Individuazione dei beni culturali
La valutazione del nesso eziologico fra la scoperta fortuita iniziale e l’intero ritrovamento conseguitone, ai fini della determinazione del quantum del premio ex art. 92, comma 1, lettera c), d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Nota a Tar Umbria, Perugia, sez. I, 11 novembre 2024, n. 760)
di Filippo Blasi [*]
Sommario: 1. Il caso: una necropoli orientalizzante sotto l’ex Poligrafico Alterocca in Terni. - 2. Il quadro normativo essenziale del premio destinato allo scopritore fortuito. - 3. La vicenda processuale e le questioni giuridiche sottoposte al giudice amministrativo. - 4. La sentenza del Tar Umbria, Perugia, sez. I, 11 novembre 2024, n. 760. - 4.1. L’applicazione della circolare n. 29 del 2021 alla fattispecie: una tomba fa una necropoli? - 4.2. Segue: si ha rottura del nesso solo se sia conosciuta o conoscibile l’esatta ubicazione dei reperti. - 5. Conclusioni: un ritorno all’origine e alla ratio dell’istituto.
L’articolo si propone di analizzare la quantificazione del compenso spettante al rinvenitore ai sensi dell’art. 92 del d.lg. n. 42 del 2004, nel caso in cui al rinvenimento ne segua uno più esteso da parte dell’autorità pubblica. In situazioni analoghe, la suddetta autorità deve applicare il criterio previsto dalla circolare n. 29 del 2021 del ministero per i Beni e le Attività Culturali, che distingue il caso in cui le due scoperte siano legate da un nesso inscindibile e diretto da quello in cui la prima costituisca un mero “pretesto” per la seconda. La sentenza in questione applica questo criterio al caso di una necropoli riscoperta grazie al ritrovamento di due tombe da parte di un privato cittadino, specificandone la portata anche sulla base della ratio legis dell'art. 92, la cui disciplina è ripercorsa e rivista nell'articolo.
Parole chiave: ritrovamenti; scoperte; patrimonio culturale; ricerca sul patrimonio culturale; premio per la scoperta; premio al ritrovatore.
The assessment of the etiological link between the initial fortuitous discovery and the entire discovery achieved, for the purpose of determining the “quantum” of the award ex art. 92, par. 1, letter c), d.lg. 22 January 2004, n. 42 (Note to Tar Umbria, Perugia, sect. I, 11 November 2024, n. 760)
The article aims to analyze the quantification of the reward due to the finder pursuant to article 92 of the legislative decree no. 42 of 2004, in case the discovery is followed by a more extended one by the Public Authority. In similar situations, the aforementioned authority has to apply the criterion set out in circular no. 29 of 2021 of the ministry for Cultural Heritage, that distinguishes the case in which the two discoveries are linked by an inseparable and direct connection from that in which the first constitutes a mere “pretext” for the second. The Judgment in question applies this criterion to the case of a necropolis rediscovered thanks to the discovery of two tombs by a private citizen, specifying its scope also on the basis of the ratio legis of article 92, the discipline of which is retraced and reviewed in the article.
Keywords: findings; discoveries; cultural heritage; cultural heritage research; discovery award; reward to the finder.
1. Il caso: una necropoli orientalizzante sotto l’ex Poligrafico Alterocca in Terni
Il giudizio esitato nella decisione in commento sottende una vicenda, cronologicamente ormai risalente, che ha destate attenzioni da parte della scienza archeologica, ma ha anche già attraversato, come si vedrà, le aule del Tar e del Consiglio di Stato, che l’ha parzialmente definita, ancorché si sia conclusa in via definitiva solo poche settimane fa con la pronuncia di accoglimento qui in esame.
Il caso ha avuto origine da alcuni lavori, condotti da una locale ditta edile, di demolizione e ricostruzione di un complesso edificato fra il 1907 e il 1911, l’ex Poligrafico Alterocca, di proprietà della stessa ditta, nella zona della stazione ferroviaria centrale di Terni [1].
Il 7 novembre 1996 i manovali dell’impresa, scavando sotto il livello di quello che in precedenza era stato il piano di calpestio interrato del summenzionato poligrafico, a tre metri circa di profondità rispetto al piano stradale dell’epoca, rinvenivano due sepolture a fossa - indicate in atti come tombe della civiltà umbra risalenti all’età del ferro, ancorché la dottrina archeologica esclude tale classificazione, limitandosi a un più cauto riferimento al periodo orientalizzante [2] - che prontamente gli scopritori nonché proprietari dell’area denunziavano all’allora soprintendenza archeologica.
Il cantiere veniva quindi più volte interrotto e ripreso per consentire un totale di tre campagne di scavi archeologici, voluti ed eseguiti dalla soprintendenza, che hanno condotto all’emersione di altre 46 inumazioni, quasi tutte ancora contenenti defunti e dotate di ricchi corredi funebri in ceramica e metallo [3]. L’intero materiale rinvenuto veniva quantificato in complessivi € 147.750,00, in applicazione dei criteri ministeriali, a norma dei quali nel computo della stima rientrano i soli defunti inumati e beni mobili a corredo delle sepolture e non anche le sepolture in sé, in quanto meri riempimenti in terra pertanto privi di valore commerciale [4].
2. Il quadro normativo essenziale del premio destinato allo scopritore fortuito
Quella del premio destinato al ritrovatore fortuito è materia risalente. Inscindibilmente legandosi all’assegnazione del sottosuolo al demanio statale, di essa si trovano riscontri normativi sin da fine Ottocento, e parimenti si dica per le attenzioni scientifiche dedicate al tema. Non è questa però la sede opportuna per una trattazione in generale del premio. In particolare, non si tratterà del premio per il proprietario, atteso che la sua determinazione involge profili di discrezionalità molto circoscritti dell’autorità pubblica, esplicandosi nella sola valutazione del valore percentuale in base al quale calcolare il premio, limitandosi invece in punto di an alla mera qualità soggettiva del titolare dello ius in re sull’area nella quale è avvenuto il ritrovamento [5].
In questa sede si può far cenno agli elementi essenziali che consentono di configurare la fattispecie del premio al ritrovatore fortuito, individuando come norma centrale attributiva del potere l’art. 92, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, attorno al quale si spiega e a tratti avviluppa il lungo filo della relativa disciplina.
Muovendo - ma senza approfondirlo in questa sede - dal disposto dichiarativo dell’art. 10, comma 3, d.lg. 42/2004, come autenticamente interpretato dal successivo comma 4, lettera a), l’attenzione va posta sui successivi artt. 90 e 91. La prima delle due norme prevede l’obbligo legale di denunziare la scoperta fortuita e i connessi e conseguenti doveri, mentre la seconda assicura allo Stato la proprietà delle cose “da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini”, assegnandole, “a seconda che siano immobili o mobili”, al demanio o al patrimonio indisponibile, ex artt. 822 e 826 c.c.
Venendo al menzionato art. 92 - figlio dell’art. 49 della legge Bottai del ’39 cui il codice Urbani si è avvicendato apportando, su questo punto, modifiche esigue, financo mantenendo la previsione del premio “in natura” (comma 4) - è indispensabile una premessa in punto di ratio dell’istituto premiale.
Come anticipato, sin dal ’39 è previsto un regime, del tutto simile a quello odierno ex art. 91, di acquisizione a titolo originario della cosa rinvenuta o scoperta - la cui natura di bene archeologico sia accertata con procedimento ad hoc [6] - al demanio o al patrimonio indisponibile statale [7].
Tale rinvenimento o scoperta può avvenire da parte di soggetti diversi dallo Stato in due ipotesi: perché questo è stato autorizzato dallo Stato medesimo operando in regime di concessione [8], ovvero accidentalmente. Quest’ultimo caso è la c.d. scoperta fortuita.
Il carattere fortuito della scoperta è ricavabile in via residuale, “dovendosi considerare tale ogni rinvenimento intervenuto al di fuori di un programma di scavi”, “del tutto occasionale, costituendo un fatto giuridico eccezionale in cui non rileva la volontà dello scopritore [...]”, con valorizzazione pertanto dell’elemento teleologico di accidentalità dell’incontro con la cosa [9].
Nell’ipotesi della scoperta fortuita, all’acquisizione della proprietà in capo al soggetto pubblico è abbinata la previsione, sin dalla legge Bottai ’39 - del tutto simile anche in ciò all’odierno art. 92 - d’un premio in danaro o in natura (comma 4) al proprietario dell’area nella quale insistevano i beni scoperti, configurandosi in capo a egli una posizione di interesse legittimo nei confronti dell’amministrazione dei beni culturali [10].
Lo scopritore è remunerato a patto che ottemperi agli obblighi di legge (art. 90) e comunque entro il quarto del valore del bene scoperto. Ove egli sia anche proprietario dell’area ove è avvenuta la scoperta, gli può essere riconosciuto un premio di entità fino alla metà del suddetto valore [11]. Il procedimento, che si svolge in seno al ministero della Cultura, è regolato oggi anche dalla circolare ministeriale n. 29 del 18 giugno 2021 della Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio, posta come si vedrà al centro della statuizione in commento.
Sulla natura di questo premio si è lungamente discusso. Ai primordi, basandosi sui lavori preparatori, poté sostenersi la natura compensativa del premio [12], ma già da tempo ormai la ratio legis è stata individuata nella tutela e valorizzazione del patrimonio storico e artistico della nazione [13]. Emerge patente l’intento del legislatore di creare, con la previsione del premio, “una convenienza reale (non simbolica) per i soggetti, che a vario titolo si trovino a contatto con beni archeologici, a non occultare i ritrovamenti e a non cedere alla tentazione del commercio illegale dei relativi reperti”, volgendo esso pertanto a stimolare la collaborazione dei consociati alla cura del suddetto pubblico interesse [14].
Ciò testimonia anche il legame del premio non tanto con la natura del bene ma col comportamento del ritrovatore-scopritore, il quale viene remunerato quando, “pur trovandosi nella condizione di poter nascondere la scoperta, si attivi per rendere noto il ritrovamento e per custodirlo in attesa di consegnarlo alle pubblica autorità” [15].
Come anche chiarito dalla sentenza che si esaminerà, il premio in esame non ha natura compensativa né corrispettiva, ma costituisce misura remuneratoria e premiale dell’attività collaborativa del privato [16]. Tale ormai solido impianto interpretativo origina dalla considerazione operata dalle sezioni unite che i beni in questione appartengono allo Stato ex artt. 826 e 932, ult. comma, c.c. e 44, 46 e 48, legge 1° giugno 1939, n. 1089, restando pertanto escluso che nel premio possa ravvisarsi un corrispettivo per la perdita sofferta dal proprietario del suolo e per la perdita della remunerazione ex art. 930 c.c. sofferta dal ritrovatore, o un indennizzo per il depauperamento del patrimonio attraverso atto legittimo dell’amministrazione, o ancora, più in generale, una “misura ristoratrice di un turbato equilibrio di appartenenza” [17].
Per chiudere il quadro delle principali fonti in materia si rammenta poi che l’art. 93 del codice dei beni culturali e del paesaggio fissa alcuni principi generali in punto di determinazione del premio. La quantificazione è stata per lungo tempo regolata dalla circolare ministeriale n. 21109 del 23 dicembre 1999, la quale tipizzava le ipotesi di ritrovamento a ciascuna assegnando una percentuale da calcolarsi sulla stima dei beni ritrovati. La più recente circolare, n. 29 del 18 giugno 2021, si analizzerà infra nei suoi punti critici, essendo al centro del giudizio in esame. Per il momento, valga accennare che quest’ultima, oltre ad aver innovato la scansione procedimentale, ha riveduti i criteri di quantificazione del premio, nel senso spiegato qui di seguito.
Per sistematica, combinando le fonti normative e regolamentari succitate, appare opportuno ripercorrere i passaggi procedimentali del riconoscimento del premio allo scopritore ex art. 92, d.lg. 42/2004.
In caso di scoperta di un reperto nel sottosuolo da parte di persona privata - fisica o giuridica che sia [18] -, l’autorità valuta anzitutto il carattere fortuito della scoperta, ex art. 90, d.lg. 42/2004, seguendo il criterio individuato da ultimo nella cit. Cons. Stato, VI, n. 207/2024: ove ritenga occasionale l’“incontro con la cosa”, stabilisce che il premio è dovuto. Dopodiché, dovendo quantificare tale premio, riconosce discrezionalmente una percentuale, fino a un massimo del 25% nel caso generale [19].
Quindi, se la scoperta è limitata a quanto direttamente denunziato dal ritrovatore, la summenzionata percentuale viene calcolata sul valore dell’intero bene oggetto del rinvenimento. Se invece la scoperta abbia successivamente condotto all’emersione di altre evidenze archeologiche da parte o per conto dell’autorità preposta alla tutela dei beni culturali, occorre distinguere ulteriormente, come segue.
Ove tale successiva e ulteriore scoperta si sia verificata perché l’autorità, “sfruttando l’occasione” del cantiere privato in cui è avvenuto un ritrovamento, abbia intrapresi scavi nella convinzione più o meno fondata - e procedendo più o meno “a tentativi” - che possano esservi altri reperti archeologici nei dintorni, allora il premio allo scopritore andrà parametrato al solo bene oggetto del materiale ritrovamento denunciato.
Ove, invece, la campagna che ha condotto alla scoperta integrativa sia stata avviata con la certezza o comunque con l’elevato convincimento di scoprire altre parti del complesso, allora il premio allo scopritore andrà parametrato all’intero sito, quindi a tutti i beni scoperti.
3. La vicenda processuale e le questioni giuridiche sottoposte al giudice amministrativo
Le resistenze da parte della soprintendenza nel pagamento del premio conducevano i titolari dell’impresa ad adire per una prima volta il giudice amministrativo, affinché fosse loro corrisposto quanto dovuto per la scoperta (inizialmente era stato riconosciuto il solo premio per la proprietà). Tale primo giudizio impugnatorio, mirando all’annullamento del provvedimento negativo dell’autorità, aveva a oggetto esclusivamente l’an della debenza del premio a favore della ditta edile quale scopritrice delle tombe [20].
All’esito di tale prima vicenda giudiziaria, alla società ritrovatrice veniva riconosciuta dal Consiglio di Stato la spettanza del premio non solo come proprietaria dell’area ma altresì in qualità di scopritrice, ancorché persona giuridica [21].
Provvedeva quindi la soprintendenza al pagamento del premio per la scoperta, in applicazione del giudicato, assumendo come base di calcolo il solo valore delle due tombe materialmente ritrovate dai titolari della ditta. Va osservato che il giudicato non aveva altresì coperto il giudizio di “fortuità” della scoperta - l’involontario “incontro con la cosa” - che in esito alla sentenza di Palazzo Spada - il cui petitum, si è detto, era limitato alla qualità soggettiva di persona giuridica dello scopritore - la soprintendenza ben avrebbe potuto negare nell’esercizio della sua discrezionalità.
Giova precisare a esclusivo titolo di completezza espositiva e per onore della verità storica che, invero, nella macroarea del rinvenimento erano state già ritrovate numerose sepolture. A causa degli iati cronologici che hanno separate le scoperte, si erano identificati originariamente i tre gruppi di tombe come differenti necropoli [22]. In realtà, nessuno schema tipico noto di necropoli consentiva di prevedere se quanto emerso fosse l’intero sito o solo una parte, di talché gli archeologici non hanno mai potuto escludere né oggi escludono che si tratti di un’unica necropoli [23].
Tuttavia, il carattere fortuito della scoperta non è mai potuto essere oggetto di sindacato in quanto, con la sua determina di pagamento, la soprintendenza l’ha valutato positivamente. Insoddisfatta comunque del quantum corrisposto, azionava la ricorrente un secondo giudizio caducatorio avanti il Tar, da cui scaturisce la decisione in analisi.
4. La sentenza del Tar Umbria, Perugia, sez. I, 11 novembre 2024, n. 760
Nel ricorso si deduce l’illegittimità del provvedimento che dispone il pagamento del premio allo scopritore in quanto assume a base del calcolo della percentuale dovuta, come detto, le sole due tombe oggetto del materiale ritrovamento da parte dei ricorrenti.
È questo il punto centrale della vicenda, a dirimere la quale non è bastato il pur esauriente articolato della circolare Dg-Abap, servizio II, n. 29 del 18 giugno 2021. Il criterio fornito dalla regolamentazione ministeriale, e cui si è fatto cenno sopra, è stato infatti interpretato dalla sentenza in commento fornendo all’interprete una lettura della stessa che, a opinione di chi scrive, e come si dirà, ne assicura la coerenza con la ratio dell’istituto premiale [24].
Come si è compreso, la questione centrale del quid decisum è quella evocata dal titolo: il sottile discrimen che orienta la valutazione del nesso eziologico fra la scoperta fortuita iniziale (nel caso, due tombe) e l’intero ritrovamento (nel caso, il complesso necropolitano) ai fini della determinazione del quantum del premio per lo scopritore fortuito ex art. 92, d.lg. 42/2004.
La questione in esame è fondamentale nei casi, come quello in oggetto, in cui alla scoperta fortuita segua, a opera della soprintendenza o comunque su impulso di questa, una campagna di scavi che porti alla luce un complesso archeologico più ampio e articolato, quindi tanto più esteso geograficamente quant’anche più rilevante storico-archeologicamente.
Si ricordi infatti che alla società edile era stato riconosciuto dalla soprintendenza il premio per lo scopritore in relazione alle sole due sepolture direttamente ed effettivamente trovate dai manovali; la stessa ha poi preteso, incardinando il secondo giudizio al Tar, che la parametrazione avvenisse acquisendo a base di calcolo l’intera necropoli umbra, rectius orientalizzante [25], composta di 48 tombe.
4.1. L’applicazione della circolare n. 29 del 2021 alla fattispecie: una tomba fa una necropoli?
La frequenza dei ritrovamenti nel sottosuolo italiano origina numerosi casi vagamente simili al presente, in cui si dibatte del carattere fortuito della scoperta ovvero attorno alla soggettività dello scopritore, aspetti che non sono tuttavia discussi nella causa che ci occupa [26].
È invece discusso, nel caso in commento, il metodo da adottare per stabilire se, ai fini della quantificazione del premio al ritrovatore, vada assunto a base di calcolo il valore del solo bene materialmente ed effettivamente ritrovato dallo scopritore ovvero quello dell’intero sito archeologico emerso in seguito alla suddetta scoperta iniziale.
Tale metodo è in realtà illustrato, in maniera apparentemente esaustiva, dalla summenzionata circolare n. 29 del 18 giugno 2021, la quale, al § 3, rubricato Ambito oggettivo, lettera a), I beni, definisce il rapporto di causa ed effetto, al fine di identificare i beni oggetto di premio per la scoperta fortuita, qualora questa sia determinante per riportare in luce altri reperti o complessi archeologici. Alla luce di tale atto generale, “solo in caso di rapporto diretto e inscindibile” il premio spetta per la scoperta di tutto quanto viene messo in luce conseguentemente alla scoperta stessa. Diversamente, qualora la scoperta fortuita di uno o più oggetti costituisca “solo l’occasione per effettuare ricerche nuove, più estese o approfondite”, il premio va determinato per lo scopritore unicamente in relazione a quanto è stato oggetto della scoperta stessa, mentre al proprietario spetta il premio su tutti i beni ritrovati, anche a seguito dei risultati delle ricerche [27].
La circolare difetta di un’esatta tipizzazione, con indicazione, anche a mero titolo esemplificativo, delle ipotesi che possono dar luogo alla prima o alla seconda delle circostanze indicate. Eppure distingue comprensibilmente due fattispecie: la prima, in cui i reperti o le parti di complessi scoperti a seguito del ritrovamento iniziale sono stati indagati in quanto il bene scoperto era in rapporto diretto e inscindibile; la seconda, in cui tali emergenze successivamente venute alla luce sono state indagate in occasione del ritrovamento, costituendo quest’ultimo un mero pretesto per una ricerca basata su un’ipotesi scientificamente fondata ma legata a considerazioni comunque probabilistiche.
Il criterio posto dalla circolare concerne quindi un rapporto logico-cronologico fra le due scoperte, ammettendo che la connessione fra esse venga interrotta da una occasione creata dalla prima rispetto alla seconda quando quest’ultima è ancora in potenza. In altri termini, nella prima ipotesi il bene oggetto della scoperta fortuita è esso stesso inscindibile parte del tutto; mentre nella seconda evenienza si postula la mera opportunità che la scoperta fortuita crea rispetto all’indagine potenzialmente fruttifera di un sottosuolo archeologico che, altrimenti, non si avrebbe avuta la possibilità o meglio la “comodità” di esplorare.
Quid iuris nel singolare caso in cui la successione di scoperte in parola si abbia in un contesto nel quale vi sia fondato e solido sospetto della presenza di resti archeologici nella macroarea, senza però che alcuno sia in grado di prevederne più precisamente l’ubicazione?
Alla soluzione della vicenda in parola, esattamente ascrivibile al quesito di cui al periodo precedente, la lettera del criterio ministeriale, pur in apparenza completa di tutti gli elementi e idonea ad attagliarsi al caso specifico, non è stata sufficiente.
La sentenza di accoglimento distingue e chiarifica le ipotesi di cui alla circolare n. 29 con tanto di esempi. Premette il collegio che sull’individuazione del presupposto oggettivo, vale a dire del rapporto eziologico tra i ritrovamenti, in via di principio incidono le caratteristiche dei beni scoperti e le conoscenze e indicazioni che da ciò possono trarsi secondo un criterio di probabilità [28].
Distingue quindi le due ipotesi a titolo d’esempio: (a) la scoperta di un muro di una domus fa desumere con certezza “l’esistenza di altre parti strutturali”, se non “di una intera costruzione”, e sarebbe difficile negare in tale ipotesi un rapporto diretto e inscindibile tra la parte che viene scoperta per prima ed il resto, instaurandosi un “rapporto di continuità che si manifesta materialmente e orienta e facilita la prosecuzione dello scavo”, potendosi perfino prevedere in che direzione proseguire lo stesso. Alla medesima valutazione è riconducibile la scoperta dell’osso del dinosauro, che “costituisce la premessa del probabile ritrovamento nelle immediate vicinanze di altre ossa o dell’intero scheletro”: in tali casi, conclude il collegio, “sarebbe difficile sostenere la mancanza di un rapporto diretto dell’estensione dello scavo rispetto alla scoperta iniziale”.
Al contrario, (b) il rinvenimento, nel corso dell’aratura di un terreno agricolo, di un singolo bene mobile, un’anfora o una statua, evidenzia la possibilità che vi sia dell’altro nella zona circostante, ma - quantomeno, in assenza di particolari informazioni storiche - “non dà indicazioni su ciò che ci si può ragionevolmente attendere di ritrovare, né sulla direzione di ulteriori scavi”, pertanto determinando il programma ricerca e scavo una soluzione di continuità nel collegamento fra i successivi ritrovamenti e la scoperta fortuita iniziale che li ha occasionati [29].
4.2. Segue: si ha rottura del nesso solo se sia conosciuta o conoscibile l’esatta ubicazione dei reperti
La sentenza s’innesta nel criterio ministeriale del rapporto inscindibile fra il ritrovamento originale e l’intero sito poi scoperto, ma con maggiore analiticità rispetto alla fonte regolamentare, concludendo che nella ipotesi sub (a) “[...] può sostenersi che l’intero ritrovamento archeologico sia eziologicamente riconducibile alla scoperta fortuita iniziale, e dunque sussista il requisito oggettivo [...]” che manca invece nel caso sub (b) dell’anfora o della statua isolata [30].
Conclude quindi il Tar che, in presenza di una necropoli di tombe omogenee per tipo ed epoca, relativamente prossime l’una all’altra e di cui si sospettava da tempo la presenza, appare “difficile negare che la scoperta iniziale abbia consentito di concentrare l’indagine in quel punto, e con ciò la sussistenza del rapporto diretto e inscindibile [...]”, riconoscendo quindi che il premio spettante allo scopritore vada commisurato al valore stimato dell’intera necropoli e non delle sole due tombe effettivamente e materialmente ritrovate [31].
Pertanto, ancorché la ditta scopritrice fosse stata attinta già prima dei lavori da un’ammonizione della allora soprintendenza archeologica - con la quale era infatti intercorsa una corrispondenza a proposito dell’elevata probabilità che emergessero reperti simili a quelli rinvenuti ante 1912 in area attigua e in parte corrispondente -, il fatto che non si conoscessero le “direttrici” lungo le quali la necropoli già nota potesse estendersi integra l’occasionalità e quindi esclude la mancanza del nesso in parola.
È parso opportuno al collegio richiamare la ricostruzione dell’istituto premiale recentemente compiuta dal Consiglio di Stato, per cui la non visibilità e non prevedibilità del ritrovamento, se non costituiscono condizioni per l’erogazione del premio al proprietario, costituiscono invece presupposti imprescindibili ai fini del riconoscimento del premio allo scopritore, anche quando venga a coincidere con il proprietario [32]. Benché ci si stesse qui esprimendo sull’an e non sul quantum del premio, il richiamo è utile a corroborare l’impiego del criterio della conoscenza pregressa dell’esatto posizionamento del bene ipogeo. Difatti, solo ove sussiste tale informazione potrà ammettersi lo scioglimento del legame eziologico, con conseguente limitazione della base di calcolo della percentuale del premio alla parte oggetto del ritrovamento di cui è materiale autore lo scopritore fortuito, ed esclusione delle restanti emergenze.
Appare quindi esservi, anche nell’atto della quantificazione, un inevitabile recupero del momento valutativo della fortuità. La riflessione non può che involgere infatti anche la valutazione della spettanza (an) del premio, passaggio logico-giuridico precedente rispetto a quello della quantificazione in valuta della sua entità, ma che segue uno schema parzialmente e inevitabilmente sovrapponibile.
Nel caso che ci occupa - in cui una valutazione della fortuità della scoperta è stata già compiuta e si tratta solo di comprendere rispetto a quali beni sia da parametrarsi il premio - nei confronti dello scopritore è essenziale operare una valutazione, diversamente che per il proprietario, che è in quanto tale titolare oggettivo del beneficio, la quale tenga conto delle informazioni disponibili all’atto del compimento dei lavori di movimento terra che hanno condotto alla scoperta.
In altre parole, quando è facilmente prevedibile, perché vi sono dati certi che depongono in tal senso, che un dato reperto archeologico insiste nel sottosuolo oggetto dei lavori, il premio non può ritenersi spettante. Nel caso di specie, quindi, si sarebbe dovuto escludere a priori il carattere fortuito della scoperta.
Se, invece, pur esistendo una generica informazione, la possibile ubicazione del bene ipogeo rimanga vaga, prevedendosi solo che questo esista, usquam, ma senza poterlo localizzare, allora l’attività dello scopritore - purché, ovviamente, consista in lavori non preordinati alla ricerca del suddetto bene ma finalizzati ad altro, come nel caso, di demolizione e ricostruzione di un complesso immobiliare - dovrà riconoscersi meritevole d’aver riportato alla luce non solo quanto materialmente dissepolto, ma l’intero complesso a ciò connesso.
5. Conclusioni: un ritorno all’origine e alla ratio dell’istituto
Richiamando i passaggi procedimentali, illustrati sopra, previsti per il riconoscimento del premio allo scopritore, appare il caso di soffermarsi sulla portata che la sentenza in commento può avere per gli operatori del diritto dei beni culturali.
Può risultare utile tornare a riflettere sulla ratio della disposizione e sulla natura giuridica del premio allo scopritore-ritrovatore. L’istituto, che segue lo stesso fine del premio al proprietario, lungi dal costituire un indennizzo per il depauperamento, si è detto, remunera il privato per la collaborazione prestata nei confronti dell’autorità pubblica [33].
Dunque, a opinione di chi scrive, il ragionamento di cui in sentenza aderisce alla ratio della norma, per i motivi seguenti. Laddove sussista quella “occasionalità” che rompe il nesso fra la scoperta e l’intero complesso di reperti, il soggetto scopritore non può dedurre con sufficiente probabilità dal suo ritrovamento la presenza di altri resti, e pertanto non sarà indotto a procedere allo scavo per ottenere il maggior premio.
Lo scrutinio del nesso eziologico deve servire proprio a evitare di riconoscere il premio sull’intero a chi ha scoperto l’emergenza originale senza però poterne immaginare la continuazione sotterranea. In altre parole, un ritrovamento che in nessun caso faccia presagire la presenza di ulteriori emergenze, non potrà indurre il soggetto a procedere nello scavo col fine di scoprire nuovi beni, e pertanto appare corretto non estendere la base di calcolo del premio alla parte restante del patrimonio archeologico emerso che venga eventualmente portata alla luce a seguito della denuncia (per esempio, come risultato delle campagne di scavo ministeriali).
Invece, nel caso in cui sussista fra le due scoperte un’inscindibilità logica, ove quindi il soggetto scopra per esempio le sostruzioni di una domus, facilmente egli potrà prefigurarsi la presenza di altre mura o tracce perimetrali e magari di statue o mosaici, e così via. In quest’ultimo caso, il mancato riconoscimento di un premio anche su quanto trovato dalla soprintendenza successivamente alla scoperta fortuita renderebbe la legge sul premio foriera di effetti perversi, dando essa impulso al soggetto privato di proseguire lo scavo, in violazione del principio di conservazione dei beni culturali di cui all’art. 29, d.lg. 42/2004.
In casi di ritrovamenti estesi e sviluppati per fasi successive come quello che ci occupa - oltre a quello della necropoli trovata a partire dalla tomba si può immaginare il caso della domus a partire dal muro o del dinosauro a partire dall’osso - gioca quindi un ruolo centrale, ai fini della estensione o meno della base di calcolo del premio all’intero complesso di beni, il grado di specificità dell’informazione eventualmente resasi disponibile prima di intraprendere i lavori. Vale a dire, la eventuale pregressa conoscenza o meno non solo dell’esistenza del complesso di beni, ancorché quasi certa, ma altresì dell’esatta ubicazione dello stesso. È infatti tale grado a far presupporre lo scopo cui si orienta l’azione del ritrovatore, laddove la determinazione del quantum del premio, come anche quella dell’an, si basa sulla presunzione invincibile - e non potrebbe essere altrimenti, data la ratio medesima del premio - che egli operi con fine eterogeneo rispetto all’indagine archeologica.
Ad avviso di chi scrive, il criterio appare coerente con la condizione generalizzata del sottosuolo archeologico italiano, notoriamente diffuso e nutrito, non potendo i lavori eseguiti in una macroarea nella quale siano semplicemente possibili ulteriori ritrovamenti essere degradati a mera occasione dell’eventuale ulteriore scoperta che ne consegua, poiché si rischierebbe, in un contesto ipogeo come il nostro, di declassare in tal senso tutti i ritrovamenti integrativi di un reperto denunciato.
Se, pertanto, l’art. 92 tende a remunerare l’atteggiamento collaborativo di chi, ritrovatosi suo malgrado custode della proprietà archeologica dello Stato, anziché impossessarsene, farne mercimonio o altrimenti disperderla od occultarla per avanzare nell’attività economica che sta svolgendo, la segnala all’autorità, con sacrificio dei propri personali interessi, non si vede perché il premio, in casi connotati da ritrovamenti successivi alla denuncia e strettamente connessi con l’oggetto dell’originale scoperta, dovrebbe intendersi limitato a quest’ultima.
Ogni meccanismo discostato da tale principio sarebbe perverso, atteso che finirebbe per premiare chi prosegua contro la legge nell’indagine del sottosuolo, consapevole che, segnalando all’autorità la porzione casualmente scoperta, rinuncerebbe all’ispessimento della base di calcolo del premio data dal valore di tutta la restante parte del complesso.
Una volta valutato, quindi, il carattere fortuito della scoperta, la circolare n. 29 dev’essere interpretata nel senso che la sola conoscenza della precisa ubicazione del bene ipogeo consente di presumere il fine esplorativo delle operazioni che hanno condotto alla scoperta, e quindi di ritenere insussistente il nesso fra la parte e il tutto del ritrovamento [34].
Note
[*] Filippo Blasi, dottore in giurisprudenza presso l’Università di Roma Luiss e praticante avvocato, viale Bruno Buozzi, 51, 00197 Roma, e-mail: filippo.blasi@alumni.luiss.it.
[1] M. Broncoli, Gli ultimi scavi nella necropoli di San Pietro in Campo - Ex Poligrafico Alterocca di Terni: osservazioni preliminari, in Gli Umbri del Tevere. Annali della Fondazione per il Museo “Claudio Faina”, (a cura di) G.M. Della Fina, 2001, 8, pag. 344.
[2] Il riferimento all’età del ferro sembra essere frutto di un errore nei documenti della soprintendenza, giacché gli studiosi avevano sin da subito esclusa tale datazione, riferendosi piuttosto agli “ultimi decenni del VII sec. a.C. ed il corso del secolo successivo” (M. Broncoli, Gli ultimi scavi, cit., pag. 344), o al periodo orientalizzante (convenzionalmente dal 720 a.C. al 580 a.C.); cfr. L. Ponzi Bonomi, Tra appennini e Tevere: il ruolo dei Naharci nella formazione della cultura umbra, in Gli Umbri del Tevere, cit., 2001, 8, pag. 325; per una panoramica sugli altri rinvenimenti nell’area, si veda P. Renzi, Terni dalla Prima Età del Ferro alla conquista romana (VIII-III sec. a.C.), in Interamna Nahartium. Materiali per il Museo Archeologico di Terni, (a cura di) V. Pirro, Terni, 1997, pag. 61 ss.
[3] L. Ponzi Bonomi, Tra appennini e Tevere, cit., pag. 336 ss. Si significa che, purtroppo, i beni in questione, originariamente divisi fra il Museo civico di Terni e il deposito della Soprintendenza di Perugia. Quindi, ulteriormente ridistribuiti per effetto della riforma dei poli museali del 2016 (cfr. sul punto C. Carmosino, Il completamento della riforma organizzativa del Mibact: i nuovi istituti autonomi e il rafforzamento dei poli museali, in Aedon, 2016, 1), a eccezione di due corredi funebri (senza defunto) non sono ancora esposti al pubblico.
[4] Per il metodo di calcolo del valore si veda la circolare n. 29 del 18 giugno 2021 della direzione generale Archeologia Belle arti e Paesaggio (Dg-Abap), servizio II Scavi e tutela del patrimonio archeologico, recante oggetto Premio per i ritrovamenti (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, artt. 90, 91, 92, 93). Procedimento di attribuzione del premio, di cui si riporta un estratto (pag. 13): “[...] Per i beni immobili, il valore di base è da considerare pari al costo di ricostruzione attuale di analoghe strutture della stessa volumetria. Per il calcolo, può farsi riferimento al valore di ricostruzione riferito ai costi dei materiali e delle ricostruzioni attualmente impiegati nelle costruzioni civili, desunti dai prezziari regionali. A tale valore di base, al fine di normalizzare gli indici in aggiunta (o diminuzione) del valore archeologico, topografico, storico, di singolarità/particolarità delle strutture oggetto di perizia, si applica una maggiorazione del 30%, da considerare come media ponderata dei suddetti coefficienti, ricalibrando tutti gli indici applicativi e rappresentando uno strumento agile e di immediata applicabilità [...]”; cfr. Cons. Stato, sez. VI, 5 febbraio 2018, n. 709, che ha avallato il metodo. Su questo punto (coefficienti correttivi) vedasi R. Tamiozzo, Art. 92, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) R. Tamiozzo, pagg. 403-404.
[5] Si deve pertanto rinviare alla vasta bibliografia sul tema, a partire da G. Mantellini, Lo Stato e il Codice civile, Firenze, 1880, vol. II, pag. 154 ss. Da ultimo, per una ricognizione della disciplina del premio e una disamina storico-normativa delle fonti della disciplina, fino al dettaglio sui criteri di calcolo dello stesso, si veda S. Gardini, Il premio per i ritrovamenti di beni culturali, in Aedon, 2024, 2.
[6] Del giudizio valutativo come momento giuridico che segue la scoperta della cosa, al fine di qualificarla o meno come bene archeologico, parla già M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1. pag. 17, in cui l’autore qualifica tale istruttoria procedimentale come procedimento di diversa struttura rispetto a quelli relativi agli altri beni culturali, in quanto volto all’«accertamento originario del bene che torna alla luce».
[7] Vari gli autori che si sono concentrati sulla questione della riserva di proprietà originaria a favore dello Stato, fra cui, da ultimo, G. Pistorio, Art. 91, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, pag. 878 ss., nonché R. Aveta, I beni archeologici: vincoli pubblicistici e prerogative del finder, in amministrativ@mente, 2016, 11-12, con un taglio comparatistico. Cfr. anche S. Alagna, Ritrovamento e scoperta di beni aventi valore culturale, in Contratto e impresa, 1986, 2. pag. 437 ss., e, sulla puntuale distinzione fra ritrovamento e scoperta, W. Cortese, I beni culturali e ambientali. Profili normativi, Padova, 2002, pagg. 197 e 200 (con l’ulteriore differenziazione della scoperta clandestina, pag. 201). Questa distinzione è essenziale anche ai fini della presente trattazione, atteso che, se la si disattende, inevitabilmente si rischia di fraintendere il riferimento al ritrovamento fortuito di beni archeologici, che va inteso come scoperta (così è anche nella copiosa trattatistica sul punto, che non sempre si premura di specificare ogni volta tale riferimento, talora parlando anche di “finder”).
[8] Tanto prevede il codice all’art. 89, ancorché riservando allo Stato rilevanti poteri di controllo e financo di revoca, che pongono il ministero in una posizione di supremazia, come osservato da B. Lubrano, sub art. 89, in Codice dei beni culturali, (a cura di) M.A. Sandulli, cit., pagg. 865-866.
[9] Da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 5 gennaio 2024, n. 207, § 16.4.3. Sul concetto della scoperta fortuita è molto ampia la bibliografia: vedasi G. Pistorio, Art. 90, in Codice dei beni culturali, op. ult. cit., pag. 870, con tanto di esempi; C. Barbati, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2017, pagg. 176-182.
[10] Posizione che si trasforma in diritto soggettivo a seguito della determinazione dell’esatto quantum del premio, come affermato in Cons. Stato, sez. I, 7 giugno 2005, n. 11796; cfr. anche A. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Torino, 2005, pag. 254. Che la giurisdizione sulla spettanza del premio sia del giudice amministrativo è pacifico sin da prima, cfr. Cass., sez. un., 11 marzo 1992, n. 2959.
[11] Il procedimento volto alla quantificazione del premio involge una valutazione di natura tecnico-discrezionale, come confermato anche di recente in Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2021, n. 4466, per cui appare difficile contestare la scelta dell’amministrazione di attribuire al proprietario e/o scopritore una determinata percentuale inferiore al massimo di legge. Si specifica sin d’ora che il caso in esame ha sì a oggetto il quantum del premio, ma non attiene alla fase dell’applicazione di una percentuale al valore del bene scoperto, bensì al criterio per l’individuazione di tale valore di partenza.
[12] Come sottolineato da S. Gardini, Il premio per i ritrovamenti, cit., tanto emergeva dalla relazione romano di accompagnamento alla legge Bottai, che attribuiva all’istituto una funzione di giustizia premiale; cfr. M. Serio, La relazione di Santi Romano a Bottai sul progetto di legge per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1984, 1, pag. 283, con la specificazione che in tali lavori il principio giuridico della premialità era già temperato, infatti si legge, ivi, che il premio proposto “non è mai corrisposto a titolo di compenso di un diritto sulle cose ritrovate o scoperte, ma serve ad attuare un evidente criterio di giustizia distributiva”. D’altronde, come si è detto più volte, le cose ritrovate e scoperte appartengono ab origine allo stato e sono res extra commercium.
[13] Già illustrato da M.S. Giannini, I beni culturali, cit., passim. Sui concetti di conservazione e valorizzazione vedasi, fra i molti, P.G. Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1987, II, pagg. 221-224.
[14] CGARS, 12 aprile 2007, n. 353, pag. 4. A ben vedere, già in Corte App. Roma, 4 ottobre 1976, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, 3/1977, pagg. 423-424, si stabiliva che il premio ex art. 49, legge 1° giugno 1939, n. 1089 non potesse spettare “allo scopritore che abbia omesso la denuncia per l’avvenuto ritrovamento” (cfr. S. Alagna, Ritrovamento e scoperta di beni aventi valore culturale, in Contratto e impresa, 2/1986, pagg. 460-461), eppure Cass., sez. un., 27 gennaio 1977, n. 401, pag. 408 ss., pur esprimendosi in punto di giurisdizione, non abbandonava ancora la visione per cui il premio “svolge quanto meno anche, se non soprattutto, una funzione in senso lato compensativa della diminuzione [...]”.
[15] S. Gardini, Il premio per i ritrovamenti, cit.
[16] Cass. sez. un., 7 marzo 2011, n. 5353; Cons. Stato, sez. VI, 7 maggio 2015, n. 2302; una breve ricostruzione è operata in Tar Umbria, Perugia, sez. I, 11 novembre 2024, n. 760, § 9.
[17] Cass., sez. un., 11 marzo 1992, n. 2959, già cit. sopra in punto di giurisdizione. Può richiamarsi poi, ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 5 gennaio 2024, n. 207, al cui § 16 si legge che il premio di rinvenimento è “finalizzato a prevenire l’appropriazione indebita del bene culturale e a disincentivarne il commercio clandestino, e dunque spetta unicamente quale ricompensa per aver contribuito all’arricchimento del patrimonio culturale statale”.
[18] Come detto, l’impasse è superata ormai da tempo; si veda, supra, Cons. Stato, VI, n. 5091/2006, § 3, pag. 5.
[19] Vi è poi l’ipotesi di cui all’art. 92, comma 2, d.lg. 42/2004, per cui se lo scopritore è anche proprietario il premio non si duplica, ma si calcola esclusivamente una maggiorazione di esso per tale seconda qualità applicandovi il limite del 50%.
[20] Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2021, n. 4466, in riforma di Tar Umbria, Perugia, sez. I, 6 dicembre 2016, n. 752.
[21] Come osservato da ultimo da C. Luchetti, Il premio ex art. 92 d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42: un’importante “messa a punto” in una recente sentenza del Consiglio di Stato, in Aedon, 2024, 2 (vedi, in particolare, § 2 e nota 10, in cui si fa riferimento a Cons. Stato, sez. VI, 4 settembre 2006, n. 5091), è da tempo indiscusso che la qualità di scopritore sia ammessa anche in capo alla persona giuridica. In particolare, nel caso in esame, il Consiglio di Stato (estremi nella nota precedente), in riforma della decisione di primo grado che aveva in certo senso disatteso la statuizione del consesso di Palazzo Spada del 2006, all’epoca non ancora consolidata come invece può ritenersi oggi, aveva deciso però senza un esplicito riferimento al precedente, pur recuperandone l’argomentazione: “[...] sempre sulla base della formulazione letterale della legge non si evidenzia alcun ostacolo a riconoscere il premio spettante allo scopritore anche ad una persona giuridica, specie in una situazione come quella data in cui il premio non è richiesto dalla persona che ha rinvenuto materialmente i reperti” (§ 4.2).
[22] Trattasi di quella scoperta in contrada San Pietro in Campo nel 1907 per la costruzione del villino Tacchi, di quella rinvenuta durante i lavori del Poligrafico Alterocca attorno al 1911, e infine di quella (di cui è causa) dell’Ex Poligrafico Alterocca, emersa nel 1996-2000 per la demolizione dell’opificio; cfr. N. Sabina, Le necropoli preromane di Terni tra archeologia e sviluppo industriale postunitario, in Archeologia classica, n.s., Roma, 2022, pagg. 211-213.
[23] Come invece è ben probabile secondo N. Sabina, Le necropoli preromane di Terni, cit., che osserva: “L’evidente frammentarietà e disomogeneità delle indagini hanno [...] ostacolato la comprensione complessiva del sepolcreto, tanto da rendere non affatto semplice [...] capire le relazioni tra i differenti scavi”. In sostanza, le circa 120 tombe “per vicinanza e tipologia” dovrebbero essere ricondotte a un unico complesso sepolcrale laddove invece “dopo le ultime campagne di scavo [...] si è assistito, anche nella letteratura di settore, all’inesatto sdoppiamento del nome stesso della necropoli [...]. In questo modo le campagne di scavo svoltesi tra il 1996 e il 2000 (Ex Poligrafico Alterocca) rappresentano solo uno dei momenti - l’ultimo - in cui si è avuta l’occasione di indagare il sepolcreto”.
[24] Sul punto vedasi il paragrafo 2.
[25] Vedi la nota 2.
[26] In C. Luchetti, Il premio ex art. 92, cit., si è affrontato l’istituto del premio per il ritrovamento con focus sul tema dell’individuazione del soggetto cui possa riconoscersi la qualificazione di scopritore laddove il ritrovamento avvenga a opera di una ditta appaltatrice incaricata di sovrintendere ed eseguire gli scavi (l’articolo analizza invero anche i criteri e parametri per la fissazione del quantum del premio, tuttavia nel caso non si poneva il problema dell’estensione della “base di calcolo” che invece interessa quello in esame).
[27] Circolare Dg-Abap, servizio II, n. 29 del 18 giugno 2021, Premio per i ritrovamenti (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, artt. 90, 91, 92, 93). Procedimento di attribuzione del premio, pag. 11. Si richiama anche il parere dell’Avvocatura dello Stato del 31 ottobre 1992, n. 104970, pagg. 4-5.
[28] Si tratta di un giudizio presuntivo cui è chiamata dapprima la soprintendenza, la quale si presume avere le competenze tecniche per valutare il nesso in ambito archeologico; dopodiché, sarà il giudice a valutare la probabilità basandosi sull’id quod plerumque accidit, discrezionalmente salvo l’apprezzamento degli eventuali elementi indiziari emergenti dagli atti di causa.
[29] Tar Perugia n. 760/2024, § 13.4.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, §§ 13.5. e 13.6.
[32] Cons. Stato, sez. VI, 5 gennaio 2024, n. 207, § 9, richiamata da Tar Perugia n. 760/2024, § 9 (per mero errore materiale ivi identificata al n. 107/2024).
[33] Si rinvia supra, al paragrafo 2.
[34] Si rammenti comunque che l’an e il quantum del premio - pur costituendo passaggi logici e procedimentali in sequenza, separati l’uno dall’altro - sono comunque orientati da un criterio simile, e pertanto che se viene erroneamente valutato il carattere fortuito del ritrovamento, con conseguente riconoscimento della spettanza del premio, ciò può creare un certo imbarazzo nella fase di individuazione del quantum, con il possibile effetto che alla scoperta de facto non fortuita sia comunque riconosciuta l’inscindibilità del nesso eziologico.