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Ritrovamenti, scoperte e premi nella più recente giurisprudenza

Il premio per il rinvenimento di beni culturali

di Silia Gardini [*]

Sommario: 1. Il premio di rinvenimento: la ratio dell’istituto e la sua disciplina, a partire da due recenti pronunce del Consiglio di Stato. - 1.2. La fattispecie presupposta: ritrovamenti e scoperte - 1.3. L’inquadramento normativo dell’istituto del premio di rinvenimento e la struttura procedimentale - 1.4. Le questioni esaminate da Consiglio di Stato. - 2. La natura giuridica del premio di rinvenimento, tra funzione sociale della proprietà e dovere di collaborazione tra privati e Amministrazione. - 3. L’individuazione dei soggetti legittimati alla corresponsione del premio. - 4. L’applicazione delle garanzie partecipative al procedimento per la determinazione del premio. - 5. Il premio “in natura”: un modo atipico di acquisto della proprietà di un bene culturale archeologico da parte dei privati.

The prize for the discovery of cultural property
The paper analyses - from two recent Council of State rulings - nature and implications of the legal institution of the ‘discovery award’, which is provided for by the Cultural Heritage and Landscape Code in the event that cultural heritage is found or accidentally discovered.

Keywords: findings; discoveries; cultural heritage research; discovery award.

1. Il premio di rinvenimento: la ratio dell’istituto e la sua disciplina, a partire da due recenti pronunce del Consiglio di Stato

Nel caso in cui venga ritrovato o scoperto un bene culturale, il Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 prevede l’obbligo per lo Stato di corrispondere a determinate categorie di soggetti un “premio” proporzionato al valore di quanto rinvenuto [1].

L’istituto del premio di rinvenimento - oggetto di due recentissime pronunce della Sez. VI del Consiglio di Stato (sentt. 5 gennaio 2024, n. 207 e 31 gennaio 2024, n. 920), i cui contenuti saranno esaminati nei paragrafi successivi - presenta profili di particolare interesse scientifico, poiché involge delicate questioni connesse anche alle limitazioni che la normativa del patrimonio culturale impone al privato proprietario.

La condizione dei beni sottoposti a tutela storico-artistica e archeologica determina, infatti, una rilevante compressione del pieno diritto di proprietà, così come configurato dal diritto comune, determinando un regime specialissimo di acquisizione in capo allo Stato.

Prima di analizzare i contorni intrinseci dell’istituto, disciplinato dagli artt. 92 e 93 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, è dunque opportuno fare riferimento alle previsioni che il Codice stesso dedica alla regolamentazione delle attività di ricerca e alla disciplina di ritrovamenti e scoperte di beni culturali, al fine di coglierne la complessiva ratio conservativa e derogatoria [2].

1.2. La fattispecie presupposta: ritrovamenti e scoperte

La questione della individuazione di regole specifiche per la qualificazione dei beni culturali non ancora rinvenuti ha animato il dibattito giuridico italiano sin dalla fine dell'Ottocento [3]. Con l’intento di legittimare l’intervento pubblico di tutela, la dottrina amministrativistica ha posto, fin da subito, con fermezza l’accento sulla distinzione tra i rinvenimenti archeologici e i tesori di matrice civilistica, per i quali vigeva uno specifico regime proprietario e nulla era dovuto allo Stato [4]. Riprendendo un concetto già affermato dal diritto romano, si individuava, a tal fine, come elemento caratterizzante del tesoro rispetto al reperto archeologico la c.d. depositio, ovvero il deposito originario finalizzato all’occultamento del bene. I beni culturali non ancora rinvenuti venivano, così, attratti nella “proprietà separata” dello Stato, tale rispetto allo stesso sottosuolo [5].

Ancora oggi ritrovamenti e scoperte rappresentano, a tutti gli effetti, la prima, più ampia e rilevante modalità di acquisto della proprietà dei beni culturali da parte dello Stato.

A partire dalla Legge Bottai del 1939, le “cose” da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini - anche in aree di proprietà privata - si collocano a titolo originario nella sfera giuridica statale [6]: le cose immobili (o mobili destinate a confluire in una raccolta museale) sono virtualmente beni demaniali; le cose mobili sono destinate a confluire nell’ambito del patrimonio indisponibile, (art. 826, comma 2 c.c. e art. 91, comma 1 cod. b.c.p.) [7].

Anche se l’art. 91 del Codice dei beni culturali e del paesaggio menziona espressamente soltanto i ritrovamenti effettuati nel sottosuolo o sui fondali marini, ritenere che un bene rinvenuto nel soprassuolo (ad esempio, all’interno di una grotta) possa avere un trattamento giuridico differenziato, appare del tutto irragionevole e in evidente contrasto con le stesse finalità di tutela espresse dalla normativa. Come affermato da autorevole dottrina, in questo caso, non può che prevalere “il fatto del ritrovamento su quello del luogo di ritrovamento” e l’espressa menzione della norma al sottosuolo e ai fondali marini va intesa come riferimento all’id quod plerumque accidit [8].

È bene precisare che la disposizione di cui all’art. 91 non determina automaticamente che ogni cosa di nuovo rinvenimento debba essere ex se qualificata come bene culturale ai fini giuridici. Proprio l’utilizzo da parte del legislatore del termine “cosa” (in luogo di “bene”) evidenza la necessità che venga svolto da parte dell’Amministrazione un giudizio specifico sulla effettiva consistenza di quanto rinvenuto.

Così, in tutti i casi in cui si verifichi il rinvenimento di un oggetto dal potenziale valore culturale-archeologico, si attiverà un procedimento amministrativo del tutto peculiare, avente ad oggetto proprio l’accertamento originario della natura di bene culturale (diversamente da quanto avviene per gli altri beni culturali, laddove il procedimento assume valore dichiarativo ex nunc dell’interesse culturale) e il conseguente radicamento della proprietà pubblica [9].

Più che di originaria appartenenza allo Stato, si verifica, allora, una oggettiva disponibilità dei rinvenimenti in capo all’Amministrazione, la quale si troverà nella posizione di acquisire a titolo originario solo ciò che ritenga effettivamente valido sotto il profilo culturale, lasciando il resto nella disponibilità (e proprietà) del titolare del fondo in cui è avvenuto il rinvenimento. Qualora la verifica dia esito negativo, il regime applicabile alle cose rinvenute sarà, dunque, quello generale previsto dagli artt. 840, 927 e 932 c.c., in tema di proprietà e dei suoi modi di acquisto [10].

Questa riserva di valutazione amministrativa preventiva sulla res risponde allo scopo di assicurare al ministero della Cultura il controllo totale di ogni ritrovamento, “mettendo al riparo” le cose - già nella prima fase della loro vita giuridica - dall’applicazione immediata degli istituti del diritto comune e dalla formazione su di esse di diritti e prerogative di natura privata [11].

Per ragioni analoghe, la normativa vigente riconduce alla potestà esclusiva dello Stato anche le attività di ricerca di beni culturali (in particolare archeologici), che possono essere esercitate da altri soggetti soltanto a seguito di una concessione di scavo rilasciata dal ministero della Cultura e disciplinata dall’art. 89 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. L’interesse pubblico in questo ambito emerge sotto un duplice profilo: come difesa contro la perdita, la dispersione e l’occultamento di beni culturali e come positiva regolamentazione della ricerca, dello studio e della conservazione del relativo patrimonio [12].

Al di fuori dell’attività svolta dal ministero o da soggetti ad esso legati da un regime di concessione, il rinvenimento di beni culturali può ragionevolmente avvenire anche in via accidentale, indipendentemente dall’avvio di una formale attività a ciò finalizzata. Scoperte fortuite possono aversi durante lavori agricoli o edilizi, per effetto di fenomeni naturali (mareggiate, terremoti, straripamento di fiumi) che riportino in luce oggetti conservati nel sottosuolo, nonché nel corso di lavori di scavo di qualsiasi altra natura [13]. La nozione di scoperta ha natura accidentale, dovendo considerarsi tale ogni rinvenimento non previsto o prevedibile, avvenuto al di fuori di un “programma” di scavi a ciò finalizzato. Da ciò discende che la scoperta sia qualificabile come fortuita anche quando si verifichi nell’ambito di un’attività di ricerca non dedicata al ritrovamento di beni del genere di quelli in concreto ritrovati (si pensi, ad esempio, al rinvenimento di resti di epoca preistorica nell’ambito di una campagna di scavi volta alla ricerca di reperti di epoca romana).

Se il ricercatore compie atti diretti al ritrovamento cosciente di una o più cose, secondo un programma di ricerca, il rapporto fra lo scopritore e la cosa è una mera casualità. In termini sistematici, il discrimen tra ritrovamenti e scoperte è, dunque, sempre di natura teleologica e si riconnette alla volontarietà dell’azione che muove il soggetto scopritore: il “ritrovamento” è il risultato di un’attività di ricerca a tal fine orientata ed organizzata (dunque svolta dal ministero e dai suoi organi in via diretta o da altri soggetti a ciò legittimati attraverso uno specifico provvedimento concessorio); la “scoperta” è, invece, per sua natura accidentale, dunque caratterizzata dalla non intenzionalità del rinvenimento stesso [14].

1.3. L’inquadramento normativo dell’istituto del premio di rinvenimento e la struttura procedimentale

Gli artt. 92 e 93 del Codice dei beni culturali e del paesaggio disciplinano consistenza e criteri per l’attribuzione del premio sia nei per i ritrovamenti programmati che per le scoperte fortuite di beni culturali.

Le regole prevedono che, in entrambi i casi, il contributo economico - non superiore al quarto del valore delle cose trovate - sia corrisposto innanzitutto al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento. Nel caso di ritrovamenti, il concessionario dell’attività di ricerca potrà ottenere il premo qualora l’attività medesima non rientri tra i suoi scopi istituzionali o statutari; nel caso di scoperte, lo scopritore fortuito sarà ricompensato solo laddove abbia ottemperato agli obblighi posti a suo carico dalla legge [15].

L’ipotesi in cui più profili concorrano in capo allo stesso soggetto è disciplinata dal secondo comma dell’art. 92, che identifica la figura del proprietario-concessionario (colui che effettua i ritrovamenti su un immobile di sua proprietà nell’ambito di una ricerca debitamente autorizzata) e quella proprietario-scopritore (colui che accidentalmente porti alla luce un bene su un immobile di sua proprietà). In questi casi la legge riconosce il diritto a un premio di più cospicuo, comunque non superiore alla metà del valore delle cose ritrovate.

L’espressione “non superiore” deve essere interpretata come un limite massimo quantitativo e non come criterio fisso. In assenza di ulteriori indicazioni o limitazioni rinvenibili in altre fonti, anche di rango amministrativo generale, la valutazione del quantum del premio nel caso concreto è, dunque, riservata alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione [16].

Una previsione particolarmente rilevante - il cui rispetto è elemento presupposto necessario ai fini della corresponsione del premio - è quella per la quale, avvenuta la scoperta, in capo allo scopritore nascono una serie di obblighi inderogabili, espressamente previsti dall’art. 90 del Codice dei beni culturali. Il principale è l’obbligo di denuncia, da effettuare entro ventiquattr’ore dalla scoperta al soprintendente, al sindaco (del comune in cui la stessa è avvenuta) ovvero all’autorità di pubblica sicurezza.

Per giurisprudenza costante, il termine di ventiquattro ore per l’effettuazione della denuncia di rinvenimento decorre non dal momento in cui viene acquisita piena conoscenza della valenza culturale o dell’effettiva importanza archeologica dell’oggetto, bensì dal momento del suo concreto rinvenimento fortuito [17]. Lo scopritore è altresì tenuto alla conservazione temporanea, a titolo di custode, della cosa ritrovata, che deve esser preferibilmente mantenuta nelle condizioni e nel luogo in cui è state rinvenuta. Solo nel caso di cose mobili delle quali non si possa altrimenti assicurare la custodia, è prevista la facoltà di rimuoverle per meglio garantirne la sicurezza e la conservazione sino alla visita dell’autorità competente e, ove occorra, di chiedere l’ausilio della forza pubblica.

Il premio viene corrisposto all’esito dell’apposito procedimento disciplinato dall’art. 93 del Codice che prevede, da una parte, l’accertamento delle condizioni previste dalla norma ai fini della sua corresponsione in capo al concessionario, allo scopritore o al proprietario e, dall’altra, il compimento di una valutazione tecnico-discrezionale relativa al valore dei beni rinvenuti, in base alla quale verrà poi quantificato, nel rispetto dei limiti edittali previsti dalla legge, lo stesso premio.

Il procedimento prende avvio d’ufficio (nei casi in cui, dopo aver ricevuto la denuncia di ritrovamento, il ministero disponga di tutti gli elementi necessari per concluderlo) o a seguito di apposita istanza dell’interessato, che deve essere formulata entro il termine massimo di dieci anni dal rinvenimento.

La durata del procedimento, ai sensi del d.p.c.m. 18 novembre 2010, n. 231 (“Determinazione del premio per i ritrovamenti - art. 93 del Codice”) è di complessivi centottanta giorni. Il d.p.c.m. n. 169 del 2019 e la Circolare n. 3 del 29 gennaio 2020 della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, assegnano alle Soprintendenze Abap lo svolgimento della sola istruttoria relativa alla determinazione del premio, mentre la competenza ad emettere il provvedimento finale è radicata in capo alla Direzione generale Abap. Una volta determinato il valore del bene (attraverso tabelle di riferimento o di ricerche sul mercato antiquario, necessarie ad attribuire ai reperti un valore commisurato alla loro natura di beni sottratti al commercio legale), il premio di rinvenimento viene calcolato applicando la percentuale ritenuta opportuna al totale della stima.

La Soprintendenza invia, poi, alla Direzione generale Abap i risultati dell’istruttoria, corredati dalla relativa proposta di provvedimento.

La Circolare n. 29 del 18 giugno 2021 ha precisato che il termine entro il quale le Soprintendenze sono tenute a questo adempimento è di centoventi giorni dall’avvio del procedimento, mentre la Direzione Generale avrà ulteriori sessanta giorni per emanare il provvedimento finale e provvedere alla comunicazione all’avente titolo della determinazione del premio, con contestuale richiesta di accettazione dello stesso. Ai sensi del comma 3 dell’art. 93 del Codice b.c.p., se gli aventi titolo non accettano la stima del ministero, il valore delle cose ritrovate è determinato da un terzo, designato concordemente dalle parti o nominato dal presidente del Tribunale competente per territorio.

In pendenza del procedimento volto alla determinazione del premio per il rinvenimento, la posizione del privato ritrovatore o proprietario è qualificabile come interesse legittimo, che si tramuta in diritto soggettivo solo al momento dell’emanazione del provvedimento conclusivo con cui l’amministrazione determina il prezzo definitivo (sia previa accettazione della somma offerta, sia previa determinazione, in caso di disaccordo, da parte della Commissione peritale) [18].

1.4. Le questioni esaminate dal Consiglio di Stato

Le già richiamate sentenze della Sez. VI del Consiglio di Stato si soffermano ampiamente sull’analisi dell’istituto del premio di rinvenimento.

La sent. 5 gennaio 2024, n. 207 prende le mosse dalla vicenda del ritrovamento del criptoportico dell’acropoli dell’antica città di Vulcei, in Campania. Lo scavo era stato avviato dopo l’occupazione di terreni privati nell’ambito di una procedura espropriativa, poi annullata dal Tar per la Campania nel 2001.

A seguito della restituzione dei terreni ai privati proprietari, gli stessi avevano indirizzato alla Soprintendenza un’istanza finalizzata alla liquidazione ed erogazione del premio per i ritrovamenti effettuati durante il periodo di occupazione dell’area. La Soprintendenza aveva risposto negativamente a tale istanza, ritenendo che il premio avrebbe potuto essere corrisposto dovuto unicamente quale “ricompensa” a favore di chi avesse contribuito al ritrovamento.

Il Tribunale amministrativo per la Campania, Sez. staccata di Salerno, adito dai privati, aveva confermato (con sentenza sella Sez II, n. 1928/2020) la legittimità di tale provvedimento. Le argomentazioni del Giudice amministrativo di primo grado evidenziavano la non accidentalità della scoperta (sostenuta dalla Soprintendenza sotto il profilo probatorio attraverso il deposito in atti una serie di articoli e produzioni scientifiche ritenuti idonei a dimostrare la preesistenza delle opere, nonché la loro visibilità materiale e conoscibilità scientifica ben prima della data dell’occupazione, avvenuta nel 2001), tale da sconfessare la natura stessa di “ritrovamento” da parte dell’amministrazione ministeriale.

Il Consiglio di Stato ha, in questo caso, deciso per il rigetto dell’impugnazione, confermando la decisione assunta dal Tar, ma considerando dirimente il comportamento non collaborativo del proprietario del fondo in cui era avvenuto il ritrovamento. La pronuncia si sofferma, con ampie e articolate argomentazioni, sulla funzione sociale della proprietà, sulla natura non indennitaria del premio di rinvenimento e sulla centralizzazione del valore cooperativo del comportamento del soggetto destinatario del premio.

La sent. 30 gennaio 2024, n. 920 si riferisce, invece, alla scoperta del c.d. “Tesoro di Como”. L’impresa ricorrente, acquirente di un complesso immobiliare, nel corso dell’esecuzione dei lavori di ristrutturazione, aveva rinvenuto testimonianze dello sviluppo urbano della città di Como nelle varie epoche, a partire dalla sua fondazione risalente al 59 a.C. ad opera di Giulio Cesare e, in particolare, un contenitore in pietra ollare al cui interno erano collocati 3 anelli d’oro e 1.000 monete d’oro, nonché altri frammenti d’oro di periodo tardo romano (denominato non a caso “Tesoro di Como”).

Il ministero della Cultura aveva determinato l’entità del premio in denaro da riconoscere all’impresa (pari al 9,25% del valore dei beni), in quanto proprietaria del sito presso il quale era stata effettuata la scoperta. La stessa impresa non aveva, però, considerato corretta tale decisione, ritenendo che l’amministrazione avrebbe dovuto applicare nella fattispecie il secondo comma dell’art. 92 del d.lg. n. 42/2004, il quale stabilisce che al proprietario del sito presso il quale è stato effettuato il rinvenimento può essere attribuito un premio pari alla metà del valore del reperto qualora lo stesso proprietario sia anche scopritore fortuito del bene.

Il Tribunale amministrativo per la Lombardia (con sentenza sella Sez. III, n. 1263/2022) aveva, tuttavia, confermato la validità dell’azione ministeriale, considerando: 1) che la scoperta era stata denunciata da una società specializzata in scavi archeologici, incaricata dalla ricorrente stessa di sovrintendere ai lavori di scavo (la stessa Soprintendenza aveva disposto che tutte le operazioni di scavo si sarebbero dovute effettuare in regime di “sorveglianza archeologica”, trovandosi il terreno in un’area considerata a “rischio archeologico”); 2) che gli scavi stessi erano stati realizzati da altra società appaltatrice, la quale aveva altresì avanzato domanda di corresponsione del premio, ritenendosi scopritrice materiale del reperto. Anche le ulteriori censure, relative alla carenza di garanzie partecipative in capo al privato e all’erroneo assoggettamento del premio a ritenuta a titolo di imposta pari al 25% del valore del premio (ai sensi dell’art. 30 del d.p.r. n. 600 del 1973), erano state rigettate.

Il Consiglio di Stato, in questo secondo giudizio, ha deciso per la riforma della sentenza impugnata, accogliendo l’appello della società ricorrente e fornendo interessanti coordinate ermeneutiche tanto sotto il profilo dell’inquadramento giuridico dell’istituto, quanto con riguardo allo svolgimento dell’istruttoria procedimentale e all’individuazione del regime fiscale del premio [19].

Partendo dalle argomentazioni espresse in entrambe le pronunce del supremo consesso della Giustizia amministrativa, i profili sopra richiamati saranno oggetto di uno specifico approfondimento nei paragrafi successivi.

2. La natura giuridica del premio di rinvenimento, tra funzione sociale della proprietà e dovere di collaborazione tra privati e Amministrazione

L’esatto inquadramento giuridico del premio di rinvenimento ha per lungo tempo interessato dottrina e giurisprudenza, con esiti eterogenei, oscillando tra l’accoglimento di una visione retributiva ovvero la valorizzazione dell’elemento premiale [20].

L’orientamento si è poi consolidato nell’escludere la natura “remunerativa” o “compensativa” connessa al presunto depauperamento subito dal privato (inteso come perdita di proprietà o come perdita alla remunerazione ex art. 930 c.c. per lo scopritore non proprietario) [21]. L’argomentazione, in questa direzione, si attesta sulla considerazione per cui le cose oggetto di ritrovamento o di scoperta - laddove siano riconosciute come beni culturali - vengono considerate come appartenenti a titolo originario allo Stato. Rispetto a tale circostanza, la previsione di un corrispettivo di qualsiasi tipo non avrebbe ragion d’essere, non verificandosi in alcun modo una spoliazione di beni ai danni del privato.

Invero, la prospettiva cambia parzialmente se - come espressamente rilevato nella sentenza della Sez. VI del Consiglio di Stato 31 gennaio 2024, n. 920 - si considera la vicenda dal punto di vista dell’interesse oppositivo del privato rispetto all’attività autoritativa di incameramento del bene. In questo caso il premio potrebbe essere considerato come indennizzo a titolo di ristoro non di una perdita economica, ma del pregiudizio che deriva dall’esercizio del potere amministrativo su di un bene che, sebbene per motivi di superiore interesse pubblico sia destinato allo Stato, viene comunque ritrovato nell’ambito di una proprietà privata [22].

Ad ogni modo, secondo l’orientamento dominante, ai fini del corretto inquadramento dell’istituto, è necessario far transitare l’attenzione dalla qualificazione materiale della corresponsione all’elemento soggettivo della fattispecie: ciò che rileva non è, dunque, la natura (indennitaria, premiale e retributiva) del premio, bensì il comportamento assunto dallo scopritore. Posto che il dovere di cooperare per la tutela e la conservazione del patrimonio culturale, in quanto patrimonio collettivo, riguarda astrattamente tutti - gravando, dunque, anche in capo al soggetto privato che accidentalmente si trovi in contatto con un bene culturale - la concessione del premio acquisisce la funzione di stimolare l’attuazione di comportamenti virtuosi, incentivando dunque forme di collaborazione dei privati alla cura del pubblico interesse [23]. In questa direzione si colloca lo stesso art. 92 del Codice b.c.p., laddove prevede, come condizione imprescindibile per la corresponsione del premio allo scopritore, l’aver questi ottemperato agli obblighi di denuncia, custodia e consegna previsti dall’art. 90.

Dall’accoglimento di tale impostazione dovrebbe discendere la conseguenza che, ai fini della concessione del premio di rinvenimento, sia sempre necessaria una valutazione ad hoc da parte della Pubblica amministrazione sul comportamento tenuto dal privato, non essendo sufficiente il mero accertamento della qualifica di scopritore del bene o di proprietario dell’immobile in cui il bene medesimo è stato rinvenuto.

La sentenza della Sez. VI del Consiglio di Stato 5 gennaio 2024, n. 207 abbraccia in pieno tale interpretazione [24], partendo da ampie argomentazioni imperniate sulla valorizzazione della funzione sociale della proprietà privata. Il Collegio ha, nel solco di questa visione, espressamente statuito che l’art. 92 cod. b.c.p. non può essere letto nel senso che al proprietario di un bene immobile, sul quale siano ritrovati beni culturali, debba essere corrisposto un premio incondizionatamente, a prescindere, dunque, da qualsiasi considerazione circa la meritevolezza del comportamento da egli tenuto. Diversamente opinando - secondo il ragionamento del giudice amministrativo - il rischio sarebbe quello di costituire una sorta di rendita di posizione nonché un surrettizio indennizzo per la perdita di un bene (quello culturale) che è ab origine di proprietà di un altro soggetto giuridico, lo Stato.

La meritevolezza può essere, ad ogni modo, facilmente ravvisabile (quasi a potersi considerare in re ipsa) nel comportamento del concessionario di ricerca che si assuma l’onere di organizzare l’attività di ricerca, garantendo poi la consegna del bene alle autorità pubbliche. Considerazioni analoghe valgono per lo scopritore fortuito, il quale - pur trovandosi nella condizione di poter nascondere la scoperta - si attivi per rendere noto il ritrovamento e per custodirlo in attesa di consegnarlo alla pubblica autorità. Per le medesime ragioni la meritevolezza è ravvisabile in capo al proprietario del fondo, poiché l’attività del concessionario di ricerca e dello scopritore si rende possibile proprio grazie alla decisione di consentire l’ingresso di tali soggetti sulla proprietà.

Diversamente, nel caso in cui - come nella fattispecie sottesa al processo - il ritrovamento sia effettuato direttamente dall’autorità preposta, il proprietario del fondo acquisirebbe il diritto al premio di ritrovamento solo laddove si evidenzi un suo comportamento fattivamente collaborativo, tale da valutarlo, in qualche misura, come una specie di concausa efficiente del ritrovamento.

Il Consiglio di Stato ha così negato, nel caso oggetto di giudizio, che il privato avesse diritto alla corresponsione del premio, considerando assente qualsivoglia apporto cooperativo, a maggior ragione per il fatto che i resti archeologici (poi portati alla luce) erano da tempo emergenti e, dunque, ampiamente visibili [25]. Posto che “non è in sé la visibilità del ritrovamento ad escludere il premio per il mero proprietario” [26], lo stesso, al fine di ottenere il premio, avrebbe tuttavia dovuto dimostrare di essersi adeguatamente adoperato affinché l’autorità pubblica competente fosse messa in grado di rilevare e tutelare il bene culturale oggetto di ritrovamento.

Ad avviso del giudice amministrativo, come già accennato, solo una tale interpretazione dell’art. 92 Cod. b.c.p. risulterebbe conforme con la funzione sociale che la proprietà privata è chiamata a svolgere nell’ordinamento italiano [27]. Il tema dell’adattamento della proprietà privata alle superiori esigenze di tutela del patrimonio culturale, com’è noto, è stato affrontato dalla dottrina sin dall’inizio del secolo scorso [28].

Non essendo possibile, in questa sede, approfondire un argomento così ampio e complesso, basterà ricordare come la dottrina amministrativistica si sia da sempre adoperata al fine di fondere la “funzione culturale” costituzionalizzata dall’art. 9 della Carta fondamentale, con quella “funzione sociale” che consente di regolamentare i modi di godimento ed i vincoli sulla proprietà privata ex art. 42, comma 2 Cost., giustificando, così, gli interventi legislativi volti a predisporre regimi speciali per i beni del patrimonio culturale, a prescindere dalla situazione di appartenenza [29].

3. L’individuazione dei soggetti legittimati alla corresponsione del premio

Acquisito che la positiva valutazione sulla meritevolezza della condotta del privato è elemento necessario della valutazione discrezionale che la pubblica amministrazione pone in essere ai fini della effettiva attribuzione del premio, risulta opportuno effettuare qualche considerazione più approfondita sulla esatta individuazione delle categorie di soggetti legittimati a riceverlo. La legge, come già ricordato, si limita a indicare tre potenziali beneficiari: il proprietario del fondo in cui è avvenuto il ritrovamento, il concessionario di ricerca che non svolga tale attività per fini istituzionali e lo scopritore fortuito virtuoso. Il cerchio, però, risulta ben più stretto di quello apparentemente tracciato dal legislatore.

Innanzitutto, è da escludere che il premio possa essere corrisposto al proprietario del fondo laddove esso sia un ente pubblico, in particolar modo territoriale. Ciò poiché si deve ritenere che all’obbligo istituzionale di concorrere alla tutela e alla conservazione del patrimonio culturale partecipino tutte le articolazioni dello Stato, per le quali la finalità di renderne possibile la scoperta non può, all’evidenza, comportare alcun beneficio di natura economica, se non attraverso la valorizzazione e la pubblica fruizione del bene rinvenuto [30]. A tal uopo è, infatti, prevista dall’art. 89, comma 6 del Codice la possibilità per gli enti territoriali, previa autorizzazione ministeriale e sussistendo le adeguate condizioni di tutela, di mantenere in loco le cose ritrovate a fini espositivi. In questa direzione, la categoria dei proprietari possibili beneficiari del premio deve inoltre essere ulteriormente ridotta, escludendo quei soggetti che, pur avendo una forma privata, sono sostanzialmente assimilabili a soggetti pubblici, quali le società in house e gli organismi di diritto pubblico.

L’ambito soggettivo, quanto alla qualifica di proprietario, deve quindi essere riferito ai soli soggetti formalmente e sostanzialmente privati: persone fisiche, persone giuridiche ed enti privati, riconosciuti e non.

Altre precisazioni vanno effettuate con riguardo alla figura dello scopritore. Dal momento che la scoperta è un mero fatto giuridico in cui non ha alcun rilievo l’elemento della volontà (che, anzi, dovrebbe essere del tutto assente, per qualificare la scoperta in termini di liceità), lo scopritore dovrebbe identificarsi con il soggetto che ha materialmente determinato, involontariamente, l’evento della scoperta attraverso le proprie azioni. Nel caso di attività svolte da più persone (ad esempio, per l’esecuzione di lavori o altri rilevamenti), l’interpretazione non è stata sempre concorde, anche se l’orientamento prevalente tende al riconoscimento di questa qualifica in capo alla persona giuridica, pubblica o privata, titolare dell’attività.

La sentenza della Sez. VI del Consiglio di Stato 31 gennaio 2024, n. 920 analizza espressamente tale questione, a fronte del mancato riconoscimento nella pronuncia di primo grado della qualifica di scopritore in capo alla società proprietaria del terreno (ai fini dell’aumento della percentuale del valore del premio).

Nel caso sottoposto alla cognizione del Consiglio di Stato, si sovrapponeva la presenza di un committente a quella di due appaltatori (una società specializzata in scavi archeologici, incaricata della sorveglianza archeologica e un’altra società appaltatrice, incaricata dei lavori di scavo). Il Collegio ha, a riguardo, evidenziato come anche nei casi in cui risultino materialmente coinvolti più soggetti, il ruolo di scopritore debba radicarsi in capo al proprietario-committente, titolare del permesso (titolo edilizio) sulla base del quale vengono svolte le attività da cui è derivata la scoperta, dal momento che allo stesso tali attività sono imputabili sia giuridicamente che materialmente. Lo stesso discorso vale con riferimento allo svolgimento della sorveglianza archeologica, giacché ciò che rileva e prevale è sempre la titolarità giuridica dell’attività.

Nel caso di specie, infatti, diretta destinataria delle prescrizioni archeologiche da parte degli organi ministeriali era esclusivamente la società committente [31].

Completamente differente è la questione dell’attribuzione della qualifica di concessionario. In questo caso lo svolgimento materiale o la titolarità dell’attività da cui deriva il ritrovamento non ha alcuna rilevanza. L’unico elemento identificativo è, infatti, quello della formale titolarità di una concessione di ricerca a tale scopo rilasciata dal ministero [32]. Tale provvedimento, nell’ordine tradizionale della funzione concessoria, non è teso a rimuovere un limite all’esercizio di un’attività facente parte del corredo giuridico del titolare di una situazione giuridica, ma ha la funzione di arricchire la sfera giuridica del soggetto che ne è destinatario, attraverso l’affidamento di un’attività (la ricerca archeologica) per legge riservata alla sola amministrazione [33]. Al di fuori di questa attribuzione, qualsiasi attività di ricerca privata deve considerarsi radicalmente vietata. Nessun premio potrà, dunque, essere riconosciuto al soggetto che, autonomamente, avvii campagne di scavo o di ricerca, anche su terreni privati.

L’attribuzione del premio di rinvenimento al concessionario di ricerca risulta, tuttavia, un’ipotesi in concreto residuale, se non del tutto esclusa. La legge estromette a priori tutti i soggetti per i quali l’attività di ricerca rientri tra gli scopi istituzionali o statutari, lasciando così fuori la stragrande maggioranza di soggetti - ovvero gli enti di ricerca - che hanno le più spiccate competenze tecnico-scientifiche per la realizzazione dei lavori di scavo.

In aggiunta, la prassi ministeriale richiede al concessionario, al momento della sottoscrizione della concessione, di dichiarare in ogni caso di non avere formalmente titolo al riconoscimento del premio, ovvero di rinunciarvi espressamente. In altre parole, la rinuncia al premio di rinvenimento è diventata, nei fatti, una sorta condizione “amministrativa”, necessaria al rilascio della stessa concessione [34]. Addirittura, anche nel caso in cui le istanze di concessione siano relative ad aree di proprietà di privati, la consuetudine è quella di richiedere da parte di questi ultimi la rinuncia al premio ovvero di prevedere la corresponsione dello stesso da parte del concessionario in luogo dell’amministrazione [35].

Tirando le fila, in uno scenario ben più ristretto di quello previsto dal legislatore, l’attribuzione del premio pare potersi radicare in capo a due sole categorie di soggetti: 1) lo scopritore privato che abbia denunciato prontamente il fatto e custodito diligentemente i beni; 2) il proprietario dell’immobile del ritrovamento, purché non sia un ente pubblico o un soggetto controllato da una pubblica amministrazione, non abbia espressamente rinunciato al premio all’avvio della campagna di scavi e possa dimostrare di aver tenuto un comportamento di cooperazione con l’amministrazione per garantire la tutela del patrimonio culturale rinvenuto.

4. L’applicazione delle garanzie partecipative al procedimento per la determinazione del premio

Una questione particolarmente interessante affrontata nella sentenza della Sez. VI del Consiglio di Stato 31 gennaio 2024, n. 920 riguarda l’applicazione delle garanzie partecipative al procedimento amministrativo volto alla valutazione dell’an e del quantum del premio.

La struttura procedimentale, che si estrinseca nella doppia competenza di Soprintendenza e Direzione generale, è stata già esaminata nei paragrafi precedenti. La partecipazione dei privati, in questo contesto, tendenzialmente non è sollecitata dall’amministrazione, sulla scorta dello spiccato tecnicismo della discrezionalità esercitata.

Il giudice amministrativo ha, a riguardo, ritenuto illegittima questo modus agendi, rilevando opportunamente che - pur in assenza di un espresso riferimento normativo - anche in tale sede non può che trovare applicazione il principio generale che impone di integrare la normativa di settore con le regole che garantiscono la partecipazione al procedimento da parte del soggetto inciso dall’attività autoritativa. Nel caso del procedimento amministrativo per la determinazione del premio, si è, peraltro, in presenza di un procedimento complesso (che il ministero è tenuto ad avviare non solo su istanza di parte, ma anche d’ufficio, laddove - ricevuta la denuncia di ritrovamento - disponga di tutti gli elementi necessari per concluderlo), che incide sulla sfera giuridica del privato sia in termini oppositivi che pretensivi.

Vero è che gli strumenti di partecipazione al procedimento non devono essere applicati in maniera meccanica, né possono ridursi a “mero rituale formalistico” [36]. Ciò non toglie che, anche dinnanzi a provvedimento di natura vincolata o di spiccato valore tecnico-scientifico, l’apporto del soggetto privato interessato possa assumere una certa rilevanza. La pretesa partecipativa può, infatti, riguardare ragionevolmente l’accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si dovrà poi basare la determinazione amministrativa di natura tecnica.

Il Consiglio di Stato, su questo punto si è espresso chiaramente: la partecipazione del soggetto destinatario del premio deve essere sempre garantita e deve essere effettiva: attraverso la comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 della legge 241/1990, in caso di avvio d’ufficio; ovvero garantendo l’esercizio dei diritti ex artt. 10 e 10-bis della legge 241/1990, in caso di procedimento avviato su istanza di parte. E alla partecipazione consegue, naturalmente, in capo all’amministrazione l’onere di esaminare e valutare gli elementi che il privato introduca nel procedimento [37].

5. Il premio “in natura”: un modo atipico di acquisto della proprietà di un bene culturale archeologico da parte dei privati

Il bene culturale archeologico - più di qualsiasi altra tipologia di bene culturale - manifesta una spiccata attitudine pubblicistica.

Tale profilo emerge, in particolare, con riferimento al regime proprietario, dal momento che l’acquisto di beni archeologici da parte di un privato può riguardare esclusivamente beni mobili o immobili appartenenti ad altri soggetti privati (che non siano persone giuridiche senza fine di lucro o enti ecclesiastici riconosciuti), alla presenza di una delle seguenti condizioni: i beni siano di proprietà di tali soggetti da prima del 1939 (anno in cui, come già ricordato, la Legge Bottai ha disposto il principio della demanialità del sottosuolo, oggi ribadito dall’art. 91, comma 1 del Codice dei beni culturali); gli oggetti siano stati ceduti, anche in permuta, da parte del ministero, sotto la vigenza della Legge Bottai [38], che la riteneva ammissibile; si tratti di cose acquistate all’estero e legittimamente importate in Italia.

Si tratta, in tutta evidenza, di uno spazio negoziale ridottissimo, ulteriormente “aggravato” dal diritto di prelazione ex lege riconosciuto in capo allo Stato dagli artt. 60 ss. del Codice dei beni culturali e del paesaggio [39].

In questo contesto si inserisce la previsione dell’art. 92, comma 4 del Codice, che - benché non sia stata oggetto delle pronunce del Consiglio di Stato esaminate nel presente lavoro, rappresenta, a tutti gli effetti, un modo atipico di acquisto della proprietà di beni archeologici da parte dei privati e merita, dunque, di essere specificamente esaminata.

La norma prevede la possibilità per il ministero della Cultura - nel caso in cui avvenga un ritrovamento o una scoperta - di cedere gratuitamente al privato scopritore parte dei beni rinvenuti a titolo di premio, dunque in alternativa alla corresponsione di una somma di denaro.

Si è già fatto cenno, nei paragrafi precedenti, al fatto che l’amministrazione, dinnanzi al ritrovamento o alla scoperta di un bene culturale, non è mai esentata dalla valutazione discrezionale sull’effettivo pregio storio, archeologico e artistico di quanto rinvenuto.

Ciò anche perché non tutti i beni antichi riportati alla luce devono necessariamente essere qualificati come beni culturali ai fini giuridici e, anche laddove gli stessi beni abbiano astrattamente una rilevanza storico-archeologica, la massiccia presenza di beni tra loro simili potrebbe non essere utile ad incrementare patrimonio e conoscenza storica. Ad esempio, una volta appurato che una determinata popolazione utilizzava un determinato bene per soddisfare determinate esigenze, il ritrovamento di molte altre cose di quello stesso tipo potrebbe essere privo di interesse per le scienze archeologiche.

La valutazione, in questi casi, non deve, dunque, essere condotta solo con riferimento al singolo bene, ma - alla luce dell’attitudine relazionale della testimonianza storica - deve proiettarsi anche sul contesto di giacenza in cui sono stati rinvenuti gli stessi beni che ne sono oggetto. Non è, infatti, raro il caso in cui reperti archeologici che al momento del rinvenimento sembrino non avere alcuna rilevanza scientifica, né utilità precipua ai fini di ricerca e conoscenza storica, la acquisiscano in relazione al contesto di rinvenimento e, soprattutto, in associazione ad altri manufatti rinvenuti, dimostrandosi utili a integrare la conoscenza storica del sito.

Così, se cinque frammenti di vaso acromo non decorato trovati da soli non hanno alcun significato e non potrebbero essere considerati beni culturali, gli stessi cinque frammenti di vaso acromo non decorato trovati nel medesimo luogo di una statuetta votiva e di una coppetta in bronzo possono avere un valore rituale o religioso ed essere testimonianza di attività cultuali svolte in situ, rilevanti a fini ben più ampi. O, ancora, un frammento di ceramica magnogreca rinvenuto in Calabria potrebbe non aggiungere nulla allo studio della storia di quel popolo; lo stesso frammento ritrovato in Lombardia potrebbe aprire scenari scientifici ben più rilevanti.

All’esito di queste valutazioni saranno acquisiti dallo Stato esclusivamente i beni che - in virtù delle loro qualità intrinseche e/o relazionali - manifestino una portata storica tale da contribuire alla ricostruzione delle passate civiltà.

Proprio per tale ragione, la possibilità - prevista dall’art. 92, comma 4 del Codice b.c.p. - che il premio per il rinvenimento sia corrisposto “mediante rilascio di parte delle cose ritrovate”, deve considerarsi limitata esclusivamente a quei beni che non assumano le caratteristiche sopra evidenziate. Ovviamente, in questi casi, la scelta della corresponsione del premio “in natura” rimane interamente rimessa alla discrezionalità tecnica del ministero - incardinata sulle complesse valutazioni intrinseche e relazionali del bene già richiamate - e risulta, invero, poco utilizzata nella prassi e, sotto certi aspetti, addirittura osteggiata dagli stessi organi ministeriali [40].

 

Note

[*] Silia Gardini, ricercatore di Diritto amministrativo presso l’Università degli studi “Magna Græcia” di Catanzaro, Viale Europa, 88100 Catanzaro, silia.gardini@unicz.it.

[1] Cfr. E. Furno, Art. 92 - Premio per i ritrovamenti, in Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) G. Leone e A.L. Tarasco, Padova, 2006, pag. 602 ss.; Id. Art. 92, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, pag. 886; G. Zagaria, R. Zagaria, F. Gargallo, Art. 92 e Art. 93, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2012, pag. 748 ss.

[2] Il settore archeologico è l’unico che - nella sistematica del Codice dei beni culturali e del paesaggio - ha un intero Capo dedicato alla materia (Parte Seconda, Titolo I, Capo VI). La disciplina non si discosta significativamente da quella che era già prevista dalla Legge Bottai del 1939, che aveva - peraltro - a suo tempo incontrato il favore della dottrina proprio in relazione alla significativa incisività della stessa sul regime della proprietà privata.

[3] Dottrina e giurisprudenza si spinsero a riconoscere - seppur per vie diverse - un controllo diretto dello Stato sui beni rinvenuti, mentre la classe politica liberale vi si opponeva, considerando esclusivamente la sussistenza di un diritto di prelazione statale per l’acquisto.

[4] G. Pescatore, Dei tesori artistici e archeologici considerati nel rispetto giuridico, in Il Giornale delle leggi, VIII, pag. 1887. Il Codice civile del 1865 assegnava, in tali casi, la proprietà dei tesori al proprietario del fondo dove si era effettuata la scoperta, che avrebbe dovuto eventualmente condividerla esclusivamente con l’eventuale scopritore. Oggi l’art. 932 del Codice civile inquadra il ritrovamento di un tesoro - cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può essere proprietario (vetus quaedam depositio pecuniae, cuius non extat memoria, ut iam dominum non habeat) - come una particolare forma di invenzione. Detto bene appartiene al proprietario del fondo in cui si trova, ma se è rinvenuto, per caso, nel fondo altrui, spetta, per metà al proprietario e per metà al ritrovatore.

[5] G. Pescatore, Dei tesori artistici e archeologici considerati nel rispetto giuridico, cit. fu il Mantellini ad inserire per primo il sottosuolo archeologico nel più ampio contesto delle cose “fatte pubbliche per uso”, poiché naturalmente classificabile come cosa pubblica. Cfr. G. Mantellini, Lo Stato e il Codice civile, Firenze, 1880, vol. II, pag. 154 ss. Sulla stessa lunghezza d’onda si poneva la riflessione di S. Jannuzzi, Del diritto dello Stato sugli oggetti di belle arti, Napoli, 1899, successivamente in Studi giuridici, Milano, 1909, pag. 287 ss. e di F. Filomusi Guelfi, Diritti reali, Roma, 1907, pag. 160, che consideravano il sottosuolo come res publica.

[6] Secondo un orientamento della Corte di cassazione, anche di recente confermato, sarebbe stata già la Legge Rosadi-Rava del 1909 a sancire il principio della proprietà statale dei reperti rinvenuti nel sottosuolo (cfr. Cass. civile, 2 ottobre 1995, n. 10355, in Foro It.,1995, I, pag. 2786 con nota di S. Benini ed in Corriere Giur.,1996, pag. 41 con commento di F. Caringella, Ripartizione dell’onus probandi nella rivendica statale di beni archeologici posseduti da privati). Parte della dottrina, peraltro, ben prima delle riforme del 1939, rivendicava a gran voce tale principio: cfr. L. Parpagliolo, voce Scavo, in Enc. italiana, Roma, 1936. Invero, la Legge del 1909 riconobbe l’automatica attribuzione delle cose ritrovate allo Stato soltanto nel caso in cui fosse stato direttamente il Governo ad eseguire “scavi per intenti archeologici” (art. 15), laddove - nel caso di scavi condotti da un soggetto privato (titolare di apposita licenza, ai sensi del successivo art. 17), si prevedeva l’attribuzione a quest’ultimo della metà dei ritrovamenti. Parimenti, si prevedeva la possibile attribuzione a comuni e province della proprietà dei reperti. A ben vedere, per la completa formulazione del principio della demanialità del sottosuolo, da cui discende - ancora oggi - l’automatica attribuzione al patrimonio dello Stato di ritrovamenti e scoperte archeologiche, sarebbe stato necessario attendere ancora un trentennio, sino alla emanazione della Legge Bottai.

[7] L’unica eccezione riguarda i beni rinvenuti nel sottosuolo della regione Sicilia, il cui Statuto speciale stabilisce, all’art. 33, comma 2, che fanno parte del patrimonio indisponibile dell’Ente regionale “le cose di interesse (...) archeologico (...) da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo regionale”.

[8] Cfr. M.S. Giannini, Disciplina della ricerca e della circolazione delle cose d'interesse archeologico, in Aa. Vv., Tecnica e diritto nei problemi dell’odierna archeologia. Venezia, Isola di San Giorgio, 22-24 maggio 1962, Roma, 1964, pag. 235 e 238. Sul punto, concorda L. Mannu, Brevi note sul rinvenimento di beni culturali sopra e sotto il suolo, in Aedon, 2006, 1. Di diverso avviso, invece, G. Pistorio, Art. 91, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, cit., pag. 883, secondo cui l’art. 91, differenziandosi dalla precedente formulazione normativa, che prevedeva una maggiore flessibilità interpretativa, specifica che i ritrovamenti, ai fini della proprietà statale, debbano avvenire esclusivamente nel sottosuolo o nei fondali marini. Di talché, nel caso di rinvenimenti in altri luoghi, sarebbe necessario l’avvio del procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale, di cui all’art. 13 ss. del Codice.

[9] Cfr. M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1, pag. 17.

[10] Cfr. G. Pistorio, Art. 90, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, cit., pag. 881.

[11] La riserva esaminata “funziona da meccanismo di tutela delle cose nella prima delicata fase del ritrovamento e della classificazione da parte degli organi tecnici: il meccanismo mette al riparo le cose dall’applicazione, nella prima fase della loro vita giuridica, degli istituti del diritto comune (ad es., dell’art. 932 c.c.), impedendo il formarsi su di essi di diritti privati”. Così Cass., 10 febbraio 2006, n. 2995, in Giur. civ., 2006, pag. 819 ss.

[12] La disciplina della ricerca archeologica si colloca nel Capo VI del Titolo I (Parte II) del Codice dei beni culturali e del paesaggio), ritrovandosi, così, inclusa tra le misure di tutela. Posta la fisiologica tipicità delle azioni di tutela dei beni culturali, le norme che regolamentare l’esercizio dell’attività di ricerca possono essere, dunque, ricondotte al genus delle misure di protezione, in quanto protese alla salvaguardia dei beni archeologici-culturali dall’azione dell’uomo.

[13] La legge Bottai del 1939, all’art. 29, prevedeva espressamente che i ritrovamenti potessero avvenire a seguito della demolizione di un edificio. La disciplina attuale (art. 91, comma 2 cod. b.c.p.) ha mantenuto questa previsione, tuttavia ridimensionandola e assegnando allo Stato la proprietà dei beni rinvenuti nel corso di attività demolitoria solo in presenza di due condizioni. La prima attiene all’iniziativa dell’attività, che deve essere necessariamente pubblica; la seconda riguarda le caratteristiche intrinseche del bene rinvenuto, che deve presentare un interesse culturale “particolarmente importante”, la cui sussistenza sia tecnicamente accertata con un’apposita dichiarazione adottata dal ministero. Solo in tali casi, il regime proprietario pubblico si estenderà anche alle cose rinvenute tra i materiali di risulta, con la nullità di ogni eventuale pattuizione contraria. Cfr. C. Marzuoli, Commento all’art. 90, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, 2007, pag. 377. La previsione è volta a evitare che le imprese di costruzioni che operano per conto dello Stato - dunque remunerate con fondi pubblici - si approprino illecitamente dei beni emersi durante scavi edili. Tuttavia, come rilevato in dottrina, sarebbe auspicabile l’estensione di tale disciplina o, quantomeno, la previsione di ulteriori strumenti normativi idonei a contrastare quella prassi antigiuridica che consente alle imprese edilizie, nei lavori commissionati da privati, di acquisire sine titulo i reperti ritrovati nel corso delle operazioni di demolizione. In tal senso, Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) A. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi, Torino, 2005, pag. 252; G. Pistorio, Art. 91, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, cit., pag. 878.

[14] Cfr. S. Alagna, Le situazioni giuridiche soggettive in dipendenza di ritrovamento e scoperta di beni aventi valore culturale (in margine alla problematica dei beni culturali), in Ritrovamenti e scoperte di opere d’arte, (a cura di) V. Panuccio, Milano, 1990, pag. 25 ss.; G. Pistorio, Art. 90, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, cit., pag. 870; M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, cit., pag. 452 ss.; T. Alibrandi P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001, pag. 619 ss.; G. Calderoni, Ritrovamenti e scoperte, in Il Testo unico sui beni culturali e ambientali. Commento al d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, (a cura di) G. Caia, Milano, 2000, pag. 141 ss.; G. Sciullo, Ritrovamenti e scoperte, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Bologna, 2020, pag. 178 ss.; G. Terragno, Ritrovamenti e scoperte, in Diritto dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Cabiddu e N. Grasso, Torino, 2021, pag. 199 ss. In ogni caso, è necessario che le cose scoperte fortuitamente abbiano un’identità propria e una autonoma configurazione rispetto all’immobile o alla cosa in cui il rinvenimento viene effettuato (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 2756, in www.giustizia-amministrativa.it) e che non sia possibile dimostrare l’esistenza di un diritto di proprietà in capo ad altri soggetti da prima del 1939. Cfr. T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, cit., pag. 620.

[15] La previsione del premio in capo ad altri soggetti non è di ostacolo alla configurazione del diritto di proprietà a titolo originario in capo allo Stato, poiché si tratta di res extra commercium. Cfr. infra.

[16] Cfr. Cons. St., Sez. VI, sentenza 10 giugno 2021, n. 4466, in www.giustizia-amministrativa.it. Il ministero aveva dettato dei criteri per la determinazione dei premi da assegnare ai privati in caso di ritrovamento di reperti archeologici, autolimitando così la discrezionalità che le norme gli attribuiscono, con la circolare del 23 dicembre 1999. La più recente Circolare n. 29 del 18 giugno 2021 ha introdotto, tra i parametri di valutazione, i seguenti elementi: A - spese a carico dello Stato; B - partecipazione degli interessati; C - spese a carico degli interessati, da graduate in misura percentuale rispetto ai parametri di legge.

[17] Cfr. Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 11 gennaio 2017, n. 33, in www.giustizia-amministrativa.it. La mancata denuncia comporta anche conseguenze di natura penale, quale la contestazione del reato di cui al nuovo art. 518-ter c.p., che punisce l’appropriazione indebita di beni culturali con la reclusione da 1 a 4 anni. Con questa fattispecie di reato si punisce chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria di un bene culturale altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Il delitto è aggravato se il possesso dei beni avviene, come nel caso in esame, a titolo di deposito necessario. La disposizione riproduce, aumentando la pena, la fattispecie di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p. Sotto il profilo civilistico, la Cassazione ha più volte ribadito l’inversione dell’onere della prova della liceità del possesso di reperti archeologici (cfr. Cass., 2 ottobre 1995, n. 10355, in Foro It.,1995, I, pag. 2786).

[18] Cfr. Cass., Sez. I, sentenza del 7 giugno 2005, n. 11796. L’orientamento è stato confermato da Cass., Sez. Un., 7 marzo 2011, n. 5353, in Foro It., 2011, 1, pag. 3098. Cfr. G. Calderoni, Ritrovamenti e scoperte, in Il testo unico sui beni culturali e ambientali. Commento al d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, (a cura di) G. Caia, Milano, 2000, pag. 141 ss. Diversamente, l’azione volta a far valere l’erroneità o l’iniquità del giudizio peritale dovrà essere proposta dinanzi al giudice ordinario. Cfr. G. Zagaria, R. Zagaria, F. Gargallo, Art. 92 e Art. 93, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, 2012, cit., pag. 755 ss.

[19] Il Tar per la Lombardia si era determinato per la legittimità della ritenuta alla fonte a titolo di imposta sul premio, facendolo nell’ampia categoria dei “premi comunque diversi da quelli su titoli”, soggetti a una ritenuta alla fonte a titolo di imposta ai sensi dell’art. 30 del d.p.r. n. 600/1973. Poiché questa norma prevede l’aliquota del 10% “per i premi delle lotterie, tombole, pesche o banchi di beneficenza autorizzati a favore di enti e comitati di beneficenza”, del 20% “sui premi dei giuochi svolti in occasione di spettacoli radio-televisivi competizioni sportive o manifestazioni di qualsiasi altro genere nei quali i partecipanti si sottopongono a prove basate sull’abilità o sull’alea o su entrambe” e del 25% “in ogni altro caso”, quest’ultima avrebbe dovuto ritenersi la percentuale da applicare al premio per la scoperta fortuita di un reperto archeologico. Il Consiglio di Stato ha, però, ribaltato tale interpretazione, partendo dalla considerazione che il premio di rinvenimento non ha natura retributiva, ma costituisce un ristoro per un’attività svolta nell’interesse pubblico e non può, dunque, essere associato ad altri premi acquisiti per vincita, pronostico, scommessa, derivanti quindi dalla sorte. Di talché, in assenza di un’espressa previsione normativa in tal senso, ha escluso l’applicazione analogica della normativa del d.p.r. n. 600/1973.

[20] La Relazione Romano di accompagnamento alla Legge Bottai del 1939, con la quale venne per la prima volta contemplato l’istituto, gli attribuiva una funzione di giustizia retributiva e premiale. Cfr. M. Serio, La relazione di Santi Romano a Bottai sul progetto di legge per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1984, 1, pag. 278 ss., ora anche in ministero per i Beni e le Attività culturali. Ufficio studi, Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, (a cura di) V. Cazzato, Roma, 2001.

[21] Cfr. Cass., Sez. un., 11 marzo 1992, n. 2959, in Giur. civ., 1993, 1, pag. 2229.

[22] “Orbene nel caso di specie, a parte la coincidenza terminologica, va esclusa la natura di premio in termini di vincita, pronostico, scommessa, derivanti quindi dalla sorte, in quanto trattasi di indennizzo a titolo di ristoro per gli effetti derivanti dall’attività autoritativa di incameramento di un bene che, pur ritrovato nell’ambito di una proprietà privata, per motivi di superiori interessi pubblici è destinato allo Stato. Non si tratta di un premio per una vincita, rimessa alla sorte, ma di un ristoro per un’attività svolta nello stesso interesse pubblico”. Cfr. Cons. St., Sez. VI, 31 gennaio 2024, n. 920, punto 6.3, in www.giustizia-amministrativa.it.

[23] La ratio è quella “di creare una convenienza reale (non simbolica) per i soggetti, che a vario titolo si trovino a contatto con beni archeologici, a non occultare i ritrovamenti e a non cedere alla tentazione del commercio illegale dei relativi reperti”: Cgars, 12 aprile 2007, n. 353; di recente Cons. St., Sez. I, 16 luglio 2020, n. 133, spec. punto 2.7, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.

[24] Si richiama, sul punto, la giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui “l’elargibilità del beneficio è riconosciuta soltanto dopo che il comportamento auspicato sia stato portato ad effetto e positivamente riscontrato come meritorio. Ed il fine incentivato non è quello della ricerca e del rinvenimento di beni di ignota esistenza e collocazione, bensì quello della loro consegna, una volta rinvenuti fortuitamente o meno, all’autorità preposta alla loro tutela” (cfr. Cass., Sez. Un., 11 marzo 1992, n. 2959).

[25] Si legge nella sentenza che “nel caso di specie, in cui il ritrovamento è da ascrivere ad attività diretta della Soprintendenza, non si apprezza, in capo ai proprietari del fondo, alcun comportamento collaborativo che possa ritenersi essere stato utile al ritrovamento”. Cfr. Cons. St., Sez. VI, 5 gennaio 2024, n. 207, punto 17, in www.giustizia-amministrativa.it.

[26] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 5 gennaio 2024, n. 207, punto 18.1, in www.giustizia-amministrativa.it.

[27] “...[i]l diritto di proprietà privata nel nostro ordinamento non soddisfa solo le esigenze personali del proprietario, ma anche, all’occorrenza, interessi superiori della collettività, ragione per cui grava sul proprietario la responsabilità di gestire il proprio bene e di prendersene cura, affinché esso bene mantenga l’idoneità ad esplicare la funzione sociale che gli è propria”. Cfr. Cons. St., Sez. VI, 5 gennaio 2024, n. 207, punto 16.9, in www.giustizia-amministrativa.it.

[28] Sulla funzionalizzazione della proprietà privata al pubblico interesse e sui dibattiti dottrinali intorno ai suoi “statuti giuridici”, il riferimento obbligato è agli studi di S. Pugliatti, Strumenti tecnico giuridici per la tutela dell’interesse pubblico nella proprietà, in La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964, pag. 121. Sul tema si sono soffermati anche P. Grossi, “Un altro modo di possedere”. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977; Id. Tradizioni e modelli nella sistemazione post-unitaria della proprietà, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, V/VI (1976/77), Tomo I, Milano, 1978, pag. 201 ss.; G. Berti, Recenti scritti di giuspubblicisti intorno alla proprietà, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, V/VI cit., pag. 991 ss.; V. Cerulli Irelli, Beni culturali, diritti collettivi e proprietà pubblica, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, I, Milano, 1988, pag. 140 ss.

[29] Cfr. A.M. Sandulli, Spunti per lo studio dei beni privati di interesse pubblico, in Dir. ec., 1956, pag. 163 e ora in Scritti giuridici, IV, Napoli, 1990, pag. 69 ss. L’elemento centrale, secondo la ricostruzione dell’autorevole studioso, stava proprio nel riconoscimento di una precipua funzione sociale a tali categorie di beni: “[è] peraltro da tener presente che la funzione sociale della proprietà, genericamente intesa, si traduce essenzialmente nell’imposizione al titolare del diritto sulla cosa, di certi obblighi personali (ob rem), tali da rendere socialmente utile la titolarità privata del diritto stesso (...), ma non si traduce in un regime speciale della cosa in sé. Per contro, allorché si ha di mira la configurazione di una categoria di beni privati con specificazione pubblica si presuppone appunto un regime speciale di tal fatta. Ora, tale ipotesi sembra realizzarsi quelle volte che dei beni di appartenenza privata assolvano istituzionalmente a finalità di pubblico interesse (per lo più corrispondenti o affini a quelle cui servono i beni pubblici), e appunto in relazione a ciò siano assoggettati a un particolare regime in ordine alla disponibilità [...], nonché a un particolare regime di polizia, di interventi e di tutela pubblici”. A.M. Sandulli, voce Beni pubblici, in Enc. Dir., Vol. V, Milano, 1959, pag. 278 ss.

[30] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 7 maggio 2015, n. 2302, in www.giustizia-amministrativa.it: “l’art. 92 (Premio per i ritrovamenti) del Codice è riferibile esclusivamente al privato “proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento”, nella ratio (non di indurlo alla ricerca, ma) di premiarlo per avere consegnato il bene scoperto fortuitamente alle autorità competenti (Cons. St., VI, 4 giugno 2004, n. 3492), tra le quali, a riprova del compito pubblico spettante all’ente, vi è anche il sindaco (art. 90, comma 1). Non è ipotizzabile per l’ente territoriale il diverso comportamento, che la norma intende per converso disincentivare, di non rendere noto il ritrovamento”.

[31] “...[l]a parte proprietaria dell’immobile risulta qualificabile come scopritore della cosa, attraverso le attività materiali di esecuzione del titolo edilizio di cui è titolare la stessa società proprietaria, destinataria diretta e primaria altresì delle prescrizioni della Soprintendenza”. Cfr. Cons. St., Sez. VI, 31 gennaio 2024, n. 920, punto 4.9, in www.giustizia-amministrativa.it.

[32] Non è in alcun modo ammissibile, in tale sede, prendere in considerazione la figura del provvedimento implicito, configurabile - secondo la giurisprudenza - quando l’amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determini univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente (cfr. Cons. St., Sez. V, 15 aprile 2019, n. 2433; Tar Lazio Roma, sez. IV, 20 gennaio 2022, n. 670).

[33] È bene rilevare che la concessione di ricerca non trasferisce al privato un diritto esclusivo o autonomo alla ricerca archeologica. Tale attività, anche se eseguita dal concessionario, rimane comunque subordinata al superiore e preminente interesse pubblico alla scoperta dei resti archeologici e alla successiva diretta acquisizione dei ritrovamenti al patrimonio dello Stato. Peraltro, i poteri direttivi e di controllo riconosciuti al ministero della Cultura sono, in questo contesto, particolarmente incisivi. Il concessionario è, infatti, tenuto ad osservare non solo tutte le prescrizioni inserite dal ministero nell’atto di concessione, ma anche qualsiasi altra direttiva che lo stesso ritenga di dover impartire anche successivamente alla costituzione del rapporto, a pena della revoca della stessa concessione.

[34] “(...) ove non ricorrano le succitate condizioni, il Concessionario prende formalmente atto di non avere titolo al riconoscimento del premio. In tutti gli altri casi, ferma comunque la valutazione in capo al ministero delle istanze di Concessione di ricerca, si ritiene opportuno acquisire formale rinuncia al premio di rinvenimento da parte del Concessionario, come previsto dalla citata Circolare 14, prot. 10749 del 31 marzo 2021, di questa Direzione Generale, onde evitare aggravi per l’Amministrazione”. Cfr. ministero della Cultura, Direzione generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, Servizio II, Circolare n. 29 del 18 giugno 2021, in www.beniculturali.it.

[35] Cfr. Direzione generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, Circolare n. 47 del 16 novembre 2022, in www.beniculturali.it.

[36] Così: Cons. St., Sez. VI, n. 2350/2013; Id. n. 1056/2013, in www.giustizia-amministrativa.it.

[37] “Nel caso di specie, se in termini giuridici i principi riassunti smentiscono l’affermazione formulata dall’amministrazione secondo cui “per il procedimento di determinazione del premio, non è prevista la partecipazione dell’interessato”, in termini applicativi il coinvolgimento del privato è stato tardivo - a distanza di alcuni anni dal ritrovamento e dall’avvio dell’iter - oltre che insufficiente, in assenza della adeguata valutazione degli elementi forniti dalla parte stessa. A quest’ultimo proposito, emerge dagli atti che l’accesso dell’esperto numismatico di Officine Immobiliari è stato consentito nei giorni 2 e 3 marzo 2021, mentre il ministero della Cultura ha adottato il provvedimento recante l’attribuzione del premio di rinvenimento il successivo 9 marzo; tale evidente compressione dei tempi ha reso nella sostanza impossibile una adeguata partecipazione e una conseguente doverosa valutazione”. Cfr. Cons. St., Sez. VI, 31 gennaio 2024, n. 920, punti 7.3 e 7.4, in www.giustizia-amministrativa.it.

[38] L’art. 24 della Legge Bottai stabiliva che “[i]l Ministro della pubblica istruzione, sentito il consiglio superiore delle antichità e belle arti o quello delle accademie e biblioteche può autorizzare l’alienazione di cose di antichità e d’arte, di proprietà dello Stato o di altri enti o istituti pubblici, purché non ne derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento”. Il successivo art. 25 non poteva, poi, particolari preclusioni alla permuta di beni “cose d’antichità”: “[i]l Ministro della pubblica istruzione, sentito il consiglio superiore delle antichità e belle arti o quelle delle accademie e biblioteche può autorizzare con le cautele da determinarsi col regolamento, la permuta di cose di antichità e d’arte con altre appartenenti ad enti, istituti e privati anche stranieri”. Cfr. A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 779; T. Alibrandi, voce Antichità e belle arti (diritto amministrativo), in Enciclopedia giuridica Treccani, Torino, 1988, II, pag. 6. La disciplina vigente ammette la permuta di beni archeologici soltanto laddove per singoli “pezzi” appartenenti alle pubbliche raccolte, “qualora dalla permuta stessa derivi un incremento del patrimonio culturale nazionale ovvero l’arricchimento delle pubbliche raccolte”: cfr. art. 58 Cod. b.c.p.

[39] Tale delimitazione discende dalla duplice preclusione contenuta nell’art. 54 dello stesso Codice, che include espressamente tra i beni soggetti ad inalienabilità assoluta gli immobili e le aree di interesse archeologico, le raccolte di musei appartenenti allo Stato e agli enti pubblici territoriali e le cose appartenenti a qualsiasi soggetto pubblico o privato non lucrativo (soggetti indicati dall’art. 10, comma 1) che siano “opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga al oltre settanta anni”, caratteristiche che sono fisiologiche alla qualificazione stessa di bene archeologico. Questi ultimi beni possono essere oggetto di trasferimento esclusivamente tra Stato, regioni e altri enti pubblici territoriali, previa comunicazione al ministero della Cultura, nel caso in cui questo non sia una delle due parti dell’accordo (art. 54, comma 3).

[40] Cfr. Circolare n. 29 del 18 giugno 2021 “Premio per i ritrovamenti - d.lg. n. 42/2004, artt. 90,91,92,93. Procedimento di attribuzione del premio”.

 

 

 



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