Beni e proprietà pubblica
Dalla proprietà pubblica alle proprietà pubbliche
di Giacinto della Cananea [*]
Sommario: 1. Una congettura. - 2. Context matters: Francia, Italia e Germania. - 3. La teoria classica della proprietà pubblica: Otto Mayer. - 4. La teoria classica della proprietà pubblica: Santi Romano e Guido Zanobini. - 5. La proprietà pubblica nella Costituzione. - 6. Dall’appartenenza al fine. Beni demaniali sottratti all’uso del pubblico. - 7. Dall’appartenenza agli usi. I beni privati destinati ai servizi pubblici. - 8. Implicazioni per i “beni comuni”. - 9. Una “échelle de domanialité”?. - 10. Bilancio e prospettive.
Il contributo propone un'analisi critica della teoria della proprietà pubblica, a partire dagli insegnamenti di Santi Romano e Zanobini, passando per i profili relativi ai beni demaniali, fino all’avvento della Costituzione. A trovare uno spazio di approfondimento scientifico è il tema del regime di gestione dei beni pubblici, anche in una prospettiva di comparazione storica, specialmente rispetto all'ordinamento francese.
Parole chiave: proprietà statale; teoria della proprietà pubblica; gestione del patrimonio pubblico.
From the public ownership to the public properties
The paper offers a critical analysis of the theory of public property, beginning with the teachings of Santi Romano and Zanobini, and moving on to profiles related to state property until the Constitution. It also explores the management regime of public property from a perspective of historical comparison, especially with respect to the French system.
Keywords: property; state property; theory of public property; management of public property.
Questo scritto raccoglie uno spunto e sottopone a verifica una congettura. Lo spunto è offerto dal “Diritto dei beni e della proprietà pubblica” di Vincenzo Cerulli Irelli [1]. L’autore è tornato a misurarsi con il tema che ha scelto all’inizio del suo lungo percorso di studioso, evidentemente ritenendolo tuttora degno di considerazione, un convincimento pienamente condivisibile, anche alla luce di altri contributi recenti. Si è misurato, segnatamente, con la tradizionale ricostruzione della proprietà pubblica elaborata dai Maestri del diritto pubblico attivi tra Otto e Novecento, come Otto Mayer.
Al tempo stesso, la integra, la corregge, se ne differenzia, facendo tesoro dell’apporto degli studiosi delle generazioni attive nel secondo dopoguerra, come Feliciano Benvenuti, Massimo Severo Giannini e Sabino Cassese.
La congettura è che, grazie anche al contributo di vari studiosi, si possa, si debba, sottoporre a un attento vaglio critico la “teoria” della proprietà pubblica. Ad essa ho fatto riferimento per la prima volta venti anni or sono in un paio di scritti, esponendo l’ipotesi che l’accresciuta importanza degli usi rispetto all’appartenenza richiedesse una riconsiderazione di quella teoria. Con il vantaggio della retrospettiva, quell’ipotesi può essere ripresa e sviluppata. A tal fine, conviene seguire lo schema collaudato per le analisi di questo tipo, illustrando la teoria classica della proprietà pubblica.
In seguito, saranno considerati alcuni versanti sui quali la teoria ha mostrano limiti, per via del rilievo giuridico che l’ordinamento attribuisce alle finalità perseguite e agli usi cui determinati beni sono destinati, a prescindere dalla loro appartenenza, segnatamente nell’ambito dei servizi pubblici.
2. Context matters: Francia, Italia e Germania
Nel valutare l’adeguatezza d’una teoria giuridica, rileva senz’altro in modo particolare l’insieme delle norme positive. Ma il contesto, determinato dalla tradizione, dalla cultura, dalla giurisprudenza, è parimenti importante [2]. Lo è, ovviamente, anche il metodo.
Una lunga e nobile tradizione di pensiero, risalente all’esperienza giuridica romana, ha distinto tra i beni appartenenti allo Stato e ad altri enti (“universitates”) dai beni comuni (“res communes omnium”), ritenuti adespoti e destinati all’uso da parte di tutti, e dai beni privati. Diversamente da questi ultimi, gli altri beni sono stati sottratti agli scambi e alle azioni esperibili da parte dei privati [3]. Quella tradizione non ha perso valore in seguito.
Probabilmente non a caso, nel maggior teorico della sovranità nel periodo di formazione dello Stato moderno, Jean Bodin, troviamo un’enfatizzazione della proprietà pubblica. Nelle parole di Bodin, “oltre alla sovranità, a formare lo Stato concorre necessariamente qualcosa di comune e pubblico: strade, mura, piazze, …, tali beni sono destinati a restare nella riserva dello Stato per l’utile suo - che è un utile collettivo per definizione - e secondo un titolo che non può essere assimilato a quello dominicale privato” [4]. Con terminologia moderna, può dirsi che “vi sono cose appropriabili secondo il diritto comune (‘proprietà privata’) e cose non appropriabili secondo il diritto comune (‘proprietà pubblica’)” [5].
I riferimenti effettuati al contesto e al metodo tornano utili per comprendere perché l’elaborazione d’una teoria generale della proprietà pubblica sia stata considerata necessaria, irrinunciabile nel contesto tedesco ben più che in quello italiano e, a fortiori, in quello francese.
All’inizio dell’Ottocento, la Francia da pochi anni aveva superato gli eccessi rivoluzionari ed era sempre più orientata al modo di produzione di tipo capitalistico, sicché la produzione era produzione di beni e servizi prodotti per essere venduti a un prezzo inclusivo di un profitto. Il Code Civil des français, emanato da Napoleone Bonaparte nel 1804, rispecchiò questa prospettiva. Soltanto i beni inclusi nel “domaine public” furono esclusi dall’impostazione dominante.
L’articolo 714 del Code Civil si limitò a stabilire che vi sono delle “cose” che non appartengono a nessuno e per le quali l’uso è comune a tutti, rinviandone la regolazione alle leggi di polizia (amministrativa).
Furono i Maestri del diritto pubblico tra Otto e Novecento - Maurice Hauriou, Léon Duguit, Gaston Jèze - a generalizzare le regole fondamentali dei beni demaniali: l’incommerciabilità, l’imprescrittibilità, l’esclusione delle azioni normalmente esperibili dai privati per la tutela della proprietà e del possesso.
Nel Précis de droit administratif, Hauriou richiamò i precedenti storici di quelle regole, come l’Ordinanza de Moulins del 1566, ma chiarì che esse avevano una portata ben più ampia [6]; fece riferimento alle disposizioni civilistiche che ponevano alcune cose fuori dal commercio, ma anche alla giurisprudenza del Conseil d’Etat; individuò la ragion d’essere del regime giuridico del demanio nella destinazione dei vari beni all’utilità pubblica [7]; ne segnalò una conseguenza di cui a volte si è perduta consapevolezza, ossia la natura precaria delle concessioni rilasciate ai singoli, che costituivano una prassi diffusa già a quell’epoca [8].
In Italia, durante il periodo napoleonico il Codice civile francese fu applicato direttamente nelle parti che furono assoggettate al dominio francese, con tutto ciò che tale dominio comportava, anche il saccheggio delle opere d’arte. Il Codice era, peraltro, ben più avanzato delle leggi vigenti in varie parti della penisola. Esso manifestò, quindi, la sua influenza anche indirettamente.
Lo fece dove le classi dirigenti furono consapevoli della superiorità di un assetto basato su leggi generali - come i codici e le leggi amministrative - volto a garantire la certezza del diritto, in vista del buon funzionamento di un’economia di mercato, che più di ogni altra rifugge l’incertezza. Se nel 1861 il tragitto nella direzione di un’economia capitalistica poteva dirsi anche in Italia ampiamente avviato e l’unificazione del mercato conseguita, si dovette attendere qualche anno, fino al 1865, perché l’Italia si dotasse di un Codice Civile e realizzasse l’unificazione amministrativa.
Il problema della individuazione dei beni pubblici non si pose - diversamente dalla Germania - perché il Codice civile del Regno di Sardegna del 1837 aveva seguito il Code Napoléon fin dalla tripartizione in persone, diritti reali e contratti e aveva utilizzato un criterio di tipo analitico, con particolare riguardo per il demanio militare (mura, fosse, bastioni delle piazze di guerra e delle fortezze) [9]. Pochi anni più tardi, un’alta borghesia poco estesa e una piccola borghesia numerosa [10] ebbero l’opportunità di acquistare i beni degli enti ecclesiastici, alienati e messi in vendita dalla Destra storica [11]. Ne forniscono interessanti resoconti le cronache dell’epoca e alcune opere letterarie, segnatamente I Viceré di De Roberto [12].
In Germania, il moto verso l’unificazione economica nazionale fu assecondato dalla unione doganale e dall’unificazione politica, conseguita nel 1866. Ma le norme sostanziali e processuali rimasero distinte nelle varie parti del paese. Il Codice civile per l’intera Germania (Bürgerliches Gesetzbuch, Bgb) non fu adottato che nel 1896 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1896. In assenza di un corpus di norme generali sulle proprietà pubbliche, gli studiosi e i giudici assunsero un ruolo di supplenza. Il punto di riferimento per molti, moltissimi, fu l’opera di Otto Mayer.
Prima di darne conto, è bene dire che l’importanza del contesto è stata qui richiamata, ma non pienamente sviluppata. Per farlo, bisognerebbe disporre d’una analisi dei paesi considerati che delle rispettive cornici giuridiche e delle vicende principali proponesse un’interpretazione consolidata, idealmente esaustiva delle capacità esplicative quanto meno delle variabili giuridico-istituzionali. A questa interpretazione l’analisi giuridica non è ancora pervenuta. Per questi motivi allo stato attuale delle nostre conoscenze è arduo andare oltre la ricerca di prime, semplici, correlazioni tra le variabili giuridico-istituzionali e l’elaborazione di background theories, di cui i giuristi si servono nei casi più complessi.
3. La teoria classica della proprietà pubblica: Otto Mayer
Chiamato a insegnare a Strasburgo dopo l’annessione dell’Alsazia e della Lorena, Mayer è ben consapevole dell’importanza della tradizione giuridica francese, di cui ha una conoscenza approfondita. Attinge ampiamente alla dottrina francese al fine di dare nobiltà teorica al diritto amministrativo tedesco, di cui elabora per primo i concetti e i principi. La teoria della proprietà pubblica è uno di quei concetti.
Nel Deutsches Verwaltungsrecht Mayer espone una serie di riflessioni ispirate da un indubbio rigore sistematico. Il demanio non era sempre esistito, quanto meno non nelle forme note nell’Ottocento [13]. In quel preciso momento storico, il regime giuridico del demanio è contraddistinto dalla presenza di potestà speciali, in ragione dell’esistenza di uno specifico pubblico interesse [14].
Nell’esercizio di tali potestà, le autorità pubbliche determinano gli usi ai quali i vari beni sono destinati. Tra tali essi, spicca l’uso da parte di tutti [15], che è la forma più evidente in cui l’utilità pubblica si manifesta e che per una serie di beni si configura come l’uso ordinario. Altri usi, di tipo riservato, costituiscono altrettante eccezioni e richiedono quindi un apposito titolo giuridico, un permesso speciale [16]. Di norma, esso è rilasciato attraverso un provvedimento di concessione, connotato da un alto tasso di discrezionalità, poiché non vi sono diritti dei privati rispetto a quei beni. A sé, su un diverso piano, stanno le limitazioni amministrative della proprietà privata.
Illustrato, a grandi linee, il disegno generale della proprietà pubblica quale è stato concepito da Otto Mayer, alcuni aspetti sono degni di un’analisi più distesa. Innanzitutto, Mayer riprende dal diritto romano e dal diritto amministrativo francese sia il concetto delle res extra commercium, indicando a mo’ di esempio i fiumi, sia il concetto dell’imperium. I beni pubblici assoggettati all’incommerciabilità, all’imprescrittibilità, al divieto di servitù legali e - a fortiori - di usucapione non sono semplicemente una specie tra le altre: sono “la proprietà dello Stato propriamente detta” [17].
Essi corrispondono - ecco il secondo aspetto degno di nota - a una delle due componenti dello Stato, cioè lo Stato propriamente detto, distinto dal fiscus. Quest’ultimo è sottoposto al diritto civile, al pari dei privati, mentre lo Stato propriamente detto non può esserlo. Esso dispone di una disciplina del tutto eccezionale, di un “diritto di superiorità”, affermato in precedenza per alcuni beni, come le strade, e generalizzato da Mayer [18].
Questo diritto non può essere adeguatamente compreso con le categorie elaborate dalla scienza del diritto civile. Come esiste una teoria della proprietà privata, così deve esservi una teoria della proprietà pubblica, elaborata e affinata dagli studiosi del diritto amministrativo. Si tratta di una proprietà per cui la gestione e l’amministrazione è retta dal diritto pubblico, in aperto contrasto con le idee di Georg Jellinek e di altri [19].
D’altronde, osserva Mayer, lo stesso Codice civile si è astenuto dal fissare qualsivoglia regola potesse riguardare il diritto pubblico. La via per definire tali regole è, quindi, un’altra: si tratta di attingere alle singole disposizioni di legge, alle decisioni giudiziarie, ai lavori degli studiosi per definire il regime giuridico speciale che risponda alle esigenze dell’idea generale del bene pubblico (a titolo esemplificativo: strade, piazze, ponti, fiumi, canali navigabili, porti e rive del mare). I tratti distintivi di questo regime sono l’esclusione del diritto civile e l’esistenza di una speciale protezione, detta “polizia del bene pubblico” [20].
In definitiva, quella di Mayer è una teoria generale non di tipo descrittivo, perché ha evidenti intenti prescrittivi ed è presto divenuta jus receptum in Germania. Al netto della diversità dell’assetto istituzionale, vi è una somiglianza con il ceppo di teoria prevalso in Italia.
4. La teoria classica della proprietà pubblica: Santi Romano e Guido Zanobini
Diversamente da altre teorie generali, come quella riguardante la giustizia amministrativa, per quella della proprietà pubblica più che al fondatore della scuola siciliana di diritto pubblico, che ben presto ottenne adesioni in tutta l’Italia, cioè Vittorio Emanuele Orlando, si può fare riferimento all’opera di Santi Romano, che ne proseguì l’opera ed ebbe come allievi, tra gli altri, Guido Zanobini e Massimo Severo Giannini.
Santi Romano da compiuta espressione alla teoria della proprietà pubblica fin dalla sua prima opera generale, i Principii di diritto amministrativo [21]. Secondo questa linea di analisi, “il concetto di proprietà pubblica presuppone l’atro di cosa pubblica.
Cose pubbliche sono ai fini della presente teoria sono quelle che, per lo scopo cui vengono destinate, stanno sottoposte ad un potere giuridico che rientra nel campo del diritto pubblico, senza che perciò resti escluso l’esercizio su di esse di poteri propri del diritto privato” [22]. Lo schema è d’una chiarezza cristallina, nella sua semplicità: implica che il diritto che su una cosa pubblica si esercita appartenga necessariamente a una pubblica amministrazione, che su di essa esercita una “signoria” [23], distinta dai poteri giuridici spettanti ai privati, ma non esclude che l’amministrazione possa esercitare quei poteri. Può farlo tanto più, in quanto vi sono altri beni appartenenti alle amministrazioni pubbliche, le quali li utilizzano soltanto come mezzi. Per lo studioso siciliano, il primo tipo di beni - sottoposti alla signoria - fa parte del demanio, gli altri del patrimonio, visto nelle sue varie componenti [24]. Quanti ai beni demaniali, Romano respinge senza esitazioni l’assunto, “che non sembra esatto”, secondo cui essi costituiscono altrettante “eccezioni all’ordinario regime dei beni, eccezioni che dovrebbero, appunto perché tali, trovarsi espressamente sancite e non estendersi per analogia” [25].
Nell’elaborare la teoria generale della proprietà pubblica Santi Romano combina analisi storica e rigore logico. L’analisi storica torna utile per distinguere il demanio, appartenente allo Stato o a un altro ente pubblico, dalla proprietà collettiva, “istituto che tuttora vige come residuo di un più antico ordinamento di cose e che ricade, … in ben altra categoria giuridica” [26]. Il rigore logico serve sia a determinare esattamente l’oggetto della teoria, cioè la nozione della proprietà pubblica, sia a trarne le inevitabili conseguenze, prima tra tutte l’inerenza della proprietà all’amministrazione, non alla collettività per conto della quale - secondo la tesi criticata, che aveva adesioni nella cultura giuridica francese dell’epoca - essa fungerebbe da gestore. Una volta chiarito che si tratta d’una vera e propria nozione di proprietà, distinta dalla sovranità, essa non va peraltro confusa con la proprietà privata.
Il concetto di proprietà appartiene alla teoria generale, “non è né di diritto privato, né di diritto pubblico” [27], ciò che non è d’impedimento all’enucleazione di due distinte specie composita di proprietà, a seconda che spettino (necessariamente) ai poteri pubblici o ai privati. Questi ultimi sono esclusi, come soggetti del diritto di proprietà pubblica, sia come singoli, sia “considerati nella loro collettività” [28]. Per questo motivo, una cosa non può dirsi pubblica quando, pur essendo assoggettata all’uso generale, appartiene a un privato. Per quanto sia importante l’aspetto dell’uso, quindi, è l’appartenenza ad assumere un rilievo fondamentale [29].
Quanto all’uso, un bene è qualificato come demaniale in base alla natura stessa della cosa oppure per atto o fatto dell’autorità pubblica. Qualunque ne sia l’origine, è contraddistinto da una serie di tratti distintivi rispetto alla proprietà privata: l’indisponibilità, intesa in senso ampio, con quel che ne segue per quanto concerne l’ipoteca, l’espropriazione forzata e ovviamente le misure di “polizia” che servono a difenderla [30]. Non vi è una mera assonanza linguistica con l’impostazione di Mayer: vi è in comune un’ampia concezione della polizia amministrativa, comprensiva di attività che danno luogo all’adozione di atti dichiarativi della demanialità, di provvedimenti sanzionatori (contravvenzioni). Proprio perché contraddistinti dall’inerenza alle persone di diritto pubblico, i beni demaniali richiedono protezioni particolari.
In ciò, vi è peraltro una significativa differenza rispetto all’impostazione di Otto Mayer. Mentre quest’ultimo ha più volte sottolineato l’inapplicabilità delle norme che regolano i rapporti inter-privati, Santi Romano l’ha ammessa. Nell’ordinamento giuridico italiano, d’altronde, il secondo comma dell’articolo 822 del Codice civile attribuisce all'autorità amministrativa cui spetta la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico la “facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal presente codice”. Inoltre, l’articolo 825 assoggetta “al regime del demanio pubblico” i beni appartenenti ad altri soggetti, cioè ai privati, ove ciò occorra per il “conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli” a cui i beni demaniali servono
Conservare i beni pubblici, assicurare che essi siano utilizzati secondo la loro destinazione, prevenire gli abusi da parte dei privati: queste sono state, restano, le primarie responsabilità assunte dalle amministrazioni già nel corso dell’Ottocento, quelle per cui esse possono avvalersi sia di mezzi amministrativi, sia di mezzi penali, come osservava Guido Zanobini in uno scritto pubblicato negli anni Trenta del secolo scorso [31].
Nella sua opera generale, il Corso di diritto amministrativo, che ebbe ben otto edizioni nell’arco di alcuni decenni [32], Zanobini confermò la teoria generale della proprietà pubblica elaborata dal suo maestro. Quella proprietà è ben distinta rispetto alla proprietà privata. In particolare, in rapporto ai beni demaniali le pubbliche amministrazioni dispongono d’una signoria “particolare e specifica” [33]. Essa si differenzia rispetto ai poteri spettanti ai privati, perché è riconducibile ai poteri di supremazia spettanti allo Stato. Così, “in conseguenza del regime pubblicistico”, i beni demaniali sono sottratti alla maggior parte delle norme che regolano la proprietà privata, a partire dall’indisponibilità [34]. Per i beni patrimoniali, invece, vi è una gestione analoga a quella privata. Ma essi restano pur sempre sottoposti a responsabilità particolari, incluso il danno erariale.
Queste responsabilità debbono essere adempiute malgrado alcune obiettive difficoltà: la natura transeunte degli amministratori pubblici, sottolineata già da Federico Cammeo [35]; i difetti della disciplina dei beni pubblici stabilita dal Codice Civile, su cui più volte ha richiamato l’attenzione Massimo Severo Giannini [36]; le limitazioni conoscitive relative all’esistenza dei beni e agli usi ai quali essi sono in fatto adibiti, segnalate da Sabino Cassese in varie sedi [37]. Queste difficoltà hanno condizionato negativamente la tutela e la gestione dei beni pubblici. Non hanno peraltro intaccato la teoria, che qui è stata etichettata come classica, della proprietà pubblica.
Pure, non sono mancati contributi d’analisi che hanno colto i principali cambiamenti di lungo periodo nell’assetto dei beni pubblici. Uno è stato messo in luce da Feliciano Benvenuti. Al mutamento del ruolo dello Stato, derivante dall’incremento delle funzioni amministrative anche per via dell’ampliamento dell’elettorato, è corrisposto un mutamento nei beni appartenenti agli enti pubblici. In passato, i beni demaniali assumevano rilievo per gli usi diretti che i cittadini potevano farne, segnatamente per il demanio stradale e per il demanio marittimo. In seguito, hanno assunto una crescente importanza i beni di tipo strumentale, cioè i beni mediante i quali sono erogati servizi alla collettività. Essi vanno considerati, quindi, come beni produttivi [38]. L’altro cambiamento è dipeso dall’entra in vigore della Costituzione. Esso richiede una disamina autonoma.
5. La proprietà pubblica nella Costituzione
Dalla letteratura giuridica con velleità teoriche attorno ai beni pubblici si può estrarre quantomeno una communis opinio circa la rilevanza della Costituzione. Tuttavia, per vari anni, molti contributi dei giuristi sui beni pubblici hanno dedicato attenzione prevalentemente alle disposizioni del Codice civile lasciando sullo sfondo le disposizioni costituzionali [39].
Non si tratta certamente dell’unico caso in cui, anziché sforzarsi di interpretare le disposizioni legislative anteriori all’entrata in vigore della Costituzione, si è interpretata quest’ultima alla stregua delle norme preesistenti (è accaduto, per esempio, per le norme sulla pubblica sicurezza, sulle quali la Corte costituzionale è intervenuta nella sua prima, storica, pronuncia). Ma è comunque significativo che una parte tutt’altro che esigua della riflessione giuridica si sia attardata nell’attribuire rilievo alle disposizioni civilistiche sulla proprietà pubblica, che per di più erano prive di un sicuro ancoraggio, com’è dimostrato per esempio dall’inclusione delle foreste nel demanio o nel patrimonio a seconda che appartengano allo Stato.
Del resto, anche nel periodo più recente le potenzialità insite nelle disposizioni costituzionali non sono state colte appieno dai giuristi che - absit iniuria verbis - possono dirsi espositori. Il loro approccio dei giuristi espositori può essere illustrato facendo riferimento al contributo di un giurista che ha fatto parte della magistratura e della Corte costituzionale. A suo avviso, la Costituzione “risente ancora delle vecchie concezioni dello Stato liberale, esprimendosi nella dicotomia “pubblico-privato”; l’articolo 42 della Costituzione, al primo comma, contiene “una indicazione soltanto verbale”, aderendo all’impostazione del periodo liberale [40]. L’assunto, a dir poco opinabile, è che la distinzione tra il regime giuridico della proprietà pubblica e della proprietà privata risalga allo Stato liberale, mentre ha una ben più lunga tradizione.
Detto ciò, le due maggiori difficoltà a cui questa impostazione va incontro riguardano l’interpretazione della Costituzione. Sul piano sistematico, essa non instaura alcun collegamento, nel senso della specialità, tra la disciplina stabilita dall’articolo 43 per i beni d’impresa che presentino determinate qualità e la disciplina generale dettata dall’articolo 42. Non lo instaura nemmeno tra quest’ultima disposizione e l’articolo 119, quarto comma, che nel testo originario attribuiva alla regione “un proprio demanio e patrimonio, secondo le disposizioni stabilite” dalla legge statale (mentre nel testo attuale fa riferimento esclusivamente al patrimonio, sia per le regioni, sia per gli enti locali). Non approfondisce, quindi, i nessi tra i vari tipi di beni e di enti pubblici.
Detto ciò, si possono individuare due filoni di teoria. All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, Giannini poteva affermare che “la tesi della proprietà pubblica [era] ancor oggi predominante” [41]. Questa notazione ha avuto varie conferme, anche nella fase successiva della riflessione giuridica. Tuttavia, proprio alla fine degli anni Sessanta, è emerso un altro filone di teoria che, sotto più di un profilo, si è discostato dall’orientamento tradizionale. A seconda che l’analisi venga inscritto nell’uno o nell’altro indirizzo, si pongono e si risolvono in modo significativamente diverso più questioni. Si può fare riferimento, fra le principali questioni, al diverso regime della proprietà pubblica rispetto a quella privata, all’assetto unitario dei beni demaniali, alle forme di protezione per i diritti diversi dalla proprietà.
L’orientamento tradizionale riconosce che il demanio va considerato in prospettiva storica, perché è stato preceduto da altre forme di proprietà pubblica e coesiste con altre. Ne sottolinea, peraltro, la rilevanza, proprio al fine d’interpretare correttamente l’articolo 42 della Costituzione. Com’è stato sottolineato da giuristi e teorici del diritto, segnatamente da Giovanni Tarello, le due proposizioni che fanno parte del primo comma dell’articolo 42 non possono essere interpretate come se fossero volte semplicemente a ribadire la compresenza della protezione costituzionale della proprietà privata e l’esistenza di estese proprietà pubbliche. La disposizione secondo cui la “proprietà è pubblica o privata” comporta il riconoscimento di due diversi modi di configurare la proprietà [42]. La diversità tra le due forme o specie di proprietà è profonda, è di natura e non di grado. Ci si può chiedere, allora, se tale diversità sia semplicemente riconosciuta dalla Costituzione o se essa abbia un preciso valore sul piano deontologico, nel senso del dover essere, e debba quindi essere conservata, ma si tratta d’una questione distinta, che richiede un’autonoma trattazione.
L’altra impostazione non si identifica in modo meramente residuale. Essa comprende contributi variamente situati rispetto alla teoria classica. Alcuni contributi condividono con l’orientamento tradizionale l’opinione che il demanio e la proprietà presentino tratti comuni [43], ma mostrano uno spirito di apertura analitica certo apprezzabile. Illustriamo con riferimento al demanio, alla proprietà collettiva e ai cosiddetti beni comuni.
Per i beni demaniali Sabino Cassese ha fornito un importante contributo d’analisi a questo indirizzo interpretativo. Ha messo in luce una varietà di tratti distintivi da cui i beni demaniali sono contraddistinti. Ne ha tratto la conclusione che “il regime amministrativo dei beni demaniali è vario a seconda delle varie categorie di beni e non si dà un regime amministrativo tipico” [44]. Così, per esempio, per i beni che fanno parte del demanio naturale, si suole dire che l’inizio della demanialità coincide con il momento in cui il bene inizia la propria esistenza (emersione di un isolotto o di una spiaggia), mentre la sua cessazione è collegata con la cessazione della sua esistenza o con il venire meno della sua attitudine a soddisfare lo specifico fine cui è stato destinato. Per i beni artificiali, invece, vi è varietà di opinioni circa la necessità del provvedimento di sdemanializzazione.
Altri studiosi hanno sottoposto a un severo vaglio critico quello che potrebbe dirsi l’ingiustificato riduzionismo, ossia la tendenza a considerare i diritti relativi ai beni pubblici alla luce di un’unica schematizzazione, la proprietà di tipo individuale. Vincenzo Cerulli Irelli lo ha fatto quarant’anni or sono, con la monografia riguardante i diritti collettivi [45]. Lo ha fatto più di recente, riprendendo il tema dei diritti collettivi e collegandolo con i beni comuni [46]. Sono variamente collegati con il suo apporto due filoni di ricerca: il primo sottolinea la preminenza del fine pubblico rispetto non solo all’appartenenza, ma anche all’uso; l’altro mette in primo piano gli interessi pubblici e con essi gli usi ammessi, per trarne le conseguenze sul versante della regolazione.
6. Dall’appartenenza al fine. Beni demaniali sottratti all’uso del pubblico
Il filone di teoria che mette in primo piano il fine pubblico condivide con la teoria classica della proprietà pubblica il rilievo attribuito agli interessi individuati dal legislatore. Ne sottolinea vieppiù l’importanza, osservando che anche per la proprietà privata assumono rilievo per il diritto gli interessi della collettività, la “funzione sociale” [47].
Vi è, peraltro, un’importante, profonda, differenza logico-analitica tra il nucleo centrale della teoria classica della proprietà pubblica, che enfatizza l’appartenenza dei beni pubblici, e il filone di studi che mette in primo piano il fine pubblico. Esso mette in risalto la distinzione tra l’uso finale e l’uso strumentale dei beni pubblici. L’uso finale si realizza sia per beni inclusi nel demanio naturale, come il lido del mare e i fiumi, sia per beni artificiali, come le biblioteche e le pinacoteche. L’uso strumentale connota i beni il cui utilizzo, a determinate condizioni, rende possibili attività finalizzate al benessere collettivo. Sono emblematiche le attività volte all’erogazione dei servizi pubblici.
Il contributo d’analisi incentrato sul fine si muove su un terreno più agevole nel rendere ragione di un fatto che presenta un indubbio rilievo per il diritto: sempre più spesso i servizi pubblici sono erogati da figure giuridiche soggettive (associazioni, società, consorzi) diversi rispetto alle pubbliche amministrazioni. Attribuire una posizione di preminenza al fine pubblico consente di spiegare perché, qualunque sia la natura del soggetto cui determinati beni appartengono, essi non possano essere sottratti alla destinazione loro attribuita.
Questo filone di teoria rende ragione anche delle nuove norme emanate relativamente ai beni culturali: per favorire misure volte a valorizzare quei beni, anche con azioni di mercato (merchandising); per far sì che i beni culturali appartenenti ai pubblici poteri che richiedono interventi di restauro siano dati in concessione a una varietà di figure giuridiche soggettive private (associazioni, imprese), nel qual caso la fruizione collettiva non viene meno, all’opposto è resa possibile dalla circostanza che vi sono risorse finanziarie aggiuntive [48].
Attribuire una posizione di preminenza al fine pubblico consente anche di impostare correttamente le questioni riguardanti non soltanto le limitazioni imposte ai proprietari privati dei beni a utilizzazione controllata, ma anche le limitazioni che si rendono necessarie in rapporto ai beni che fanno parte del demanio naturale. Questa scelta può apparire non pienamente coerente con la vocazione del demanio a essere destinato al “godimento da parte della collettività” [49], con l’eccezione del demanio militare. In realtà, una lettura incrociata delle norme di grado superiore e degli orientamenti della giurisprudenza può giustificarla.
Per sviluppare questa linea di ragionamento, si può fare utilmente riferimento all’articolo 9 della Costituzione. Esso è stato modificato dalla legge costituzionale n. 1 del 2022. Nella parte che qui interessa, l’articolo 9 stabilisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” e inoltre “tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni”. Contrariamente all’opinione, pur autorevolmente sostenuta, secondo cui il nuovo testo dell’articolo 9 non aggiunge nulla al “diritto vivente”, si può argomentare che i riferimenti all’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi comportino precise conseguenze. Già la riforma costituzionale del 2001, nell’accostare alla tutela dell’ambiente quella dell’ecosistema (articolo 117, secondo comma, lettera s), ha inteso fare riferimento alla “conservazione della natura come valore in sé” (Corte costituzionale, sentenza n. 12/2009). Le disposizioni stabilite dagli articoli 9 e 41 della Costituzione non soltanto rafforzano il fondamento delle leggi che legittimano i pubblici poteri a limitare o vietare l’accesso del pubblico a determinate parti del territorio nazionale, ma rendono doverosa l’adozione di queste misure.
Esemplifichiamo con riferimento alle disposizioni che consentono all’ente pubblico cui è affidata la conservazione e la tutela di un parco naturale marino di limitare la navigazione da diporto e la pesca sportiva, nonché di escludere del tutto l’accesso del pubblico a una certa spiaggia, vuoi perché le acque costiere ospitano colonie marine che risentono negativamente dell’uso delle imbarcazioni a motore e dell’eccessivo numero di visitatori [50], vuoi perché vi sono stati frequenti abusi nei confronti delle bellezze naturali protette [51]. Ci si può interrogare sulle ragioni di fondo di queste misure. Esse assumono un preciso rilievo sul piano costituzionale. La tutela dell’ecosistema, con la connessa scelta di non destinare più all’uso di tutti una spiaggia, un’area di dune o un isolotto, non è un atto di rinunzia. È un atto di riconoscimento della rilevanza che quell’area ha per tutti nel senso più ampio. Non è casuale, né irrilevante, quindi, il riferimento “all’interesse delle future generazioni”.
I provvedimenti amministrativi degli enti pubblici che limitano o escludono usi altrimenti ammessi sono dunque le condizioni indispensabili affinché l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi possano essere adeguatamente conservati e, quindi, continuare ad essere “patrimonio della Nazione”.
Le implicazioni della nuova cornice costituzionale hanno una notevole portata. Restano da approfondire, anche attraverso il confronto con le disposizioni analoghe adottate da altri ordinamenti. Non si tratta soltanto della più sostenuta divergenza tra gli obiettivi di conservazione delle bellezze naturali e quelli di sviluppo economico. Non si tratta solo del possibile conflitto tra l’esigenza di tutela del paesaggio e la protezione dell’ambiente, che è stato evocato da più parti. Rileva altresì, in misura forse ancora maggiore dall’angolo visuale dei beni pubblici, l’accresciuta importanza attribuita sul piano giuridico al demanio naturale.
La sua specificità può rivolgersi, tuttavia, in due direzioni ben distinte. Può consistere in una minore propensione del potere pubblico ad ammettere non gli usi riservati o eccezionali e finanche l’uso da parte di tutti, come avviene nel caso appena esaminato. Può consistere, all’opposto, in un coinvolgimento di soggetti portatori d’interessi convergenti con quello proprietario, come avviene se l’uso consentito del bene postula il loro coinvolgimento, in ragione del supporto tecnico od organizzativo che possono fornire all’amministrazione pubblica. Nel primo caso, il ruolo dell’amministrazione è rafforzato sul versante della vigilanza e dell’adozione di misure di tipo comminatorio (ordini, diffide) e di tipo sanzionatorio. Nel secondo caso, le ripercussioni concernono anzitutto la definizione del ruolo da attribuire ai soggetti portatori d’interessi diffusi. Nell’uno e nell’altro caso, si tratta di implicazioni di grande rilievo.
7. Dall’appartenenza agli usi. I beni privati destinati ai servizi pubblici
Prima ancora di esaminare più da vicino il secondo filone d’analisi, riguardante i beni destinati ai servizi pubblici, giovano alcuni richiami essenziali ai principali dati normativi e fattuali.
Più che la vecchia distinzione dei beni a seconda che facciano parte del demanio o del patrimonio, assumono importanza altri criteri distintivi. Può averne la distinzione tra beni naturali e artificiali, ma anch’essa è convenzionale, perché la fruizione di un bene naturale può dipendere da opere umane, come nel caso di una laguna che, grazie a un canale artificiale, sia collegata con il mare e, perciò, consenta la navigazione da diporto e il rimessaggio [52].
Più consolidato, anche sul piano normativo, è il criterio fondato sull’uso, a seconda che il pubblico interesse si realizzi nell’utilizzazione del bene da parte di tutti [53], come avviene, oltre che per il demanio naturale, per una serie di beni che fanno parte del demanio artificiale. Nel novero di tali beni, ve ne sono svariati che sono espressamente menzionati dal Codice civile, come le strade pubbliche, gli acquedotti, gli aerodromi. All’interno di questa eterogenea categoria di beni, si può ulteriormente distinguere tra i beni per i quali la relazione d’inerenza della cosa alla funzione o al servizio è di tipo finale, come è tipico delle strade, o è di tipo strumentale (biblioteche, palestre) [54].
Ai fini che qui interessano, non è necessario spingersi oltre. I richiami essenziali esposti bastano per precisare il quesito da approfondire, vale a dire cosa accada quando, a seguito della trasformazione dell’ente pubblico gestore di beni pubblici strumentali all’erogazione di servizi pubblici essenziali per una moderna democrazia industriale, come le ferrovie e le comunicazioni elettroniche, tali beni siano inclusi nel patrimonio di una società, in cui i pubblici poteri non abbiano né l’intero azionariato, né la quota maggioritaria.
Gli studi, talora assai accurati, di cui disponiamo indicano che la risposta è, come sovente accade, diversa a seconda dei casi. Per i servizi pubblici di rilevanza nazionale, i beni immobili (reti, apparecchiature) ad essi destinati possono appartenere a soggetti pubblici o privati e questa seconda evenienza, oltre a essere in fatto prevalente (per esempio, per le ferrovie e per le comunicazioni elettroniche, mentre per le autostrade può esservi la proprietà pubblica e la gestione privata), sul piano normativo presenta il tratto distintivo di essere prevista dal diritto dell’Unione europea, cioè dalle varie direttive settoriali emanate dalle sue istituzioni politiche. Per i servizi pubblici locali, invece, in virtù di un orientamento consolidato della legislazione (a partire dall’articolo 113 del decreto legislativo n. 267 del 2000), le reti appartengono agli enti locali, pur se la gestione può essere affidata a un soggetto esterno, scelto secondo le regole dell’evidenza pubblica. Anche nel caso in cui i beni appartengano a soggetti privati, non viene meno la loro pubblicità, derivante dalla destinazione al pubblico servizio.
È il caso dei beni di proprietà privata a destinazione pubblica [55]. Per essi, la pubblicità è riconosciuta a prescindere dall’appartenenza. È, cioè, una pubblicità di natura oggettiva.
Proprio perché il mutare dell’appartenenza non incide sulla pubblicità dei beni, non vi è “il benché minimo arretramento della regolazione e della tutela pubblicistica dei beni istituzionalmente destinati all’uso collettivo” [56]. Anzi, proprio il mutare dell’appartenenza richiede un incremento - nel numero e nella tipologia - delle regole pubbliche: per far sì che il bene sia effettivamente destinato al pubblico servizio, per evitare che vi siano indebite ingerenze (questo è il fine della disciplina che regola i poteri speciali del governo), per tutelare gli utenti.
8. Implicazioni per i “beni comuni”
Non tutti concordano sulla conclusione appena esposta. A essere messa in dubbio non è l’adeguatezza della disciplina dei beni, delle varie forme di gestione man mano che ci si avvicina ai giorni nostri: l’impressione di molti, praticamente di tutti, è che si sarebbe potuto far meglio, anche molto meglio. La ragione del dissenso è più profonda, perché concerne la natura dei beni. Il dissenso è emerso nella discussione sui cosiddetti beni comuni.
Il tema dei beni comuni ha avuto probabilmente in Stefano Rodotà, più ancora che in altri che hanno seguitato a occuparsene, l’interprete maggiormente deciso e avvertito dei complessi nessi tra i beni comuni e i beni pubblici [57]. In una linea di pensiero affine, i beni comuni sono identificati con i “beni demaniali per i quali prevale il profilo funzionale”, cioè l’uso da parte di tutti [58].
Si può ben comprendere la reazione sia nei confronti delle nuove regole che consentono alla pubblica amministrazione, nell’ambito delle attività volte alla razionalizzazione e alla valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato, di vendere anche a trattativa privata (vendite da cui sono scaturite entrate solo nel breve periodo, seguite da passività, segnatamente per la locazione degli immobili nel quadro del cosiddetto sell and lease back), sia nei confronti dei casi di punta (per esempio, l’esclusione totale dell’accesso del pubblico ad edifici dell’architettura razionalista degli anni quaranta del secolo scorso, per i quali i privati abbiano assunto i costi di restauro).
Tuttavia, bisogna tenere ben presenti le diverse caratteristiche di altre res, come i beni privati ad utilizzazione controllata [59] e i beni privati d’interesse pubblico, tra i quali assumono particolare importanza i beni destinati ai servizi pubblici [60]. Nei casi estremi, sono inclusi tra i beni comuni finanche politiche pubbliche, come quelle riguardanti la giustizia, il lavoro e la sanità, con il conseguente sfumare della specificità delle nozioni giuridiche [61]. Non è certamente con l’appannarsi, fino all’indistinto, dei concetti e delle categorie teoriche che si può ottenere un affinamento delle figure giuridiche.
9. Una “échelle de domanialité”?
Scartata la pura e semplice riaffermazione della teoria classica della proprietà pubblica ed evidenziati i limiti insiti nei contributi incentrati sui beni comuni, ci si può chiedere se, in ragione della persistente pubblicità dei beni destinati ai servizi pubblici, si possa affermare - seguendo le orme della dottrina francese - che si sia instaurata una sorta di “échelle de domanialité”. Giova, anzitutto, precisare i contorni di questa nozione. Soltanto dopo averlo fatto, se ne potrà vagliare l’adeguatezza in rapporto all’ordinamento italiano.
Nell’ordinamento francese, fin dalla metà dell’Ottocento, l’impegno dello Stato sia per regolare l’economia e migliorarne gli andamenti, sia per assicurare la disponibilità di servizi pubblici è divenuto parte integrante dell’attività di governo. Ha influito sul ruolo stesso dello Stato, nella teoria del diritto pubblico elaborata da Léon Duguit e sviluppata dai suoi colleghi e allievi, come Gaston Jèze, Roger Bonnard, Jean-Marie Auby. Il punto di partenza dell’analisi di Duguit è duplice: si trattava delle condizioni materiali e intellettuali. Le prime erano determinate dall’incremento dei bisogni nelle società umane, man mano che queste divenivano più complesse, aumentando l’interdipendenza, in rapporto all’istruzione, alla sanità, alla protezione dall’indigenza. Duguit include tra i bisogni anche quelli soddisfatti dai servizi postali e telegrafici, dalle ferrovie, dall’illuminazione. Riconduce alle istanze espresse dal corpo sociale la ragion d’essere dell’esistenza dei poteri autoritativi dello Stato.
Quanto alle condizioni intellettuali, egli critica aspramente le concezioni - che considerava metafisiche, affini ai dogmi religiosi - del potere sovrano e dei diritti individuali. Ciò che conta di più, per Duguit, sono gli interessi della società tutta. Egli mette perciò al centro della sua teoria del diritto pubblico il service public [62].
Per intendere correttamente questa locuzione, vanno attentamente vagliati tre aspetti: il fondamento costituzionale, i poteri e le funzioni esercitati dall’amministrazione, le situazioni giuridiche soggettive dei cittadini. Sul piano costituzionale, lo Stato ha trovato nell’amministrare per servizi una nuova legittimazione, coerentemente con i grandi valori della Rivoluzione francese, soprattutto ossia l’égalité e la fraternité. Lo Stato ha così suscitato presso i cittadini l’aspettativa di un intervento e di un sostegno ad ampio raggio.
Non si è semplicemente consumata la fine del liberismo in economia decenni prima del noto saggio dell’economista inglese John Maynard Keynes [63], ma si è fornita una nuova base allo Stato e al diritto amministrativo. Una lettura superficiale potrebbe suggerire che si sia enfatizzata l’azione dei pubblici poteri volta a erogare prestazioni, lo Stato dispensatore di beni e servizi.
Ma questa lettura sarebbe fuorviante, innanzitutto perché per fornire quei beni e servizi lo Stato deve acquisire le necessarie risorse finanziarie, attraverso il prelievo. Inoltre, proprio lo sviluppo di nuove prestazioni ha introdotto un maggior grado di discrezionalità nell’utilizzo di quelle risorse, cioè nel decidere a quali scopi debbano essere destinate. Proprio per questi motivi, pur il diritto amministrativo ha rafforzato il suo collegamento con la società, nella visione di Duguit i cittadini vantano interessi, non diritti. Soltanto nel pensiero di Bonnard, presto dimenticato a causa delle vicende belliche, ai cittadini spettano veri e propri diritti soggettivi rispetto alle prestazioni amministrative.
È in questo contesto, insieme istituzionale e culturale, che è maturata la teoria della “échelle de domanialité”, in dissenso rispetto all’impostazione inizialmente prevalente, cioè alla scissione tra il demanio pubblico e i beni di cui l’amministrazione dispone come qualsiasi privato. La scuola di Bordeaux, soprattutto con Duguit e Jean-Marie Auby, ha proposto di prendere atto con realismo delle differenze tra i vari tipi di beni demaniali. Ha segnalato le difficoltà cui va incontro qualsivoglia tentativo di collocare, per esempio, le opere destinate alla difesa (fortezze, mura e fossati d’una piazzaforte) nella medesima categoria della riva del mare, delle strade e delle ferrovie [64]. Ha proposto una nuova teoria della proprietà, combinando vari criteri, segnatamente la destinazione a un servizio pubblico e l’esistenza di norme “esorbitanti” rispetto a quelle che disciplinano i beni privati [65].
Combinando questi criteri, ha distinto vari tipi di beni: le cose destinate all’uso da parte di tutti, le ferrovie, i beni destinati alla difesa nazionale, le foreste, gli immobili destinati a un servizio pubblico, i beni mobili. Alla netta disgiunzione tra demanio pubblico e beni inclusi nella proprietà privata delle amministrazioni si è sostituito, così, un continuum, a un estremo del quale vi sono i beni destinati all’uso da parte di tutti e all’altro estremo i beni che l’amministrazione gestisce alla stregua di un proprietario privato.
Sebbene questa teoria abbia riscosso adesioni, non sono mancate critiche. Alcune riguardano il nucleo centrale della teoria della “échelle de domanialité”, altre la sua inadeguatezza rispetto alle norme positive. Sotto il primo profilo, la teoria elaborata da Duguit non supera le difficoltà cui va incontro la distinzione tra il demanio pubblico e la gestione privata. Non ha perso valore l’osservazione di Hauriou e ripresa tra gli altri da André de Laubadère, secondo cui ai beni è impressa una destinazione in rapporto all’utilità pubblica, più che a un determinato servizio di pubblico interesse [66]. Sotto l’altro profilo, si è osservato che la giurisprudenza non ha mai rimesso in discussione la distinzione tradizionale, che attribuisce al giudice amministrativo il ruolo di custode del demanio pubblico. Inoltre, tale distinzione è stata cristallizzata dal Codice generale della proprietà delle persone pubbliche (2006), all’articolo L 2111-1. La disposizione legislativa, infatti, fa riferimento sia ai beni destinati all’uso diretto da parte del pubblico, sia ai beni destinati a un pubblico servizio [67]. L’obiezione principale che da ciò trae alimento è che la teoria della “échelle de domanialité” non coglie il punto di fondo: il demanio pubblico ha perso centralità rispetto alla proprietà pubblica [68].
Facendo tesoro anche delle notazioni effettuate nella fase più recente della riflessione giuridica d’Oltralpe, relativamente all’esperienza giuridica italiana, si può prospettare una chiave di lettura che tenga insieme la storia e i principali dati normativi.
Come per il contratto, così per i beni pubblici, le condizioni iniziali, nell’Ottocento, possono considerarsi come altrettante derivazioni del diritto francese. Ma il diritto, una volta introdotto, evolve anche se lentamente. Evolve secondo modalità e percorsi che possono discostarsi, sovente lo fanno, rispetto al paradigma iniziale. Ciò è avvenuto, anzitutto, perché l’elaborazione di una teoria della proprietà pubblica non ha manifestato la propria rilevanza esclusivamente nell’ambito accademico. Ha influito in grado determinante sulla formulazione della norma di apice, l’articolo 42 della Costituzione. Inoltre, forse anche più che in Francia, l’ordinamento italiano presenta una varietà di figure di proprietà, per effetto delle discipline speciali.
I diversi beni sono retti da criteri e parametri ben distinti. Il parametro della redditività, che ha un certo rilievo ai fini della gestione dei beni economici, ne ha uno ben diverso in rapporto alle bellezze naturali e soprattutto alla preservazione degli ecosistemi. L’inferenza che se ne può trarre è che, pur tenendo fermo il dato normativo, che mette in primo piano la proprietà pubblica, non il demanio o il patrimonio, essa va riguardata secondo l’indirizzo scientificamente più avanzato, evidenziato da Salvatore Pugliatti, che ha messo in luce l’esistenza d’una varietà di statuti giuridici della proprietà [69]. La ricerca su questi temi, quindi, può muoversi su percorsi rigorosi.
Altrettanto non può dirsi per la disciplina e la gestione dei beni pubblici. Di regole serie ve ne sono ben poche. L’insieme delle disposizioni legislative è connotato da difetti tutt’altro che lievi. Le amministrazioni pubbliche possono attenuarne la portata, come avviene in qualche caso. Ma più spesso esse sono mosse dall’intento di “fare cassa”, cercando di ottenere risorse finanziarie aggiuntive. E non sono poche le circostanze che vedono attenuarsi il rigore sanzionatorio verso chi abusa dei beni pubblici.
Note
[*] Giacinto della Cananea, professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università Bocconi, Via Sarfatti 25, Milano, giacinto.dellacananea@unibocconi.it.
[1] V. Cerulli Irelli, Diritto dei beni e delle proprietà pubbliche, Torino, Giappichelli, 2022. La natura di questo scritto e i limiti di spazio esimono dal dare compiutamente conto dell’ampia letteratura giuridica esistente: pertanto, i riferimenti indicati di seguito saranno limitati alle opere più note e a quelle più recenti, dalle quali è possibile risalire alle altre.
[2] Per questo approccio, P. Glenn, Legal Traditions of the World: Sustainable diversity in law (2000), tr. it. Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità della differenza, Bologna, il Mulino, 2011.
[3] G. Branca, Res extra commercium humani iuris, in Annali triestini, 1941, pag. 83 ss.
[4] J. Bodin, Les six livres de la République (1576), tr. it. (a cura di) M. Isnardi Parenti, I sei libri dello Stato, Torino, Utet, 1988, I, pag. 177 (corsivo aggiunto). È interessante notare che Bodin fece riferimento proprio all’originaria divisione del territorio compiuta da Romolo attorno a Roma, tra la parte destinata allo Stato e quella distribuita ai cittadini, e criticò le opinioni favorevoli alla proprietà collettiva.
[5] V. Cerulli Irelli, Diritto dei beni e delle proprietà pubbliche, cit., pag. 105.
[6] M. Hauriou, Précis de droit administrative, Paris, Sirey, 1900, 2° ed., pag. 617, n. 2.
[7] M. Hauriou, op. ult. cit., pag. 613.
[8] Ibidem, pag. 614.
[9] Articolo 422. Altre disposizioni disciplinavano beni da cui si traevano utilità economiche, come le miniere e le saline (articolo 432).
[10] Secondo stime recenti, subito dopo l’unificazione vi erano ben tre milioni di cittadini inclusi nella media e piccola borghesia, a fronte di ben nove milioni di operai e contadini: P. Ciocca, Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla, Roma, Donzelli, 2018, pag. 22.
[11] Per un’analisi, V. Cerulli Irelli, Utilizzazione economica e fruizione collettiva dei beni, in AIPDA, Annuario 2003. Titolarità e regolazione pubblica dei beni, Milano, Giuffrè, 2004, pag. 5.
[12] F. De Roberto, I Viceré (1894), Torino, Einaudi, 1977.
[13] O. Mayer, Deutsches Verwaltungsrecht (1894), tr. fr. dell’Autore, Droit administratif allemand, Paris, Giard et Brière, 1905, vol. III, pag. 89.
[14] O. Mayer, op. ult. cit., pag. 137.
[15] Ibidem., pag. 181.
[16] Ibidem, pag. 227.
[17] Ibidem, pag. 93.
[18] Ibidem, p. 95 (e nota 100).
[19] Ibidem, pagg. 112-113.
[20] Ibidem, p. 119.
[21] S. Romano, Principii di diritto amministrativo, Milano, Società editrice libraria, 1912, 3° ed.
[22] S. Romano, op. ult. cit., pagg. 458-459.
[23] Ibidem, pag. 460.
[24] Ibidem, pag. 461.
[25] Ibidem, pag. 463.
[26] Ibidem, p. 467.
[27] Ibidem, p. 471.
[28] Ibidem, p. 472.
[29] Ibidem, pag. 473.
[30] Ibidem, pag. 485.
[31] G. Zanobini, Pubblici diritti, in Enciclopedia italiana (1935). Sul demanio, un altro contributo di rilievo è E. Guicciardi, Il demanio, Padova, Cedam, 1934.
[32] G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1958, 8° ed.
[33] G. Zanobini, op. ult. cit., vol. I, pag. 165.
[34] Ibidem, pag. 166-167.
[35] F. Cammeo, Demanio, in Digesto italiano, Torino, UTET, 1887, I, pag. 843.
[36] M.S. Giannini, I beni pubblici (dispense delle lezioni di diritto amministrativo tenute nell’anno accademico 1962-63), Roma, Bulzoni, 1963, pag. 3 e 23 (“dobbiamo quindi dire chiaro e tondo che il c.c. e le altre norme che ad esso si riportano hanno portato e portano confusione non solo nella disciplina della materia ma nello stesso ordine nozionale”).
[37] S. Cassese, Organi e procedure per l’amministrazione della proprietà pubblica: situazione attuale e proposte di modificazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, pag. 1373 ss.
[38] F. Benvenuti, Il demanio marittimo tra passato e futuro, in Riv. dir. nav., 1965, pag. 154.
[39] M. Dugato, Il regime dei beni pubblici. Dall’appartenenza al fine, in I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, (a cura di) A. Police, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 17.
[40] P. Maddalena, La scienza del diritto ambientale e il necessario ricorso alle categorie del diritto romano, in Riv. quadrim. dir. amb., 2011, 2, pag. 8 (corsivo aggiunto).
[41] M.S. Giannini, I beni pubblici, cit., pag. 49.
[42] G. Tarello, La disciplina costituzionale della proprietà (1972-73), ora in Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna, il Mulino, 1988, pag. 247.
[43] M. Dugato, Il regime dei beni pubblici. Dall’appartenenza al fine, cit., pag. 23.
[44] S. Cassese, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, Giuffrè, 1969, pag. 289.
[45] V. Cerulli Irelli, Beni pubblici e diritti collettivi, Padova, Cedam, 1983.
[46] V. Cerulli Irelli e L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, in Pol. dir., 2014, pag. 3. Da ultimo, nel Diritto delle proprietà e dei beni, cit., pag. XVI, l’A. ha osservato che il tema degli usi civici ha acquistato nuovamente importanza per via della giurisprudenza costituzionale e della legislazione del 2017.
[47] M. Dugato, Il regime dei beni pubblici. Dall’appartenenza al fine, cit., pag. 17.
[48] M. Dugato, Il regime dei beni pubblici. Dall’appartenenza al fine, cit., pag. 17; Id., Fruizione e valorizzazione dei beni culturali come servizio pubblico e servizio privato di utilità pubblica, in Aedon, 2007, 2, pag. 2.
[49] V. Cerulli Irelli, Diritto della proprietà, cit., pag. 174.
[50] Un buon esempio è fornito dall’ordinanza dell’Ente parco nazionale Arcipelago della Maddalena il 19 luglio 2007 recante “disciplina dell’attività di pesca”.
[51] Ordinanza dell’Ente parco nazionale Arcipelago della Maddalena del 3 luglio 2011 recante “disposizioni per la salvaguardia della spiaggia rosa – Isola di Budelli”, in cui sono vietati, tra l’altro, “il prelievo, la raccolta, l’asportazione anche parziale, il danneggiamento delle formazioni litologiche, concrezioni e minerali, ivi inclusa la sabbia”, nonché “il calpestio dell’arenile e il posizionamento su di esso di qualsiasi oggetto”.
[52] Si veda la sentenza della Cass. civ, sez. III, 3 aprile 2007, n. 13677, avente ad oggetto il lago di Sabaudia, nel Lazio.
[53] V. Cerulli Irelli, Diritto dei beni e delle proprietà pubbliche, cit., pag. 116.
[54] V. Cerulli Irelli, op. ult. cit., pag. 120.
[55] V. Cerulli Irelli, Diritto dei beni e delle proprietà pubbliche, cit., pagg. 118-119; M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni, cit., pag. 116.
[56] M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni, cit., pag. 1. In senso critico, ma senza una persuasiva argomentazione, A. Lucarelli, Beni comuni. Contributo per una teoria giuridica, in Costituzionalismo.it, 2015, n. 4.
[57] S. Rodotà, Beni comuni e categorie giuridiche. Una rivisitazione necessaria, in Questione giustizia, 2011, n. 5. Quanto ai lavori della Commissione di studio -presieduta proprio da Rodotà - che predispose un articolato normativo per tutelare i beni comuni, la relazione conclusiva è consultabile sul sito del Ministero della giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=0_10&facetNode_2=0_10_21&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS47617.
[58] A. Lucarelli, Beni comuni. Contributo per una teoria giuridica, cit.
[59] M.S. Giannini, I beni pubblici, cit., pag. 27.
[60] A.M. Sandulli, Beni pubblici, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 1959, V, pag. 277. Per una ripresa di questa categoria, G. Palma, Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, Jovene, 1971. Per un’attenta analisi della regolazione pubblica, M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, Giuffrè, 2004.
[61] In senso conforme, V. Cerulli Irelli, Diritto delle proprietà e dei beni, cit., pag. 175 (l’A. sottolinea anche che la categoria dei beni comuni è utile de iure condendo); T. Bonetti, I beni comuni nell’ordinamento giuridico italiano tra ‘mito’ e ‘realtà’, in Aedon, 2013, 1, pag. 1. Un esempio dell’approccio criticato nel testo è U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Bari-Roma, Laterza, 2011.
[62] L. Duguit, Les transformations du droit public, Paris, Armand Colin, 1913, pag. 25.
[63] J.M. Keynes, The End of the Laissez-Faire (1926).
[64] L. Duguit, Traité de droit constitutionnel, Paris, Sirey, 1921, III, p. 327 (“Mais peut-on véritablement les faire rentrer dans la même catégorie que les rivages de la mer, les routes, les canaux et même que les chemins de fer? Peut-on les soumettre à un régime identique? Évidemment non. La situation est absolument dissemblable et tenter d'édifier une construction générale s'étendant à ces diverses dépendances, c'est tenter l'impossible et aller nécessairement à des contradictions, peut-être à des absurdités”).
[65] J.-M. Auby, Le problème de la domanialité des immeubles affectés à un service public, in Mélanges de droit, d’histoire et d’économie offertes à Marcel Laborde-Lacoste, Bordeaux, Bière, 1963, pag. 11.
[66] A. de Laubadére, Domanialité publique, propriété administrative, affectation, in RDP, 1950, pag. 5. Per una retrospettiva, non priva di spunti critici, P. Yolka, La propriété publique: éléments pour une théorie, Paris, LGDJ, 1996.
[67] “Sous réserve de dispositions législatives spéciales, le domaine public d'une personne publique mentionnée à l’article L. 1 est constitué des biens lui appartenant qui sont soit affectés à l'usage direct du public, soit affectés à un service public pourvu qu'en ce cas ils fassent l'objet d'un aménagement indispensable à l'exécution des missions de ce service public”. Nel senso del testo, C. Chamard-Heim, Les proprietés publiques, in P. Gonod, F. Melleray, P. Yolka, Traité de droit administratif, Paris, Dalloz, 2011, pag. 305.
[68] B. Plessix, Avant-propos, in La proprietés publique, Paris, Dalloz, 2020, pag. 1.
[69] S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà con riguardo particolare alla proprietà terriera, Milano, Giuffrè, 1954.