni in questione prima della verifica), la quale fa riferimento non alle cose “indicate” all’art. 10, comma 1, ma alle cose “appartenenti ai soggetti indicati” all’art. 10, comma 1. In ogni caso, la giurisprudenza appare univoca nel sostenere la lettura qui proposta: si vedano, tra le altre, Cass. civ., sez. V, 5 ottobre 2016, n. 19878 (richiamata, più recentemente, anche da Cass. civ., sez. II, 17 ottobre 2023, n. 28792), secondo cui “per il patrimonio culturale di proprietà pubblica ... è previsto un sistema di tutela che può definirsi reale in quanto vige una presunzione di interesse storico ed artistico, ... [la quale] può essere definita provvisoria, in quanto sussiste fino a quando non sia stata effettuata una verifica da parte del Ministero competente, che può avvenire d’ufficio o su istanza dei soggetti a cui le cose appartengono, circa la effettiva sussistenza dell’interesse culturale del bene ... Qualora, infatti, all’esito di tale verifica sul bene, non dovesse essere riscontrato alcun interesse culturale, lo stesso non godrebbe affatto delle norme di protezione”; Cons. Stato, sez. VI, 4 agosto 2023, n. 7542, secondo cui “in relazione ai beni di proprietà pubblica sussiste una presunzione iuris tantum di interesse culturale, con conseguente sottoposizione al relativo regime di tutela, fino all’esito del procedimento di verifica; questo può concludersi con un provvedimento amministrativo negativo di quell’interesse, che produce gli effetti di una condizione risolutiva di quel regime; ovvero con un provvedimento positivo che conferma e consolida il regime medesimo”; Cons. Stato, sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 769 (richiamata, più recentemente, anche da Cons. Stato, sez. V, 27 agosto 2024, n. 7252), secondo cui l’art. 12 del codice ha “introdotto cautelarmente un vincolo culturale in forza di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica negativa, in quanto finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale e conseguentemente al definitivo esonero dall’applicazione delle disposizioni di tutela dei beni culturali ...; diversamente, in caso contrario e quindi di conferma dell’interesse culturale presunto, le cose di cui all’art. 10 del codice restano definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela”; Cass. pen., sez. III, (ud. 24 ottobre 2008) 18 novembre 2008, n. 42899, secondo cui “allorché ricorrano entrambe le condizioni ... [previste dall’art. 12, comma 1, del codice] le cose appartenenti agli enti indicati nell’art. 10, comma 1, sono soggette a tutela provvisoria finché non venga eseguita la verifica della effettiva sussistenza del loro interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”.
[17] Cons. Stato, sez. V, n. 7252/2024, cit.; Cons. Stato, sez. I, 18 novembre 2020, affare 849/2020 (spedizione n. 1999/2020 del 9 dicembre 2020); Cons. Stato, sez. I, 4 novembre 2020, affare 1714/2019 (spedizione n. 1958/2020 del 30 novembre 2020).
[18] È peraltro da ritenere che faccia eccezione il caso dei beni menzionati alle lett. b)-e) dell’elencazione di cui all’art. 10, comma 4, del codice, perché ai fini della qualificazione di tali beni come culturali è richiesta la presenza (e, quindi, la verifica positiva) di caratteri “di rarità e di pregio”.
[19] Secondo dati statistici, solo il 19,2% degli edifici presenti sul territorio nazionale è anteriore al 1919; il 12,3% è stato costruito tra le due guerre (1919-1945) e quasi il 70% (68.5%) dal secondo dopoguerra a oggi.
[20] In questo senso disponeva il codice come modificato dall’art. 4, comma 16, lett. a), b) e c), del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, conv. con modif. in legge 12 luglio 2011, n. 106. La generalizzazione del periodo a settant’anni per tutti i beni, sia pubblici sia privati, della quale già si è dato conto in testo, è stata poi operata con la successiva novella del codice di cui all’art. 1, comma 175, lett. a), b) e c), della legge 8 agosto 2017, n. 124.
[21] Non è invece da ritenere che la valutazione circa l’assenza ictu oculi dell’interesse culturale possa essere rimessa a un’autoricognizione degli stessi enti pubblici proprietari: la logica delle norme del codice ora in esame è, infatti, di riservare al solo ministero il potere di smentire la presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale.
[22] Solo l’art. 28, comma 3, del codice impone che all’ordine di inibizione o sospensione di lavori abusivi sui beni culturali pubblici non ancora verificati faccia seguito, entro trenta giorni, l’avvio d’ufficio del procedimento di verifica, onde mantenere efficacia all’ordine stesso.
[23] I successivi commi 5 e 6 del medesimo art. 12 esplicitano alcune conseguenze - peraltro scontate - della verifica negativa: la libera alienabilità del bene (che cessa di essere soggetto ai limiti alla circolazione giuridica dettati per i beni culturali pubblici) e la sua sdemanializzazione, qualora esso, in forza della presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale, facesse parte del demanio culturale. Sui limiti alla circolazione giuridica dei beni culturali pubblici e sul concetto di demanio culturale si veda infra al § 4.
[24] In questo senso si esprime Cass. pen., sez. III, n. 42899/2008, cit. Fa eccezione solo l’ipotesi, del tutto particolare, della verifica negativa, senza effetto retroattivo, conseguente alla perdita sopravvenuta dell’interesse culturale del bene, a seguito, ad esempio, di rovina irreparabile.
[25] Non è prevista, invece, la notifica formale della verifica positiva (anche se l’atto andrà comunque portato a conoscenza dell’interessato); ciò in quanto, a differenza della dichiarazione, la verifica non segna l’inizio dell’applicazione al bene di un regime giuridico nuovo, ma la continuazione dell’applicazione del medesimo regime cui il bene era già soggetto prima della verifica, in virtù della presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale.
[26] La dichiarazione di interesse culturale “estrinseco” ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), del codice su un bene di proprietà pubblica è possibile - stante la differenza dell’interesse tutelato - anche se esso era stato fatto oggetto di verifica negativa per la rilevata assenza dell’interesse culturale “intrinseco”: così Cons. Stato, sez. VI, 21 gennaio 2025, n. 412.
[27] Nonostante ciò, tali norme non sono contenute nel capo del codice dedicato alla “protezione e conservazione” dei beni culturali, ma sono inserite - evidentemente per la loro rilevanza e per le implicazioni di diritto dell’Uu e internazionale - in un capo autonomo, rubricato “circolazione in ambito internazionale”: cfr., rispettivamente, il capo III e il capo V del titolo I della parte II del codice.
[28] Peraltro, la peculiarità di queste previsioni è in gran parte venuta meno per effetto della legge 11 febbraio 2005, n. 15 di riforma della legge 7 agosto 1990, n. 241, la quale, come è noto, ha modificato l’art. 11, comma 1, della legge n. 241/1990 consentendo la conclusione di accordi sostitutivi di provvedimenti in ogni caso, e non più soltanto (come era al momento dell’approvazione del codice) nelle ipotesi specificamente previste dalla legge.
[29] Il divieto è posto direttamente per legge e riguarda tutte le categorie di beni culturali pubblici come sopra individuate: l’art. 65 del codice, al comma 1, fa difatti riferimento ai beni di cui all’art. 10 del codice, comma 1 (e cioè i beni pubblici positivamente verificati), comma 2 (e cioè i documenti pubblici e beni appartenenti a raccolte pubbliche) e comma 3 (che può riguardare pure i beni pubblici, nei casi in cui anche per essi occorra la dichiarazione); il medesimo art. 65, al comma 2, lett. a), allude invece ai beni pubblici per i quali vale la presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale in attesa della verifica.
[30] Per i dettagli di questa disciplina - il cui approfondimento esula dall’oggetto del presente scritto, riguardando i beni di proprietà privata - si vedano gli artt. 65, commi 3, 4 e 4-bis, 68, 69 e 74 del codice.
[31] Ne sono esempi, nel codice: l’art. 30, comma 2, che per i beni culturali pubblici conferisce al ministero il potere di indicare il modo in cui gli stessi devono essere “fissa[ti] ... nel luogo di loro destinazione”, e ciò essenzialmente - si ritiene - per finalità espositive; l’art. 34, comma 1, che per i beni culturali “in uso o godimento pubblico” consente al ministero di concorrere in tutto o in parte alle spese occorrenti per gli interventi conservativi; l’art. 48, comma 3, che per i beni culturali pubblici subordina il rilascio dell’autorizzazione a partecipare a mostre anche alla valutazione “delle esigenze di fruizione pubblica”.
[32] Si ricorda che, per i beni immobili e mobili registrati, il codice (art. 15, comma 2) richiede la trascrizione del provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale e stabilisce espressamente che, in conseguenza di ciò, la dichiarazione “ha efficacia nei confronti di ogni successivo proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo” del bene dichiarato.
[33] Resta fermo, peraltro, che l’acquirente di beni culturali mobili non è autorizzato, anche se è stabilito all’estero, a spostare i beni acquistati fuori dai confini nazionali (stante il divieto assoluto, di cui già si è detto, posto dall’art. 65, comma 1, del codice). All’interno dei confini nazionali, invece, lo spostamento dei beni culturali in conseguenza della loro alienazione non deve, di norma, essere autorizzato, ma va semplicemente denunciato ex art. 21, comma 2, del codice, perché si tratta di uno spostamento “dipendente dal mutamento di dimora o di sede del detentore»; tuttavia, tale spostamento potrebbe non essere consentito qualora il bene culturale alienato, in virtù del provvedimento di dichiarazione del suo interesse culturale, sia stato configurato come pertinenza culturale di un immobile, e come tale non è da esso rimuovibile, ovvero faccia parte di una collezione, serie o raccolta dichiarata di interesse culturale, e come tale non è da essa smembrabile o scartabile, se non con autorizzazione del ministero ex art. 21, comma 1, lett. c) e d), del codice.
[34] Così l’art. 56, comma 4-quinquies, del codice, che è testualmente riferito alle sole alienazioni regolate da tale articolo, ma è, con tutta evidenza, norma di applicazione generale.
[35] In giurisprudenza è stato peraltro precisato che questo regime non si applica ai contratti preliminari: Cass. civ., sez. II, 27 novembre 2019, n. 30984.
[36] Così ancora, espressamente, l’art. 56, comma 4-quinquies, del codice, già citato alla nota 34.
[37] Come si desume dall’art. 60, comma 1, del codice.
[38] Anche la costituzione di diritti reali minori in favore di privati (servitù, diritti d’uso, di superficie, di usufrutto ecc.) può infatti recare pregiudizio, al pari degli atti traslativi della proprietà piena, alle esigenze di conservazione e pubblica fruizione dei beni culturali pubblici che ne sono oggetto (e cioè alle esigenze la cui salvaguardia costituisce, come si dirà, la ragione delle limitazioni alla circolazione giuridica dei beni in questione).
[39] La norma intende riferirsi, in particolare, alle concessioni e locazioni di immobili dello Stato ai privati, come disciplinate dall’art. 3-bis del d.l. 25 settembre 2001, n. 351 (introdotto dall’art. 1, comma 259, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 e reso applicabile agli immobili di tutti gli enti pubblici dall’art. 58, comma 6, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. in legge 6 agosto 2008, n. 133). Tale art. 3-bis, peraltro, fa già espressamente salva l’applicazione del codice.
[40] Il codice menziona separatamente, come beni inalienabili, le opere di autore vivente o di esecuzione posteriore al settantennio, se inserite nelle raccolte pubbliche indicate in testo [cfr. l’art. 54, comma 1, lett. d-ter), del codice; questa previsione è mantenuta ferma - non si comprende, peraltro, a quale scopo - anche dall’art. 56, comma 4-septies, del codice]. La menzione separata di questi beni, rispetto alle raccolte pubbliche che li contengono, è tuttavia superflua, perché, come già si è detto, tutti i beni inseriti in raccolte pubbliche museali, archivistiche e librarie sono beni culturali sottoposti alle norme del codice (ivi dunque compreso, per quanto ora interessa, il regime di inalienabilità proprio delle raccolte che li contengono) anche quando sono opera di autore vivente o di esecuzione posteriore al settantennio.
[41] Per quanto riguarda le raccolte librarie, è da ritenere che il regime di inalienabilità non si applichi a quelle che il codice stesso non qualifica come beni culturali, e cioè quelle di cui all’eccezione, già sopra esaminata, prevista dall’art. 10, comma 2, lett. c), del codice.
[42] Nel caso dei documenti e degli archivi, l’inalienabilità si spiega non solo in funzione dell’accesso del pubblico, per ragioni di informazione o di ricerca, ma anche perché - ameno per quanto riguarda i documenti e gli archivi relativi alle pratiche correnti - si tratta di strumenti indispensabili all’esercizio dell’azione amministrativa.
[43] I monumenti nazionali sono singoli beni ai quali tale qualifica è stata attribuita o sulla base di norme di legge speciale (si vedano, tra le più recenti, la legge 9 marzo 2022, n. 20, relativa all’ex campo di prigionia di Servigliano; l’art. 1, comma 2, del d.l. 20 luglio 2021, n. 103, conv. con modif. in legge 16 settembre 2021, n. 125, relativo alle vie urbane d’acqua Bacino di San Marco, Canale di San Marco e Canale della Giudecca di Venezia; la legge 5 luglio 2019, n. 65, relativa al ponte sul Brenta in Bassano del Grappa, detto “Ponte Vecchio di Bassano”; la legge 20 dicembre 2017, n. 213, relativa alla Casa Museo Matteotti in Fratta Polesine) o in occasione della dichiarazione di interesse culturale di tipo “relazionale” o “identitario” ai sensi del sopra esaminato art. 10, comma 3, lett. d), del codice: questa norma, come da ultimo modificata dall’art. 6, comma 1, della legge 12 ottobre 2017, n. 153, prevede che se i beni oggetto della dichiarazione in questione “rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale”, il provvedimento “può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale”.
[44] Questo dipende dalle fonti di origine delle norme codificate: nel settore degli archivi e dei documenti, infatti, l’inalienabilità estesa ai beni di tutti gli enti pubblici, anche non territoriali, è sempre stata prevista dalla normativa di settore (cfr., in passato, l’art. 18 del d.p.r. 30 settembre 1963, n. 1409); per tutti gli altri beni del patrimonio culturale pubblico, invece, l’inalienabilità assoluta era propria, in virtù dell’art. 823, comma primo, cod. civ., solo dei beni demaniali.
[45] Questa inalienabilità provvisoria e cautelativa vale, perciò, solo per i beni culturali pubblici soggetti al regime della presunzione legale di sussistenza dell’interesse culturale salvo verifica. Essa non opera, di conseguenza, per le raccolte museali e librarie degli enti pubblici non territoriali, le quali, come si è detto, sono beni culturali ex lege ai sensi dell’art. 10, comma 2, lett. c), del codice, ma, non essendo beni demaniali, non sono assolutamente inalienabili ai sensi del già esaminato art. 54, comma 1, lett. c), del codice. Le raccolte in questione sono, quindi, soggette unicamente al regime, di cui ora si si dirà in testo, di inalienabilità relativa, come viene peraltro esplicitato dell’art. 56, comma 2, lett. a), del codice.
[46] Va ovviamente considerato solo il caso dell’esito positivo della verifica, perché la verifica negativa, come già si è detto, smentisce la presunzione di sussistenza dell’interesse culturale, sicché i beni negativamente verificati non sono beni culturali e non sono perciò soggetti alle limitazioni alla circolazione giuridica ora in esame. La libera alienabilità dei beni negativamente verificati è peraltro espressamente prevista - in modo finanche sovrabbondante - da ben tre norme del codice: l’art. 12, comma 6, di cui già si è detto; il secondo periodo dell’art. 54, comma 2, lett. a), nonché l’art. 56, comma 4-sexies.
[47] Va segnalato, peraltro, che il regime di inalienabilità relativa dettato dal codice deve essere coordinato con eventuali ulteriori previsioni che stabiliscano, per altre ragioni, l’inalienabilità dei beni culturali pubblici in questione. Si vuol dire, cioè, che le autorizzazioni ad alienare i beni culturali pubblici rilasciate dal ministero potrebbero non bastare per procedere in tal senso, qualora detti beni restino comunque inalienabili ad altri fini, ad esempio in quanto opere destinate alla difesa militare o costituenti acquedotti, ponti, strade, porti, aeroporti o ferrovie (e quindi beni del demanio ex art. 822, comma primo, cod. civ.) o edifici destinati a caserme o a sede di uffici pubblici o arredi di tali uffici o beni destinati a un pubblico servizio o armamenti, aeromobili militari o navi da guerra o beni della dotazione del Presidente della Repubblica (e come tali beni del patrimonio indisponibile ex art. 826 cod. civ. o comunque soggetti a tale regime ex art. 828, comma secondo, cod. civ.). Di qui l’ulteriore necessità di assumere, da parte degli enti pubblici proprietari, atti formali di sottrazione alla destinazione (se questa è ancora effettiva, e cioè non è obiettivamente cessata), al fine di dare corso all’alienazione autorizzata dal ministero.
[48] A questa norma fanno rinvio, come è noto, sia l’art. 824, comma primo, cod. civ., per il demanio comunale e provinciale, sia l’art. 11 della legge 16 maggio 1970, n. 281 e le corrispondenti norme degli Statuti speciali, per il demanio regionale.
[49] Secondo la giurisprudenza, il “fatto oggettivo della presenza dell’interesse storico ed artistico ... [è] l’unico titolo costitutivo dell’inclusione, nel demanio pubblico, del bene immobile di proprietà ... [di ente pubblico territoriale], senza che vi osti la carenza di un formale provvedimento che lo accerti ed enunci ..., essendo bastevoli al riguardo le intrinseche qualità e caratteristiche del bene” (così, da ultimo, Cass. civ., sez. II, n. 28792/2023, cit. e ivi precedenti in termini). Nel vigore del codice (cui l’indicata giurisprudenza non fa riferimento, essendo relativa a vicende temporalmente anteriori), non pare dubbio che questo orientamento sia da intendere nel senso che per l’inclusione dei beni culturali nel demanio pubblico ex art. 822 cod. civ. non è necessaria la verifica positiva dell’interesse culturale (del resto, lo stesso art. 12, comma 5, del codice lo dà per scontato, laddove stabilisce che la verifica negativa produce la “sdemanializzazione” del bene, in tal modo postulando che, fino all’intervento di questa, il bene fosse da qualificare come demaniale a prescindere da ogni formale accertamento), ma devono in ogni caso sussistere i presupposti minimi di legge per il riconoscimento della presunzione relativa di “culturalità” (e cioè l’esecuzione anteriore al settantennio e la morte dell’autore).
[50] È il caso della cessione delle cose ritrovate (a) a favore del proprietario dell’immobile che è stato occupato per l’esecuzione delle ricerche archeologiche, a titolo di indennità di occupazione, ovvero (b) a favore del proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento e del concessionario dell’attività di ricerca che ha effettuato il ritrovamento o dello scopritore fortuito, a titolo di premio: si vedano gli artt. 88, comma 3 e 92, del codice.
[51] Se il ministero valuta la sussistenza di pregiudizi e perciò nega l’autorizzazione, ha peraltro facoltà di indicare, nell’atto di diniego, “destinazioni d’uso ritenute compatibili con il carattere del bene e con le esigenze della sua conservazione” (così il secondo periodo dell’art. 55, comma 3-bis, del codice).
[52] Questo peraltro non significa che il bene, per essere alienabile, abbisogni nell’immeditato dell’attuazione delle misure indicate nel programma: nulla vieta, infatti, che l’alienazione riguardi beni in perfetto stato conservativo.
[53] Ovviamente, tutti gli interventi conservativi che il privato realizzerà sul bene acquistato - il quale, come si dirà, resta assoggettato alla normativa di tutela anche dopo la privatizzazione - dovranno essere previamente autorizzati dal ministero secondo le normali regole di protezione e conservazione dei beni culturali (vale a dire ai sensi degli artt. 21 e 31 del codice): ciò viene peraltro espressamente ribadito, a scanso di equivoci, dagli artt. 55, comma 3-sexies, e 56, comma 4-quater, del codice.
[54] Le prescrizioni relative agli usi compatibili possono operare, peraltro, solo “in negativo, a salvaguardia dell’integrità e conservazione del bene e dei valori artistici e storici di cui è espressione, ma non possono imporre in positivo singole destinazioni d’uso”: così Cons. Stato, sez. VI, 5 giugno 2007, n. 2984.
[55] Ai sensi dell’art. 57-bis, comma 2, del codice, la trascrizione delle prescrizioni e l’obbligo di riportarle sull’atto è previsto anche in caso di concessione d’uso e locazione degli immobili pubblici culturali. L’inosservanza di tali prescrizioni da parte del concessionario o locatario va comunicata dal ministero all’ente pubblico proprietario del bene e comporta, a iniziativa di quest’ultimo, la revoca della concessione o la risoluzione del contratto di locazione, senza indennizzo.
[56] La norma è testualmente riferita solo agli immobili del demanio culturale, ma è senz’altro suscettibile di applicazione generale. D’altra parte, la conseguenza più importante della permanenza del regime di tutela sul bene privatizzato è la necessità della preventiva autorizzazione del ministero per l’esecuzione di opere e interventi di qualunque genere sul bene stesso e tale specifica conseguenza, come già si è detto, è testualmente prevista dal codice per tutti i beni culturali privatizzati.
[57] In applicazione di questa norma avvengono i trasferimenti di beni culturali demaniali dallo Stato agli enti pubblici territoriali, su domanda di questi ultimi, in attuazione del d.lg. 28 maggio 2010, n. 85 sul c.d. “federalismo demaniale”. Ai sensi dell’art. 5, comma 5, di tale d.lg. il trasferimento è peraltro subordinato alla previa sottoscrizione, tra lo Stato (e, per esso, l’Agenzia del Demanio e il ministero) e l’ente richiedente, di un accordo di valorizzazione dei beni trasferiti ai sensi dell’art. 112, comma 4, del codice.
[58] Così, testualmente, Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2015, n. 2913; Cons. Stato, sez. VI, 29 maggio 2012, n. 3209. Si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 8 aprile 2016, n. 1399, secondo cui “l’ente pubblico a cui favore la legge dispone la prelazione (Soprintendenza, Regione o altro ente territoriale), nella delibera di esercizio della prelazione, è onerato di esplicitare ... [le] specifiche finalità [di valorizzazione culturale del bene] a evitare che l’acquisizione avvenga per mere finalità proprietarie: queste infatti, senza un progetto di valorizzazione, rappresenterebbero un uso distorto di un potere ablatorio che è eccezionalmente concesso solo per la miglior cura e offerta al pubblico godimento del patrimonio culturale in quanto tale”. In applicazione di questo orientamento fu, ad esempio, considerato illegittimo l’esercizio della prelazione motivato per l’esigenza di destinare l’immobile che ne costituiva oggetto a sede di uffici del ministero, perché questa esigenza “esula dalle finalità di tutela del patrimonio storico-artistico cui è ispirata” la legislazione in materia (ratione temporis la legge n. 1089/1939 e oggi il codice): così Cons. Stato, sez. VI, 21 febbraio 2001, n. 923. Più recentemente, è stato peraltro reputato sufficiente, dal punto di vista motivazionale, “che siano anche brevemente e sommariamente enunciate le attività» di valorizzazione del bene culturale che l’ente pubblico esercitante la prelazione intende compiere, senza che sia necessaria l’elaborazione di uno “specifico ed articolato “progetto di valorizzazione” del bene stesso”: così Cons. Stato, sez. V, 11 dicembre 2023, n. 10651.
[59] Peraltro, la scelta dei privati di aprire al pubblico “strutture espositive e di consultazione” o complessi monumentali integra, ai sensi del codice (art. 101, comma 4), espletamento di un “servizio privato di utilità sociale”, con ciò che ne consegue in termini di applicazione di regimi agevolativi (ad esempio fiscali).
[60] Ulteriori limiti specifici riguardano la fruizione pubblica degli archivi per ragioni di riservatezza: si vedano, in proposito, gli artt. 122-127 del codice.
[61] Si veda, da ultimo, l’art. 24 del d.p.c.m. 15 marzo 2024, n. 57, recante il regolamento di organizzazione del ministero.