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“Il diritto dei beni culturali” – Papers Convegno OGIPaC (27 maggio 2021)

Le Convenzioni UNESCO 1970 e UNIDROIT 1995 e la loro incidenza sul diritto privato

di Geo Magri

Sommario: 1. Premessa. - 2. La Convenzione UNESCO del 1970 e l’affermarsi dell’obbligo restitutorio dei beni culturali esportati illecitamente ancorché acquistati in buona fede. - 3. La soluzione ai problemi privatistici sollevati e non risolti dalla Convenzione UNESCO 1970: la Convenzione UNIDROIT del 1995. - 4. Il rapporto tra la Convenzione UNIDROIT e il diritto eurounitario. - 5. Conclusioni: l’impatto sul diritto privato.

The 1970 UNESCO and 1996 UNIDROIT Conventions and their impact on private law
This paper investigates the impact of the 1970 UNESCO and 1995 UNIDROIT Conventions on Italian and European private law. Following the introduction of the two above-mentioned Conventions and the rules of European Union law inspired by them, the obligation to return stolen and illegally exported cultural goods has become widespread on an international scale; this obligation goes so far as to include acquisitions made by third party purchasers in good faith. The international rules have also had an impact on the application of private law, which leads us to question whether there is a special circulating regime for cultural goods that derogates from that of common movable property.

Keywords: Cultural Property; Bona Fide Acquisition; Restitution; Return.

1. Premessa

Nel 2020 si è celebrato, sebbene in sordina a causa della pandemia che ha colpito il pianeta, il 50° anniversario della Convenzione dell’UNESCO del 1970 concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali e il 25° anniversario della Convenzione UNIDROIT del 1995 sui beni culturali rubati o esportati illegalmente [1].

L’anniversario è l’occasione per una riflessione sull’importanza storica delle due Convenzioni e per un’indagine sull’influenza che esse hanno esplicato sul diritto privato, in particolare su quello italiano ed europeo. Le due Convenzioni, infatti, segnano l’introduzione di un principio giuridico precedentemente sconosciuto: l’obbligo di restituire al paese di origine i beni culturali rubati, esportati illegalmente o scavati abusivamente. L’obbligo, pur soddisfacendo prevalentemente l’interesse pubblicistico dello Stato spogliato a rientrare in possesso del proprio patrimonio culturale, presenta innegabili riflessi sui quali anche il privatista deve interrogarsi e sui quali ci soffermeremo nelle pagine che seguono.

L’obbligo di restituzione dei beni culturali rubati o illecitamente esportati era originariamente limitato ai beni trafugati durante i conflitti armati: già alla fine dell’esperienza napoleonica fu organizzata la restituzione delle opere d’arte saccheggiate dall’esercito francese [2] e tale prassi è poi continuata anche con i conflitti successivi e oggi, addirittura, si tentano di introdurre disposizione volte a evitare che il conflitto armato si trasformi in un’occasione per agevolare la dispersione dei beni culturali nei paesi che ne sono colpiti o per finanziare le parti belligeranti (cfr. ad es. il Reg. UE 2019/880 del 17 aprile 2019 relativo all’introduzione e all’importazione di beni culturali).

A partire dalla Convenzione UNESCO del 1970, l’obbligo di restituzione delle opere d’arte si estende alle opere trasferite illegalmente da uno Stato, anche in assenza di un conflitto armato, e si introduce il principio generale per cui la rimozione di un bene culturale dal suo Stato di origine deve essere considerata illegale, imponendo alla comunità internazionale di reagire, intervenendo per consentirne la restituzione. Il principio è stato successivamente accolto anche a livello comunitario come dimostra la direttiva 1993/7 (successivamente sostituita dalla direttiva 2014/60), ed è stato successivamente ribadito e rafforzato dalla Convenzione UNIDROIT del 1995.

Lo scopo di questo studio è verificare se (e come) le regole internazionalistiche abbiano inciso sulle regole di diritto privato con riguardo alla circolazione dei beni culturali, contribuendo alla creazione di uno statuto giuridico particolare di tali beni, che li differenzia, con riguardo alle vicende circolatorie, dalle merci comuni.

2. La Convenzione UNESCO del 1970 e l’affermarsi dell’obbligo restitutorio dei beni culturali esportati illecitamente ancorché acquistati in buona fede

Come si è detto, il principio generale per cui i beni culturali esportati illecitamente devono essere restituiti al paese d’origine trova la sua origine nella Convenzione UNESCO del 1970 e successivamente è stato riaffermato e rafforzato dalla Direttiva 93/7/CEE (poi sostituita dalla Direttiva 2014/60/UE) e dalla Convenzione UNIDROIT del 1995.

L’intento delle Convenzioni internazionali è quello di proteggere il patrimonio culturale di ogni Stato membro. Questo aspetto deve essere sottolineato, poiché segna una differenza sostanziale del diritto convenzionale rispetto alla legislazione CE/UE che ha, invece, come scopo principale quello di conciliare il principio della libera circolazione delle merci con la conservazione del patrimonio culturale dei singoli Stati membri dell’Unione.

Analizzando le Convenzioni internazionali (e, sebbene in minor misura, data la volontà di non incidere sui profili proprietari, le direttive CE/UE) con la lente dello studioso del diritto privato, va sottolineato che uno dei principali risultati dell’adozione di queste norme internazionali è stato quello di escludere l’applicabilità della regola en fait de meubles possession vaut titre in vigore in tutti i principali sistemi giuridici continentali. L’inapplicabilità di tale regola ai beni rubati, che era già patrimonio di quasi tutti gli ordinamenti europei, è stata estesa dalle Convenzioni anche ai beni culturali illecitamente esportati o provenienti da scavi archeologici abusivi.

Gli effetti di diritto privato della Convenzione UNESCO emergono dalla lettura delle disposizioni che affermano l’obbligo, per gli Stati contraenti, di riconoscere che l’importazione, l’esportazione e il trasferimento illeciti di proprietà dei beni culturali costituiscono una delle cause principali di impoverimento del patrimonio culturale dei paesi d’origine di questi beni (art. 2) e che è necessario impegnarsi per combattere tali pratiche, effettuando le necessarie riparazioni. La Convenzione, all’art. 3 definisce illeciti l’importazione, l’esportazione e il trasferimento di proprietà di beni culturali effettuati in contrasto con le disposizioni adottate dagli Stati contraenti e, all’art. 7, impone agli Stati aderenti non solo l’obbligo di impedire l’acquisto di beni culturali da parte dei musei e delle istituzioni ad essi equiparabili, ma anche quello di procedere al recupero e alla restituzione, su richiesta dello Stato d’origine, di qualsiasi bene culturale rubato e trasferito illegalmente nel loro territorio.

La Convenzione prevede che l’obbligo di restituzione del bene culturale sia compensato con il diritto a ricevere un equo indennizzo per ogni “innocent purchaser” e per chiunque possa invocare un valido titolo di proprietà sui beni culturali rubati. A questo proposito va notato che la relazione del Comitato speciale di esperti che ha redatto il testo ha parlato di equo indennizzo da versare all’”acquirente in buona fede”, cosicché l’espressione innocent purchaser sembra descrivere un acquirente che, pur avendo acquistato con la diligenza che ci si può normalmente attendere, ignorava l’illiceità della provenienza del bene a causa del furto o dell’esportazione illecita; la Convenzione sul punto non offre particolari chiarimenti e lascia quindi spazio per i dubbi dell’interprete.

Il principale limite della Convenzione UNESCO consiste nel non aver disciplinato dettagliatamente l’azione di restituzione da parte dello Stato di origine, limitandosi a imporre il generico obbligo di restituzione del bene, previo indennizzo dell’acquirente in buona fede. Nonostante questo limite, però, essa introduce un profilo di estrema importanza per il diritto civile, per quanto formulato ancora genericamente: di fronte a un furto o ad un’esportazione illecita, l’eventuale tutela dell’acquirente in buona fede prevista dal diritto nazionale entra in conflitto con gli obblighi convenzionali e quindi non può trovare applicazione per escludere l’obbligo di restituzione.

Come si è accennato, dal punto di vista civilistico, i problemi che la Convenzione lascia irrisolti sono legati principalmente all’individuazione del concetto di buona fede dell’acquirente e delle condizioni necessarie affinché l’acquirente possa essere considerato an innocent purchaser in modo da ricevere l’indennizzo previsto [3].

Su questo specifico aspetto la Convenzione rimane silente, mentre maggiori precisazioni sono contenute nella successiva Convenzione UNIDROIT del 1995.

3. La soluzione ai problemi privatistici sollevati e non risolti dalla Convenzione UNESCO 1970: la Convenzione UNIDROIT del 1995

La Convenzione UNIDROIT del 1995 è stata dettata da una duplice esigenza risultante dalle mancanze della Convenzione UNESCO del 1970: la necessità di armonizzare alcune questioni di diritto privato sollevate dalla Convenzione UNESCO e l’opportunità di superare alcuni limiti legati alla genericità nella disciplina delle condizioni e delle modalità per l’esercizio dell’azione di restituzione e della liquidazione dell’equo indennizzo al possessore in buona fede [4].

Tra le questioni di diritto privato emerse in seguito all’adozione della Convenzione UNESCO del 1970 quella più rilevante è stata sicuramente, come già osservato, l’impatto delle norme convenzionali sulle disposizioni di diritto nazionale in materia di protezione dell’acquirente in buona fede. Sebbene la disposizione dell’articolo 7, lett. b), punto ii), sia stata redatta tenendo conto delle disposizioni di diritto privato che disciplinano gli acquisti a non domino, la sua versione finale, formalizzata nella Convenzione del 1970, necessitava di ulteriori chiarimenti per consentire un maggior coordinamento con le norme interne degli Stati contraenti.

I limitati risultati raggiunti della Convenzione UNESCO del 1970 hanno indotto l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato, in collaborazione con la stessa UNESCO, a studiare nuove regole uniformi sul ritorno e la restituzione dei beni culturali. L’Istituto, coadiuvato da rinomati esperti e influenzato dalla direttiva 93/7/CE, dopo oltre un decennio di lavoro, ha adottato, nel 1995, la “Convenzione sui beni culturali rubati o esportati illegalmente”, firmata a Roma il 24 giugno 1995, con la quale si è voluto offrire un nucleo uniforme di regole dettagliate con riguardo alle procedure per la restituzione e il ritorno dei beni culturali. L’obiettivo principale della Convenzione è stato quello di migliorare il quadro normativo esistente, ostacolando le pratiche illegali nel commercio dei beni culturali. Le differenti norme di diritto privato vigenti nei singoli Stati, infatti, potrebbero consentire di sanare la circolazione dei beni rubati, dei beni illecitamente esportati o dei beni provenienti da scavi abusivi che nei loro paesi di origine non potrebbero circolare lecitamente. Per poter commerciare questi beni e per sanare definitivamente il difetto di illegittima provenienza, infatti, sarebbe sufficiente trasferire e alienare il bene in un paese che permetta di acquistare in buona fede la proprietà di qualunque tipo di bene, indipendentemente dalla sua provenienza furtiva o illecita, e, attraverso l’applicazione del principio della lex rei sitae, l’acquirente potrebbe rifiutarsi di restituire il bene acquistato invocando il suo legittimo titolo di acquisto, anche se lo dovesse riportare nello Stato d’origine [5].

Proprio per arginare questo risultato è stata adottata la Convenzione UNIDROIT. L’articolo 1 della Convenzione chiarisce che essa si applica alle rivendicazioni di carattere internazionale per: (a) la restituzione dei beni culturali rubati e (b) il ritorno dei beni culturali sottratti al territorio di uno Stato contraente in violazione delle sue norme interne che ne disciplinano l’esportazione [6]. Si deve sottolineare che, per consentire un più agevole recupero dei reperti archeologici provenienti da scavi abusivi, la Convenzione consente di applicare sia le norme che disciplinano la restituzione dei beni culturali rubati sia quelle in materia di ritorno dei beni culturali esportati illecitamente. In questo modo essa si adatta alle particolari esigenze di protezione a scopi culturali e scientifici dei reperti archeologici, posto che, in linea di massima, risulta più difficile provare che un bene culturale è stato scavato illegalmente, piuttosto che dimostrare che esso sia stato esportato illecitamente, ad esempio perché sprovvisto di un valido certificato di esportazione.

Ai fini della Convenzione, qualsiasi bene è considerato culturale se “per motivi religiosi o laici” mostra “un’importanza per l’archeologia, la preistoria, la storia, la letteratura, l’arte o la scienza” e appartiene a una delle categorie elencate nell’allegato alla Convenzione (art. 2).

Va sottolineato che l’articolo 1 prevede espressamente che la richiesta di restituzione debba avere carattere internazionale: sarà quindi necessario e sufficiente, ai fini dell’applicabilità della Convenzione, che il bene culturale sia stato rubato o trasferito illecitamente dal paese di origine in un altro Stato [7].

Può sembrare insolito che, a differenza della direttiva 93/7, la Convenzione non preveda la definizione dei termini in essa utilizzati. Questa scelta è stata fatta perché la soluzione definitoria adottata dalla direttiva è stata contestata da alcune delegazioni durante i lavori di redazione della Convenzione. L’omissione delle definizioni è giustificata dalla volontà di lasciare ai giudici nazionali una maggiore discrezionalità nell’interpretazione delle disposizioni della Convenzione, essa appare tuttavia criticabile perché comporta una maggiore incertezza dei risultati applicativi, introducendo il rischio di soluzioni difformi nei singoli ordinamenti.

Uno dei problemi principali è stato quello di bilanciare gli interessi dell’acquirente in buona fede del bene culturale rubato o illecitamente esportato con quelli del precedente proprietario. Le norme relative agli acquisti a non domino non sono uniformi in tutte le giurisdizioni. Ci sono paesi come l’Italia che offrono un’ampia protezione all’acquirente in buona fede a spese del proprietario, anche nel caso di beni rubati (vedi art. 1153 c.c.), mentre altri sistemi giuridici (ad esempio Francia e Germania) limitano la protezione ai beni il cui possesso non è andato perso involontariamente e altri ancora che non forniscono alcun tipo di protezione all’acquirente in buona fede. È il caso, ad esempio, dell’ordinamento portoghese e, sebbene con qualche eccezione, di quello inglese, dove, in virtù della regola nemo dat quod non habet, il proprietario espropriato prevale normalmente sull’acquirente in buona fede [8].

La Convenzione adotta una soluzione di compromesso stabilendo (art. 3 par. 1) che “the possessor of a cultural object which has been stolen shall return it”; d’altro canto, se il possessore è in grado di provare la sua due diligence al momento dell’acquisto ha diritto a ricevere una fair compensation: “The possessor of a stolen cultural object required to return it shall be entitled, at the time of its restitution, to payment of fair and reasonable compensation provided that the possessor neither knew nor ought reasonably to have known that the object was stolen and can prove that it exercised due diligence when acquiring the object” (art. 4 par. 1) [9]. È importante sottolineare il fatto che la Convenzione UNIDROIT non ritiene sufficiente, ai fini dell’indennizzo, la good faith, come, invece, avveniva con la Convenzione UNESCO, ma richiede la due diligence che appare ben più gravosa da dimostrare. L’articolo 4 (4) della Convenzione, infatti, prevede che l’accertamento della due diligence dell’acquirente debba tenere conto di “all the circumstances of the acquisition, including the character of the parties, the price paid, whether the possessor consulted any reasonably accessible register of stolen cultural objects, and any other relevant information and documentation which it could reasonably have obtained, and whether the possessor consulted accessible agencies or took any other step that a reasonable person would have taken in the circumstances”. È evidente che l’acquirente per invocare la propria due diligence è tenuto ad assolvere un onere probatorio particolarmente impegnativo e ai limiti dell’impossibile: consultare i registri dei beni rubati e confrontarli con il bene che si intende acquistare può richiedere svariate giornate ed è un’operazione che non si presenta quasi mai agevole dal punto di vista pratico. La tecnologia è però venuta in soccorso degli operatori del settore e l’Interpol ha recentemente rilasciato un’app denominata ID-Art che può essere agevolmente scaricata su un supporto mobile e che, grazie alla telecamera del tablet o dello smartphone e all’intelligenza artificiale, è in grado di verificare se il bene è censito in uno dei registri dei beni culturali rubati. È evidente che grazie a questa app l’indagine sulla provenienza lecita del bene si semplifica notevolmente.

Per determinare l’esistenza di un diritto reale sui beni oggetto della richiesta di restituzione, secondo la Convenzione, occorre fare riferimento alla lex originis [10], cioè alla legge dello Stato di origine del bene culturale e non alla lex rei sitae, generalmente adottata come criterio di collegamento dal diritto internazionale privato [11]. La soluzione segue quella già adottata dalla Risoluzione di Basilea del 1991 dell’Institut de Droit International sulla vendita di opere d’arte, che aveva ampiamente affrontato i problemi derivanti dall’applicazione del criterio di collegamento generale della lex rei sitae anche nel campo dei diritti reali relativi ai beni culturali [12].

Il motivo per cui si è deciso di utilizzare la lex originis al posto della lex loci rei sitae [13] è legato alle difficoltà nell’applicazione dell’articolo 7 della Convenzione UNESCO del 1970 negli ordinamenti giuridici che tutelano l’acquisto in buona fede dei beni mobili e ai possibili rischi che tali norme presentano con riguardo alla legittimazione della circolazione dei beni culturali di provenienza illecita.

Si potrebbe obiettare che il riferimento alla lex originis possa sollevare difficoltà di coordinamento con la legge applicabile al contratto in base al quale i beni sono stati acquistati dopo l’esportazione illegale e al quale si applica la lex loci rei sitae. Tuttavia, per la Convenzione, tale legge non può essere presa in considerazione in quanto, se l’acquisto è stato effettuato dopo il furto o l’esportazione illecita, l’acquirente ha soltanto diritto, se ha agito con la dovuta diligenza, a richiedere un equo compenso ma non potrà invocare l’idoneità del contratto a trasferire la proprietà.

La richiesta di restituzione deve essere presentata entro tre anni dal momento in cui il richiedente ha scoperto il luogo in cui si trova il bene e ne ha identificato il proprietario. La restituzione non può essere richiesta dopo 50 anni (che però possono essere estesi dalle leggi dei singoli Stati, ex art. 3 par. 5 [14]) dalla data del furto (art. 3 par. 3 [15]).

Il termine di prescrizione per l’azione non si applica ai beni culturali più importanti appartenenti al patrimonio culturale degli Stati contraenti, per i quali l’azione di restituzione è esercitabile senza limitazione temporale (art. 3, par. 4) [16].

Data la genericità della previsione, il diritto di proporre l’azione di restituzione in caso di beni rubati spetta sia allo Stato membro che al privato materialmente spossessato [17]. Si tratta di una differenza rilevante tra la Convenzione e la legislazione UE (cfr. direttive UE 1993/7 e 2014/60), che, invece, consente solo allo Stato membro di intraprendere un’azione legale.

La seconda parte della Convenzione è dedicata alla disciplina del ritorno dei beni culturali esportati illecitamente, cioè alla disciplina delle domande di ritorno di quei beni che hanno lasciato illecitamente lo Stato d’origine o che, pur essendo usciti in conformità alla disciplina prevista dallo Stato di origine, non sono rientrati nei tempi e nei modi previsti. Per poter invocare tali disposizioni è necessario che tutti gli Stati aderenti adottino una regolamentazione interna sull’esportazione e la protezione dei beni culturali. A differenza di quanto avviene per i beni rubati, il diritto di chiedere la restituzione dei beni esportati illegalmente spetta esclusivamente agli Stati contraenti (articolo 5, par. 1). Analogamente a quanto avviene per i beni rubati, se i beni sono stati acquistati da un terzo, questi dovrà restituirli e avrà diritto a un equo compenso purché sia in grado di dimostrare di avere acquistato con la dovuta diligenza.

Convenzione UNIDROIT è entrata in vigore il 1° luglio 1998 ed è stata firmata o ratificata da 48 Stati. Si tratta principalmente di cosiddetti Stati “esportatori”, ossia di Paesi il cui patrimonio culturale è minacciato dal traffico illecito e che, quindi, in linea generale, sono già dotati di una legislazione avanzata in materia di protezione e conservazione del patrimonio culturale. Il fatto che i Paesi “importatori” - i quali hanno tradizionalmente dimostrato una resistenza nel regolare il mercato dell’arte in modo rigido - non abbiano firmato o ratificato la Convenzione è un segno che dimostra la sua efficacia nella protezione del patrimonio culturale, ma che è anche la principale ragione della sua scarsa diffusione e quindi del suo sostanziale insuccesso.

4. Il rapporto tra la Convenzione UNIDROIT e il diritto eurounitario

Il legislatore UE ha disciplinato con due direttive la n. 93/7 e la 2014/60 la materia della restituzione dei beni culturali illecitamente esportati da uno Stato membro UE in un altro. A differenza della Convenzione UNIDROIT, la disciplina europea non prende in considerazione espressamente i beni rubati e quelli che provengono da scavi archeologici illeciti; tuttavia, dalla lettura dei considerando (considerando 5 dir. 93/7 e 5 e 16 dir. 2014/60) e dal testo delle due direttive (art. 5 e 10 dir. 2014/60), è possibile ritenere che le disposizioni contenute nelle due direttive possano essere estese anche a tali beni. Il contenuto delle direttive e della Convenzione è quindi, almeno parzialmente, sovrapponibile ratione materiae.

Non solo, quando è stata redatta la Convenzione UNIDROIT, la Direttiva 93/7 è stata il modello a cui si è guardato e dal quale si è tratta ispirazione, dato che era solo di due anni più vecchia; allo stesso tempo i lavori preparatori della Convenzione avevano ispirato la redazione della stessa Direttiva. Non sorprende quindi che ci siano molti punti in comune tra i due testi e che la potenziale sovrapposizione tra di essi sia stata presa in considerazione dalla Convenzione, la quale all’articolo 13, prevede che: “this Convention does not affect any international instrument by which any Contracting State is legally bound and which contains provisions on matters governed by this Convention, unless a contrary declaration is made by the States bound by such instrument”. Il par. 3 dell’art. 13 è ancora più preciso; esso prevede che: “In their relations with each other, Contracting States which are Members of organisations of economic integration or regional bodies may declare that they will apply the internal rules of these organisations or bodies and will not therefore apply as between these States the provisions of this Convention the scope of application of which coincides with that of those rules[18]. In sostanza, secondo la cosiddetta “clausola di disconnessione” contenuta nel paragrafo 3, gli Stati membri dell’UE, che sono anche membri della Convenzione, sono autorizzati ad applicare le disposizioni della Direttiva che si sovrappongono a quelle della Convenzione; nelle materie non contemplate dalla Direttiva, invece, si applicheranno le norme della Convenzione [19]. La “clausola di disconnessione” è stata invocata solo da sette dei quattordici Stati membri dell’UE che hanno firmato la Convenzione; si pone quindi la questione di cosa accadrebbe se gli Stati che non hanno invocato la clausola fossero chiamati a scegliere tra la Direttiva (il problema, come vedremo, si pone in minor misura con riguardo alla Direttiva 2014/60) e la Convenzione.

La clausola ha consentito di invocare le norme della Convenzione per colmare alcune lacune della direttiva [20]: ad esempio, la Convenzione UNIDROIT [21] avrebbe potuto essere utilizzata per richiedere la restituzione di beni non contemplati dalla Direttiva 93/7 o per consentire l’esercizio di azioni che, ai sensi della Direttiva, dovevano essere considerate prescritte. Con l’adozione della Direttiva del 2014, tuttavia, l’applicazione delle due norme [22], ratione temporis e ratione materiae, è venuta sostanzialmente a coincidere, riducendo le ipotesi nelle quali la Convenzione avrebbe potuto essere utilizzata per colmare le lacune nella legislazione UE.

L’art. 15 della direttiva del 1993 (analoga disposizione è prevista dall’art. 12 dir. 2014/60) prevede che la sua applicazione non pregiudichi i procedimenti civili o penali che possono essere intentati, in base al diritto nazionale degli Stati membri dallo Stato membro richiedente e/o dal proprietario di un bene culturale rubato.

Sebbene vi siano molte analogie tra la Convenzione UNIDROIT e le Direttive, è importante notare che tra i due testi vi sono anche alcune differenze riconducibili a due profili distinti, uno formale, legato alla diversa natura dei due atti, l’altro di tipo contenutistico [23]. Per quanto riguarda le differenze di contenuto, va notato che il campo di applicazione della Direttiva è, almeno formalmente, meno ampio di quello della Convenzione [24]; quest’ultima, infatti, mira a disciplinare sia la restituzione dei beni culturali rubati che il ritorno di quelli esportati e scavati illegalmente. Inoltre, nel caso di beni rubati, la Convenzione riconosce anche ai privati la legittimità di agire per ottenere la restituzione, mentre la Direttiva può essere invocata soltanto dagli Stati membri.

Nel caso dei beni rubati, l’articolo 4 prevede che il possessore abbia diritto all’equo indennizzo al momento della restituzione del bene, a condizione che dimostri che “neither knew nor ought reasonably to have known that the object was stolene che abbia esercitato “due diligence when acquiring the object”; nel caso di beni esportati illecitamente, invece, l’articolo 6 impone al possessore di dimostrare che “neither knew nor ought reasonably to have known at the time of acquisition that the object had been illegally exported”. Tale differenza è stata in parte colmata dall’art. 10 della Direttiva del 2014 che, recependo le indicazioni della Convenzione, prevede che nel determinare se l’acquisto è avvenuto con la diligenza richiesta si debba tenere conto “di tutte le circostanze dell’acquisizione, in particolare della documentazione sulla provenienza del bene, delle autorizzazioni di uscita prescritte dal diritto dello Stato membro richiedente, della qualità delle parti, del prezzo pagato, del fatto che il possessore abbia consultato o meno i registri accessibili dei beni culturali rubati e ogni informazione pertinente che avrebbe potuto ragionevolmente ottenere o di qualsiasi altra pratica cui una persona ragionevole avrebbe fatto ricorso in circostanze analoghe”. La direttiva riprende quasi verbalmente l’art. 4.4 della Convenzione, aggiungendo, però, tra gli elementi da prendere in considerazione, anche le autorizzazioni di uscita prescritte dal diritto dello Stato membro richiedente; si può quindi osservare come essa sia divenuta persino più rigorosa della Convenzione nel regolare la due diligence [25], finendo per introdurre una sorta di probatio diabolica in capo all’acquirente, che ben potrebbe trovarsi ad acquistare un bene del quale non conosce (e addirittura potrebbe non essere è in grado di conoscere) il paese di origine.

L’onere della prova di aver effettuato l’acquisto con la necessaria diligenza è posto a carico del possessore (art. 10, comma 1 dir. 2014/7). La Direttiva, in questo modo ha voluto, da un lato, uniformare l’interpretazione della nozione di due diligence, fornendo una guida ai giudici nella valutazione concreta del concetto e, dall’altro, sempre con intento armonizzante, sottrarre la disciplina dell’onere della prova alla lex fori e quindi alle eventuali divergenze tra gli ordinamenti di civil e di common law, al fine di attribuirla, in linea generale, al possessore/acquirente.

L’articolo 6.3 della Convenzione prevede che, in luogo dell’indennizzo e d’intesa con lo Stato richiedente, il possessore tenuto a restituire il bene culturale possa decidere di conservarne la proprietà o di trasferirla (a titolo oneroso o gratuito) a una persona di sua scelta residente in tale Stato. La Direttiva non contempla una tale facoltà per il possessore, né affronta la questione dell’attribuzione della proprietà del bene restituito (art. 12 dir. 93/7 e 13 dir. 2014/60). Essa si limita ad affermare che l’accoglimento dell’azione comporta il ritorno del bene nel territorio dello Stato richiedente e che quest’ultimo regolerà l’attribuzione della proprietà. Evidentemente un risultato analogo a quello previsto dalla Convenzione, ancorché non previsto espressamente dalla direttiva, potrà essere raggiunto durante i negoziati per la restituzione tra il possessore e lo Stato richiedente; ne consegue che il possessore potrà accordarsi con lo Stato richiedente per rinunciare all’indennizzo (o a una parte di esso) e alienare il bene a un museo o a un privato residenti in tale Stato.

La Convenzione è più rigorosa nell’esigere che lo Stato richiedente dimostri allo Stato richiesto quali sono gli interessi primari che soddisfa la restituzione della proprietà del bene culturale, prevedendo che venga fornita la prova del danno causato dalla perdita del bene (cfr. art. 5).

Un’altra differenza tra i due testi si riscontra nel termine per la proposizione dell’azione, che nella direttiva 93/7 era di un solo anno. Il termine, giudicato troppo breve per consentire agli Stati l’attuazione delle misure prodromiche alla proposizione dell’azione, è stato prolungato dall’art. 8 della direttiva del 2014 ed è oggi corrispondente a quello previsto dalla Convenzione UNIDROIT, anche questo elemento dimostra la permanenza di un dialogo tra i due testi.

Sia la Convenzione che la legislazione UE subordinano l’equo indennizzo alla due diligence dell’acquirente; le norme della Convenzione sono, però, più articolate di quelle previste dalla Direttiva 93/7. Quest’ultima, infatti, si limitava a prevedere, all’articolo 9, che il giudice competente dello Stato in cui fosse chiesta la restituzione attribuisse al possessore del bene un equo compenso in base alle circostanze del caso concreto, a condizione che fosse accertata la sua due diligence al momento dell’acquisto; come si ricorderà, invece, la Convenzione, riprendendo il testo della proposta di direttiva del ’93, indica più nello specifico quali siano i criteri da esaminare nel determinare se vi sia stata o meno due diligence da parte dell’acquirente.

Quanto alle differenze formali si deve osservare che la direttiva obbliga tutti gli Stati membri UE, mentre la Convenzione è vincolante solo per gli Stati che vi abbiano aderito. Sulla corretta ed uniforme interpretazione delle Direttive da parte degli Stati membri vigila la Corte di giustizia alla quale i giudici nazionali possono rivolgersi tramite il rinvio pregiudiziale, mentre nella Convenzione manca un organo incaricato di svolgere una funzione nomofilattica. Infine, il rispetto della Direttiva è garantito dall’efficace sistema di controllo e di sanzioni previsto dai Trattati, mentre il rispetto della Convenzione resta affidato ai più deboli meccanismi di garanzia offerti dal diritto internazionale [26].

5. Conclusioni: l’impatto sul diritto privato

In dottrina Posner ha messo in dubbio che “cultural property is distinctive or special, and therefore different from ordinary property” [27]. L’affermazione viene addirittura rafforzata dall’osservazione secondo la quale “[t]here is no good argument for international legal regulation of cultural property, during peacetime or wartime”; ciò spingerebbe a ritenere che: “the treatment of cultural property would improve, even during wartime, if the current regime of international regulation were abolished [28].

In realtà, però, tanto a livello nazionale che europeo e internazionale, le regole in materia di beni culturali sono diverse da quelle che governano la “ordinary property” e ciò appare più che comprensibile: sui beni culturali, infatti, oltre all’interesse del proprietario, c’è anche un interesse della collettività alla loro conservazione e preservazione. Per questo motivo, in Italia, si è osservato che la proprietà dei beni culturali è una proprietà sui generis [29], nella quale convivono sia l’interesse dello Stato alla conservazione del patrimonio culturale della nazione sia quello (eventuale) del privato. Non sorprende, quindi, che si sia proposto di ricondurre i beni culturali nella categoria dei beni comuni [30]; ma, anche in assenza di una tale categoria [31], e operando con le categorie tradizionali e supportate dallo ius condito, possiamo affermare che i beni culturali non appartengano mai in modo completo al privato che ne è proprietario. Al contrario, la proprietà del bene culturale è una delle più tipiche espressioni della funzione sociale della proprietà privata che, dalla Costituzione di Weimar, caratterizza il diritto privato europeo, consentendo le limitazioni al diritto di proprietà dei singoli in ossequio alla necessità (pubblica) di tutelare un interesse dello Stato e della collettività [32]. La funzionalizzazione della proprietà dei beni culturali consente allo Stato di imporre vincoli e restrizioni alla circolazione e alla fruizione dei beni culturali quali, ad esempio, il divieto di esportazione, il diritto di prelazione dello Stato, gli obblighi di conservazione e i vincoli in caso di restauro.

Le Convenzioni UNESCO e UNIDROIT e - sebbene in minor misura, visto che per espressa dichiarazione non intendono incidere sul regime proprietario - le direttive 93/7 e 2014/60 sono un’ulteriore dimostrazione della presenza di un interesse pubblico sui beni culturali, interesse che può spingersi sino a limitare ed escludere i diritti dominicali del privato.

Le norme che abbiamo esaminato, infatti, derogano alle normali regole del diritto privato e contribuiscono a creare un particolare statuto privatistico del bene culturale, che è largamente influenzato da interessi di tipo pubblicistico.

In questa riflessione meritano particolare attenzione la Convenzione UNIDROIT e le direttive emanate dall’UE. Tali norme hanno inciso sul concetto di proprietà culturale, contribuendo alla creazione, almeno con riguardo alle vicende circolatorie, di quello status particolare del bene culturale al quale si accennava. Le norme internazionali, infatti, come si è visto, intervengono per limitare la circolazione dei beni culturali e per tutelare l’interesse dello Stato richiedente (e, ai sensi della Convenzione UNIDROIT, anche quello del proprietario) a vedere restituiti i beni rubati o illecitamente esportati [33]. La previsione incide, con tutta evidenza, sulla disciplina degli acquisti a non domino, derogando alle regole normalmente adottate dagli ordinamenti europei. Non solo, le indagini che l’acquirente deve svolgere per essere considerato diligente appaiono talmente approfondite che è difficile comparare la circolazione dei beni culturali a quella degli altri beni mobili per i quali, invece, generalmente, non sono richieste all’acquirente particolari cautele per poter invocare la propria buona fede.

La regola generale, accolta dal diritto privato europeo, è che chi acquista in buona fede dal proprietario apparente diviene proprietario se acquista in forza di un titolo idoneo ed entra nel possesso del bene. Tale regola ha diverse declinazioni a livello nazionale e opera in taluni ordinamenti in modo più esteso, mentre in altri in maniera più restrittiva; in Italia, ad esempio, la tutela dell’acquirente in buona fede è particolarmente estesa e ricomprende anche i beni rubati, che, nel resto d’Europa, invece, vengono generalmente esclusi dal suo ambito applicativo.

La Convenzione UNIDROIT (e sulla sua scia la legislazione UE), invece, limita e rimodella gli effetti della tutela dell’acquirente a non domino del bene culturale, imponendo non solo la restituzione del bene rubato, cosa che sarebbe naturale in quasi tutti gli ordinamenti europei, ma anche quella del bene illecitamente esportato.

Con riferimento al requisito soggettivo richiesto all’acquirente, la disciplina internazionale adotta un criterio ancora più stringente rispetto alla buona fede già nota agli ordinamenti nazionali, imponendo una cautela particolarmente elevata al momento dell’acquisto per poter richiedere l’equo indennizzo in caso di restituzione. Una tale disciplina finisce per limitare il campo di applicazione delle regole di diritto privato, uniformando gli ordinamenti ed evitando che, tramite l’applicazione della lex rei sitae, si creino mercati nei quali, grazie a una tutela dell’acquirente a non domino particolarmente estesa, si possa concentrare il commercio di beni culturali di provenienza illecita. Dalle norme internazionali ed eurounitarie deriva una riformulazione della disciplina dell’acquisto a non domino, in forza della quale l’acquirente, anziché conservare la proprietà del bene, ha diritto ad un equo indennizzo, purché, però, abbia acquistato con due diligence, ossia con una diligenza superiore a quella che sarebbe richiesta all’acquirente in buona fede.

Gli effetti di una tale riformulazione della tutela dell’acquirente in buona fede sono notevoli: da un lato si pone il problema di determinare che cosa si debba intendere per equo indennizzo, dall’altro occorre verificare se e quali conseguenze essa abbia esplicato con riguardo alle ordinarie ipotesi di acquisto a non domino.

Sia le Convenzioni che le direttive omettono di individuare i criteri da seguire nella determinazione dell’equo indennizzo. Evidentemente il giudice non può fissare un indennizzo in base al suo mero arbitrio, ma dovrà prendere in considerazione elementi oggettivi quali il valore di mercato del bene, il prezzo pagato dall’acquirente al momento dell’acquisto, le eventuali spese sostenute per il restauro o la conservazione del bene, gli eventuali danni arrecati all’opera e, infine, il fatto che all’esito dell’azione di restituzione il possessore resti nella disponibilità del bene.

Ai fini della liquidazione dell’equo indennizzo, quindi, il valore di mercato sarà utilizzabile quale criterio di riferimento; il dato sembra confermato dalla giurisprudenza della Corte EDU, per la quale la privazione della proprietà da parte dei pubblici poteri costituisce un’ingerenza nel diritto di ogni persona al rispetto dei propri beni che deve essere adeguatamente ristorata [34] e che può essere conforme all’art. 1 del Protocollo I della CEDU soltanto se persegue il giusto equilibrio tra l’interesse generale e la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo [35].

In mancanza di una somma corrispondente al valore di mercato del bene, la privazione della proprietà da parte dello Stato costituisce, di regola, una lesione del diritto di proprietà del singolo ed è quindi contraria alla CEDU [36]. Ciò non significa che obiettivi legittimi di pubblica utilità possano consentire la corresponsione di un indennizzo inferiore [37]: nel caso dei beni culturali, la riduzione dell’indennizzo potrebbe ad esempio conseguire al superiore interesse pubblico al ritorno del bene nel paese d’origine.

Il valore di mercato, quindi, sebbene sia un criterio indicativo, non vincolerà mai tassativamente il giudice. Qualche utile indicazione può essere desunta dal caso Beyeler sul quale ebbe a pronunciarsi, per ben due volte, la Corte EDU [38]. Beyeler, affermato gallerista svizzero, nel 1977 acquistò, per interposta persona, presso un antiquario romano che aveva richiesto l’autorizzazione all’esportazione, il dipinto “Ritratto di un Giovane Contadino le Jardinier” di Vincent van Gogh per la somma di seicento milioni di lire (ca. 310.000 €). L’esportazione non fu mai autorizzata, poiché giudicata un grave pregiudizio per il patrimonio culturale italiano e Beyeler non comunicò alle autorità l’acquisto dell’opera per evitare che venisse azionato il diritto di prelazione previsto dalla legge. Quando, nel 1983, si determinò a vendere il quadro alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, per una somma superiore ai due milioni di dollari, però, Beyeler si decise a dichiararsi come acquirente anche allo Stato italiano.

Nessun problema sarebbe sorto nel caso in cui lo Stato italiano, una volta informato della vendita, avesse preteso di esercitare tempestivamente il diritto di prelazione, divenendo proprietario del quadro col semplice rimborso del prezzo pagato dal Beyeler al momento del suo acquisto. Il problema sorse, invece, perché, soltanto nel 1988, quindi cinque anni dopo aver ricevuto notizia della cessione da Beyeler alla fondazione Peggy Guggenheim, lo Stato italiano pretese di esercitare il diritto di prelazione, pagando lo stesso prezzo che era stato inizialmente versato dal Beyeler all’antiquario romano e senza nulla riconoscere per la rivalutazione del quadro.

La Corte EDU, nella decisione del 2002, ritenendo parzialmente scorretta la condotta del Beyeler, ebbe a stabilire che non gli spettasse alcun diritto indennitario all’aumento di valore del quadro nel periodo in cui aveva celato la sua identità di acquirente all’autorità italiana; infatti, secondo la Corte, nel momento in cui egli aveva acquistato il quadro per portarlo fuori dall’Italia non aveva alcuna legittima aspettativa alla rivalutazione, prima di conoscere se sarebbe stato esercitato il diritto di prelazione. Beyeler, inoltre, essendo un commerciante d’arte professionale, era pienamente consapevole delle norme che regolano il settore; era quindi abbastanza evidente come la sua condotta fosse volta ad evitare l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato. La Corte ritenne, però, che, dopo la denuncia dell’acquisto, le cose fossero mutate radicalmente e che il ricorrente avesse diritto al risarcimento dell’effettiva perdita patrimoniale causata dal ritardo di cinque anni nell’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato italiano.

Gli insegnamenti utili che possiamo trarre dal caso Beyeler sembrano così sintetizzabili: perché l’indennizzo possa definirsi equo occorre tener conto del prezzo pagato dall’acquirente al momento dell’acquisto, delle successive variazioni e degli eventuali incrementi di valore, ma anche del comportamento dell’acquirente e di eventuali condotte che abbiano pregiudicato gli interessi dello Stato. In linea di massima, quindi, l’equità dell’indennizzo impone il pagamento del valore di mercato, ma eventuali deroghe sono sempre possibili, anche se devono essere adeguatamente motivate. Potremmo ad esempio immaginare i casi in cui l’acquirente, successivamente all’acquisto, abbia assunto una condotta particolarmente scorretta, oppure al caso di un bene acquistato per un valore esiguo, che poi si scopra essere di importanza e valore inestimabili e imprevedibili. In questi casi, ci sembra che il superiore interesse dello Stato a riottenere la disponibilità di un bene di così grande valore, che è stato illecitamente esportato e che provocherebbe nel patrimonio dell’acquirente un incremento del tutto imprevisto ed imprevedibile al momento dell’acquisto, giustifichino una riduzione della somma ad un valore, magari superiore a quello pagato, ma, comunque, inferiore a quello di mercato [39].

Con riguardo agli effetti delle norme internazionali sull’applicazione delle regole nazionali in materia di acquisto a non domino mi sembra che una buona cartina di tornasole sia offerta dalla giurisprudenza italiana. Abbiamo detto come in Italia la tutela dell’acquirente a non domino prevista dall’art. 1153 c.c. sia particolarmente ampia; tuttavia, la nostra giurisprudenza, quando è chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità dell’art. 1153 c.c. it. ai beni culturali, appare assai rigorosa nella valutazione della buona fede dell’acquirente, limitando notevolmente la portata della presunzione possessoria contenuta nell’art. 1147 terzo comma c.c. e imponendo, a chi acquista, l’adozione di particolari cautele per non essere rimproverato di aver ignorato con colpa grave l’altruità del diritto [40]. Proprio queste cautele adottate dalla giurisprudenza hanno indotto parte della dottrina ad affermare che, con riferimento alla circolazione a non domino, i beni culturali derogano rispetto ai beni mobili comuni e si avvicinano ai beni mobili registrati [41]. È appena il caso di sottolineare che, con riferimento alla circolazione internazionale dei beni culturali valgono regole e principi diametralmente opposti rispetto a quelli che si applicano alle merci comuni; per queste ultime, infatti, le Convenzioni internazionali mirano ad agevolare il più possibile la circolazione, mentre le cautele e le indagini necessarie per acquistare con due diligence un bene culturale sono così dettagliate da non consentire un’equiparazione del bene culturale a un qualunque altro bene mobile.

Ci si può chiedere se la particolare cautela giurisprudenziale nell’applicare l’art. 1153 c.c. ai beni culturali sia una suggestione derivante dal fiorire delle norme internazionali ed eurounitarie che limitano la circolazione a non domino dei beni culturali o se sia frutto di una spontanea scelta delle nostre corti, che, riscoprendo le pagine di Mengoni, hanno deciso di escludere l’applicazione dell’art. 1153 c.c. ai beni che, per la loro natura, non sono destinati a circolare agevolmente [42]. Non mi sembra da escludere che la scelta giurisprudenziale di adottare un maggior rigore nei confronti dell’acquirente a non domino dei beni culturali sia ascrivibile a entrambe le circostanze: da un lato la crescente consapevolezza della necessità di tutelare i beni culturali e, dall’altro, la difficoltà nel conciliare la funzione sociale del bene culturale con la sua circolazione a non domino. Del resto, parte della dottrina italiana, muovendo dalle regole in materia di circolazione internazionale dei beni culturali, ha cominciato a riflettere sull’opportunità di ridurre la tutela prevista dall’art. 1153 c.c. uniformandola a quella prevista dagli altri ordinamenti europei [43].

Lo stesso DCFR conferma una particolare sensibilità del diritto privato europeo con riguardo alla circolazione dei beni culturali, posto che, nel disciplinare l’acquisto in buona fede, all’art. VIII-:101 (2), esclude che possano fruire di una tale tutela i beni culturali rubati. Tale esclusione appare un’ulteriore prova di quanto la normativa internazionale ed eurounitaria abbiano inciso sull’evoluzione del diritto privato europeo.

Se è vero che, all’atto pratico, sia le Convenzioni che le direttive hanno avuto una scarsa applicazione pratica, dalla quale si potrebbe desumere il loro insuccesso, non sembra contestabile che esse abbiano comportato un cambio di prospettiva nell’applicazione delle regole di diritto privato che tutelano l’acquirente a non domino di beni culturali e che abbiano inciso, più in generale, sul mercato dell’arte contribuendo alla sua moralizzazione [44]. Si tratta di un aspetto centrale per un mercato nel quale le transazioni dubbie sono all’ordine del giorno e che ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di un dovere morale di restituzione che spesso determina la restituzione dei beni rubati o illecitamente esportati senza la necessità di ricorrere all’applicazione di norme di diritto positivo da parte delle corti, ma attraverso negoziazioni tra Stati e privati o tra Stati e musei [45].

Come emerge dalle pagine che precedono, anche le corti nazionali hanno cominciato a lasciarsi influenzare dai principi delle Convenzioni, non solo imponendo una lettura più rigorosa della buona fede dell’acquirente a non domino, ma anche sposando soluzioni analoghe a quelle proposte dalle norme internazionali anche quando le stesse non sarebbero concretamente applicabili [46].

Le Convenzioni UNESCO e UNIDROIT, infine, hanno esplicato effetti positivi anche nel contribuire a una più netta demarcazione tra gli aspetti di diritto internazionale pubblico e privato della materia, evidenziando alcuni aspetti privatistici di centrale importanza con riferimento alla circolazione dei beni culturali [47].

Per tutti questi motivi sembra potersi concludere affermando che gli anniversari della Convenzione UNESCO e UNIDROIT devono essere opportunamente e adeguatamente festeggiati, perché il loro impatto sulla comunità internazionale e sulla tutela del patrimonio culturale si è dimostrato senz’altro positivo.

 

Note

[1] Sulle iniziative attuate per celebrare l’anniversario si veda il sito dell’UNIDROIT all’indirizzo https://www.unidroit.org/89-news-and-events/2864-the-1995-unidroit-convention-turns-25.

[2] Con riferimento all’esperienza napoleonica cfr. E. Steinmann, Der Kunstraub Napoleons, Roma, 2007 e, sul ruolo di Canova nei negoziati per la restituzione, E. Jayme, Antonio Canova (1757-1822) als Künstler und Diplomat: Zur Rückkehr von Teilen der Bibliotheca Palatina nach Heidelberg in den Jahren 1815 und 1816, Heidelberg 1994. Alcune delle opere restituite grazie all’intervento di Canova sono state esposte a Roma nelle Scuderie del Quirinale nella mostra dal titolo Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova, il cui catalogo è stato pubblicato da Skira.

[3] Sul punto si veda M. Frigo, La protezione dei beni culturali nel diritto internazionale, Milano, 1986, pag. 27 e al mio La circolazione dei beni culturali nel diritto europeo: limiti e obblighi di restituzione, Napoli, 2011, pag. 30 ss.

[4] Si deve sottolineare che il concetto di possessore adottato nelle Convenzioni internazionali e nelle direttive va letto in modo ampio e atecnico, infatti esso si spinge sino a ricomprendere il detentore. Parrebbe quindi trattarsi di un possesso più simile al Besitz della tradizione germanica, che al concetto di possesso francoitaliano cfr. G. Magri, La circolazione dei beni culturali nel diritto europeo: limiti e obblighi di restituzione, cit., passim.

[5] Emblematico, in questo senso, è il caso Winkworth v Christie, Manson & Woods Ltd. [Winkworth v Christie, Manson & Woods Ltd., [1980] ch. 496, [1980] 1 All E.R. 1121] nel quale si discuteva della proprietà di alcune opere d’arte che erano state rubate a un collezionista inglese e trasferite in Italia, dove erano state vendute a un acquirente in buona fede. Successivamente l’acquirente italiano trasferì le opere presso una casa d’aste londinese per la vendita. Il collezionista inglese, vedendo gli oggetti nel catalogo dell’asta, intentò un’azione legale in Inghilterra per ottenere loro restituzione.

Secondo la legge inglese un ladro non può trasferire la proprietà e, se la legge inglese fosse stata applicabile, il signor Winkworth avrebbe vinto la causa e gli oggetti gli sarebbero stati restituiti. Tuttavia, la corte decise (correttamente) che, per determinare se l’acquirente avesse ottenuto la proprietà degli oggetti quando li aveva acquistati in Italia, era necessario applicare la legge italiana (e non quella inglese). Secondo il codice civile italiano (art. 1153 c.c.), un acquirente in buona fede può acquistare la proprietà, anche nel caso in cui il bene sia rubato. Per questo motivo la richiesta di restituzione avanzata dal signor Winkorth non poteva essere accolta.

[6] Con riferimento alla differenza tra restituzione e ritorno si veda G. Volpe, La Convenzione UNIDROIT sul ritorno dei beni culturali rubati o illecitamente esportati, in Notiziario del Ministero dei beni culturali e ambientali, 1996, n. 50, pag. 37 ss. Si deve peraltro osservare che la richiesta di restituzione implica aspetti di diritto internazionale privato, mentre la richiesta di ritorno soddisfa interessi di ordine pubblico connessi alla conservazione del patrimonio culturale dello Stato richiedente.

[7] M. Frigo, La circolazione internazionale dei beni culturali, Diritto Internazionale, Diritto Comunitario e Diritto Interno, Milano, 2007, II ed., pag. 20, segnala come il carattere internazionale della domanda di restituzione o di ritorno abbia sollevato, tra gli interpreti, non pochi problemi. In effetti, esso sembrerebbe escludere la possibilità di ricorrere alla disciplina prevista dalla Convenzione nei casi, tutt’altro che rari nella pratica (si pensi ad esempio al noto caso Winkworth v. Christie, Manson & Woods Ltd., in Weekly, cit.), nei quali un bene rubato o illecitamente trasferito dallo Stato di origine vi abbia poi fatto ritorno.

[8] Sulle soluzioni adottate con riferimento agli acquisti a non domino negli ordinamenti europei si rinvia a C. von Bar, Gemeineuropäisches Sachenrecht, Band 2: Besitz, Erwerb und Schutz subjektiver Sachenrechte, Monaco, 2019, pag. 450 ss., in particolare pag. 452 s. e a G. Magri, L’acquisto a non domino tra diritto privato italiano e tendenze europee, in Cultura giuridica e diritto vivente, vol. 7/2020.

[9] Si veda il c.d. Goldberg case (Autocephalous Greek-Orthodox Church of Cyprus and the Republic of Cyprus vs. Goldberg and Feldman Fine Arts Inc., 917 F.2d 278, United States Court of Appeals, 7th Cir. 1990, decisione del 24 ottobre 1990) commentata da Q. Byrne-Sutton, The Goldberg Case: A Confirmation of the Difficulty in Acquiring Good Title to Valuable Stolen Cultural Objects, in International Journal of Cultural Property, 1992, 1st, p. 151 ss.; O. Miur Watt, La revendication internationale des biens culturels: à propos de la décision américaine Eglise Autocéphale, in Rev. crit. droit int. privé, 1992, pag. 1 ss.

[10] Cfr. S.C. Symeonides, Choice of Law Rule for Conflicts Involving Stolen Cultural Property, in Vanderbilt Journal of Transnational Law, 2005, pag. 1177 ss., in particolare si veda p. 1183 dove si propone di determinare la legge applicabile attraverso la seguente regola generale: “Except as otherwise provided by an applicable treaty or international or interstate agreement, or statute, the rights of parties with regard to a corporeal thing of significant cultural value (hereinafter “thing”) are determined as specified below. A person who is considered the owner of the thing under the law of the state in which the thing was situated at the time of its removal to another state shall be entitled to the protection of the law of the former state (state of origin), except as specified below. The owner’s rights may not be subject to the less protective law of a state other than the state of origin, (a) unless: (i) the other state has a materially closer connection to the case than the state of origin; and (ii) application of that law is necessary in order to protect a party who dealt with the thing in good faith after its removal to that state; and (b) until the owner knew or should have known of facts that would enable a diligent owner to take effective legal action to protect those rights”.

[11] M. Salvadori, Utilizzazione e circolazione dei beni artistici, storici, archeologici. Profili internazionalistici, in P. Cendon, I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale. VII. Beni culturali, Torino, 2003, pp. 399 ss., in particolare, pag. 411.

[12] Ibidem.

[13] Con riguardo al dibattito sulla lex rei sitae e sulla lex originis con riguardo alla cultural heritage si vedano T. Szabados, In Search of the Holy Grail of the Conflict of Laws of Cultural Property: Recent Trends in European Private International Law Codifications, in International Journal of Cultural Property, 27(3), pag. 323 ss.; E. Jayme, Internationaler Kulturgüterschutz: Lex originis oder lex rei sitae. Tagung in Heidelberg, in Praxis des Internationalen Privat- und Verfahrensrechts, 10 (1990), pag. 347 ss.; Id., Kunstwerk und Nation: Zuordnungsprobleme im internationalen Kulturgüterschutz, Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Jg. 1991, Bericht 3, pag. 7 ss.; Id., Die Nationalität des Kunstwerks als Rechtsfrage, in Internationaler Kulturgüterschutz (Akten des Wiener Symposion, 18./19. Oktober 1990), (a cura di) G. Reichelt, Vienna 1992, pag. 7 ss.; Id., Antonio Canova: la Repubblica delle arti ed il diritto internazionale, in Riv. dir. int., 1992, pag. 889 ss.; Id., Kulturgüterschutz in ausgewählten europäischen Ländern, in Zeitschrift für vergleichende Rechtswissenschaft, 95 (1996), pag. 158 ss.; Id., Die politische Dimension der Kunst: Antonio Canova, Frankfurt am Main, 2000.

[14] Secondo l’art. 3.5 della Convenzione UNIDROIT: “Notwithstanding the provisions of the preceding paragraph, any Contracting State may declare that a claim is subject to a time limitation of 75 years or such longer period as is provided in its law. A claim made in another Contracting State for restitution of a cultural object displaced from a monument, archaeological site or public collection in a Contracting State making such a declaration shall also be subject to that time limitation”.

[15] L’art. 3.3 dispone che: “Any claim for restitution shall be brought within a period of three years from the time when the claimant knew the location of the cultural object and the identity of its possessor, and in any case within a period of fifty years from the time of the theft”.

[16] Alcuni Stati avevano proposto di escludere dalla Convenzione i termini di prescrizione per le azioni di restituzione. Tuttavia, questa proposta non ha avuto successo e l’unica eccezione alla prescrizione è prevista dall’articolo 3.4: “However, a claim for restitution of a cultural object forming an integral part of an identified monument or archaeological site, or belonging to a public collection, shall not be subject to time limitations other than a period of three years from the time when the claimant knew the location of the cultural object and the identity of its possessor”. Sul punto si veda più dettagliatamente G. Magri, La circolazione dei beni culturali nel diritto europeo: limiti e obblighi di restituzione, cit., pag. 38.

[17] Secondo il Rapport Explicatif della Convenzione: “La personne du demandeur n’est pas ici spécifiée: on notera que l’action en restitution - qui sera portée devant les tribunaux ou autres autorités compétentes visées aux articles 8 et 16 -, peut être intentée aussi bien par une personne privée qui a été dépossédée de son bien à la suite d’un vol, que par un État dans la même situation... on pourrait également envisager que l’État se substitue à la personne privée qui ne souhaite pas, ou ne peut pas, agir en revendication”.

[18] Cfr. J.A. Winter, N.J. Schrijver, The application of the Unidroit Convention on Stolen or Illegally Exported cultural Objects in Relations between Member States of the European Union, in de Waart, Denters e Schrijver (eds.), Reflections on international law from the low countries: in honour of Paul de Waart, The Hague, 1998, pag. 347 ss.

[19] Secondo il Rapport explicatif (pag. 557) “A la demande de la délégation de l’État détenant alors la présidence du Conseil de l’Union européenne, une clause dite “de déconnexion” a été insérée pour permettre aux États membres d’organisations d’intégration économique ou d’entités régionales de déclarer qu’ils appliquent les règles internes de cette organisation ou entité au lieu de celles de la Convention dont le champ d’application coïncide avec celui de ces règles. Si la proposition initiale visait le cas spécifique des obligations des États membres de l’Union européenne, qui étaient déjà liés entre eux par la Directive 93/7/CEE (applicable aussi entre les États de l’Accord sur l’Espace économique européen), elle a été vue comme pertinente pour toute organisation d’intégration économique ou entité régionale qui serait déjà concernée ou pourrait l’être en vertu d’accords qui seraient conclus à l’avenir. Au regard du système de la Convention, les États contractants qui seraient membres d’organisations d’intégration économique ou d’entités régionales sont libres de faire jouer individuellement la clause de déconnexion, par une déclaration à cet effet. Une telle déclaration, à défaut de précision, pourra être faite à tout moment et prendra effet conformément à l’article 15(3)”.

[20] A.L. Maccari, V. Piergigli (eds.), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi, Milano, 2006, pag. 357.

[21] G. Magri, La circolazione dei beni culturali nel diritto europeo: limiti e obblighi di restituzione, cit., pag. 71.

[22] A.L. Maccari, V. Piergigli, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi, cit.

[23] M. Marletta, La restituzione dei beni culturali: normativa comunitaria e Convenzione Unidroit, Padova, 1997, pag. 203.

[24] Come si è già osservato, sebbene la direttiva sia volta a disciplinare esclusivamente la restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, l’opinione prevalente è nel senso di estendere interpretativamente la sua applicazione anche ai beni rubati, facendo così, de facto, coincidere l’ambito applicativo delle due disposizioni.

[25] M. Schneider, The 1995 UNIDROIT Convention: An Indispensable Complement to the 1970 UNESCO Convention and an Inspiration for the 2014/60/EU Directive, in Santander Art and Culture Law Review, 2016, 2, pag. 149 ff., pag. 161 ss.

[26] M. Marletta, La restituzione dei beni culturali: normativa comunitaria e Convenzione Unidroit, cit., pag. 205.

[27] E.A. Posner, The International protection of Cultural Property: Some Skeptical Observations (2007) 8 Chicago Journal of International Law 213-231 (214-215).

[28] Ivi nota 63, pagg. 214-215, 225, 228.

[29] Cfr. L. Biamonti, Natura del diritto dei privati sulle cose di pregio artistico e storico, in Foro it., 1913, I, 1, pag. 1011; R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana. Dibattiti storici in Parlamento, Bologna, 2003, pag. 404 e G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3.

[30] S. Marotta, Per una lettura sociologico-giuridica dei beni culturali come ‘beni comuni’, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma, A. Massaro, Roma, 2017, pag. 37 ss.

[31] La creazione di un nuovo sistema di proprietà tra pubblico e privato è criticata anche sul piano filosofico, si vedano in proposito le convincenti argomentazioni di P.P. Portinaro, Le mani su Machiavelli. Una critica dell’‘Italian Theory”, Roma, 2018 passim e S. Mabellini, I beni culturali e lo status di “beni comuni”: un’assimilazione indispensabile?, in Ec. cultura, 2017, pag. 81 ss. la quale sottolinea come lo status costituzionale della proprietà - sia pubblica che privata - appare già adeguato a un efficiente tutela degli interessi collettivi come dimostra paradigmaticamente l’evoluzione della disciplina dei beni culturali.

[32] Così F. Longobucco, Beni culturali e conformazione dei rapporti tra privati: quando la proprietà “obbliga”, in Pol. dir., 2016, pag. 547 ss.

[33] Seppur con solo riferimento alla Convenzione UNIDROIT si veda F. Squillante, La tutela dell’acquirente a non domino di beni culturali rubati secondo la convenzione UNIDROIT ed il disegno di legge per l’esecuzione della Convenzione, in Riv. dir. int., 1999, pag. 120 ss., secondo la quale “in conclusione, sembra potersi affermare che, dalla lettura combinata degli articoli 3, par. 1, 4, paragrafi 1-4, e 9, emerga come la Convenzione UNIDROIT abbia compiuto la scelta ben precisa di ridurre sensibilmente la tutela dell’acquirente a non domino di beni culturali. In sintesi, a norma di tali disposizioni, il possessore di un bene culturale rubato, ancorché in buona fede, deve in ogni caso restituire il bene. In quanto eccezione alla regola, la corresponsione dell’indennizzo è subordinata ad un rigoroso accertamento della due diligence dell’acquirente a non domino (alla stregua dei criteri indicati dalla Convenzione), a carico del quale è posto altresì l’onere della prova della detta diligenza”.

[34] Corte EDU, sez. Grande Chambre, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia, in Riv. dir. int., 2006, pag. 1097 ss.

[35] Corte EDU, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera c. Italia, in Foro it., 2001, IV, pag. 233.

[36] Corte EDU, sez. Grande Chambre, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia, cit. In dottrina sia consentito il rinvio a G. Magri, Quale futuro per la funzione sociale della proprietà? Abbandonare Weimar per tornare a Locke?, in Bocconi Legal Papers, 2012, pag. 3 ss., passim.

[37] Corte EDU, sez. Grande Chambre, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia, cit. In dottrina si veda C. Salvi, Libertà economiche, funzione sociale e diritti personali e sociali tra diritto europeo e diritti nazionali, in Eur. dir. priv., 2011, pag. 437 ss.

[38] Corte EDU, Grande Chambre, Beyeler c. Italia, sentenza del 5 gennaio 2000, commentata, tra gli altri, da F.S. Marini, La prelazione “storico-artistica” tra illegittimità costituzionale e violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Giur. Cost., 2000, pag. 1173 ss. e da S. Ferreri, Il diritto di proprietà sui beni culturali al vaglio della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in Eur. dir. priv., 2001, pag. 153 ss. Successivamente il caso Beyeler è tornato alla Corte, che si è pronunciata sul quantum indennitario con sentenza della Grande Chambre 28 maggio 2002.

[39] G. Magri, La circolazione dei beni culturali nel diritto europeo: limiti e obblighi di restituzione, pag. 67 s.

[40] Corte Cass. 14 settembre 1999, n. 9782, in Giust. civ. Mass. 1999, pag. 1968, secondo la quale “Il concetto di buona fede, di cui all’art. 1153 c.c., che rileva - in base a tale norma - ai fini dell’acquisto della proprietà di beni mobili a non domino, corrisponde a quello dell’art. 1147 c.c. e, pertanto, ai sensi del comma 2 di questa norma, la buona fede non giova a chi compie l’acquisto ignorando di ledere l’altrui diritto per colpa grave, la quale è configurabile quando quell’ignoranza sia dipesa dall’omesso impiego, da parte dell’acquirente, di quel minimo di diligenza, proprio anche delle persone scarsamente avvedute, che gli avrebbe permesso di percepire l’idoneità dell’acquisto a determinare la lesione dell’altrui diritto, poiché non intelligere quod omnes intellegunt costituisce un errore inescusabile, incompatibile con il concetto stesso di buona fede”. La Corte, chiamata a pronunciarsi sull’acquisto di un quadro di De Chirico rubato, ha ritenuto che “la buona fede rilevante, ai sensi dell’art. 1153 c.c., per l’acquisto a non domino della proprietà di beni mobili, deve ricorrere in capo all’acquirente al momento dell’acquisto (mala fides superveniens non nocet) e la relativa presunzione di sussistenza, può essere vinta in concreto anche tramite presunzioni semplici, le quali siano gravi, precise e concordanti e forniscano, in via indiretta (com’è normale, trattandosi di accertare l’esistenza o meno di uno stato psicologico), il convincimento della esistenza in capo all’acquirente del ragionevole sospetto di una situazione di illegittima provenienza del bene. Gli elementi sui quali si possono fondare dette presunzioni possono essere costituiti (oltre che da circostanze coeve) anche da circostanze estrinseche precedenti all’acquisto. (Nella specie, concernente l’acquisto del dipinto “Natura morta con pesci” del De Chirico, avvenuto ad un’asta di Sotheby’s dopo un precedente furto nella casa della proprietaria, la S.C. ha ritenuto che correttamente il giudice di merito avesse desunto per presunzione che l’acquirente era stato in una situazione psicologica di sospetto dell’illegittima provenienza del dipinto, sì da doversi escludere la sua buona fede, argomentando dal fatto che egli, essendo, quale gallerista ed esperto d’arte, un esperto conoscitore delle opere di De Chirico - come emergeva da una serie di circostanze, quali l’esistenza di una collezione di quadri di quell’autore a lui facente riferimento, la redazione della prefazione e presentazione per la relativa mostra e una lettera indirizzatagli dallo stesso De Chirico - era stato nelle condizioni di accertare se il suddetto quadro rientrava tra quelli oggetto delle indagini penali scaturite dal furto)”.

[41] In questo senso M. Cenini, Gli acquisti a non domino, Milano, 2009, pag. 166 ss. e M. Comporti, Per una diversa lettura dell’art. 1153 cod. civ. a tutela dei beni culturali, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, pag. 395 ss.

[42] L. Mengoni, Gli acquisti a non domino, ristampa della 3a ed., Milano, 1994, pag. 88.

[43] Cfr. R. Sacco, R. Caterina, Il possesso, IV ed., Milano, 2014, pag. 445 ss. e G. Magri, Beni culturali e acquisto a non domino, in Riv. dir. civ., 2013, pag. 741 ss.

[44] Cfr. F. Fiorentini, Cultural heritage law and trade of cultural objects: a comparative law approach, in Isaidat Law review, 2021, 1, pag. 7 ss., spec. 16, la quale citando L.V. Prott, The UNIDROIT Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects - Ten Years On, in Unif. L. Rev., 2009, pag. 215 ss., spec. 234, per evitare complesse e costose controversie legali “dealers and purchasers who are presented with evidence that a cultural object does not have a good provenance do not now wait for litigation to start, but come to an agreement of return, or to compensate a purchaser who returns”.

[45] E. Barkan, Making Amends: A New International Morality?, in Witness to history: a compendium of documents and writings on the return of cultural objects, UNESCO, 2011, pag. 78 ss.

[46] F. Fiorentini, Cultural heritage law and trade of cultural objects: a comparative law approach, cit., cita il caso Government of the Islamic Republic of Iran v. The Bakarat Gallery Ltd [2007] EWCA (Ethiopian Wildlife Conservation Authority) Civ 1374 (CA), nel quale la Court of Appeal of England and Wales ha applicato il diritto pubblico e privato iraniano in materia di proprietà culturale. La Corte ha fatto riferimento anche alle convenzioni UNESCO e UNIDROIT così come alla direttiva CE n. 7 del 1993, sottolineando che, anche se alcuni di questi strumenti non hanno effetto diretto nel diritto nazionale inglese, indicano tuttavia la volontà del Regno Unito di cooperare in caso di esportazione illecita di beni culturali e, quindi, possono essere ugualmente presi in considerazione.

[47] L.V. Prott, The UNIDROIT Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects - Ten Years On, cit., pag. 223.

 

 



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