La tutela dei beni culturali
Inventività giuridica nella difesa dei beni culturali. Recuperi avventurosi di arte razziata nell’Olocausto
di Silvia Ferreri e Geo Magri [*]
Sommario: Introduzione. - 1. Fattori rilevanti. - 1.1. Il tempo. - 1.1.1. Flessione delle regole ordinarie. - a) In common law. - b) In civil law. - 1.1.2. Interventi legislativi. - a) Negli Usa. - b) In civil law. - c) In sede transnazionale. - 1.2. L’immunità sovrana: scudo limitato. - 1.2.1. Flessione delle regole ordinarie. - 1.2.2. Innovazione legislativa. - 1.3. Conflict of laws. - 1.3.1. Flessione delle regole tradizionali (dalla lex rei sitae ai “prevailing connecting factors”). - 1.3.2. Il carattere culturale del bene e il ricorso alla lex originis. - 1.3.3. Come classificare i beni che nascono immobili e si trasformano in mobili? - 1.4. L’onere della prova. - 1.4.1. I Principi di Washington del 1998 (alleviare l’onere della prova). - 1.4.2. Indizi concordanti. Fatti notori. - 1.4.3. Polizze di deposito. - 1.4.4. Etichette sul retro delle cornici. - 1.5. Gli ostacoli intermedi. - 1.5.1. Le vendite forzate. - 1.5.2. Le procure imposte con la forza/minaccia. - 1.5.3. Le compensazioni post-belliche inadeguate. - 2. Questioni di diritto amministrativo: beni “demaniali” da riqualificare. - 3. Esiti delle controversie. La ricerca di composizione delle pretese. - 3.1. Principi di Washington. - 3.2. Condivisione del profitto della vendita. - 3.3. Restituzione e riacquisto da parte del museo. - 3.4. Restituzione, vendita e vincolo di esposizione in un Museo. - 3.5 Riconoscimento formale della proprietà e mantenimento dell’opera “in deposito permanente”. - 4. Le case d’aste: brokers di accordi. - 5. L’indotto professionale della circolazione post-bellica. - 6. Conclusioni.
Legal creativity in the defense of cultural property. Adventurous recoveries of looted art during the Holocaust
The paper analyzes the topic of the restitution of artworks stolen by the Nazis during the last world war by examining regulatory sources, soft laws and the most significant caselaw. A varied overview emerges, demonstrating that there is a growing awareness among practitioners of the issue of restitution and the need for proper investigations regarding the provenance of the artwork, especially in cases of goods of suspicious origin.
Keywords: Nazi looted art; restitution; Holocaust; art market; auction houses; Washington principles.
Non è ancora esaurito il fenomeno della riemersione di oggetti artistici o storici dispersi durante la Seconda guerra mondiale. Le cronache continuano a segnalare ritrovamenti occasionali e apparizioni inattese. Stime variamente ipotetiche indicano come ancora assenti circa 100.000 tra i presunti 600.000 oggetti razziati nel periodo 1938-1945: per effetto di persecuzioni razziali o politiche o come conseguenza dell’occupazione di territori da parte di forze nemiche [1].
Non bisogna infatti sottostimare che anche le forze di occupazione, comprese quelle russe e americane [2], hanno contribuito alla sottrazione di oggetti artistici o storici.
La sensibilità verso un regime normativo speciale per tutelare chi sia stato spogliato durante le turbolenze del governo nazista e della guerra si è accentuata con il passare del tempo.
Le prime azioni per il recupero di oggetti scomparsi a causa delle persecuzioni razziali, o in connessione con le caotiche vicende della guerra, sono giunte nei tribunali con un certo scarto temporale rispetto all’immediato dopoguerra. Inizialmente molti governi hanno dimostrato scarsa simpatia per chi cercasse di recuperare parte del proprio patrimonio.
In Italia il paradosso di avere affidato inizialmente il recupero dei beni saccheggiati alla stessa istituzione (Ente di gestione e liquidazione immobiliare - Egeli) che aveva promosso la confisca dei beni ai perseguitati non ha impostato in modo favorevole il procedimento [3]. I primi passi furono decisamente infelici, gli storici ci ricordano il decreto legislativo luogotenenziale, 1° febbraio 1945, n. 36 (governo Bonomi), il cui art. 8 prevedeva:
“All’atto della restituzione dei beni all’avente diritto, o al suo legale rappresentante, questi è tenuto a rimborsare l’ammontare delle spese ordinarie di gestione erogate dal sequestratario, dal liquidatore o dall’amministratore, nonché le somme con gli interessi legali anticipate per l’estinzione dei debiti o per la conservazione o incremento o miglioramento dei beni stessi, in quanto tali spese non siano compensate dai frutti dei beni stessi o da altre attività del sequestro o dell’amministrazione” [4].
L’ironia di chiedere a chi fosse stato spogliato di pagare la custodia (coatta) dei beni era di un cinismo ineguagliabile [5]. Vari accomodamenti successivi hanno cercato di rendere più credibile il procedimento, ma la restituzione si è comunque prolungata nel tempo senza garanzia che tutto sia tornato ai legittimi eredi.
In Olanda, prendendo ad esempio il celebre caso dei pannelli lignei rinascimentali di Cranach, appartenuti al collezionista ebreo Goudstikker, l’approccio iniziale fu del tutto burocratico: stabilendo termini rigidi per pretendere la restituzione e prevedendo anche che fossero ripagati i compensi che le vendite forzate (effettuate su istigazione, ad esempio, di Göring) avevano prodotto per i proprietari originari. Solo nel 2001, l’Olanda ha riconsiderato il proprio approccio burocratico passando da un “purely legal approach” a un “more ‘moral policy’ approach” [6].
In Francia, la riluttanza ad occuparsi attivamente delle restituzioni è abbinata ad una certa resistenza ad ammettere in modo aperto che una facilitazione ai soprusi fu offerta dal Governo della Zone libre, amministrata dal governo di Vichy. Per circa trent’anni (dal 1955 al 1993), passati alla storia come “les trente années silencieuses”, i Francesi hanno oscurato il ruolo che ebbe la Francia nel coadiuvare le operazioni naziste.
Di conseguenza, per un tratto di tempo prolungato, la restituzione dei beni trafugati dall’esercito tedesco e dai collaboratori non è stata una priorità: si propendeva per addebitare l’intera responsabilità dei furti e delle violenze perpetrati durante il secondo conflitto mondiale alla sola Germania. Appena nel 1995, Chirac, all’epoca presidente della Repubblica, interrompe l’oblio, ammettendo la responsabilità della Francia nelle sottrazioni, al pari di quella tedesca. Per far fronte all’esigenza di ricostruire la provenienza di molti oggetti conservati in musei e collezioni nel 1997 viene formata una commissione, cui partecipano molti studiosi, esperti d’arte e attivisti: la “Missione Matteoli” dal nome di Jean Matteoli, ex partigiano della Resistenza francese, incaricato di guidarla. Da quella data diversi interventi normativi hanno cercato di facilitare il recupero dei beni confiscati tra il 1933 e il 1945.
Un mutamento d’animo generale si riscontra dopo il 1998, ossia dopo l’approvazione dei Principi di Washington (on Nazi-Confiscated Art) che hanno fissato alcune linee guida per gli Stati e i musei nel trattare le domande di reintegrazione di “looted art”. In particolare gli Stati (44 in totale) che hanno sottoscritto gli impegni (non cogenti), per facilitare il rientro dei beni nelle mani delle vittime, sono chiamati non solo a identificare i beni sottratti, ma anche a incoraggiare gli eredi a far valere le proprie aspettative (come si vedrà, attenuando anche l’onere probatorio nei confronti degli attori in giudizio che non sempre sono in grado di ricostruire esattamente tutti i passaggi intermedi degli oggetti che hanno spesso cambiato mano) [7].
1.1. Il tempo
Una delle prime variabili che salta agli occhi riguarda il tempo, il decorso degli anni dai provvedimenti di confisca (o di vendite forzate) che potenzialmente bloccherebbe le azioni di recupero intentate dalle vittime o dai loro eredi.
1.1.1. Flessione delle regole ordinarie
a) Un primo approccio, per limitare gli effetti del decorso del tempo, consiste, nel mondo di common law, nell’adattare gli “statutes of limitation”, i provvedimenti legislativi che stabiliscono i termini per agire in giudizio, attraverso un’interpretazione espansiva. Il periodo di 3 o 6 anni (a seconda degli Stati interessati) decorrenti dall’atto che viola il “right to immediate possession” [8] si fa decorrere dal momento in cui la collocazione del bene diventa nota. Ciò consente già una proroga importante del lasso di tempo concesso alla vittima della spoliazione: finché l’oggetto non riemerge dalla clandestinità, il termine non decorre. In qualche caso però, ad esempio nello Stato di New York, le corti ammettono l’azione per il tort di conversion (o replevin, in altri Stati) quando il bene non solo sia stato ritrovato, ma il possessore abbia anche risposto negativamente ad una richiesta di restituzione: è la “demand and refusal rule”, applicata ad esempio nel noto caso “Elicofon” per il recupero di due ritratti firmati da Dürer [9]. Questa soluzione consente di prorogare ulteriormente la decadenza dell’azione: in taluni episodi l’iniziativa giudiziaria si è verificata a decine di anni di distanza dalla perdita dell’oggetto conteso.
Per evitare che il principio sia abusato dai litiganti, le corti hanno integrato due cautele: chi protragga in modo pretestuoso i negoziati per la restituzione, facendo decorrere il termine della controparte per agire in giudizio, non potrà eccepire la prescrizione (l’estoppel concesso contro condotte contraddittorie o maliziose neutralizza la strategia di procrastinare il “refusal”) [10]. Per parte propria, la vittima della spoliazione non può tardare in modo irragionevole nel proporre la restituzione e nel formalizzare un atto di “demand”: un abuso, un tergiversare potrebbe esser sanzionato dalla corte come “fraudulent” (secondo il principio generale di equity per cui l’attore deve avere “le mani pulite” quando chiede giustizia). Talvolta, nelle liti, si trova il riferimento al concetto di “laches” [11]: l’inerzia, la mancanza di due diligence da parte dell’avente diritto, può generare una decadenza dall’azione [12].
Come viene giustificata la mancanza di reazione immediata alla perdita di un oggetto, appena cessato l’impedimento costituito dalla guerra? Anche sotto questo profilo, la casistica offre un panorama variatissimo di situazioni. Talvolta gli eredi non hanno salvato dalle vicende belliche gli inventari delle opere un tempo possedute [13], talaltra un fiduciario mente sulla sorte dei beni [14], in qualche caso sono le risorse economiche a fare difetto [15], in molti episodi è la complessità dei passaggi successori a rendere difficile l’avvio delle vertenze [16], senza contare la difficoltà di venire a patti con i traumi del passato [17].
Fuori dall’ambito delle vittime del nazismo, incontriamo ragioni diverse del (frequente) ritardo nel reagire. Queste variano dal timore che la denuncia avrebbe potuto portare l’oggetto ancora più nella clandestinità (ed escluso le chances di recupero) [18] all’impopolarità di ammettere che una carenza nel sistema antifurto ha consentito la sottrazione o confessare che la catalogazione dei beni non è completa [19].
L’uniformità temporale non è assicurata in tutto il mondo di common law, in quanto negli stessi Stati Uniti tre diverse regole governano il regime temporale delle azioni di recupero: variando dal momento in cui viene commesso l’atto (di conversion o replevin) incompatibile con il diritto a possedere dell’attore in giudizio fino al momento in cui l’oggetto è ritrovato e il possessore è identificato (“discovery rule”), o addirittura fino alla soluzione (più generosa) di attendere un rifiuto della richiesta di restituzione (il “tort” si verifica solo nel momento in cui la violazione del diritto a possedere è formalizzata in un diniego/refusal della pretesa altrui di recuperare il possesso).
b) Per altro verso, in area di civil law, l’ingegnosità dei giuristi si è manifestata per esempio nell’adeguare le norme sull’usucapione alla specificità dei beni culturali. Così, in Italia, nel noto caso dei quadri di Santa Caterina di Alessandria (di B. Strozzi), e del Ritratto di Vittoria della Rovere (di Justus Sustermans) [20], nel 2019, gli eredi di una famiglia (Loeser-C.), perseguitata nell’aprile 1944, sono riusciti, insieme alla Curia di Assisi (erede di un’altra persona depredata), a recuperare i beni nonostante questi fossero stati acquistati in Italia, negli anni ’50, da W.W., ufficiale dell’esercito tedesco e trasferiti in Austria [21].
L’argomento opposto dal convenuto a propria difesa nel senso che fosse intervenuta l’usucapione, in forza del possesso protratto e del carattere “pubblico” della detenzione (in quanto i dipinti erano esposti nell’anticamera di una casa farmaceutica in cui i visitatori venivano ammessi liberamente), è stato respinto dalla Cassazione. A parere della Corte Suprema, in caso di opere d’arte, “solo l’esposizione a mostre, ovvero l’inserimento in pubblicazioni specializzate”, consente la non clandestinità del possesso [22]. Emerge quindi un criterio speciale di pubblicità, limitato agli oggetti di natura artistica.
Questo approccio non è però generale. L’interpretazione restrittiva del concetto di possesso “pubblico” confligge ad esempio con la casistica di altri Stati, come nel caso deciso a Londra, nel 2007, Iran v. Berend [23]. La vertenza riguardava una scultura di un edificio persiano staccata dal sito originario e venduta all’asta a New York ad un’acquirente francese (che aveva successivamente deciso di mettere l’oggetto all’asta a Londra). La corte inglese ritiene applicabile il diritto francese e il principio “possesso vale titolo”, aggiungendo obiter che la difesa dell’attore aveva insistito che il possesso della convenuta avrebbe dovuto essere “pubblico”. In particolare, per l’avvocato che difendeva l’Iran il possesso sarebbe stato viziato a meno che la convenuta avesse compiuto “qualche passo effettivo” rispetto ad esso. “Pressed for examples, he suggested that she might have exhibited it, or published photographs or articles about it”. La risposta del giudice inglese dichiara:
“I fail to see how that can possibly be a requirement of the law in circumstances such as these. Naturally, if someone has obtained an artefact knowing it to have been stolen from a particular source, or suspecting it, there may well be policy reasons for placing obstacles in the way of his acquiring a good title by secret possession. Here, by contrast, the Defendant’s good faith having been conceded, she had no reason to keep the fragment she had bought under wraps, nor yet even to suspect that the then government of Iran had a claim to repossess it”.
In sostanza, se mancano sostanziosi indizi di mala fede, non occorre investigare sulla qualità del possesso, purché effettivo.
Il punto sul quale più probabilmente variano le indagini dei giudici riguarda proprio l’evoluzione della “buona fede”: l’obbligo di prestare particolare attenzione quando si negoziano acquisti di beni pregiati per natura storica o artistica è ora percepito in modo più stringente dal pubblico e soprattutto presidiato con maggiore severità dalle corti. Due diligence è un’espressione che compare con maggiore frequenza in connessione con molti acquisti, nel caso specialmente che un mercante (o collezionista esperto) sia parte attiva del negozio [24]. A titolo di esempio, la Convenzione Unidroit, per i beni rubati o esportati illegalmente, adotta la soluzione per cui (art. 3 par. 1) “the possessor of a cultural object which has been stolen shall return it”; d’altro canto, se il possessore è in grado di provare la sua due diligence al momento dell’acquisto, questi ha diritto a ricevere una fair compensation [25]:
“The possessor of a stolen cultural object required to return it shall be entitled, at the time of its restitution, to payment of fair and reasonable compensation provided that the possessor neither knew nor ought reasonably to have known that the object was stolen and can prove that it exercised due diligence when acquiring the object” (art. 4 par. 1).
Quanto ai parametri da considerare, l’articolo 4 (4) della Convenzione, prevede che l’accertamento della due diligence dell’acquirente debba tenere conto di “all the circumstances of the acquisition, including the character of the parties, the price paid, whether the possessor consulted any reasonably accessible register of stolen cultural objects, and any other relevant information and documentation which it could reasonably have obtained, and whether the possessor consulted accessible agencies or took any other step that a reasonable person would have taken in the circumstances”.
Assistiamo qui ad una inversione dell’onere della prova rispetto alla presunzione di buona fede del nostro codice civile. È il convenuto a sostenere l’onere di giustificare il modo in cui l’acquisto è avvenuto, allegando elementi convincenti che non ci sia stata negligenza da parte sua. La prova non sarà sempre agevole, vista la scarsa trasparenza del mercato dell’arte. Una certa pressione sui curatori di collezioni è però posta, ad esempio, dall’Icom Code of Ethics for Museums [26] dagli anni ‘80:
“Every effort must be made before acquisition to ensure that any object offered for purchase [...] has not been illegally obtained in, or exported from its country of origin ... Due diligence in this regard should establish the full history of the item since discovery or production” (Icom Code of Ethics 2.3) [27].
In tempi più recenti il tema della due diligence è stato preso in esame anche in un mercato particolarmente sensibile quale quello svizzero. L’iniziativa Responsible Art Market (Ram), nata a Ginevra nel 2015, mira a incrementare la consapevolezza sui rischi presenti nel mercato dell’arte, fornendo una serie di guide pratiche e una piattaforma per la condivisione delle migliori pratiche per affrontare e superare tali rischi.
Il progetto parte dal presupposto che un mercato dell’arte globalizzato, come quello odierno, presenta molti più rischi per investitori e collezionisti, soprattutto se si tratta di singoli operatori o di piccole e medie imprese; ai rischi legati al mercato si aggiunge la complessità della normativa esistente, in particolare, per quanto concerne la Svizzera, delle disposizioni in materia di riciclaggio del denaro.
Per queste ragioni il progetto Ram ha elaborato una serie di linee guida indirizzate a chi intende operare sul mercato dell’arte tra le quali si segnalano quelle in materia di due diligence [28].
Particolarmente significativo il fatto che l’iniziativa Ram segnali come le buone pratiche di due diligence siano indispensabili per rendere il mercato trasparente e per assicurare a commercianti e acquirenti la possibilità di concludere transazioni commerciali sicure, evitando rischi finanziari e reputazionali. Un’adeguata due diligence è vista come un elemento di vantaggio anche in un mercato che, come quello svizzero, non si è sempre contraddistinto per la sua trasparenza.
Il toolkit elaborato in seno all’iniziativa Ram è una raccolta non esaustiva di accertamenti volti a mitigare i rischi che possono sorgere nelle transazioni di opere d’arte. Esso è concepito come un “promemoria” delle principali attività di indagine nell’ambito della due diligence, individuando varie verifiche che potrebbero essere considerate e/o svolte in relazione alle parti coinvolte in una transazione, all’opera d’arte e alla tipologia di transazione. Ovviamente il toolkit non ha la pretesa di creare nuovi standard al di là degli obblighi di legge esistenti o di stabilire uno standard uniforme da applicare in tutte le transazioni. A seconda delle circostanze, i controlli suggeriti possono non essere appropriati, praticabili o necessari o, al contrario, vi possono essere casi in cui i controlli suggeriti non sono sufficienti e devono essere implementati.
1.1.2. Interventi legislativi
a) Negli USA
La legislazione federale approvata negli Usa nel 2016 (Holocaust Expropriated Art Recovery Act - Hear) [29] prevede (sect. 5) che:
“a civil claim or cause of action against a defendant to recover any artwork or other property that was lost during the covered period because of Nazi persecution may be commenced not later than 6 years after the actual discovery by the claimant (or the agent..) of
(1) the identity and location of the artwork or other property; and
(2) a possessory interest of the claimant in the artwork or other property” [30].
Vale la pena osservare che lo Hear Act 2016 contiene una clausola di estinzione, una “sunset provision” “causing it to expire on January 1, 2027. Upon expiration, the law applied to cases of Nazi-confiscated art recovery will revert to state statutes” [31]. Non stupisce osservare che all’avvicinarsi della data limite del 2027 si elevino voci che sponsorizzano la proroga del provvedimento. Dal lato opposto, però, i responsabili di grandi musei europei caldeggiano la fissazione di una data limite, ad esempio 100 anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale, oltre la quale non sia più possibile contestare la titolarità degli oggetti dispersi durante il periodo bellico.
L’argomento è di ordine pratico (l’incertezza sullo status giuridico non può protrarsi all’infinito) e riguarda anche la difficoltà per i musei di trovare le risorse economiche per indennizzare gli eredi delle vittime (e conservare così l’oggetto esposto), mano a mano che il valore degli oggetti, originariamente di modico pregio - al tempo della loro creazione -, aumenta, rendendo impossibile la concorrenza con facoltosi acquirenti stranieri. Questi temibili concorrenti finirebbero per svuotare le collezioni pubbliche, magari per un godimento esclusivo e privato di opere che vengono così sottratte alla fruizione del pubblico [32].
b) In civil law
Alcuni legislatori hanno tradotto le esigenze messe in evidenza dai Principi di Washington (1998) in aggiornamenti dei codici civili, non solo per proteggere specificatamente i beni razziati, ma per facilitare il recupero di beni culturali in genere. Così, in Svizzera, le norme sul possesso, art. 934, sono state integrate da un’eccezione che detta:
“1-bis. Il diritto di rivendicazione per beni culturali ai sensi dell’articolo 2 capoverso 1 della legge del 20 giugno 2003 sul trasferimento dei beni culturali, andati persi contro la volontà del proprietario, si prescrive in un anno dopo che il proprietario è venuto a conoscenza dell’ubicazione e del detentore dei beni, ma al più tardi in 30 anni dopo la perdita dei beni” [33].
Altrove, le norme speciali sono rimaste confinate in atti specifici, in legislazioni variamente disperse o raccolte in “codici dei beni culturali” [34].
c) In sede transnazionale
Le normative nazionali incrociano fonti internazionali delle quali occorre tenere conto anche nelle vertenze per il recupero di beni sottratti nel periodo della Seconda Guerra mondiale. Sovente si tratta di oggetti che sono finiti in collezioni statali (ad esempio il Museo del Belvedere di Vienna, o il Museo Villa Hermosa di Madrid, o il Musée d’Orsay) o private (Abegg, Thyssen Bornemisza, Guggenheim ecc.), classificati come beni culturali, in qualche caso inalienabili perché parte del demanio pubblico. La protezione più intensa nella sfera mondiale riguarda oggetti culturali rubati o esportati in modo illegale al di fuori dei confini nazionali: infatti, come accennato, la Convenzione Unidroit [35] prevede il diritto di riottenere il bene sottratto o esportato clandestinamente, eventualmente rimborsando l’acquirente in buona fede delle spese sostenute per l’acquisto dell’oggetto [36]. La richiesta di restituzione deve essere presentata entro tre anni dal momento in cui il richiedente ha scoperto il luogo in cui si trova il bene e ne ha identificato il proprietario.
La restituzione non può essere richiesta dopo 50 anni (che però possono essere estesi dalle leggi dei singoli Stati, ex art. 3 par. 4) dalla data del furto (art. 3 par. 5). Quest’ultimo limite non si applica ai beni culturali più importanti appartenenti al patrimonio culturale degli Stati contraenti, per i quali l’azione di restituzione è esercitabile senza limitazione temporale [37].
La terminologia adottata varia tra “restituzione” (di oggetti rubati o scavati clandestinamente) e “resa” (“return”) di quanto illegalmente esportato [38].
Sul versante dell’efficacia, i commentatori [39] hanno tuttavia messo in evidenza che:
“litigation for theft of cultural property may be brought by the original owner in a civil case under the UNIDROIT Convention, but civil actions for stolen goods are usually available in any event. Because of the expense, the difficulty of assembling evidence and the need to cope with a foreign legal system, the number of cases which will be brought by a private citizen, or even by a foreign government in a civil action created by the UNIDROIT Convention, may be seriously diminished”.
Un altro ostacolo al ricorso alla Convenzione Unidroit è rappresentato dallo scarso numero di Stati che l’hanno ratificata, i quali sono principalmente c.d. Stati esportatori, ossia Stati il cui patrimonio culturale è minacciato dall’esportazione illecita, mentre gli Stati c.d. importatori hanno generalmente optato per la meno impegnativa Convenzione UNESCO del 1970.
In opposizione alla Convenzione più recente, si osserva, invece, che “under the 1970 [Unesco] Convention (...) the government concerned may apply to another government to take action and this action is generally at the expense of the requested government”. Il rapporto tra Stato e Stato evita le spese e le complessità amministrative altrimenti d’ostacolo.
In senso cronologico è attraverso la Convenzione UNESCO del 1970 che nasce l’obbligo di restituzione delle opere d’arte trasferite illegalmente da uno Stato [40]. Il principio è stato successivamente accolto anche a livello comunitario tramite la direttiva 1993/7 (poi sostituita dalla direttiva 2014/60). Non trattandosi di norme specialmente dedicate ai traffici di opere sottratte in epoca di persecuzioni razziali, l’approfondimento compete ad altri studi [41]. In quest’ ambito interessa soprattutto il modo, simile a quello di common law, in cui è calcolato il limite temporale per agire in giudizio.
Si deve peraltro sottolineare come sia proprio il limite temporale a essere visto come il principale vulnus della disciplina in materia di restituzioni, tanto che la direttiva 2014/60 ha ampliato a tre anni il termine per esercitare l’azione di restituzione che era, nella versione originaria contenuta nella direttiva del 1993, soltanto di un anno (a decorrere dalla data in cui lo Stato richiedente fosse venuto a conoscenza del luogo in cui il bene si trova e dell’identità del suo possessore o detentore: art. 7, comma 1, dir. 1993/7).
1.2. L’immunità sovrana: scudo limitato
1.2.1. Flessione delle regole ordinarie
Lo scudo concesso agli Stati che sono generalmente immuni dalla giurisdizione di altri Stati cede in qualche caso per legislazioni speciali approvate proprio in ragione del carattere particolarmente odioso delle spoliazioni per ragioni razziali.
Un caso che ha suscitato molto clamore riguarda il “tesoro guelfo” (Welfenschatz) [42], una collezione di oggetti di oreficeria e di gemme la cui vendita forzata, pretesa da ufficiali nazisti contro un consorzio di antiquari ebrei, è contestata dagli eredi dei venditori minacciati. La repubblica federale di Germania risulta coinvolta tramite la Stiftung Preussischer Kulturbesitz, Spk, possessore effettivo degli oggetti. In questa vertenza i giudici statunitensi hanno affermato la propria giurisdizione fondandosi sul diritto internazionale e in particolare sul carattere di persecuzione razziale della vendita compiuta sotto minaccia (il denaro, per di più, non fu mai corrisposto) [43].
La Corte Suprema ha inoltre istruito la corte federale inferiore (che dovrà approfondire le circostanze di fatto) di non considerare automaticamente la vicenda coperta dal principio (Act of State Doctrine) per cui le espropriazioni compiute sul proprio territorio da un governo legittimo al momento dei fatti sono irreversibili da parte di altri Stati. Nel caso in questione, non tutti i componenti del consorzio di antiquari erano sicuramente cittadini tedeschi: il che lascia sospettare che nemmeno all’epoca dei fatti originali la confisca (“domestic takings”) fosse legittima secondo gli stessi parametri tedeschi. L’onere della prova passa dunque al museo prussiano di documentare che il procedimento espropriativo fosse all’epoca dei fatti legittimo.
Il principio di intangibilità degli atti compiuti da governi stranieri sul proprio territorio ha in passato trovato svariate applicazioni, ad esempio nel periodo successivo alla rivoluzione bolscevica, in relazione ad opere d’arte sottratte a nobili famiglie russe e nazionalizzate.
Una di queste vertenze merita di esser ricordata perché si riallaccia poi ad un episodio della Seconda Guerra mondiale contro un collezionista ebreo in Olanda.
La principessa Stroganoff-Scherbatoff si oppose negli anni ’30 alla vendita all’asta a Berlino (1931) [44], presso la Lepke’s Kunst-Auctions-Haus di dipinti e statue su cui vantava la proprietà nonostante l’ordine di vendita impartito da parte dell’Handelsvertretung (o Trade Consulate) dell’Urss [45]. Nonostante l’opposizione ampiamente pubblicizzata, molte vendite ebbero luogo a Berlino, nell’incertezza anche sull’esatta provenienza dei beni (taluni attribuiti dai committenti russi della vendita alla Galerie des Tableaux of the Imperial Hermitage, San Pietroburgo, Russia).
In vertenze successive, gli eredi della principessa Stroganoff hanno a più riprese cercato di bloccare vendite all’asta di oggetti originariamente posseduti dalla famiglia russa. Più volte, tuttavia, le corti hanno allegato il principio per cui “Every sovereign state is bound to respect the independence of every other sovereign state, and the courts of one country will not sit in judgment on the acts of the government of another, done within its own territory” [46]. Come conseguenza delle espropriazioni compiute dai sovietici, i beni venduti alle aste pubbliche hanno investito di un titolo valido gli acquirenti. Nel Secondo Dopoguerra però un episodio ha visto contrapposti gli eredi dell’aristocrazia russa e gli eredi di un collezionista ebreo (Goudstikker) cui i nazisti avevano sottratto vari dipinti, in parte finiti a decorare le abitazioni private di alcuni ufficiali d’occupazione dell’Olanda [47].
Leggendo la ricostruzione dei fatti condotta dalla corte statunitense scopriamo che “Herman Göring, Reischsmarschall of the Third Reich, seized the Cranachs and hundreds of other pieces from the gallery. Göring sent the artwork to Carinhall, his country estate near Berlin, where the collection remained until approximately May 1945 when the Allied Forces discovered it. The recovered artwork was then sent to the Munich Central Collection Point, where the works from the Goudstikker collection were identified. In or about 1946, the Allied Forces returned the Goudstikker artworks to the Netherlands. The Cranachs were never restituted to the Goudstikker family. Instead, after restitution proceedings in the Netherlands, the Dutch government delivered the two paintings to George Stroganoff, one of the claimants, and he sold them, through an art dealer, to the Museum”.
Insomma, nelle turbolenze post-belliche, il governo olandese non approfondì l’effettiva titolarità del pretendente russo, ignorò le espropriazioni sovietiche e le vendite all’asta successive, ripristinando il bene non alla vittima delle persecuzioni naziste, ma ad un precedente titolare il cui titolo avrebbe dovuto essere estinto. Si è verificata in questo caso una sorta di concorrenza tra vittime di espropri: la più recente ha perso rispetto alla precedente (ma la catena dei passaggi attraverso varie case d’asta potrebbe consentire di risalire la catena e di colpire i mediatori delle vendite, colpevoli a loro volta di “conversion” secondo il common law) [48].
Il motivo per cui merita citare l’episodio è che offre uno spaccato delle difficoltà di rintracciare ciò che è andato perduto durante l’occupazione, dello sforzo richiesto per identificare i passaggi e talvolta persino l’identità delle opere, rinominate con titoli nuovi nelle successive destinazioni in cui sono state incorporate.
1.2.2. Innovazione legislativa
Negli Usa proprio per fronteggiare il problema della difesa di musei statali che respingono le pretese degli eredi di perseguitati tramite l’immunità sovrana dello Stato, è stato approvato il Foreign Sovereign Immunities Act - Fsia, 1976. Questa legislazione federale introduce 9 eccezioni all’immunità degli Stati stranieri rispetto alla giurisdizione statunitense.
Queste includono tra l’altro:
“An implicit or explicit waiver by the foreign state of its sovereign immunity.
Commercial activities (such as the lending and borrowing of money, the sale & purchase of goods, and the leasing of property exception). Commercial activities are not immune to suits if they are:
- performed by the foreign state in the US;
- acts performed by the foreign state in the US in connection with commercial activity performed by the foreign state elsewhere; or
- acts performed by the foreign state outside of the US in connection with commercial activity performed outside of the US that has a direct effect in the US” [49].
Accanto all’eventuale rinuncia (eventualmente presunta) ad opporre la propria immunità, figurano dunque ipotesi in cui lo Stato (o una sua emanazione, come un museo statale) svolga qualche operazione commerciale sul territorio degli Usa.
Nel caso della “woman in gold”, l’erede di Adele Bloch Bauer ha potuto agire contro l’Austria per il dipinto di Klimt proprio avvalendosi del fatto che il catalogo del museo del Belvedere di Vienna era in vendita anche negli Usa. In modo analogo, nel caso relativo al quadro di Pissarro (Rue Saint Honoré, Effet de pluie) [50], gli eredi di Lilly Cassirer hanno potuto convenire in giudizio il Regno di Spagna avvalendosi del fatto che visite virtuali al museo di Madrid erano in vendita negli Stati Uniti (insieme al merchandising di oggetti evocativi delle collezioni).
Sarà prossimamente interessante seguire le vicende, inverse a quelle finora considerate, del Discobolo (riproduzione romana di statua greca di Mirone) oggi esposto a Roma (Museo nazionale romano), ma rivendicato dalla Germania in quanto a suo tempo acquistato “regolarmente” da Hitler al principe Lancellotti con un esborso importante all’epoca (sia pure tramite pressione del governo fascista sul proprietario, costretto all’assenso per ragioni politiche) [51]. Dopo la guerra il Discobolo fece il suo ritorno a Roma per volere del ministro Rodolfo Siviero, inserito nella lista di “opere d’arte trafugate dalla Germania Nazista”. Secondo il museo tedesco che ora lo pretende “il rimpatrio in Italia ha violato la legge” [52].
C’è da dubitare che lo Stato italiano, ora titolare della scultura, sia disposto a ritrasferirlo in Germania.
1.3. Conflict of laws
1.3.1. Flessione delle regole tradizionali (dalla lex rei sitae ai “prevailing connecting factors”).
I principi di scelta del diritto applicabile nelle vicende che attraversano le frontiere, in materia di proprietà, adottano generalmente come criterio di collegamento il luogo in cui il bene si trova (lex loci rei sitae) [53].
Nel caso di beni mobili, questo criterio è soggetto ad una sotto-specificazione. Il luogo in cui il bene si trova è inteso con riferimento a tempi diversi a seconda che si discuta delle prerogative proprietarie, dell’ampiezza dei poteri del proprietario [54], o, viceversa, si discuta della titolarità. In questa seconda eventualità, come noto, si tende a fare riferimento al luogo in cui il bene si trovava nel momento in cui è occorsa la vicenda che ha trasmesso il titolo sul bene: ad esempio il luogo in cui esso è stato acquistato tramite vendita o donazione. Tuttavia, questa prassi, non sempre tradotta in legislazione, subisce una ulteriore deroga quando la relazione con il luogo in cui lo scambio è avvenuto ha solo una tenue relazione con l’oggetto, tipicamente se il bene si trova solo in transitu, per una sosta priva di effettiva connessione con la relazione tra i contraenti [55].
Sovente gli oggetti di valore vengono scambiati in sedi “terze” rispetto ai protagonisti delle relazioni giuridiche, ad esempio nella zona franca dell’aeroporto di Ginevra (spesso scelta come luogo neutrale e poco soggetto ad indagini fiscali), oppure presso una casa d’aste collocata a Montecarlo, a Parigi, in Svizzera o in Inghilterra.
Nei casi, frequenti, in cui intervenga una giurisdizione di common law bisogna tenere conto della qualificazione che i common lawyers danno ai rimedi per il recupero del possesso, catalogati tra i torts, ossia tra gli strumenti che rimediano agli atti nocivi, ai delitti civili. Secondo questa prospettiva, in ottemperanza al principio lex loci commissi delicti, il luogo rilevante è quello in cui è commesso il tort di conversion (o replevin): questo può coincidere non tanto con il posto in cui è avvenuto l’impossessamento (il bene è passato nelle mani del convenuto), quanto con la località in cui il possessore nega la restituzione (per la regola di “demand and refusal”) [56]. Capita così che molte vicende finiscano sotto la lente di corti statunitensi perché molti oggetti sono stati acquisiti da musei americani.
Tuttavia, i giudici statunitensi accolgono, a loro volta, il principio per cui la lex commissi delicti può subire deroghe in caso di contatti superficiali con il luogo individuato: a controbilanciare la stretta regola interviene quindi la ricerca del “baricentro della fattispecie”, l’indagine sulla prevalenza dei fattori di collegamento.
A titolo di esempio, nel caso dei mosaici greci esportati illegalmente da Cipro e venduti nell’aeroporto di Ginevra per essere esportati in Indiana [57], la corte federale d’appello (per il settimo circuito) scartò il diritto svizzero (invocato dall’acquirente americana per avvalersi del principio “possesso vale titolo”), per dare rilievo invece al diritto dell’Indiana in quanto i beni erano custoditi in quello Stato all’atto del giudizio, erano stati acquistati da una cittadina dell’Indiana, con denaro fornito da una banca dell’Indiana e in Svizzera erano solo transitati nell’area franca dell’aeroporto di Ginevra (per il principio nemo dat quod non habet vigente in common law, i mosaici - alienati a seguito di un furto - sono stati restituiti a Cipro).
Nella vicenda del quadro di Pissarro (Cassirer v. Regno di Spagna, iniziato nel 2005) si è assistito ad un mutare di opinioni tra corti inferiori e superiori: inizialmente i giudici avevano accolto l’argomento che i principi di conflict of laws federali rinviassero alla Spagna (dove il quadro è custodito e dove la fondazione Thyssen aveva trasmesso il possesso al museo), ma la Corte Suprema federale (2022) [58] ha corretto la scelta a favore dei principi di conflitto di legge adoperati dallo Stato della California, dove la controversia è instaurata. L’argomento adottato dalla giudice Kagan che ha redatto la motivazione per la Corte fa perno sulla circostanza che la scelta del diritto applicabile non varia anche se il convenuto in giudizio è uno Stato straniero: è il diritto statale a indicare i criteri di collegamento da privilegiare.
L’esito finale della vicenda si è raggiunto solo all’inizio del 2024: la Circuit Court of Appeals (9th U.S.) ha deciso per l’applicazione del diritto spagnolo e ha attribuito definitivamente la proprietà al Museo di Madrid [59]. Il criterio adottato dalla corte statunitense è denominato comparative impairment analysis in forza del quale “we resolve such a conflict by applying the law of the jurisdiction whose governmental interests would be the more impaired were its law not applied”.
Una certa imponderabilità sussiste in questo genere di vertenze, data la flessibilità dei principi sui conflitti di legge: è anche possibile che una corte individui come prevalente la connessione con il luogo in cui il bene si trovava originariamente.
1.3.2. Il carattere culturale del bene e il ricorso alla lex originis
Il criterio di collegamento della lex rei sitae è peraltro spesso messo in discussione a livello internazionale. La Convenzione Unidroit afferma che, per determinare l’esistenza di un diritto reale sui beni oggetto della richiesta di restituzione, occorre fare riferimento alla lex originis [60], cioè alla legge dello Stato di origine del bene culturale e non alla lex rei sitae, generalmente adottata come criterio di collegamento dal diritto internazionale privato [61]. Questa soluzione era già stata introdotta in seno alla Risoluzione di Basilea (1991) dell’Institut de Droit International sulla vendita di opere d’arte, che aveva ampiamente affrontato i problemi derivanti dall’applicazione del criterio di collegamento generale della lex rei sitae anche nel campo dei diritti reali relativi ai beni culturali [62].
La ragione per la quale si ritiene preferibile fare ricorso alla lex originis, anziché alla lex loci rei sitae [63], sta nelle difficoltà riscontrate nell’applicare la Convenzione UNESCO (1970) tutte le volte in cui entri in gioco un ordinamento nel quale l’acquirente in buona fede trova protezione con i conseguenti rischi di legittimazione della circolazione dei beni di provenienza illecita.
Il riferimento alla lex originis operato dalla Convenzione non sembra porre particolari problemi di coordinamento con i criteri di collegamento normalmente adottati dal diritto internazionale privato. Infatti, relativamente ai beni culturali acquistati dopo l’esportazione illegale, le vicende contrattuali e gli eventuali trasferimenti di proprietà (regolati dalla lex rei sitae) sono tendenzialmente irrilevanti. Se l’acquisto è stato effettuato dopo il furto o l’esportazione illecita, infatti, ai fini della Convenzione, l’acquirente ha soltanto diritto a richiedere un equo compenso se ha agito con la dovuta diligenza. Questi non potrà invocare il contratto con il quale ha acquistato il bene per mantenerne la proprietà, non potendosi esimere dall’obbligo restitutorio.
La lex originis, secondo le norme internazionali, ha anche il delicato compito di stabilire se il bene debba essere considerato culturale, oppure no. Come noto, non tutti i beni, ancorché dotati di valore economico o artistico, possono e devono essere considerati culturali. Tale qualifica sorge soltanto nel momento in cui un determinato Stato (o, eventualmente, una determinata comunità) ritiene che il bene abbia un valore identificativo rilevante o sia una testimonianza particolarmente importante della propria identità culturale. La relatività del concetto di bene culturale è ben esemplificata dal celebre esempio della lucerna di terracotta di epoca tardo romana, che, in area mediterranea, è considerata quasi priva di valore (stante la facilità con la quale vengono rinvenuti tali reperti), mentre la stessa è considerata reperto estremamente pregevole se rinvenuta in Scandinavia [64].
In ambito internazionale, peraltro, e lo si è potuto constatare bene durante i lavori preparatori delle direttive europee, gli Stati non concordano neppure sui criteri da utilizzare per determinare se un bene possa essere considerato culturale. Alla tesi di quei paesi che ritengono che il bene debba avere (oltre che una rilevanza culturale) anche un valore economico, si oppone fieramente l’opinione dei paesi secondo i quali la valenza culturale del bene non può in alcun modo essere ancorata a parametri economici.
1.3.3. Come classificare i beni che nascono immobili e si trasformano in mobili?
Il mercato dell’arte può trasformare in oggetti commerciabili anche parti decorative di edifici [65] o elementi di statue infisse in una facciata, mosaici di pareti o pavimenti [66], boiserie di biblioteche, sovrapporte dipinte, arazzi incorporati in pareti di castelli [67], pannelli di altari, affreschi staccati da pareti di chiese o palazzi.
Queste circostanze pongono la questione della natura mobile o immobile di taluni beni: influendo, come si è detto, sulla scelta del diritto applicabile.
È interessante notare che talune corti ammettono una categoria intermedia di beni, i beni “immobili per destinazione”: a questi dovrebbero applicarsi per attrazione le norme sugli immobili. Talvolta però l’esatta portata della categoria è controversa. Come esempio paradigmatico possiamo considerare il caso degli affreschi di Casenoves [68], contesi tra gli antichi proprietari della cappella medievale in Francia e il museo di Ginevra cui la fondazione Abegg li ha donati nel 1963. La storia di questi reperti è interessante perché ha visto le corti di merito e di legittimità contraddirsi: inizialmente il Tribunale di Perpignan nel 1984 “juge les fresques ayant conservé caractère d’immeuble par nature”, mentre la Corte d’appello di Montpellier “considère que les fresques arrachées ... sont immeubles par destination” [69] e infine nel 1988, la Cour de Cassation “décide que fresques sont biens meubles” [70].
La diversa classificazione degli oggetti trascina con sé diversi criteri per individuare la corte competente a decidere il caso e diverse soluzioni di scelta del diritto applicabile nelle vicende transfrontaliere. Una mirata classificazione può influenzare l’esito della controversia.
Una soluzione simile, sebbene non faccia ricorso alla categoria dei beni immobili per destinazione, è stata accolta anche dalla Cassazione italiana, la quale ha affermato che il vincolo gravante iure publico su di un “palazzo di interesse storico riguarda il complesso unitario dell’immobile, comprensivo anche degli affreschi che ne adornano gli appartamenti cui è da attribuire la qualificazione giuridica di pertinenze dell’immobile alla stregua dell’art. 817 c.c. (...) [71].
Ne consegue la nullità della vendita separata degli affreschi rispetto a quella dell’immobile, senza che assuma alcuna rilevanza in contrario la circostanza della materiale separazione degli affreschi stessi dall’immobile (dovuta, nella specie, ad esigenze di restauro) al tempo dell’alienazione di questo” [72]. Secondo la sentenza della Cassazione, quindi, la dichiarazione di interesse culturale di un immobile si estende a tutte le sue parti, determinando l’inseparabilità di frazioni rispetto alla cosa principale (e la loro conseguente natura di beni immobili per relationem).
1.4. L’onere della prova
1.4.1. I Principi di Washington del 1998 (alleviare l’onere della prova)
Il documento firmato a Washington nel 1998, in chiusura della Conference on Holocaust-era assets non ha carattere cogente, si tratta di un impegno di soft law assunto dai 44 Stati firmatari per assicurare un livello medio di equità nel fronteggiare i retaggi del periodo delle persecuzioni razziali.
Tra i principi affermati interessa ai fini delle questioni probatorie in particolare il quarto:
“IV. In establishing that a work of art had been confiscated by the Nazis and not subsequently restituted, consideration should be given to unavoidable gaps or ambiguities in the provenance in light of the passage of time and the circumstances of the Holocaust era”.
È interessante considerare il parere della co-direttrice della Commission for Looted Art in Europe (Londra), Anne Webber:
“it was often left to the second or third generations to pursue claims because Holocaust survivors had been so traumatised they didn’t consider looking for their property after the war, or talking to their children about it. ... And because the Nazis completely stripped people’s houses, it is often very difficult to get documentation proving the family owned the art” [73].
Questa opinione illustra bene gli aspetti probatori delle vertenze: gli eredi hanno sovente elementi sparsi per far valere le proprie pretese, non sono sempre in grado di ripercorrere tutti i passaggi che hanno portato un elemento della propria eredità in un determinato museo o collezione privata.
Dal momento che gli Stati si sono impegnati a incoraggiare gli aventi diritto a far valere le proprie pretese [74], è ragionevole concludere che anche le corti possano flettere i propri standard probatori per accogliere indizi concordanti di appartenenza anche se taluni passaggi della ricostruzione storica possono rimanere incerti.
1.4.2. Indizi concordanti. Fatti notori
Tra gli episodi che hanno raggiunto le corti possiamo annoverare casi in cui gli attori in giudizio hanno solo portato elementi probatori concorrenti a generare una presunzione che un certo quadro sia stato sottratto dai nazisti. A titolo di esempio nella vicenda del collezionista francese René Gimpel, trascorsa attraverso diverse corti francesi. Inizialmente gli eredi dell’esperto d’arte, morto - dopo molte avventure che includono l’adesione alla Resistenza francese - a Neuengamme, una cittadina vicino ad Amburgo, nel 1945 si sono avvalsi di alcuni documenti, rinvenuti negli archivi della famiglia Gimpel. Vi si afferma che nel 1942 l’appartamento parigino del gallerista venne confiscato e spogliato dai Tedeschi: ottantadue casse di opere d’arte lì custodite vennero sequestrate.
La stessa sorte toccò ad alcune opere di sua proprietà al tempo custodite nel caveau di una banca di Nizza. Secondo le annotazioni nei registri compilati dallo stesso Gimpel, risultava l’acquisto, nel 1921, di 6 opere del pittore fauve André Derain, messe all’asta presso la Maison Drouot a Parigi. Secondo alcuni cultori d’arte, inoltre, molte opere esposte nella sua galleria o conservate nel proprio appartamento, non solo furono rubate, ma furono anche oggetto di vendite forzate: Gimpel si trovò infatti obbligato a cedere parte della sua collezione per l’indigenza in cui si trovava nei primi anni ’40 (un decreto dell’aprile del 1941 aveva impedito infatti agli ebrei di svolgere attività commerciali e di accedere al proprio conto bancario).
Nel 2010, tre dei sei quadri di Derain vengono individuati e reperiti tra i nominativi contenuti in un elenco di collezionisti d’arte dei primi del Novecento. La ricerca permise di localizzare due delle tre opere di Derain, esposte in un museo di Troyes (Paysage à Cassis e Le Chapelle-sous-Crécy), nel nord-est della Francia, mentre la terza (Pinède, Cassis) era in mostra in un museo di Marsiglia. Nel 2013, Claire Gimpel, nipote del collezionista, avanzò richiesta al ministro della Cultura francese per ottenere la restituzione dei tre quadri, ma l’esito fu negativo.
Il ministero, infatti, negò all’epoca la restituzione in quanto la famiglia Gimpel aveva già ottenuto un “risarcimento” per i beni perduti durante la guerra e, a parere dell’amministrazione francese, non esistevano prove esaurienti che dimostrassero il furto delle opere. L’intervento di Corinne Hershkovitch, avvocato, esperta nel recupero delle opere d’arte saccheggiate, conduce poi alla produzione di una foto, scattata negli anni ’30 del Novecento, che immortalava i tre quadri di Derain appesi nell’appartamento di Gimpel. Gli eredi produssero in giudizio anche gli archivi di famiglia contenenti la corrispondenza epistolare del nonno defunto e i suoi libri contabili in cui erano verificabili tutti gli scambi conclusi da Gimpel prima della cessazione della sua attività. Nonostante ciò, in primo grado, il Tribunale di Parigi nel 2019 ha ritenuto che le prove prodotte non fossero abbastanza consistenti per dimostrare con certezza che i quadri di Derain fossero stati sottratti, o oggetto di un contratto viziato da minaccia.
A parere dei giudici, solo un verbale di confisca o una copia dell’atto di vendita forzata avrebbero raggiunto il livello di prova richiesto. Ovviamente gli eredi, a distanza di decenni, non disponevano di questi documenti (probabilmente nemmeno lo stesso Gimpel sarebbe stato in possesso di tali ricevute, in quanto vittima del furto/confisca illegale). Un anno più tardi, gli eredi impugnano la sentenza del Tribunale: la Corte d’appello rovescia la prima decisione, dichiarando che i tre quadri di Derain avrebbero dovuto essere restituiti agli eredi legittimi di René Gimpel. La decisione è stata agevolata dal ritrovamento di una lettera risalente al 1941, in cui il gallerista chiedeva alla propria governante di vendere i quadri di Derain. Secondo la corte d’appello sussistono, a questo punto, indizi adeguati a dichiarare illegale l’acquisizione da parte dei tedeschi, dichiarando nulla la vendita. In particolare, i provvedimenti che avevano privato gli ebrei della capacità negoziale, invalidavano il consenso prestato al contratto. In questa occasione, la Corte d’appello francese affermò inoltre che alle famiglie che procedono per la restituzione non si dovrebbero richiedere prove troppo onerose da ottenere, in particolare considerando il contesto in cui i beni sono stati razziati. Dopo più di dieci anni dall’inizio della vertenza, gli eredi di René Gimpel hanno infine conseguito i tre quadri di Derain [75].
1.4.3. Polizze di deposito
Durante il periodo che precedette l’occupazione degli Stati adiacenti alla Germania, molte famiglie ebree cercarono di mettere al sicuro le proprie opere d’arte, talvolta in caveau di banche, talaltra in depositi custoditi. In uno dei casi discussi in giudizio si è trattato di un quadro di Klimt appartenuto ad un magnate austriaco dell’acciaio, Viktor Zuckerkandl.
Il quadro (Kirche in Cassone), donato alla sorella Amalie Redlich decorava una parete del suo appartamento di Vienna, ma venne depositato in un luogo di custodia da cui sparì - forse per le razzie sovietiche - mentre la proprietaria veniva deportata in Polonia dove sarebbe morta durante la guerra insieme alla figlia. Il nipote Georges Jorisch, trasferito in Canada, a Montreal, è riuscito a fare valere i propri diritti sul quadro tramite le polizze di deposito quando l’oggetto è riemerso in una esposizione nel 2002-2003. L’accordo stipulato con l’attuale proprietario, acquirente in buona fede, è consistito nel dividere equamente il profitto della vendita a Londra, presso Sotheby’s, per 45.4 milioni di dollari Usa [76]. Lo stesso erede è riuscito anche a vincere un’azione per il quadro, sempre di Klimt, Litzlberg am Attersee [77], custodito dalla Residenz Galerie a Salisburgo (Museum der Moderne Rupertinum): la restituzione ha portato alla vendita all’asta per un importo notevole, contro una compensazione da parte dell’erede che ha donato al museo una parte del profitto, in memoria di Amalie Redlich.
1.4.4. Etichette sul retro delle cornici.
Tra le molteplici difficoltà incontrate sul versante probatorio si pone anche la questione di identificare gli oggetti ritrovati con quelli depredati. Nel caso dei quadri sopraggiunge talvolta un cambiamento di titolo dell’opera che oscura il percorso compiuto dall’oggetto. È quanto si è verificato per un quadro di Klimt esposto al Musée d’Orsay a Parigi: “après des recherches menées récemment par une chercheuse indépendante autrichienne, par la galerie du Belvédère Vienne et, en France, par le musée d’Orsay et le ministère de la Culture, il est apparu que Rosiers sous les arbres correspondait au tableau intitulé Pommier qui avait appartenu à Nora Stiasny” [78].
È capitato anche che le etichette apposte sul retro delle cornici, in occasione di mostre e esposizioni, consentissero di dimostrare che si tratta appunto del dipinto sottratto ai perseguitati [79]. Talvolta le misure del quadro cambiano, a seconda delle cornici in cui sono inquadrati. Le fotografie deli anni Trenta compaiono spesso nelle controversie: come nel caso del Pissarro conteso tra la famiglia Cassirer e il museo di Madrid [80]. Non è nemmeno improbabile che l’opera venga sezionata; tale pratica è piuttosto frequente con i dipinti di grandi dimensioni (ad es. le pale d’altare) ed è posta in atto per facilitarne il trasporto e la commercializzazione. Ovviamente in questi casi l’operazione di recupero è decisamente più complessa, perché occorre individuare le singole porzioni dell’opera e dimostrare che esse sono riconducibili a un bene originalmente unitario.
Spesso la passione dell’amministrazione tedesca per i timbri è un elemento supplementare che consente di dimostrare il saccheggio dell’opera. Non è infrequente, infatti, che dietro i dipinti siano apposti i timbri della Gestapo che certificano la confisca dell’opera.
Ovviamente l’eventuale mancanza di etichette che erano originariamente presenti dietro il quadro non potrà essere considerata una prova che il bene non sia quello spogliato. Le etichette sono facilmente removibili, possono staccarsi con il tempo, deteriorarsi, essere sostituite, modificate o contraffatte. Esse, quindi, potranno dimostrare la corrispondenza del bene a quello trafugato, ma difficilmente potranno dimostrare il contrario.
1.5. Gli ostacoli intermedi
1.5.1. Le vendite forzate
Gli oggetti sottratti sono stati, in vari casi, formalmente coperti dall’apparenza di uno scambio, talvolta mediato da curatori di musei o collaboratori di case d’aste, che hanno procurato agli occupanti tedeschi le opere più ambite.
La pressione esercitata sui proprietari ha vestito in qualche vicenda la formula dello scambio contro un permesso di espatrio.
Sovente le somme promesse, già inadeguate rispetto al valore degli oggetti, non sono state neppure pagate, oppure sono state versante su conti bloccati cui i venditori non avevano accesso. Così Lilly Cassirer, in procinto di fuggire all’estero, inizialmente in Inghilterra, nel 1939 subì l’ispezione di un valutatore incaricato dal Terzo Reich di individuare oggetti mobili degni di essere esportati per il celebre Museo che avrebbe dovuto essere costruito con le spoglie delle confische. L’offerta per il Pissarro fu di 900 marchi “an ‘insulting’ price as an Allied document noted at the end of the war. Lilly didn’t even receive the money: it was paid into an account that was already blocked” [81]. L’assurdità dell’episodio sta nel fatto che il mercante scambiò il Pissarro, pittore ebreo e quindi di scarso pregio per i Tedeschi, per tre opere di artisti tedeschi del XIX secolo.
L’ultimo passaggio noto fu un’asta nel 1941 a Düsseldorf (acquirente: Ari Walter Kampf). Infine la riemersione avvenne a Los Angeles nel 1951. Il Barone Thyssen Bornemitsa acquistò il quadro a Los Angeles nel 1976 per la propria collezione e un amico dei Cassirer nel dicembre 1999 “sent a photograph of an image of the Pissarro in a catalogue of Baron Thyssen’s collection in Lugano, Switzerland”. L’ultimo passaggio, come noto, è consistito nella cessione dalla collezione al Museo di Villahermosa a Madrid, a seguito della morte del collezionista (la cui ultima moglie era di nazionalità spagnola).
Allo stesso modo, in cambio del “Tesoro guelfo”, la promessa di una somma per l’acquisto non fu mai attuata [82]. Mentre nella vicenda dei dipinti lignei di Cranach [83], la pressione sull’unica persona rimasta in Olanda, la madre di Goudstikker, portò alla cessione forzata della quota della madre nella società che gestiva la galleria d’arte. Ne seguì la vendita non autorizzata di molte opere, con il solo beneplacito dei detentori di una quota estorta.
Infine, nella lite per il quadro di Klimt Les rosiers sous les arbres: “Nora Stiasny avait, en août 1938, quelques mois après l’Anschluss et le début des persécutions antisémites, dû vendre sous la contrainte son tableau de Klimt, Pommier, pour un montant très inférieur au prix du marché” [84].
1.5.2. Le procure imposte con la forza/minaccia
Una forma più sottile di appropriazione è consistita nel pretendere dai proprietari una procura che ha consentito ai rappresentanti di vendere nel modo più scorretto, ad esempio, i disegni di Egon Schiele posseduti da Fritz Grunbaum, un artista di cabaret [85], deportato già nel 1938 e “forced to sign a power of attorney and surrender his collection. The artworks were subsequently parceled off and sold to benefit the Nazi Party. Grünbaum died at Dachau in 1941”.
Nella stessa categoria ricadono le disposizioni ultra vires del falsus procurator. Nella triste rassegna di debole umanità che ci viene sottoposta ripercorrendo le liti, figurano “amici” che godevano della fiducia dei perseguitati e per questo motivo ricevettero la custodia di beni preziosi di chi doveva fuggire. Un caso esemplare riguarda la grigia figura di Charlotte Weidler che aliena via via i dipinti della collezione Westheim fino alla lite conclusiva di Margit Frenk nel caso Frenk v. Solomon (2019) [86]. La storia di questa vertenza è particolarmente illustrativa perché, da un lato, la fiduciaria di Paul Westheim si rivela così sleale da procurare una dichiarazione giurata (affidavit) della propria sorella nel senso che tutti i beni fossero stati distrutti durante i bombardamenti di Berlino; in secondo luogo, via via che disegni e dipinti emergevano sul mercato dell’arte, la “custode” allegava di avere ricevuto in donazione gli oggetti o accettava, costretta, di condividere parte del ricavato delle vendite con la vedova del proprietario originario.
Proprio in forza di una transazione raggiunta durante una precedente lite, gli eredi della Weidler, i Solomon, poterono rifiutare la restituzione di alcune opere, allegando che l’accordo extragiudiziale, avvenuto anni prima, avesse coperto ogni futura pretesa [87].
1.5.3. Le compensazioni post-belliche inadeguate
Nel periodo successivo alla guerra sono state assunte iniziative per indennizzare coloro che erano stati ingiustamente espropriati. In molti casi, tuttavia, gli indennizzi sono stati inferiori al valore effettivo delle opere. Ad esempio, come ricordato, la famiglia Cassirer ha tentato invano di tornare in possesso di numerose opere, per un valore di 30 milioni di dollari sottratte loro dai nazisti “tra le quali ‘Rue Saint-Honoré nel pomeriggio, sotto la pioggia’ di Camille Pissarro ... Invece del dipinto, dalla Germania, avevano ricevuto 13mila dollari in riparazione che hanno reputato un’estrema ingiustizia” [88]. Nel caso dei pannelli dipinti da Cranach, appartenuti a Goudstikker - von Saher v. Norton Simon Museum of Art At Pasadena 754 F.3d 712 (9th Cir. 2014) - l’erede procedette all’accettazione dell’indennizzo offerto dall’Olanda under protest (con riserva di agire comunque per la proprietà).
2. Questioni di diritto amministrativo: beni “demaniali” da riqualificare
Gli aspetti probatori, già di per sé complessi, finiscono per scontrarsi sovente anche con questioni di diritto amministrativo dal momento che, in molti casi, i beni sottratti sono finiti in collezioni statali: in Austria, Francia, Olanda, Stati Uniti, persino in America Latina dove in particolare l’Argentina e il Brasile, che prima di entrare nel conflitto, non avevano introdotto alcun tipo di controllo idoneo ad ostacolare l’ingresso di oggetti illegalmente sottratti. Spesso le opere partivano dalla Germania, venivano trasportate fino in Spagna, o Marsiglia o Lisbona per raggiungere prima il Sud America, in special modo la Colombia, che era raggiungibile con estrema facilità, poi gli Stati Uniti. Indagini post belliche riscontrarono che la maggior parte delle opere transitarono in America Latina (soprattutto in Colombia, Panama, Argentina, Brasile, Cuba e Venezuela), per poi arrivare negli Stati Uniti. Questo passaggio intermedio permetteva di “bonificare” le opere ottenute dai nazisti e dai loro mercanti d’arte di fiducia in maniera poco trasparente.
Non è ancora certo il numero di elementi transitati, scambiati e rimasti in questi Stati, ma è certo che raramente le opere rimanevano in Sudamerica: pochi centri vantavano un’effettiva tradizione di fruizione di beni artistici. I principali luoghi erano Buenos Aires, dove, risiedendo un’élite molto ricca e fortemente legata all’Europa, era più comune avere disponibilità di opere di grande qualità, e Rio de Janeiro, ma nel corso degli anni, soprattutto nel dopoguerra, in altre città sudamericane si sviluppò un ricco mercato dell’arte arricchendo musei e gallerie [89]. Tra i protagonisti del traffico di reperti d’arte sottratti dai nazisti si colloca Karl Buchholz, esperto di libri, autorizzato dai nazisti a eseguire commerci di oggetti di origine illecita, scelto per le forti connessioni in ambito internazionale, tra cui quelle con l’America Latina.
Le informazioni catalogate negli archivi nazionali degli Stati Uniti sono opache, a causa del passato antinazista di Buchholz, che aveva esposto dipinti condannati dai nazisti e aveva origini ebraiche. Negli anni del nazismo iniziò a vendere numerose opere d’arte fuori dalla Germania, a prezzi molto inferiori rispetto a quelli di mercato, proseguendo poi il lavoro nel Portogallo rimasto neutrale [90], dove fondò la New German Bookshop, e a Madrid, dove la sua attività non fu mai registrata. Negli anni ‘40 svolse al fianco di Gurlitt, uno degli altri mercanti autorizzati dai nazisti a eseguire mercati poco trasparenti [91], viaggi in America Latina, quando il Reich aveva dato l’ordine di recuperare il maggior numero di opere rubate. È verosimile che senza i contatti di Buchholz le trattative intraprese da Gurlitt sarebbero state impossibili.
È stata inoltre trovata corrispondenza intercorsa tra Buchholz, Goebbels e von Ribbentrop dalla quale si evincono informazioni sulla possibilità di vendere arte rubata nei paesi neutrali. Buchholz terminò la sua vita in Colombia e mai si sospettò di un suo coinvolgimento in tali traffici [92] fino alla scoperta del tesoro di Gurlitt in Germania. Un personaggio analogo è stato Frank Perls un ebreo che esportò negli Stati Uniti molte opere tra cui il Pissarro rivendicato oggi contro il museo di Madrid: “During the war, Perls had worked as a translator for the US Army. He sold the work to a noted art lover called Sidney Brody, who was also Jewish and returned it a few months later because, according to Cassirer, he found out that it was a looted piece. A year later, Perls sold the painting again to the heir to a department store fortune in Saint Louis, where it remained for 20 years” [93].
Per fronteggiare le richieste di restituzioni alcuni governi hanno innovato la precedente politica. A titolo di esempio possiamo considerare la Francia. Nel 2019, per far fronte ai difetti della politica attuata per la restituzione dei beni confiscati, caratterizzata da lentezza, scarsa trasparenza e risposte riluttanti, è stata promossa, dal ministro della Cultura, l’istituzione della Mission de recherche et de restitution (M2RS), la quale si occupa di definire, coordinare e attuare la politica di ricerca e restituzione e sollecitare sensibilità e divulgazione relativamente ai beni culturali trafugati tra il 1933 e il 1945. Oltre a studiare, in collaborazione con le istituzioni culturali interessate, i singoli casi di spoliazione di beni culturali, su iniziativa di famiglie, istituzioni culturali o di propria iniziativa, al fine di conseguire una misura di riparazione (restituzione o indennizzo).
La M2RS è competente per qualsiasi caso di spoliazione di bene culturale intervenuta in Francia durante l’occupazione tedesca e per qualsiasi spoliazione di beni culturali intervenuta in Europa tra il 1933 e il 1945, quando il bene culturale depredato si trova oggi in Francia, in particolare nelle collezioni pubbliche. Inoltre, i musei francesi sono stati invitati dal ministro della Cultura a redigere un inventario delle opere (accessibile anche online), appartenenti alle loro collezioni, la cui origine è oscura per rendere più agevole l’individuazione dei beni da parte dei famigliari delle vittime e per facilitare, di conseguenza, la loro rivendicazione.
Il procedimento che deve essere attivato dai proprietari primitivi, perché il bene sottratto agli antenati durante l’occupazione tedesca venga restituito, cambia a seconda che si tratti di un bene caratterizzato dallo status Mnr (Musées Nationaux Récupération) o di un bene entrato a far parte di una collezione museale pubblica. I beni Mnr, pur essendo collocati in musei nazionali, non sono di proprietà di questi ultimi ma sono tenuti in custodia dalle istituzioni museali [94]. Altri beni sono invece entrati a far parte delle collezioni museali legittimamente, spesso in seguito a lasciti, donazioni o acquisti presso case d’asta: nonostante ciò, è frequente che emerga che gli stessi facciano parte di quella massa di beni ancora non identificati, i quali sono stati rubati o comunque acquisiti illecitamente durante il conflitto e poi mai restituiti. Negli ultimi anni, in seguito alle numerose vertenze sollevate dagli eredi delle vittime dell’Olocausto per la restituzione dei beni oggetto della campagna di espropriazione dell’Err, i musei si sono attivati per indagare sulla provenienza del bene, assicurandosi che l’origine non sia problematica [95]. Quando si tratta di un bene custodito in un museo nazionale (beni Mnr), ma che non fa parte della collezione pubblica, la restituzione assume la forma di una decisione amministrativa. Infatti, su raccomandazione del Civs o del ministero della Cultura, spetta al primo ministro esprimersi positivamente o negativamente riguardo alla restituzione del bene [96].
Più complessa è invece la seconda ipotesi, quando il bene fa parte di collezioni museali nazionali o di qualsiasi altra collezione pubblica. In questi casi, si rende necessaria la promulgazione di una legge ad hoc che autorizzi la restituzione. Beni acquistati legittimamente dai musei (tramite una compravendita o in seguito a un lascito) sono protetti dal principio di inalienabilità sancito dal codice dei beni culturali francese, il che impedisce che l’opera venga espunta dalla collezione. Per derogare al principio di inalienabilità del bene è necessario che si esprima il Parlamento, adottando una legge che permetta che il bene specifico esca dal demanio pubblico.
Ne è un esempio la legge adottata dal Parlamento nel febbraio 2022 per consentire il declassamento di 15 opere, tra cui quadri, disegni e sculture, affinché potessero essere restituite ai proprietari [97]. Questo è il procedimento a cui si è ricorso fino al luglio 2023, quando l’Assemblée Nationale ha approvato una riforma della disciplina contenuta nel Codice dei beni culturali francese, permettendo alle istituzioni pubbliche di restituire i beni confiscati dai nazisti e facenti parte delle collezioni pubbliche, senza bisogno che venga approvata di volta in volta una specifica legge per le opere sottratte o vendute sotto costrizione tra il 1933 e il 1945 [98]. Questa riforma apportata al codice dei beni culturali ha reso più agevole e celere il processo di restituzione, dando risposte più efficaci e trasparenti agli eredi delle vittime delle persecuzioni razziali, così come auspicato dai Principi di Washington.
Con riguardo ai beni conservati nei musei si pone, peraltro, un’altra delicata questione: spesso utilizzata per ostacolare le pretese restitutorie. Se il bene, soprattutto un bene qualificabile come culturale, è conservato in un luogo che consente il massimo grado di fruizione da parte della collettività, è davvero auspicabile la sua restituzione al proprietario (o ai suoi eredi)? Qui il problema è quello di conciliare il principio di fruizione del patrimonio culturale con l’esigenza morale di tutelare coloro che sono stati saccheggiati dei loro beni, ancorché in un momento storico totalmente diverso da quello presente.
La questione si pone in modo particolarmente delicato qualora gli eredi non intendano più assicurare la fruizione pubblica o abbiano intenzione di alienare il bene a terzi, che ben potrebbero decidere di conservarlo in un caveau di banca, anziché in un museo. Il problema che si pone, in questi casi, è quello del bilanciamento tra l’interesse della collettività a fruire del bene e il diritto di proprietà del singolo. La proprietà, nel caso dei beni culturali, è chiamata in modo esponenziale ad assolvere la sua funzione sociale, nella quale può ben rientrare la fruizione da parte del pubblico.
In tutte queste ipotesi, forse, più che la restituzione del bene sarebbe auspicabile una soluzione diversa: cioè la corresponsione di un indennizzo al precedente proprietario (o ai suoi eredi) e la conservazione dell’opera all’interno del museo, magari riconoscendo che essa è stata oggetto di spoliazione durante il periodo nazionalsocialista. Si tratta di una soluzione, che, come meglio si vedrà, è stata già sperimentata e che potrebbe essere la strada maestra per trattare il tema delle restituzioni, conciliando sia l’interesse del pubblico alla conservazione che quello del privato al riconoscimento del torto subito.
3. Esiti delle controversie. La ricerca di composizione delle pretese
3.1. Principi di Washington
La difficile ricostruzione delle vicende storiche nel corso di lunghi anni induce a contemplare accordi transattivi tra le parti che pretendono diritti su beni confiscati o alienati sotto minaccia nel periodo tra il 1933 e il 1945. Gli stessi Principi di Washington enunciano tra l’altro:
VIII. If the pre-War owners of art that is found to have been confiscated by the Nazis and not subsequently restituted, or their heirs, can be identified, steps should be taken expeditiously to achieve a just and fair solution (this may vary according to the facts and circumstances surrounding a specific case).
XI. Nations are encouraged to develop national processes to implement these principles, particularly as they relate to alternative dispute resolution mechanisms for resolving ownership issues.
In effetti è la composizione delle liti che tende a chiudere le vertenze dal momento che l’esatta soddisfazione delle rispettive aspettative è difficile quando più passaggi sono intervenuti, magari attraverso vendite pubbliche che possono avere generato nell’acquirente l’affidamento in un acquisto lecito.
Nonostante la natura di soft law, i Principi di Washington hanno una notevole diffusione nel settore dell’arte e mostrano una certa pregnanza sulla condotta di mercanti e collezionisti. Da ultimo, possiamo segnalare un caso particolarmente paradigmatico, quello del dipinto Bildnis Fraeulein Lieser, realizzato da Klimt nel 1917, su commissione della ricca famiglia di origine ebraica Lieser, che verrà venduto in asta, da Im Kinsky, il prossimo 24 aprile, grazie a un accordo tra i discendenti della famiglia Lieser e gli attuali proprietari del quadro.
La storia di questo dipinto è interessante perché le sue ultime notizie risalgono a un’esposizione viennese del 1925, poi se ne sono perse le tracce (quindi non si sa se il quadro sia stato effettivamente oggetto di spoliazione durante il nazismo). Pure ignota è la fanciulla ritratta, secondo gli esperti potrebbe trattarsi di Helene Lieser (1898-1962) o di Annie Lieser (1901-72).
Le uniche notizie certe sono che il ritratto è riemerso quando l’attuale proprietario ha ereditato il bene e ha chiesto una consulenza legale su di esso. Nonostante le ricerche approfondite, non si è riusciti a scoprire come il de cuius, dal quale il dipinto deriva per eredità, sia venuto in possesso dell’opera negli anni Sessanta.
Ci si potrebbe chiedere, in un simile contesto, per quale ragione entrino in gioco i Principi di Washington: non vi è alcuna prova che l’opera sia stata oggetto di saccheggio ad opera dei nazisti e quindi, a stretto rigore, essa non rientra nel campo di applicazione di tali principi.
Tuttavia, come la casa d’aste fa sapere sul suo sito [99], il quadro verrà venduto all’asta dopo che l’attuale proprietario si è accordato con gli eredi di Adolf e Henriette Lieser, secondo quanto previsto dai Principi di Washington del 1998.
Le ragioni per cui tale accordo è stato raggiunto sono legate al fatto che, dal momento in cui non si è riusciti ad accertare la lecita provenienza del bene, si è preferito assicurare i potenziali acquirenti sul fatto che, in futuro, nessuna pretesa restitutoria potrà essere azionata nei loro confronti dai discendenti della famiglia Lieser. I Principi di Washington, in questo caso, sono stati utilizzati in via preventiva, come pratica di due diligence e per dare piena legittimazione alla vendita (destinata così a spuntare un prezzo più sostanzioso).
3.2. Condivisione del profitto della vendita
Una soluzione che ha trovato applicazione consiste nel persuadere le parti in lite a mettere in vendita il reperto oggetto di pretesa da parte di più litiganti per poi spartire la cifra liquidata.
Si è raggiunta questa soluzione ad esempio per alcuni dipinti della collezione Westheim: quando un dipinto An die Schönheit di Otto Dix venne affidato da Charlotte Weidler (“fiduciaria” del collezionista) a Ewald Rathke nel 1972 per un restauro, questi avvisa Marianne Westheim-Frenk (erede del collezionista), giungendo ad un accordo trilaterale in cui si stabiliva che in caso di futura vendita la vedova Westheim e Charlotte Weidler avrebbero ciascuna ottenuto la metà del prezzo. Quando il Von der Heydt-Museum di Wuppertal [100] acquistò il quadro, nel 1977, effettivamente $30.000 furono corrisposti a ognuna delle due parti.
3.3. Restituzione e riacquisto da parte del museo
Le legittime pretese dei musei di non vedere le proprie collezioni completamente spogliate hanno indotto talvolta a sperimentare il metodo della restituzione seguita da riacquisto dello stesso centro espositivo.
Leggiamo così che “il 18 ottobre del 2021 la Alte Nationalgalerie di Berlino ha restituito un dipinto del pittore impressionista Camille Pissarro, Une place à la Roche-Guyon [101]. Gli eredi del proprietario hanno firmato un contratto in cui si dichiaravano a favore della riacquisizione della tela da parte dello stesso museo, che contestualmente ha pagato la somma concordata, ma non dichiarata, agli eredi dell’avvocato e collezionista ebreo Armand Dorville” [102].
In modo simile Margit Frenk tra il 2012 e il 2013, attraverso accordi amichevoli/extra giudiziali, riesce ad ottenere la restituzione di tre opere. Paul Westheim era stato costretto a vendere due disegni di Wilhelm Lehmbruck (Susanna e Mutter und Kind, Vision II) alla Galleria Nazionale di Berlino durante il periodo in cui viveva a Parigi. Le difficoltà economiche, che l’avevano indotto a cedere le opere, erano unicamente dovute alla persecuzione e l’emigrazione dalla Germania, perciò, è stato ritenuto opportuno restituire i due quadri alla sua erede, in ottemperanza ai Principi di Washington (1998) e alla direttiva espressa dalla Fondazione Prussiana per il Patrimonio Culturale (2001). Margit Frenk decise subito di vendere le opere alla Fondazione ad un prezzo di favore, ciò che permise la loro permanenza all’interno del Staatliche Museen zu Berlin, nel Kupferstichkabinett.
Inoltre il Comitato Limbach, fondato nel 2003 in Germania e che si occupa della restituzione delle opere d’arte saccheggiate dai nazisti, guidò la trattativa in merito al dipinto di Ringelnatz (Dachgarten der Irrsinnigen/Roof Garden for the Insane). Si giunse così a un accordo per cui il Museo Clemens Sels di Neuss, che aveva acquistato il dipinto negli anni ’70 (da un gallerista di Düsseldorf), corrispose a Margit Frenk €7.000 e così fu in grado di conservare l’opera nelle proprie sale espositive.
Più recentemente si segnala che:
“The North Carolina Museum of Art held ‘Madonna and Child in a Landscape’ by Lucas Cranach the Elder. Presented with evidence of a 1940 forced sale from a Viennese collector, the museum returned the painting to his heirs for whom Monica Dugot, the HCPO’s Deputy Director, negotiated. The impressed heirs sold it back to the Museum below market price as a ‘partial donation’” [103].
Su una traccia analoga si è mossa nel 2020 la direttrice del Museo di Arte Contemporanea del Castello di Rivoli (Torino) per un quadro ricevuto in donazione dalla fondazione Cerruti e scoperto di provenienza illecita, a seguito di un’indagine che è risalita oltre l’ultimo acquisto e il precedente passaggio ad un’asta di Christie’s nel 1985. Si tratta di un dipinto del Rinascimento italiano, di Jacopo del Sellaio (Madonna con bambino) saccheggiato dai nazisti dalla collezione di una famiglia ebraica viennese (F. Unger). La famiglia di Grete Heinz allertata dall’Hcpo di N.Y. (Holocaust Claims Processing Office) ha raggiunto un accordo che consente al museo di conservare l’opera, con una annotazione accanto al quadro che ne ricostruisce la storia. Agli eredi è stato riconosciuto un indennizzo e anche fornita una riproduzione di grafica molto avanzata che permette di inquadrare in casa propria il ricordo di famiglia [104].
Non tutti gli episodi emergono nella stampa, in taluni casi gli eredi preferiscono mantenere l’anonimato, specialmente se emigrati in Israele dove le questioni del passato vengono talvolta spinte in un cono d’ombra per la loro idoneità a perpetuare il dolore e per una certa volontà di non eccedere nel ruolo di vittime [105]. Tra le linee dei documenti emergono così vicende di oggetti custoditi presso il British Museum che non potevano essere resi a causa della legislazione restrittiva sulle cessioni di quanto conservato nel museo: in alcune occasioni un organismo denominato Sap (Spoliation Advisory Panel) ha trovato espedienti perché gli aventi diritti ricevessero somme ex gratia per tacitarne le pretese, mentre il Museo era in grado di conservare gli oggetti [106].
3.4. Restituzione, vendita e vincolo di esposizione in un Museo
In più vicende, la restituzione è sfociata nella vendita all’asta del bene recuperato. L’altissimo valore assunto da molte opere dell’inizio del XX secolo impedisce ai privati di conservarle, dati anche i costi di custodia.
Nel caso della Woman in Gold (Portrait of Adele Bloch-Bauer), resa a Maria Altmann, l’erede procedette alla vendita all’asta con il vincolo per l’acquirente di mantenere il dipinto esposto al pubblico in modo che la volontà della persona ritratta fosse rispettata: infatti Adele Bloch Bauer aveva lasciato nel proprio testamento la richiesta che il marito, alla propria morte, lasciasse il dipinto alla Galleria del Belvedere di Vienna (dove il ritratto rimase esposto fino alla restituzione del 2006. L’acquirente, Ronald S. Lauder (un discendente, a sua volta di emigrati ebrei), direttore della Neue Galerie di New York [107], ha rispettato la volontà della venditrice.
3.5. Riconoscimento formale della proprietà e mantenimento dell’opera “in deposito permanente”.
Gli eredi di Max Stern, un gallerista tedesco di Düsseldorf costretto a vendere la propria collezione tramite la casa d’aste Lempertz di Colonia nel 1937, hanno ricevuto in lascito non solo le opere raccolte dall’emigrato in Canada, a Montreal, tramite la Dominion Gallery, ma anche i diritti ad eventuali restituzioni di dipinti perduti [108]. La McGill University, la Concordia University, e la Hebrew University di Gerusalemme, in quanto destinatarie dei lasciti, sono state contattate nel 2008 dall’Holocaust Claims Processing Office della New York State Banking Commission per il reperimento di un ritratto del XVI secolo “Portrait of Jan van Eversdyck”, collocato presso la Yannick and Ben Jakober Foundation a Maiorca [109]. Il dipinto era passato nuovamente attraverso la casa d’aste tedesca, senza indicazione della provenienza, nel 1996 quando fu acquistato da un compratore che lo donò alla Jakober Foundation, istituzione statale con un regime di inalienabilità dei propri beni. Attraverso una transazione, gli eredi di Max Stern e la fondazione statale hanno raggiunto l’accordo per cui la titolarità del bene è riconosciuta agli eredi, ma il bene viene lasciato in “deposito permanente” alla fondazione spagnola per essere esposto al pubblico [110].
4. Le case d’aste: brokers di accordi
Per vocazione del proprio mestiere le case d’aste sono sovente sfiorate da vicende di beni rubati o scomparsi senza il consenso dei proprietari. In qualche occasione Christie’s e Sotheby’s sono state costrette a ritirare dalla vendita oggetti contestati.
Talvolta è capitato che proprio i battitori d’asta abbiano dovuto rendere a famiglie spossessate certi oggetti. Così nel caso del pannello The Penitent Magdalene di Adriaen van der Werff, sottratto a Parigi nel 1942 dai tedeschi che lo avevano prelevato da un deposito, e venduto a Londra tramite Christie’s nel 2005. Quando il compratore ha riaffidato l’opera nel 2017 per rivenderla è emerso che essa era inclusa nel Répertoire des biens spoliés e gli eredi del banchiere Lionel Hauser hanno avanzato domanda di restituzione. Secondo i rivendicanti, la casa d’aste propose a quel punto di mettere in vendita il dipinto e di dividere i proventi tra le due parti coinvolte, trattenendo tuttavia a proprio vantaggio la parcella della mediazione, benché i mediatori avessero già in precedenza, nel 2005, omesso di fare le verifiche necessarie sulla provenienza. A questo punto la lite ha varcato la soglia delle corti francesi dove al tribunal judiciaire de Paris il 27 gennaio 2023 i giudici hanno deciso di applicare il diritto francese (la sottrazione era avvenuta in Francia a danno di cittadini francesi) e di ritenere invalidi tutti i passaggi successivi di proprietà di oggetti sottratti durante il periodo dell’occupazione tedesca.
L’esito finale è stato di ordinare la restituzione “with a €500 per day penalty for any delays. Christie’s is also directed to disclose the identity of its client and the provenance of the panel prior to 2005” [111].
Gli accordi di composizione delle liti sono andati a buon fine in altri episodi. Lucien Simmons, vicedirettore di Sotheby’s, dichiara nel proprio profilo di aver lavorato nell’ambito delle ricostruzioni di provenienza e nelle restituzioni dal 1997 e di essere stato coinvolto nella risoluzione di concorrenti reclami “to art works worth in excess of $850 million” [112].
Tra gli episodi ricordati uno riguarda il disegno di Egon Schiele City in Twilight, sottratto a Elsa Koditschek nel 1941. Secondo le fonti della stessa casa d’aste, le ricerche hanno consentito nel 2023 di mettere in contatto la famiglia della proprietaria primitiva con gli attuali possessori in modo che si accordassero per vendere il dipinto nella Impressionist and Modern Art Evening Sale [113].
La posizione delle case d’asta è, del resto, particolarmente delicata. I banditori d’asta infatti svolgono una funzione di intermediazione tra chi è in possesso di un bene e lo vuole vendere e i potenziali acquirenti. Ne sono dimostrazione le condizioni generali di contratto generalmente utilizzate. A titolo meramente esemplificativo vediamo le condizioni generali praticate da Christie’s (ma il discorso non cambierebbe se si prendessero in esame altri operatori):
“the seller gives a warranty that the seller: (a) is the owner of the lot or a joint owner of the lot acting with the permission of the other co-owners or, if the seller is not the owner of the lot, has the permission of the owner to sell the lot, or the right to do so in law; and (b) has the right to transfer ownership of the lot to the buyer without any restrictions or claims by anyone else” [114].
Questa clausola chiarisce all’acquirente che ogni eventuale pretesa deve essere indirizzata non alla casa d’aste, ma a colui (the seller) per conto del quale essa ha effettuato la vendita. Allo stesso tempo, la clausola evidenzia che la casa d’aste non offre alcun tipo di garanzia in caso di evizione. Nel caso in cui eventuali soggetti terzi avanzino pretese restitutorie nei confronti dei beni oggetto di aggiudicazione, l’acquirente dovrà chiamare in garanzia il venditore, il quale si dichiara legittimato ad alienare e titolare del diritto di proprietà (o quantomeno legittimato a trasferire la proprietà).
Ci si può domandare se una tale soluzione sia desiderabile e se, davvero, la casa d’aste possa esimersi completamente da ogni responsabilità per avere posto in vendita un bene di provenienza illecita, facendo ricadere sul solo venditore ogni tipo di responsabilità.
La risposta alla domanda non può che essere articolata: innanzitutto la casa d’aste, proprio per la sua qualità di mediatore tra le parti, non può esimersi dal dovere di verificare le informazioni che il venditore offre e, quando le circostanze del caso lo richiedono, deve svolgere, anche indipendentemente, indagini più accurate sulla provenienza del bene, magari consultando i numerosi registri che contengono la descrizione delle opere rubate (v. infra par. 5) [115]. Nel caso in cui sorgano contestazioni da parte di terzi prima dell’asta, ovviamente, il bene deve essere tolto dal catalogo d’asta sino al momento in cui non si chiarisca la fondatezza delle pretese restitutorie avanzate dai terzi. Si tratta di normali pratiche di due diligence che dovrebbero essere seguite, oltre che dalle case d’asta, anche dai normali mercanti d’arte.
Pensare a forme di responsabilità più severe per chi fa commercio d’arte non appare però auspicabile e ciò per due ordini di ragioni. La prima è che il mercato dell’arte è, per sua natura, un mercato nel quale non sempre è possibile ricostruire con certezza e a distanza di tempo i passaggi di proprietà delle opere, richiedere quindi ai venditori che si facciano carico di indagini particolarmente dispendiose o laboriose o ritenerli sempre e comunque corresponsabili dell’alienazione illecita non sembra pertanto una soluzione praticabile. La seconda è che un aggravio della responsabilità di chi vende, soprattutto se si tratta di case d’asta, rischia di tradursi, paradossalmente, nel pericolo di non riuscire a recuperare i beni che sono stati trafugati.
Molto spesso, infatti, le richieste di restituzione vengono proposte quando il bene è presentato ad un’asta per la vendita, sino a quel momento, per il soggetto che è stato spogliato (o, oggi più frequentemente, per i suoi eredi) è estremamente difficile sapere dove si trovi il bene e chi ne sia il possessore. Imporre responsabilità o corresponsabilità in capo alle case d’asta comporta quindi il rischio che esse rifiutino di prendere in consegna opere per le quali non è possibile ricostruire in modo rigoroso la provenienza.
L’effetto sarebbe quello di spingere tali beni verso il mercato illecito. Grazie alle aste (e alla notevole eco che esse hanno, soprattutto nel caso di beni di un certo valore e di una certa fama), invece, i soggetti che possono vantare un diritto sul bene hanno qualche possibilità di venire a conoscenza della collocazione e possono quindi far valere i loro diritti. Non sembra che la soluzione preferibile sia quella della demonizzazione del mercato dell’arte; si deve infatti tenere conto che esso è il migliore alleato di chi spera di poter rientrare nella disponibilità di un bene rubato.
Imporre ai professionisti del settore obblighi e responsabilità particolarmente gravose rischia di tradursi in un danno anche ai fini delle restituzioni. Come si è più volte sperimentato, quando il mercato viene regolato in modo troppo rigoroso, si spingono gli operatori economici nell’ombra e le transazioni continuano a essere effettuate, semplicemente esse avvengono “lontano da occhi indiscreti”, pregiudicando così la possibilità di recuperare i beni da chi è stato spogliato.
La strada preferibile sembra quella di incrementare le pratiche di due diligence, da un lato, e dall’altro, aumentare la consapevolezza di coloro che operano sul mercato dei rischi connessi all’acquisto di opere che non abbiano un’adeguata documentazione di provenienza.
Segnali positivi in questo senso appaiono evidenti: oggi, rispetto al passato, collezionisti e musei sono molto più attenti alla provenienza dei beni che acquistano e, soprattutto i musei, sono molto più propensi a restituire le opere che si dimostrano di provenienza illecita, in particolare se legate alle razzie compiute durante il periodo nazionalsocialista. Anche su questo aspetto i Principi di Washington hanno giocato un ruolo determinante.
5. L’indotto professionale della circolazione post-bellica
Intorno al nucleo centrale del recupero di arte dispersa per le persecuzioni si è aggregata una rete di attività professionali collegate. Il mercato dell’arte è molto fruttuoso, anche se le valutazioni oscillano in modo imprevedibile [116].
Percorrendo le cronache dei processi iniziati (o definiti) per riottenere i beni razziati, si incontrano nomi ricorrenti di avvocati specializzati nell’assistere le parti nei processi. Non solo gli eredi dei primi proprietari hanno bisogno di assistenza giuridica, ma anche le collezioni o i privati possessori dei beni rivendicati devono ricorrere a consulenze giuridiche. In alcune vertenze i convenuti hanno eccepito con successo che l’attore in giudizio mancasse di legittimazione attiva perché ad esempio l’antenato non aveva disposto nel proprio testamento delle proprie aspettative di recupero [117] o perché esisteva un ragionevole dubbio che l’oggetto fosse uscito dal patrimonio del dante causa prima dell’inizio delle persecuzioni, in modo quindi legittimo, con un consenso espresso in modo libero [118].
Di recente, come si è più sopra già segnalato (v. supra § 3.1), è riemerso a Vienna un dipinto “perduto” di Klimt (Bildnis Fraeulein Lieser, 1917), che non era apparso in pubblico dal 1925 e che non porta alcun segno espositivo, nessuna annotazione sul verso della cornice, i quali consentano di ricostruire i passaggi successivi a quella data [119].
Si è sviluppata una specializzazione giuridica nel settore del commercio artistico: se ne trovano gli estremi non solo nelle cronache giudiziarie [120], ma anche in forme più o meno indirette di pubblicità, come ad esempio nel sito in cui sono repertoriati gli esiti di molte vertenze giudiziarie a cura di un team legale di New York [121]. Interviste a consulenti giuridici appaiono regolarmente su riviste specializzate [122] e, tra le varie istituzioni superiori, l’università di Ginevra conta un attivo Art-Law Centre [123].
In Italia alcune università hanno avviato programmi di formazione superiore nel settore [124]. Una varietà di istituzioni - come ricordato (cfr. supra § 4) - hanno a loro volta assunto il ruolo di ricercatori e investigatori, talvolta in collegamento con lo Stato di appartenenza come ad esempio in Germania (Proveana, research database, German Lost Art Foundation); a Londra (la Commission for Looted Art in Europe); negli USA (International Foundation for Art Research “IFAR” [125] e American Society of International Law’s Interest Group on Cultural Heritage & the Arts), The Art Loss Register [126]. Nel mondo ebraico: la Conference on Jewish Material Claims Against Germany (Claims Conference) and the World Jewish Restitution Organization (WJRO) [127] connessi alla Commission for Art Recovery [128], presieduta dal collezionista statunitense R.S. Lauder (l’acquirente del famoso quadro firmato da Klimt di Adele Bloch-Bauer). Non è sempre facile decifrare i collegamenti tra istituzioni e loro derivati. Il Parlamento europeo nel 2022 ha reso accessibile una sorta di inventario delle organizzazioni esistenti [129].
Una pletora di intenditori, esperti, consulenti, speculatori, mediatori si sono sovente interposti nelle vicende di recupero: non sempre in modo professionale nel senso del rispetto di regole etiche del commercio.
Un esempio noto riguarda il quadro di Pissarro (Le Quai Malaquais, Printemps): appartenuto a Samuel Fischer, che lasciò la Germania per l’Austria solo per fuggire nuovamente nell’imminenza dell’Anschluss. L’erede (o, meglio, una delle eredi), Gisela Fischer:
“was contacted by the Art Loss Register, which proffered a letter written by U.S. historian Jonathan Petropoulos, who claimed to have located the painting. At a subsequent meeting between Ms. Fischer, Mr. Petropoulos, and Peter Griebert, a Munich art dealer, they showed Ms. Fischer digital photos of the painting and claimed to be representatives of the Swiss possessor. But they then demanded eighteen percent of the hammer value of the painting as a finder’s fee” [130].
In molti altri episodi si incontrano soggetti più o meno oscuri che si intromettono sottraendo e alienando il bene [131], mentre un elenco di mediatori di oggetti pregiati nell’interesse dei nazi-fascisti è apparso nella stampa italiana [132], a testimoniare che non solo all’estero taluni esperti/intenditori trassero profitto dalla intermediazione artistica [133].
Nel 2018 Monika Grütters, Kulturstaatsministerin e commissaria federale per la Cultura e i Media della Unione Cristiano-Democratica di Germania (Cdu), affermava, durante una conferenza sulla Raubkunst, in occasione del ventesimo anniversario dei Principi di Washington, che le opere trafugate dai nazisti e mai restituite sono ancora centinaia di migliaia. Rispetto alla restituzione di tali opere, la Germania, secondo la ministra, ha una responsabilità permanente; tale responsabilità, “non è solo dello Stato e delle istituzioni, anche i privati devono farsi carico della responsabilità storica che consegue al possesso di beni che sono stati sottratti agli ebrei”, soprattutto se ne sono entrati in possesso in maniera immediata e approfittando delle circostanze storiche che rendevano gli ebrei particolarmente vulnerabili.
Queste parole dimostrano quanto il tema della sorte delle opere d’arte trafugate durante la Seconda guerra mondiale sia denso di risvolti giuridici, oltre che politici ed etici.
Come queste pagine dimostrano, nel corso degli anni le cose sono radicalmente cambiate, sebbene in modo discontinuo. Se, nel periodo immediatamente successivo alla guerra, la questione era liquidata in modo sbrigativo, tentando di sfuggire al problema, limitando le restituzioni e facendo ricadere tutte le colpe sulla Germania nazista (anche in paesi che, come l’Italia, non potevano dirsi esenti da responsabilità nella persecuzione degli ebrei), in tempi più recenti ci si è resi conto, in modo molto più pervasivo, che ostacolare le restituzioni è una forma di violenza ulteriore nei confronti di chi già aveva patito le persecuzioni razziali.
Questo cambiamento di prospettiva ha determinato anche una diversa percezione della problematica da parte del giurista. Il mutamento è riscontrabile nelle decisioni stesse dei tribunali. Se un tempo le richieste di restituzione erano ostacolate da rigorosi oneri probatori (che difficilmente si riuscivano a superare), oggi le corti sono più propense ad accogliere (verosimili, se non certe) domande giudiziali avanzate dalle vittime dell’olocausto o, ormai più frequentemente, dai loro discendenti.
Un aspetto particolarmente delicato è quello dei beni conservati nei musei. In questi casi, come accennato, spesso alla richiesta di restituzione si oppone l’interesse della collettività a fruire del bene culturale. Non sempre la restituzione è in grado di garantire l’accesso pubblico perché il privato potrebbe decidere di alienare il bene o di conservarlo in un luogo non aperto ad altri. La prassi dimostra come, in molti casi, il problema possa essere risolto, preferendo alla restituzione, la corresponsione di un indennizzo o consentendo al museo di conservare il bene, magari in deposito permanente e riconoscendone formalmente la proprietà al privato spossessato, oppure, ancora, restituendo il bene, ma vincolando il proprietario a un obbligo espositivo. Proprio queste soluzioni sembrano preferibili, le si dovrebbero perseguire come prassi per incentivare le restituzioni, evitando che esse si trasformino in un danno per la collettività.
L’adozione di regole giuridiche (pur di soft laws) è indubbiamente utile. Un risultato efficace con riguardo alla restituzione delle opere saccheggiate durante il nazionalsocialismo è tuttavia raggiungibile solo se tra gli operatori del mercato si diffonde la consapevolezza e la condivisione dell’idea che tali opere non devono essere liberamente commerciate, ma, prima, devono fare i conti con il passato. Una tale coscienza oggi si sta cominciando a diffondere: le case d’asta sono meno spregiudicate quando si tratta di mettere sul mercato opere dalla provenienza dubbia. Lo stesso può dirsi per i musei, i quali sono molto attenti ad assicurarsi la tracciabilità delle opere che inseriscono nelle loro collezioni, proprio per evitare spiacevoli contestazioni, che pregiudicano la reputazione.
Il mondo delle operazioni fra i grandi collezionisti è forse quello meno facilmente monitorabile: queste, infatti, avvengono spesso nei porti franchi, senza che si possa effettivamente sapere chi vende che cosa. Se si tratta di un bene la cui provenienza è illecita, però, esso difficilmente riuscirà a circolare sul mercato ufficiale (il suo valore sarà perciò decisamente inferiore a quello reale, rendendo l’opera meno appetibile anche sul mercato dei collezionisti).
Il mercato non deve essere solo demonizzato o visto come un nemico, ma indotto ad allearsi nella ricerca dei beni trafugati e nel tentativo di riconsegnarli ai loro precedenti proprietari. In questa luce è positivo che gli operatori economici si stiano dotando di regole di due diligence e che si impegnino a seguirle, anche perché tali regole, divenute buone prassi condivise, ben possono essere prese in considerazione dalle corti e divenire, quindi, a tutti gli effetti, analoghe a norme giuridiche vincolanti.
Segnali positivi, che certificano l’impegno delle case d’asta nelle restituzioni, emergono anche dai numerosi incontri, convegni, dibattiti e workshop organizzati, a loro cura, nel corso dell’anno appena trascorso per celebrare il venticinquesimo anniversario dei Principi di Washington. Proprio durante tali celebrazioni, Sotheby’s ha messo in vendita l’opera di Vasilij Kandinskij Murnau mit Kirche II (1910), descrivendola come una delle più importanti opere realizzate dall’artista che siano mai apparse sul mercato. Essa ha raggiunto la ragguardevole cifra di aggiudicazione di 45 milioni di dollari.
Il quadro ha una storia che si interseca con il tema delle restituzioni. L’opera, che rappresenta il Villaggio di Murnau, in Baviera, fu acquistata da Johanna Margarete e Siegbert Samuel Stern (proprietari di un’azienda tessile e collezionisti d’arte e frequentatori di Kafka, Mann e Einstein). Siegbert Stern morì nel 1935 e sua moglie Johanna fu deportata ad Auschwitz dove morì nel 1944. La collezione, durante la guerra venne saccheggiata e le opere scomparvero. Il dipinto di Kandinskij, però, finì al museo di Eindhoven dove venne esposto a partire dal 1951 e dove gli eredi degli Stern riuscirono a identificarlo chiedendone la restituzione (effettivamente concessa). Una volta ottenuto il quadro, gli eredi Stern decisero di venderlo e, con una parte del ricavato della vendita, intendono finanziare nuove ricerche sulle opere appartenenti alla collezione dei loro antenati che furono trafugate dai nazisti.
Significativo, infine, il ruolo svolto dalle numerose organizzazioni che si occupano di facilitare il recupero delle opere trafugate durante l’epoca nazionalsocialista quali, ad esempio, l’Holocaust Claims Processing Office di New York o la Mission de recherche et de restitution francese. L’intervento di tali organi e la loro possibilità di monitorare il mercato dell’arte o le collezioni museali è fondamentale per consentire il recupero delle opere trafugate, quando esse compaiono nei cataloghi delle case d’asta o dei musei. La tecnologia, di cui tanto si discorre oggi, può aiutare le operazioni di recupero: basti pensare a quanto è più semplice, rispetto al passato, monitorare i cataloghi delle aste, ormai quasi tutti disponibili online e accessibili anche attraverso piattaforme dotate di motori di ricerca che permettono verifiche mirate su tutto ciò che è posto in commercio.
L’ultimo passaggio, per agevolare le operazioni di ricerca, sarebbe che tutti gli archivi di informazioni su opere d’arte trafugate durante il periodo nazionalsocialista venissero unificati in modo da semplificare la loro consultazione da parte degli interessati. La tecnologia, quindi, non tarderà a svolgere un ruolo cruciale nel garantire l’accessibilità e la facilità di consultazione, agevolando ulteriormente le richieste di restituzione.
Note
[*] Silvia Ferreri, professoressa ordinaria di diritto privato comparato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino, Campus Luigi Einaudi, Lungo Dora Siena 100/A, 10154 Torino, silvia.ferreri@unito.it.
Geo Magri, professore associato di diritto privato presso il Dipartimento di Diritto, Economia e Culture dell’Università degli Studi dell’Insubria, Via Sant’Abbondio 12, 22100 Como, geo.magri@uninsubria.it.
Il saggio è frutto di una ricerca congiunta degli autori che ne condividono il contenuto, ai fini della suddivisione interna delle parti, Silvia Ferreri è autrice dei paragrafi 1 (compresi i relativi sottoparagrafi ad eccezione dei numeri 1.3.2. e 1.3.3.), 2, 3 e 5; Geo Magri è autore dei sottoparagrafi 1.3.2. e 1.3.3. e dei paragrafi 4 e 6.
[2] Oltre ad una coppia di dipinti di Dürer venduti negli Usa da un soldato americano ad un acquirente statunitense (caso Elicofon, su cui oltre), anche un famoso quadro di Cranach (Cupid Complaining to Venus) è arrivato negli Stati Uniti come una sorta di “mancia” ad una reporter che aveva scritto un brano positivo sulla gestione amministrativa alleata in Germania: si tratta di un’opera esposta alla National Gallery di Londra. “The National Gallery acquired the work in all innocence in the 1960s from a New York dealer. It was told that the painting had been in the same family since 1909, when it was sold at auction in Berlin. In fact, the dealer had acquired the work from Patricia Lochridge Hartwell, an American reporter who had covered the war for a US women’s magazine. (...) The painting, removed from the [Hitler’s] Munich flat during the war to protect it from air raids, had ended up in a depot in southern Germany. Hartwell was given the painting by the local US commander as a thank-you for writing a positive piece about the local military administration”. C. Higgins, Hitler owned painting now in National Gallery The Guardian, 28 Mar 2008.
[3] R. Bardotti, M. Borri, La restituzione dei beni espropriati ai cittadini di “nazioni nemiche” nella Toscana del secondo dopoguerra, in Qualestoria, dicembre 2019, 2, pag. 32 ss., consultato online su OpenstarTs, https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/31824/1/Bardotti_32-51.pdf (studio basato sugli archivi storici del Monte dei Paschi di Siena).
[4] L’Ente incaricato di sovrintendere alle requisizioni e confische si avvaleva dell’opera degli Istituti di credito fondiario (Acs, Egeli, Archivio generale, b. 23, fasc. 136, promemoria del Ragioniere generale dello Stato per il ministro del Tesoro, 10/1/1957, prot. n. 401459) (rinvio da R. Bardotti, M. Borri, op. ult. cit., pag. 38).
[7] “VII. Pre-War owners and heirs should be encouraged to come forward and make known their claims to art that was confiscated by the Nazis and not subsequently restituted.
VIII. If the pre-War owners of art that is found to have been confiscated by the Nazis and not subsequently restituted, or their heirs, can be identified, steps should be taken expeditiously to achieve a just and fair solution (may vary according to the facts and circumstances surrounding a specific case).
IX. If the pre-War owners of art that is found to have been confiscated by the Nazis, or their heirs, cannot be identified, steps should be taken expeditiously to achieve a just and fair solution”. Washington Conference Principles on Nazi-Confiscated Art, https://www.state.gov/washington-conference-principles-on-nazi-confiscated-art/.
[8] A causa dell’appropriazione ingiustificata del bene (“conversion to one’s own use”) o per una condotta che in sé nega il diritto altrui, ad esempio alienando a terzi il bene (che si trovava nella propria disponibilità senza titolo opponibile all’attore in giudizio perché l’oggetto era stato prestato, consegnato in custodia o in riparazione, ecc.). S. Ferreri, voce Conversion, in Digesto delle discipline privatistiche, sez. civ., vol. III, Torino, Utet, 1988, pag. 3 ss.; Replevin, ivi, vol. XVI, pag. 621 ss.
[9] Kunstsammlungen zu Weimar v. Elicofon 536 F. Supp. 829 (E.D.N.Y. 1981) (la scoperta nel 1966 della localizzazione negli Usa di due ritratti di Dürer, spariti nel 1945 dalla Germania, consente nel 1969 l’azione di recupero davanti alle corti statunitensi). Analogo - fuori dall’ambito della Guerra - l’approccio nel caso O’Keeffe v. Snyder 416 A.2d 862 (N.J. 1980) (“it was not until 1972, about twenty-six years after the paintings went missing, that O’Keeffe allowed the paintings’ loss to be reported to the Art Dealers Association of America. In 1975, O’Keeffe discovered the paintings were in the Andrew Crispo Gallery in New York, and in 1976, she discovered that Ulrich A. Frank had sold the paintings to Snyder”).
[10] Martin Grosz and Lilian Grosz v. The Museum of Modern Art, 772 F. Supp. 2d 473 (2010) (United States District Court, S.D. New York): l’argomento è respinto in questo caso perché non è stata dimostrata “fraud or misrepresentation on the part of MoMA, nor does it indicate evidence of reasonable reliance by plaintiffs on any alleged misrepresentations by MoMA”.
[11] Definito come: “the equitable equivalent of statutes of limitations. However, unlike statutes of limitations, laches leaves it up to the court to determine, based on the unique facts of the case, whether a plaintiff has waited too long to seek relief”. “The laches defense has two elements: (1) unreasonable delay by the claimant and (2) prejudice to the defendant resulting from that delay”: Matter of Flamenbaum, 2013, N.Y. Slip Op. 7510 (New York Court of Appeals, Nov. 14, 2013) (nella vicenda interessata, avviata dal Vorderasiatisches Museum di Berlino, si tratta di un episodio “a rovescio”: “A German museum was asserting a claim for an Assyrian gold tablet stolen during World War II, against the estate of a Holocaust survivor, Flamenbaum. Flamenbaum had told his children that he bartered the tablet from a Russian soldier for cigarettes”).
[12] Bakalar v. Vavra No. 11-4042-CV, 2012 WL 4820801 (2d Cir. Oct. 11, 2012). “David Bakalar purchased a drawing by Egon Schiele (Seated Woman with Bent Left Leg, Torso). The painting had once been owned by Fritz Grunbaum, a musician and art collector who died in a concentration camp. After the war, Grunbaum’s sister-in-law claimed to own the drawing and sold it in 1956. Decades later, distant family members asserted that they were properly the heirs of Grunbaum (...). The Second Circuit Court of Appeals held that Bakalar was prejudiced by the death in 1979 of the sister-in-law, who was the only person who could have testified as to whether she had received the artwork: this allowed him to profit from the doctrine of laches”.
[13] La sopravvivenza del “quadernetto nero” del gallerista Goudstikker è al centro della vicenda Marei von Saher, v. Norton Simon Museum of Art at Pasadena 897 F.3d 1141 (9th Cir. 2018): “At the time of his death, Jacques had in his possession a black notebook containing entries describing artworks in the Goudstikker art collection”.
[14] In diversi casi riguardanti la collezione di un gallerista ebreo, Alfred Flechtheim, compare la figura di una storica dell’arte, Charlotte Weidler, che aveva ricevuto in custodia molti quadri e disegni di grandi autori. Questa apparente amica vendette poi progressivamente gli oggetti, negando agli eredi le notizie pertinenti, inducendo anzi la propria sorella a dichiarare che i bombardamenti sulla Germania ne avevano provocato la distruzione: Frenk v. Solomon 173 A.D.3d 490 (N.Y. App. Div. 2019).
[15] Nel celebre caso della Woman in Gold, relativo al quadro di Klimt (Adele Bloch-Bauer), Republic of Austria v. Altmann, 541 U.S. 677 (2004), l’azione in giudizio a Vienna avrebbe richiesto un deposito cauzionale fuori dalla portata dell’erede. Perciò la causa ebbe inizio solo quando l’avvocato riuscì a incardinare la lite negli Usa facendo leva sul fatto che i cataloghi della Galleria del Belvedere di Vienna erano venduti negli Stati Uniti (la commercializzazione sul territorio statunitense consentiva di incardinare la vertenza fuori dall’Austria). Come noto, la causa si concluse con un arbitrato che riconobbe la titolarità agli eredi Americani della persona dipinta.
[16] Nel caso della collezione Westheim, Frenk v. Solomon 173 A.D.3d 490 (N.Y. App. Div. 2019), l’azione venne intrapresa dalla figliastra del collezionista, la quale aveva rilevato dal fratello tutti i diritti ereditari: Margit Frenk (1925) è un’illustre filologa, ispanista e folclorista tedesca, naturalizzata messicana.
[17] Nella vertenza per il quadro ad olio di Gustav Klimt Litzlberg am Attersee (1915), l’azione nel 2002 contro il Museum der Moderne Salzburg è stata intrapresa da Georg Jorisch, nipote (figlio del figlio) di Amalie Redlich, dopo una ricostruzione complessa delle vicende del quadro. Al nome di Jorisch sono associati diversi episodi in cui viene ricostruita la vita movimentata dalla ricca famiglia di industriali austriaci: Jorisch v. Lauder, complaint, No. 1:07-cv-09428 (S.D.N.Y., 2007), https://storage.courtlistener.com/recap/gov.uscourts.nysd.315121.1.0.pdf. Anche il quadro Rosiers sous les arbres, detenuto dal Musée d’Orsay proviene dalla stessa collezione: Eleonore (Nora) Stiasny ha trasmesso le pretese successorie che hanno abilitato i suoi eredi a recuperare l’opera di Klimt nel 2021, https://www.culture.gouv.fr/Presse/Communiques-de-presse/Restitution-du-tableau-de-Gustav-Klimt-Rosiers-sous-les-arbres-aux-ayants-droit-de-Nora-Stiasny.
[18] Solomon R. Guggenheim Foundation v. Lubell, Court of Appeals of the State of New York, 77 N.Y.2d 311 (1991) a proposito di alcuni gouache di Chagall. “The Guggenheim believes the gouache was stolen from its premises sometime in the late 1960s. The appellant Rachel Lubell and her husband bought the painting from a well-known Madison Avenue gallery in 1967 and have displayed it in their home for more than 20 years. Mrs. Lubell claims that before the Guggenheim’s demand for its return in 1986, she had no reason to believe that the painting had been stolen”. Anche nella vertenza O’Keefe v. Snyder 416 A.2d 862 (Supreme Court of New Jersey) l’attrice tardò ad agire per più di trent’anni considerando che “the paintings were uninsured, and O’Keeffe did not seek reimbursement from an insurance company (...) Finally, in 1972, O’Keeffe authorized Bry to report the theft to the Art Dealers Association of America, Inc., which maintains for its members a registry of stolen paintings”.
[19] Il British Museum ha in effetti tardato ad ammettere i numerosi episodi di vendita clandestina dei propri reperti appunto perché avrebbe dovuto rendere pubblica la circostanza che non tutti gli oggetti (soprattutto i più minuti e meno esposti al pubblico) sono inventariati. In particolare, il problema è che gli inventari non sono soggetti a controlli integrali periodici (K. Ho Karen, Stolen Items from the British Museum Worth $64,000 Offered on eBay for as Little as $51, 21 agosto 2023, https://www.artnews.com/art-news/news/artifacts-stolen-british-museum-listed-ebay-1234677363/).
[20] Commentato da G. Magri, Buona fede, clandestinità del possesso e opere d’arte rubate: riflessioni a margine di una recente pronuncia della Cassazione, in Aedon, 2020, 1.
[21] Il rientro in Italia era avvenuto intorno al 2006, in vista di una vendita che avrebbe dovuto avere luogo a Milano, dove la lite viene inizialmente instaurata.
[22] Cass. civ., sez. II, 14/06/2019, n. 16059, in Aedon, 2020, 1.
[23] Iran v Berend [2007] EWHC 132 (QB) https://www.bailii.org/cgi-bin/format.cgi?doc=/ew/cases/EWHC/QB/2007/132.html&query=(Iran)+AND+(v)+AND+(Berend)+AND+(.2007.)+AND+(EWHC)+AND+(132)+AND+((QB)).
[24] F. Linda, Pinkerton, Due Diligence in Fine Art Transactions, 22 Case W. Res. J. Int’l L. 1 (1990).
[25] Sul tema si veda, tra i tanti, G. Magri, Le Convenzioni UNESCO 1970 e UNIDROIT 1995 e la loro incidenza sul diritto privato, in Aedon, 2021, 2.
[26] Icom Code of Ethics for Museums (adopted in Buenos Aires (Argentina) on 4 November 1986 (...) amended in Barcelona (Spain) on 6 July 2001 (...) revised in Seoul (Republic of Korea) on 8 October 2004. Verso i mercanti è diretto l’International Code of Ethics for Dealers in Cultural Property, 1999.
[27] “The 1999 UNESCO International Code of Ethics for Dealers in Cultural Property is often referred to - and supported in the 2022 EU Action Plan - it is rather unspecific on this point”: Cross-border claims to looted art, European Parliament, IPOL | Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, PE 754.126, 2023.
[28] Si tratta dell’Art Transaction Due Diligence Toolkit reperibile online all’indirizzo https://www.responsibleartmarket.org/guidelines/art-transaction-due-diligence-toolkit/. Le linee guida sono pubblicate, tradotte in italiano da Geo Magri, Due diligence toolkit per le transazioni in oggetti d’arte, in Aedon, 2020, 2.
[29] “An Act to provide the victims of Holocaust-era persecution and their heirs a fair opportunity to recover works of art confiscated or appropriated by the Nazis”, secondo il long title, che indica le finalità della legislazione. In precedenza un atto legislativo federale era noto come Holocaust Victims Redress Act (“Hvra”), 1988.
[30] Fallon S. Sheridan, The Sunset of the Holocaust Expropriated Art Recovery Act of 2016 and the Rise of the Demand and Refusal Rule, in Fordham Law Review, 2021.
[31] Hear Act 2016, sec. 5, let.(g) SUNSET.-This Act shall cease to have effect on January 1, 2027, except that this Act shall continue to apply to any civil claim or cause of action described in subsection (a) that is pending on January 1, 2027 (130 STAT. 1524 PUBLIC LAW 114-308-DEC. 16, 2016).
[32] A. Lusher, Curator calls for time limit on returning art looted by the Nazis. Klaus Albrecht Schröder, the director of Vienna’s Albertina Museum, said that there should be a cut-off point for claims on art in public collections, “we should ask ourselves why claims regarding crimes committed during the First World War should not still be valid; why we don’t argue any more about the consequences of the 1870-1871 Franco-Prussian war?”, The Independent, 30 March 2015. La risposta proviene da Anne Webber, co-chair della Commission for Looted Art in Europe (con sede a Londra): “It is very premature to call for a time limit. We are receiving new cases every week”.
[33] Il resto dell’art. 934 c.c. prevede, al primo comma: “1. Il possessore, a cui fu rubata una cosa mobile, o che l’ha smarrita, o che ne fu altrimenti privato contro la sua volontà, la può rivendicare entro cinque anni da qualsiasi acquirente. È fatto salvo l’articolo 722” mentre il successivo comma prevede: “2. Se la cosa è stata acquistata all’asta pubblica, in un mercato, o da un negoziante di cose della medesima specie, essa può del pari essere rivendicata contro il primo od ogni successivo acquirente di buona fede, ma solo dietro compenso del prezzo sborsato”, concludendo: “3. Del resto la restituzione ha luogo secondo le norme relative ai diritti del possessore di buona fede”.
[34] In Italia il codice dei beni culturali prevedeva un’attenuazione della pena (per i reati di esportazione illecita o di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato) all’articolo 177: “Collaborazione per il recupero di beni culturali. 1. La pena applicabile per i reati previsti dagli articoli 174 e 176 è ridotta da uno a due terzi qualora il colpevole fornisca una collaborazione decisiva o comunque di notevole rilevanza per il recupero dei beni illecitamente sottratti o trasferiti all’estero”. La norma è stata successivamente abrogata ad opera della legge 9 marzo 2022, n. 22 (art. 5, comma 2, lett. b), a decorrere dal 23 marzo 2022 (art. 7, comma 1, della medesima legge n. 22/2022). È appena il caso di precisare che l’abrogazione ha coinciso con l’introduzione nel codice penale del Titolo VIII-bis nel Capo III (Titolo VIII del libro II, dedicato ai delitti contro il patrimonio culturale). L’uscita o l’esportazione illecita di beni culturali è oggi punita dall’art. 518-undecies c.p. (le circostanze attenuanti sono previste dall’art. 518-septiesdecies c.p.).
[35] Entrata in vigore il 1° luglio 1998, firmata o ratificata da 54 Stati (in prevalenza gli Stati “esportatori”, Paesi il cui patrimonio culturale è vittima del traffico illecito. Restano esclusi tra gli altri Stati Uniti, Australia, Canada).
[36] G. Magri, Le Convezioni UNESCO e UNIDROIT 1995 e la loro incidenza sul diritto privato, in Il diritto dei beni culturali, (a cura di) B. Cortese, Roma, Roma3Press, 2021, pag. 309 ss.
[37] A. 3, par. 4: “a claim for restitution of a cultural object forming an integral part of an identified monument or archaeological site, or belonging to a public collection, shall not be subject to time limitations other than a period of three years from the time when the claimant knew the location of the cultural object and the identity of its possessor”.
[38] G. Volpe, La Convenzione UNIDROIT sul ritorno dei beni culturali rubati o illecitamente esportati, in Notiziario del Ministero dei beni culturali e ambientali, n. 50, 1996, pag. 37 ss. La richiesta di restituzione comporta questioni di diritto internazionale privato, mentre la richiesta di resa (return) soddisfa interessi di ordine pubblico, per la conservazione del patrimonio culturale dello Stato richiedente. La seconda parte della Convenzione è dedicata specificatamente alla disciplina del “ritorno dei beni culturali esportati illecitamente”, cioè alla disciplina delle domande di quei beni che hanno lasciato illecitamente lo Stato d’origine (o che, pur essendo usciti in conformità alla disciplina prevista dallo Stato di origine, non sono rientrati nei tempi e nei modi previsti). A differenza di quanto avviene per i beni rubati, il diritto di chiedere la restituzione dei beni esportati illegalmente spetta esclusivamente agli Stati contraenti (articolo 5, par. 1). “Chapter III - Return of Illegally Exported Cultural Objects, Article 5: (1) A Contracting State may request the court or other competent authority of another Contracting State to order the return of a cultural object illegally exported from the territory of the requesting State”.
[39] L. Prott, The UNIDROIT Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects - Ten Years On, Unif. L. Rev. 2009, pag. 232. Data la genericità della previsione, il diritto di proporre l’azione di restituzione in caso di beni rubati spetta sia allo Stato membro che al privato materialmente spossessato. La legislazione Ue (direttive Ue 1993/7 e 2014/60), invece, come ricordato, consente solo allo Stato membro di intraprendere un’azione legale.
[40] La Convenzione, all’art. 3 definisce illeciti l’importazione, l’esportazione e il trasferimento di proprietà di beni culturali effettuati in contrasto con le disposizioni adottate dagli Stati contraenti e, all’art. 7, impone agli Stati aderenti non solo l’obbligo di impedire l’acquisto di beni culturali da parte dei musei e delle istituzioni ad essi equiparabili, ma anche quello di procedere al recupero e alla restituzione, su richiesta dello Stato d’origine, di qualsiasi bene culturale rubato e trasferito illegalmente nel loro territorio. La Convenzione prevede che l’obbligo di restituzione del bene culturale sia compensato con un equo indennizzo per ogni “innocent purchaser” e per chiunque possa invocare un valido titolo di proprietà sui beni culturali rubati. La relazione del Comitato speciale di esperti che ha redatto il testo ha parlato di equo indennizzo da versare all’“acquirente in buona fede”; l’espressione innocent purchaser non è specificata e lascia spazio ad interpretazioni che potrebbero divergere.
[42] Philipp v. F.R.G. (Stiftung Preussischer Kulturbesitz), 894 F.3d 406 (D.C. Cir. 2018) Court of Appeals (District of Columbia), US Supreme Court Supreme Federal Republic of Germany v. Philipp, 141 S. Ct. 703 (2021) https://www.supremecourt.gov/opinions/20pdf/19-351_o7jp.pdf.
[43] Nella ricostruzione della Corte Suprema ritroviamo gli argomenti della difesa tedesca: “Germany moved to dismiss, arguing that it was immune from suit under the Foreign Sovereign Immunities Act. As relevant, Germany asserted that the heirs’ claims did not fall within the FSIA’s exception to sovereign immunity for ‘property taken in violation of international law’ 28 U. S. C. §1605(a)(3), because a sovereign’s taking of its own nationals’ property is not unlawful under the international law of expropriation”.
[44] “This collection remains entirely my property. The Soviet republic has taken possession of this collection in a way that sets at defiance every principle of international law”, New York Herald Tribune, May 13, 1931, pag. 15.
[46] Caso Stroganoff-Scherbatoff, cit., ma anche, in Inghilterra, il famoso caso Princess Paley Olga v. Weisz, [1929] 1 K.B. 718 diede occasione alla Court of Appeal di ricordare “Our Government has recognized the present Russian Government as the de jure Government of Russia, and our Courts are bound to give effect to the laws and acts of that Government so far as they relate to property within that jurisdiction when it was affected by those laws and acts” (Lord Scrutton, pag. 725).
[47] Von Saher v. Norton Simon Museum of Art at Pasadena, United States Court of Appeals for the Ninth Circuit, 897 F.3d 1141 (9th Cir. 2018).
[48] Sovente tra i convenuti figurano come “second” o “third defendant” proprio Sotheby’s o Christie’s, ad es. Winkworth v Christie, Manson & Woods Ltd and Another, [1980] 1 All E.R. 1121.
[49] Legal Information Institute (Cornell university), https://www.law.cornell.edu/uscode/text/28/1605.
[50] Cassirer et Al. v. Thyssen-Bornemisza Collection Foundation, US. Supreme court, 21 April 2022.
[51] S. Candia, Arte liberata 1937-1947. Il lungo viaggio del Discobolo Lancellotti, The Journal of Cultural Heritage and Crime, 7 febbraio 2023. La “ferma opposizione del Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Bottai” non fu sufficiente all’epoca, l’acquisto del Discobolo venne formalizzato il 18 maggio 1938 al prezzo di 16 milioni di lire in contanti, l’equivalente di più di 15 milioni e mezzo di euro. Il 9 giugno dello stesso anno l’opera prese posto nella Glyptothek di Monaco di Baviera: era il dono del Führer al popolo tedesco”, https://www.rainews.it/articoli/2023/12/il-discobolo-conteso-monaco-lo-rivuole-perche-fu-comprato-da-hitler-sangiuliano-resta-in-italia-21a683f1-303b-49a6-b59f-1e2496cc96f2.html.
[52] Museo nazionale romano: https://museonazionaleromano.beniculturali.it/mostra_umano-troppo-umano/seconda-vita-del-discobolo/.
[53] In Italia, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (L. 31 maggio 1995, n. 218), Art. 51. Possesso e diritti reali. 1. Il possesso, la proprietà e gli altri diritti reali sui beni mobili ed immobili sono regolati dalla legge dello Stato in cui i beni si trovano.
2. La stessa legge ne regola l’acquisto e la perdita, salvo che in materia successoria e nei casi in cui l’attribuzione di un diritto reale dipenda da un rapporto di famiglia o da un contratto.
[54] In questo caso conterebbe il luogo in cui il bene si trova al momento della lite che lo riguarda.
[55] In Italia, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato,art. 52. Diritti reali su beni in transito. 1. I diritti reali su beni in transito sono regolati dalla legge del luogo di destinazione.
[56] Caso Elicofon, Federal Republic of Germany v. Elicofon, 536 F. Supp. 813 (E.D.N.Y. 1978).
[57] Autocephalous Greek Orthodox Church of Cyprus v. Feldman and others 502 U.S. 1050.
[58] David Cassirer, et al. v. Thyssen-Bornemisza Collection Foundation, US Supreme Court, 21 Aprile, 2022, cit.
[59] David Cassirer, et al. v. Thyssen-Bornemisza Collection foundation, Circuit Court of Appeals for the 9th circuit (Pasadena), 9 gennaio 2024. A parere della Corte, il risultato protegge “the strong interest that Spain has in ensuring its laws will predictably regulate conduct that occurs within its borders, (...) the only California connection to the case was that Claude Cassirer, grandson of the woman from whom the painting was stolen, moved to the State in 1980, 20 years before seeing the painting on a visit to Spain” (Judge Carlos Bea). Una dei componenti del collegio, Judge Consuelo Callahan, ha scritto nella propria concurring opinion che secondo i propri parametri morali il museo avrebbe dovuto restituire spontaneamente il dipinto ai primitivi proprietari. San Francisco Chronicle, 9 gennaio 2024, https://www.sfchronicle.com/politics/article/pisarro-painting-lawsuit-18599079.php.
[60] Cfr. S.C. Symeonides, Choice of Law Rule for Conflicts Involving Stolen Cultural Property, in Vanderbilt Journal of Transnational Law, 2005, pag. 1177 ss., in particolare si veda pag. 1183 dove si propone di determinare la legge applicabile attraverso la seguente regola generale: “Except as otherwise provided by an applicable treaty or international or interstate agreement, or statute, the rights of parties with regard to a corporeal thing of significant cultural value (hereinafter ‘thing’) are determined as specified below. A person who is considered the owner of the thing under the law of the state in which the thing was situated at the time of its removal to another state shall be entitled to the protection of the law of the former state (state of origin), except as specified below. The owner’s rights may not be subject to the less protective law of a state other than the state of origin, (a) unless: (i) the other state has a materially closer connection to the case than the state of origin; and (ii) application of that law is necessary in order to protect a party who dealt with the thing in good faith after its removal to that state; and (b) until the owner knew or should have known of facts that would enable a diligent owner to take effective legal action to protect those rights”.
[61] M. Salvadori, Utilizzazione e circolazione dei beni artistici, storici, archeologici. Profili internazionalistici, in P. Cendon, I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale. VII. Beni culturali, Torino, 2003, pag. 399 ss., in particolare, pag. 411.
[62] Ibidem.
[63] Con riguardo al dibattito sulla lex rei sitae e sulla lex originis con riguardo alla cultural heritage si vedano T. Szabados, In Search of the Holy Grail of the Conflict of Laws of Cultural Property: Recent Trends in European Private International Law Codifications, in International Journal of Cultural Property, 27(3), pag. 323 ss.; E. Jayme, Internationaler Kulturgüterschutz: Lex originis oder lex rei sitae. Tagung in Heidelberg, in Praxis des Internationalen Privat- und Verfahrensrechts, 10 (1990), pag. 347 ss.; Id. Kunstwerk und Nation: Zuordnungsprobleme im internationalen Kulturgüterschutz, Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Jg. 1991, Bericht 3, pag. 7 ss.; Id., Die Nationalität des Kunstwerks als Rechtsfrage, in Internationaler Kulturgüterschutz (Akten des Wiener Symposion, 18./19. Oktober 1990), a cura di G. Reichelt, Vienna 1992, pag. 7 ss.; Id., Antonio Canova: la Repubblica delle arti ed il diritto internazionale, in Riv. dir. int., 1992, pag. 889 ss.; Id., Kulturgüterschutz in ausgewählten europäischen Ländern, in Zeitschrift für vergleichende Rechtswissenschaft, 95 (1996), pag. 158 ss.; Id., Die politische Dimension der Kunst: Antonio Canova, Frankfurt am Main 2000.
[64] L’esempio è tratto da M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 1 ss., pag. 16.
[65] Iran v. Berend [2007] EWHC 132 (QB)(frammento di bassorilievo Achemenide); Attorney-General of New Zealand v. Ortiz [1982] 3 W.L.R. 570 (Court of Appeal); 1984 (H. L.)(decorazione lignea Maori dalla Nuova Zelanda).
[66] Autocephalous Greek Orthodox Church of Cyprus v. Feldman, cit.
[67] Cass. civ., Sez. I, 24 novembre 1995, n. 12166 (arazzi sottratti al Palazzo di Giustizia di Riom, Francia).
[68] https://plone.unige.ch/art-adr/cases-affaires/fresques-de-casenoves-2013-musee-d2019art-et-d2019histoire-de-la-ville-de-geneve-et-ministere-de-la-culture-francais.
[69] Cour d’appel de Montpellier, arrêt Fondation Abegg et Ville de Genève contre Mmes Y. et Z., 18 décembre 1984.
[70] Cour de Cassation, arrêt Fondation Abegg et Ville de Genève contre Mmes Y. et Z., 15 avril 1988. G. Droz, Annotazione, Cour de Cassation (Ass. Plén.) - 15 avril 1988, in Revue critique de droit international privé, 1989, pag. 103.
[71] Gli affreschi, “peraltro, in virtù di detto vincolo, giuridicamente inseparabili dall’immobile stesso per effetto di atti di autonomia privata, la quale, pertanto, non può esercitarsi, in tale ipotesi, liberamente secondo la previsione dell’art. 818, comma 1, ultima parte, c.c., che consente di disporre separatamente dei beni pertinenziali”.
[72] Cass. civ., 12 marzo 2001, n. 3610, in Riv. Notariato, 2001, pag. 858 ss.
[73] A. Lusher, Curator calls for time limit on returning art looted by the Nazis, The Independent, 30 March 2015, online: https://www.independent.co.uk/news/world/europe/curator-calls-for-time-limit-on-returning-art-looted-by-the-nazis-10144849.html.
[74] Principi di Washington 1998: “VII. Pre-War owners and heirs should be encouraged to come forward and make known their claims to art that was confiscated by the Nazis and not subsequently restituted”. L. Simmons, Art Restitution, sull’efficacia delle norme di condotta sottoscritte, anche nei confronti delle case d’aste: https://www.sothebys.com/en/about/services/art-restitution.
[75] Per completare il quadro, vale la pena di ricordare che nell’aprile 2023, la Galerie Gimpel Fils (la galleria di proprietà degli eredi di René Gimpel) ha instaurato una banca dati digitale (ad accesso libero), in cui sono archiviati più di 10.000 documenti rinvenuti negli archivi professionali e personali del mercante e collezionista d’arte René Gimpel. Tra i documenti, certificati sulla committenza con artisti e clienti, fotografie e pagine del suo diario. Il fine ultimo, per cui è stato reso disponibile al pubblico questo database, è quello di facilitare il lavoro di autenticazione delle opere la cui origine è incerta.
[77] S. Melikian, Klimt Painting Sells for $40.4 Million, The N.Y. Times, 3 novembre 2011.
[78] https://www.culture.gouv.fr/Presse/Communiques-de-presse/Restitution-du-tableau-de-Gustav-Klimt-Rosiers-sous-les-arbres-aux-ayants-droit-de-Nora-Stiasny.
[79] Nel caso del Pissarro conteso con il museo di Madrid “When it was removed from the wall at the Thyssen Museum and the frame removed (...) fragments of the stamp could be seen: “Berlin,” “Vikto” - part of the street name - and “Kunst und Verla,” for Kunst und Verlagsanstalt, the name of a gallery and publisher”. I. Seisdedos, The Thyssen’s disputed Pissarro: a masterpiece that symbolizes the ongoing struggle to return Nazi-looted art, El Pais, May 21, 2022.
[81] Ibidem.
[82] https://www.lootedart.com/news.php?r=T5E2RR388071.
[83] Von Saher v. Norton Simon Museum of Art at Pasadena, United States Court of Appeals for the Ninth Circuit, 897 F.3d 1141 (9th Cir. 2018); N. Foote, Von Saher v. Norton Simon Museum of Art at Pasadena, 25 DePaul J. Art, Tech. & Intell.Prop. L. 239 (2014).
[86] 173 A.D.3d 490 (N.Y. App. Div. 2019), https://casetext.com/case/frenk-v-y-ris-rabenou-solomon (Appellate Division of the Supreme Court of the State of New York, N.Y.).
[88] Il giornale dell’arte, 13 febbraio 2021; L.M. Macioce, Il dipinto di Pissarro requisito dai nazisti. Una complessa vicenda legale, in Artribune, 1 febbraio 2022,; I. Seisdedos, The Thyssen’s disputed Pissarro, cit., El Pais, May 21, 2022: “Lilly Cassirer was unaware of the canvas’ journey: she assumed it had been lost or destroyed during the war. She died in 1962 in Cleveland ... Four years earlier, after a decade of litigation, Lilly received compensation of 120,000 marks from the Federal Republic of Germany, of which she had to pay 14,000 marks to the painting’s previous owner, Sulzbacher. The agreement also stated that Lilly would not relinquish the right to ask for the restitution or return of the painting, if the case arose”.
[89] A San Paolo, Francisco de Assis Chateaubriand Bandeira de Melo, nel 1947 fondò il Museo de Arte de Sao Paulo, con il proposito di realizzare un museo della statura del Louvre di Parigi. Il MASP si procura nel 1954 una collezione di 73 bronzi di Degas dal proprietario della Marlborough Gallery di Londra. Nel 2013, i discendenti del collezionista ebreo Alfred Flechtheim agiscono contro il museo per rivendicarne 5 esemplari, affermando che appartenessero alla propria famiglia. Nelle opere fu effettivamente rinvenuta un’etichetta della Galleria Flechtheim. Il museo adduce l’avvenuta usucapione, mentre gli eredi di Flechtheim ricorrono ai Principi di Washington (sottoscritti dal Brasile). Attualmente le opere permangono all’interno del Masp e nell’archivio accessibile online non è riportata la provenienza.
[90] È stato riscontrato che in Portogallo l’arte rubata da nazisti si trovava prevalentemente esposta presso l’ambasciata tedesca e nella libreria di Buchholz.
[91] Il nome di Gurlitt è tornato di attualità dopo la scoperta del deposito conservato in modo clandestino dal figlio del collezionista e emerso in modo casuale nel 2012. Il mercante d’arte, noto per le opere di espressionisti collezionate, fonda un marchio conosciuto. “Hildebrand (1895-1956) e Cornelius (1932-2014) erano grandi profittatori del regime nazista. Il primo, direttore di musei e mercante, è tra i quattro mercanti incaricati da Hitler di liquidare l’“Arte degenerata”. (...) Gurlitt padre acquista opere anche per il museo privato di Hitler. Dopo la guerra, ma per breve tempo, viene arrestato. Nasconde la sua collezione; si proclama perseguitato per la discendenza ebraica e riottiene i 115 dipinti che gli erano stati sequestrati. Riprende a commerciare e a dirigere istituzioni artistiche, finché non muore in un incidente d’auto. Del figlio invece non si sa nulla fino al 2012, quando per caso gli trovano la collezione di circa 1.500 dipinti del valore di un milione di euro: l’avevano fermato su un treno alla frontiera con la Svizzera, dove aveva venduto un quadro, con 9mila euro; insospettisce che, durante tutta la sua vita, non abbia mai posseduto alcun documento, di nessuna natura, e non abbia mai lavorato. Gli perquisiscono la casa di Monaco ed ecco la scoperta dei 1.500 dipinti” (F. Isman, L’arte bottino dei nazisti. Dai Klimt ai Gurlitt, in Il giornale dell’arte, 23 gennaio 2021).
[92] L’assenza di sospetti in capo a Bulchhoz derivò in parte dall’estrema ricchezza accumulata: aveva fondato un impero di librerie e gallerie. Giocavano a suo vantaggio la cordialità e la padronanza dello spagnolo che gli permisero di integrarsi nella società colombiana.
[93] https://english.elpais.com/culture/2022-05-21/the-thyssens-disputed-pissarro-a-masterpiece-that-symbolizes-the-ongoing-struggle-to-return-nazi-looted-art.html.
[94] Ministère de la culture: “Environ 2200 œuvres non restituées après la guerre ont été confiées à la garde des musées nationaux et identifiées comme ‘Musées Nationaux Récupération’ (Mnr). La base Rose-Valland rassemble toutes les informations disponibles sur ces œuvres et leur parcours, afin d’accroitre leur connaissance et de permettre leur restitution éventuelle”, https://www.culture.gouv.fr/Nous-connaitre/Organisation-du-ministere/Le-secretariat-general/Mission-de-recherche-et-de-restitution-des-biens-culturels-spolies-entre-1933-et-1945/Biens-Musees-Nationaux-Recuperation-MNR.
[95] Ministère de la Culture, La recherche de provenance consiste a “rechercher et à documenter - dans la mesure du possible - l’historique complet d’un objet et à établir les changements de propriété entre 1933 et 1945 conformément aux Principes de Washington. L’histoire des objets doit être présentée clairement, en commençant par la création de l’objet et en se terminant aujourd’hui”, https://www.culture.gouv.fr/Nous-connaitre/Organisation-du-ministere/Le-secretariat-general/Mission-de-recherche-et-de-restitution-des-biens-culturels-spolies-entre-1933-et-1945/Recherche-de-provenance-outils-et-methode.
[96] Il ministero della Cultura pubblica nel proprio sito un inventario delle decisioni assunte in materia, in ordine cronologico.
[98] La legge introduce un procedimento amministrativo semplificato: “Il s’agit d’une loi générale ou ‘loi-cadre’ afin d’éviter la multiplication de lois particulières et ainsi d’accélérer les restitutions. Le code du patrimoine est complété pour créer une dérogation au principe d’inaliénabilité. Cette dérogation est limitée aux différentes formes de spoliations liées à des persécutions antisémites perpétrées pendant la période nazie ... La personne publique prononcera la sortie du domaine public de tout bien culturel qui s’est révélé avoir été spolié entre l’accession au pouvoir d’Adolf Hitler le 30 janvier 1933 et la capitulation allemande le 8 mai 1945, afin de le restituer à ses propriétaires légitimes”. Loi du 22 juillet 2023 relative à la restitution des biens culturels ayant fait l’objet de spoliations dans le contexte des persécutions antisémites perpétrées entre 1933 et 1945.
[99] Sulla pagina del sito dedicata all’asta (https://imkinsky.com/en/press/rediscovered-portrait-of-a-young-female-by-gustav-klimt-offered-in-special-auction-at-viennas-auction-house-im-kinsky) leggiamo che “After the painting returns to Vienna, it will be auctioned on April 24, 2024, on behalf of the current owners (Austrian private citizens) along with the legal successors of Adolf and Henriette Lieser based on an agreement in accordance with the Washington Principles of 1998”.
[100] Nell’archivio online del sito del Von der Heydt-Museum è presente An die Schönheit (“To Beauty”) di Otto Dix con “cronologia delle acquisizioni: [...] - [...]: Galerie Karl Nierendorff, Berlin | [...] -1933: Paul Westheim (1886-1963), Berlino 1933-1977: Charlotte Weidler (1895-1983), Berlin/New York (custody for Paul Westheim) | 1977-28.06.1977: Kunsthandel Dr. Ewald Rathke, Frankfurt a.M. | 28.06.1977-: Von der Heydt-Museum, Wuppertal. (Acquisto con fondi della Fondazione Von der Heydt e una sovvenzione del Land Renania Settentrionale-Vestfalia presso il mercante d’arte Dr. Ewald Rathke, Francoforte sul Meno (stato 15.08.2023)”.
[102] “Il dipinto era stato eseguito da Pissarro nel 1867 ... Armand Dorville ... possedeva una sterminata collezione di circa 450 opere d’arte di artisti contemporanei, come Delacroix, Manet, Bonnard, Renoir, e Pissarro. Nel 1939, donò alcuni dei dipinti di questa vasta raccolta al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, mentre nel 1940 poté portarne alcuni con sé nel sud della Francia, dove riuscì a nascondersi, fino alla morte, avvenuta per cause naturali nel 1941. Purtroppo, come accadde a molti collezionisti francesi durante il governo di Vichy, Stato satellite del Terzo Reich, le sue proprietà furono confiscate e in gran parte messe all’asta nel giugno del 1942 a Nizza, contrariamente alle volontà del proprietario e, naturalmente, senza contattare nessuno dei familiari che avrebbe potuto ereditare la sua collezione. Inoltre, la maggior parte della famiglia Dorville fu uccisa dai Nazisti tra il 1940 e il 1944. Già nel gennaio del 2020, tre dipinti della collezione dell’avvocato francese furono restituiti agli stessi eredi: trovati nella collezione di Cornelius Gurlitt, furono acquistati nella stessa asta del 1942 dal padre di questi, Hildebrand Gurlitt, che si occupava proprio di recuperare opere d’arte per inserirle nel Führermuseum di Linz, mai realizzato” cfr. S. Winkler, L’Alte Nationalgalerie di Berlino restituisce, e poi riacquista, un dipinto di Pissarro trafugato dai Nazisti reperibile online sul sito https://www.ugei.it/lalte-nationalgalerie-di-berlino-restituisce-e-poi-riacquista-un-dipinto-di-pissarro-trafugato-dai-nazisti.
[103] S.E. Eizenstat, Imperfect Justice (2003), pagg. 201-202; H.N. Spiegler, Recovering Nazi-looted Art: Report from the Front Line’, 16 Connecticut J Int’l L (2001), 310-312; M.J. Bazyler, Holocaust Justice (2003), pag. 249. T. O’Donnell, The Restitution of Holocaust Looted Art and Transitional Justice: The Perfect Storm or the Raft of the Medusa? in Eur. J. Int’l. L., Vol. 22, 2011, pag. 49 ss.
[105] Zuckerman, The Holocaust Restitution Enterprise, in M.J. Bazyler and R.P. Alford (eds.), Holocaust Restitution, N.Y. Univ. Press, 2006, pag. 323.
[106] Spoliation Advisory Panel rules that two fine pieces of porcelain - acquired in good faith by the British Museum and the Fitzwilliam Museum - were looted during the Nazi era’, 2008: Department of culture, media, sport: http://webarchive.nationalarchives.gov.uk/+/http://www.culture.gov.uk/reference_library/media_releases/5193.aspx.
[107] La stessa galleria ha subito richieste di restituzione da parte di altri immigrati di discendenza ebraica: ad esempio nella contesa con G. Jorisch per Blooming Meadow (Klimt, 1906), conclusa con il ritiro delle richieste dell’attore, non sufficientemente documentate: Jorisch v. Lauder (S.D.N.Y. filed. Oct. 22, 2007); Jan 10, 2008 “Plaintiff Georges Jorisch voluntarily dismisses the action against Leonard Lauder without prejudice” (https://www.courtlistener.com/docket/4336654/11/jorisch-v-lauder/). L’azione era stata avviata dopo la pubblicazione di un nuovo catalogo di Alfred Weidinger, associate director dell’Albertina Museum a Vienna che indicava l’inziale collocazione nella “Redlich’s family villa outside Vienna” (R. Pogrebin, A Dispute Over a Klimt Purchased in New York, N.Y. Times, Sept. 26, 2007, B5.). P. Gerstenblith, L. Roussin, Claims for Holocaust-Related Art Works, 42 International Lawyer, 2008 (scholar.smu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1200&context=til).
[108] P. Gerstenblith, L. Roussin, International Cultural Property, 41 Int’l Law, 613, 617 (2007).
[110] J. Grimes, Forgotten Prisoners of War: Returning Nazi-Looted Art by Relaxing the National Stolen Property Act, in Roger Williams University Law Review, v. 15, 2010; Review of the Repatriation of Holocaust Art Assets in the United States, House Hearing, 109 Congress, 2006, U.S. Government Publishing Office.
[114] Le condizioni generali applicabili agli acquirenti sono pubblicate sul sito https://onlineonly.christies.com/terms-and-conditions/171#:~:text=Christie’s%20reserves%20the%20right%2C%20in,the%20sale%2C%20to%20restart%20or.
[115] A titolo esemplificativo si segnalano le banche dati www.lostart.de, www.artloss.com, www.lootedart.com.
Lost Art, come ricordato oltre, è la banca dati ufficiale della Germania: lo strumento centrale per la documentazione di opere d’arte trafugate e saccheggiate durante il nazionalsocialismo. Raccoglie riferimenti di beni culturali trasferiti, dislocati o sottratti (in particolare a proprietari ebrei) durante le persecuzioni, oppure beni per i quali - a causa di lacune nella ricerca sulla provenienza - non è possibile escludere un simile iter. La banca dati è gestita dalla fondazione Deutsches Zentrum Kulturgutverluste di Magdeburgo.
Artloss è una banca dati a carattere commerciale che riporta i beni culturali smarriti oppure rubati, fra cui anche le opere d’arte frutto di spoliazioni durante il periodo del nazionalsocialismo.
Lootedart è la banca dati non nazionale dell’“organizzazione senza scopo di lucro” Commission for Looted Art in Europe, con informazioni su 49 Stati, in relazione alle opere d’arte trafugate al tempo del nazionalsocialismo tedesco e a 25 000 beni culturali confiscati oppure andati persi durante la Seconda guerra mondiale.
Oltre a quelle citate, esistono molte altre banche dati che consentono di verificare se il bene è stato oggetto di spoliazione durante il periodo nazista.
[116] Quadri dello stesso autore (Pissarro) possono raggiungere le decine di milioni di dollari in taluni casi e poco più di un milione e mezzo in altri (ad es. nella vicenda del “Quai Malaquais, Printemps” su cui infra).
[118] The Nathan Katz Collection: “The claim became public only in September when the Dutch Ministry of Culture informed the museum directors of the claim. (...) The claim is quite controversial; according to Dutch looted art expert Rudi Ekkart, some of the paintings were sold before WWII. At least one source has claimed that the paintings were sold voluntarily and at fair market value to Alois Miedl, the dealer for Nazi leader Hermann Goering”: P. GERSTENBLITH, L. ROUSSIN, Art and International Cultural Property, 42 Int’l L. 729 (2008), https://scholar.smu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1200&context=til.
[120] In Francia Corinne Hershkovitch è sovente coinvolta in vertenze di questo genere: ad es. nel caso legato a Federico Gentili di Giuseppe nel 1998 (Héritiers Gentili di Giuseppe c. Musée du Louvre et France, in Arthemis, https://plone.unige.ch/art-adr/cases-affaires/five-italian-paintings-2013-gentili-di-giuseppe-heirs-v-musee-du-louvre-and-france/fiche-2013-cinq-peintures-italiennes-1) e in quello derivante dall’eredità René Gimpel (Cour d’appel de Paris, arrêt 30 Septembre 2020, https://www.lootedart.com/web_images/pedf2020/Arre%CC%82t%20GIMPEL.pdf).
[121] Resolved Stolen Art Claims. Claims for Art Stolen During The Nazi Era And World War II, Including Nazi-looted Art and Trophy Art; Art Law Group, Herrick, Feinstein LLP, 2 Park Avenue, New York, https://www.herrick.com/content/uploads/2016/01/Resolved-Stolen-Art-Claims.pdf.
[124] Tre le iniziative interessanti, l’università di Firenze, proprio in cooperazione con l’università di Ginevra e varie istituzioni culturali fiorentine, nell’ottobre 2023 ha svolto un corso intitolato “Executive Course in Art&Law”.
[125] International Foundation for Art Research (Ifar) “a 501(c)(3) not-for-profit educational and research organization ... an impartial and scholarly body to educate the public about problems and issues in the art world ... headquartered in New York”: https://www.ifar.org/about.php.
[126] https://www.artloss.com/.
[127] https://art.claimscon.org/ (“The Claims Conference/WJRO do not take on representation of individual claimants”).
[129] M. Pasikowska-Schnass, European Parliamentary Research Service, Briefing, Jewish art collections - Nazi looting, European Parliament, 2022.
[131] Martin Grosz and Lilian Grosz, v. The MUSEUM OF MODERN ART, (Herrmann-Neisse With Cognac, Self-Portrait With Model and Republican Automatons, Three Paintings by Grosz, Defendants-in-rem), United States District Court, S.D. New York, January 6, 2010. I dipinti custoditi da “Alfred Flechtheim, Grosz’s art dealer ... after Flechtheim’s death in 1937, the three Paintings fell prey to a network of unscrupulous art professionals, who took advantage of the political climate of the time to divest Grosz of his ownership. First, they [plainitffs] allege that within one month of the dealer’s death, an opportunistic art historian (Charlotte Weidler) stole Poet, which she is alleged to have hidden in Germany until 1952, when she sold it to MoMA. Less than one year later, in February 1938, a plundering Dutch art dealer (Carel van Lier) stole and then purported to auction off Self-Portrait and Automatons. The plaintiffs allege that the auction was a “sham”, designed to obfuscate the true nature of van Lier’s operations - laundering Nazi looted art-as evidenced by the fact that van Lier “purchased” both pieces himself at suspiciously below market prices. Shortly thereafter, the Dutch dealer sold the pieces to private collectors for a handsome profit”.
[132] Alessandra Farkas, I mercanti che trattarono con i nazisti, in Corriere della Sera, 11 novembre 1998.