testata

I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso

Adunanza plenaria CdS 5/2023: chiusura del cerchio o apertura possibile? [*]

di Marco Cammelli [**]

The Adunanza Plenaria nr. 5/2023 of the Italian State Council: closing of the circle or possible opening?
The article reflects upon the possible impact of the recent ruling by the Italian Council of State regarding the extension of the administrative powers of protection of cultural heritage to the restriction of destination of the activity carried out.

Keywords: Protection of Cultural heritage and Extension of Administrative Powers; Limits of Jurisdictional interpretation; Legal Elements and Policy Issues.

1. L’importante e per alcuni aspetti sorprendente pronuncia in materia di estensione dei poteri di tutela dei beni culturali della più elevata sede della giustizia amministrativa del Paese, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 13 febbraio 2023, è molto più della soluzione di un problema interno di divergenze interpretative.

Oltre all’intento di ricondurre ad unità orientamenti diversi tra i giudici c’è infatti il significativo sforzo di sistemazione di un quadro normativo e di principi ad oggi tutt’altro che chiaro e consolidato. Uno sforzo che le peculiarità della materia rendono particolare per la stretta, storica compenetrazione tra disciplina della tutela e organizzazione amministrativa corrispondente: una normativa incentrata sul ministero il quale a sua volta si è modellato sul sistema di tutela definito dalle leggi del 1939 e rimasto inalterato. Certo, il Mic di oggi è ormai molte altre cose (ministero della Cultura, appunto), ma il suo nucleo storico resta legato alla tutela dei beni culturali come allora definito e all’operato del giudice amministrativo che ne è garante. È proprio su questo che l’Adunanza plenaria interviene e anche di questo si deve tener conto nel “leggere” la pronuncia.

Ci troviamo infatti in una politica di settore che nasce ad oggetto limitato (l’emergenza estetica), affidata a disposizioni derogatorie del regime ordinario dei beni e della loro circolazione via via estese ad ambiti, oggetti e rapporti più ampi e riservata ad un sistema centralizzato imperniato sul binomio apparati tecnico-professionali e burocrazie amministrative (gli uni a sostegno degli altri), con una sommaria disciplina legislativa (essenzialmente procedurale) e ampi spazi affidati all’esercizio di valutazioni tecnico-discrezionali assistite da incisivi poteri autoritativi.

In questo contesto il giudice e in particolare quello amministrativo è parte essenziale e integrante del sistema non solo per la soluzione dei conflitti tra Mic e altre amministrazioni pubbliche o soggetti privati, ma per la continua opera di modellazione e messa a punto della disciplina di settore, specie per i (decisivi) profili funzionali e organizzativi. È dunque parte, e parte significativa del governo della materia e la pronuncia dell’Adunanza plenaria, pur nella sua complessità, è anche in questa luce che andrebbe letta. In un contesto tra l’altro di crescenti difficoltà (si dirà più avanti) generate da politiche, sovranazionali e domestiche, complicate: significativamente divergenti le prime (v. convenzione di Faro o Unesco), talvolta apertamente conflittuali le seconde (come per la transizione energetica il caso del PNRR).

2. Prima dei profili sistemici è comunque utile partire da una sintetica analisi del provvedimento.

La finalità, peraltro dichiarata fin dall’inizio, è quella di risolvere i dubbi emersi nelle pronunce delle diverse sezioni relativamente alla possibile estensione del potere di tutela al vincolo di destinazione dell’attività svolta, peraltro ammesso anche per il profilo della continuità di svolgimento nel caso delle espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7-bis Codice. Nel farlo, si approfitta per precisare, a conferma in questo caso della stretta relazione tra giudice e attività degli apparati, principi e fasi del procedimento amministrativo. Ma qui nascono i problemi.

I primi che si incontrano sono specifici e di natura tecnico-giuridica come la scelta, di cui il giudice è ben consapevole data la chiara lettera della legge, di trasformare in positivo e generale un potere in origine limitato alla res ed esteso all’attività solo in via d’eccezione e per pochi casi indicati da speciali disposizioni legislative. L’ampliamento operato dalla pronuncia non è irrilevante rispetto al deficit di tipicità che dall’origine contraddistingue la materia e l’oggetto (il bene culturale), tra l’altro aggravato dall’inasprimento degli effetti penali che di recente vi sono stati ricollegati [1], e si estende ai poteri di tutela e relative categorie di interventi (di prevenzione, manutenzione e restauro) previste dagli artt. 10 e 29 del Codice [2]. Azioni dalla cui precisazione, se proprio il disposto dell’art. 29.5 non fosse oggetto di annosa inerzia da parte del Mic, potrebbero trovare più concreta soddisfazione alcune delle esigenze ora affidate ai vincoli di destinazione qui in esame.

Lo stesso tema, in definitiva la tipicità dei poteri in materia, torna per altro verso in tema di compenetrazione tra res e valore immateriale rispetto alla quale non risulta del tutto convincente il parallelismo operato con l’avviamento delle aziende (§ 6.3) il cui riconoscimento e connesse valutazioni di merito sono rimessi al mercato e all’autonomia contrattuale degli interessati, non all’unilateralità del potere amministrativo e alla indeterminatezza degli elementi da valutare [3].

Altre osservazioni riguardano invece il profilo funzionale-organizzativo perché il giudice, giustamente preoccupato che sia assicurata una adeguata copertura amministrativa (istruttoria, motivazione) all’esercizio dei poteri conformativi riconosciuti dalla pronuncia, incontra inevitabilmente difficoltà a trarne tutte le implicazioni come la garanzia della effettività delle condizioni necessarie per le valutazioni richieste dal vincolo di destinazione. D’altra parte e per completezza il discorso andrebbe allargato anche a quelle pre-condizioni di quadro da tempo puntualmente prescritte ma ancora largamente assenti come gli indirizzi ex art. 29.5 Codice o la adozione dei piani paesaggistici regionali, che permettendo di riferire la discrezionalità a criteri più precisi e predeterminati rendono leggibili, e verificabili, le scelte del singolo caso.

Ma prima ancora di toccare questi profili sono alcuni passaggi del testo, peraltro sostenuti con una giurisprudenza costituzionale risalente (sentenze nn. 245/1976 e 118/1990) senza cenno a quella successiva a sollevare qualche fondata perplessità certo non alleggerita in sede di conclusioni, quando ci si spinge a una innovativa nozione di bene culturale che in una visione “dinamica e moderna” deve essere intesa in un senso ampio al quale dovrà corrispondere “la maggiore estensione possibile a legislazione vigente delle forme di tutela previste dall’ordinamento, che ne consentano una protezione elastica” frutto di una considerazione “globale” degli elementi materiali e immateriali del bene (§ 6).

Anche il testo delle disposizioni è oggetto di una lettura ampiamente evolutiva. Per l’Adunanza plenaria, il vincolo di destinazione va compreso nella tutela perché l’ordinamento vigente già dispone il divieto di usi non compatibili con il carattere storico o artistico del bene culturale o tali da arrecare pregiudizio alla sua conservazione (artt. 18.1, 20.1, 21.4 Codice) e dunque “la disciplina positiva valorizza l’uso del bene culturale quale strumento per consentirne la conservazione materiale” (§ 3.1) e le stesse ipotesi speciali (negozi storici, studi di artista) sono la prova che il vincolo di attività non può dirsi estraneo alla tutela perché ammesso dalla legislazione di settore (§ 3.6). Con la precisazione finale che l’unica differenza tra questa e la tesi cui l’Adunanza plenaria aderisce è il livello di allocazione della valutazione: nella prima la valutazione è operata direttamente dalla legge, negli altri casi va invece riconosciuta di volta in volta al potere amministrativo.

Non minori perplessità nascono anche da altri profili di carattere sistemico, in particolare quelli riferibili alla sequenza: superiorità dell’interesse protetto (patrimonio culturale) - altri interessi (pubblici e privati) - discrezionalità tecnica. A parte la nota evoluzione (non solo) dottrinale che ha portato ad ampliare l’ambito concettuale della discrezionalità amministrativa e correlativamente precisare quello delle (più propriamente definibili) valutazioni tecniche [4], peraltro gradualmente sottoposte dallo stesso Consiglio di Stato a un sindacato più intenso, è ampiamente condiviso il fatto che la primarietà di interessi costituzionalmente protetti non significa aprioristica superiorità: v. di recente Corte costituzionale (sentenza 179/2019), interventi nella Rivista [5] e di chi scrive [6].

In ogni caso risulta difficile da condividere l’idea che tutto questo, proprio per l’estensione del vincolo di destinazione d’uso introdotto nella presente pronuncia, possa continuare a convivere con la riaffermazione della c.d. discrezionalità “tecnica” oltretutto considerata da sottrarre in quanto tale salvo i noti profili esterni al sindacato del giudice e al raffronto con gli altri interessi in gioco.

Su ognuno di questi aspetti si dovrà ragionevolmente continuare a discutere senza dimenticare che sempre in materia di pluralità di interessi anche la recente riforma dell’art. 9 Cost., tra le molte implicazioni che ne discendono, consiglierebbe di non insistere troppo sulla primarietà assolutizzata in superiorità di uno singolo interesse oltretutto da ridefinire quando, come avviene in questo caso, la tutela del patrimonio culturale si trova ad incrociare altri interessi egualmente primari e altrettanto elevati, come la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, al rango di principi fondamentali della Carta.

3. Le valutazioni critiche, come si vede, non mancano e in effetti sembrano prevalenti per quanto è dato sapere anche tra i primi commenti. Tuttavia, come per tutte le pronunce del giudice, l’osservatore può considerare diversi piani: le argomentazioni utilizzate, gli effetti che ne derivano, le soluzioni astrattamente possibili e quelle praticate.

Ma l’importanza della sede, la particolare ampiezza delle considerazioni svolte, la delicatezza del tema e la significativa estensione dei poteri così riconosciuti non (genericamente) alla PA ma al ministero della Cultura portano a interrogarsi non solo sulla pronuncia ma su quanto l’ha preceduta e influenzata: perché tutto questo, perché queste modalità, perché ora. Quali esigenze non soddisfatte, quali rischi paventati, quali dinamiche in atto, quale quadro di riferimento ha portato ad imboccare questa strada e a percorrerla (si direbbe) senza troppe esitazioni?

È difficile rispondere ma è giusto chiederselo perché se è vero che un terreno del genere va affrontato con prudenza, è anche vero che limitarsi a sottolineare gli aspetti meno convincenti di questa pronuncia sarebbe insieme troppo e troppo poco e forse, a ben pensarci, una occasione perduta.

Come si è anticipato, la materia su cui interviene Il CdS si colloca in un quadro sempre più complesso e ormai segnato da forti tensioni tra contrastanti indirizzi regolativi sovranazionali (Unesco, Faro) e nazionali (leggi del ’39 e codice del 2004), tra approccio analitico (il singolo bene culturale) e apprezzamento sistemico (relazioni comunitarie, sociali, ambientali con il contesto), tra governo del settore rigidamente accentrato e collaborazione con i sistemi locali e i privati, tra vocazioni selettive di azioni e strutture (v. musei o raccolte) e diffusione planetaria del consumo di massa di immagini e contenuti supportato dalle nuove tecnologie, tra implicazioni identitarie sempre più intense e esasperate (cancel culture) e diffuse dinamiche economiche (e industriali) ignote nel passato.

Il divario tra premesse concettuali tradizionali e assetto istituzionale attuale, da un lato, e profonda trasformazione in atto è cresciuto in modo esponenziale, generando il pieno di conflitti frontali (di cui la messa in opera di parti del PNRR come quelle relative alle energie rinnovabili è solo un esempio) e la difficoltà di un credibile ruolo centrale e di sistema consapevolmente esercitato cui si aggiunge l’omissione di collaborazioni (anche istituzionali) necessarie e possibili.

Se consideriamo questa situazione, ove per instabilità del sistema politico e resistenza all’innovazione di ogni aggregazione di interessi (opzioni culturali comprese) aumenta di continuo la distanza tra il molto che è necessario e il poco che è possibile, ove non si è in grado di porre mano all’adeguamento di un Codice nato vecchio per il rischio di esiti incontrollabili e d’altra parte non si procede alla ridefinizione degli assi portanti del sistema istituzionale e amministrativo nella consapevolezza di opposizioni interne spesso esasperate e di dinamiche generali in atto potenzialmente dirompenti anche su questo fronte (operatività PNRR, regionalismo differenziato), possiamo forse meglio cogliere alcune delle ragioni da cui muove la pronuncia. L’intento cioè di adeguare, nei limiti del possibile, strumenti insufficienti e di sciogliere antinomie legate sia alla stratificazione di norme nel tempo che a politiche contrastanti. E anche per opporsi a derive in atto riaffermando principi che nel vortice dei tempi rischiano di essere spazzati via o semplicemente banalizzati.

Nel riferimento alla capacità amministrativa a sostegno dei nuovi poteri, ad esempio, non è difficile scorgere qualcosa di più. A fronte delle evidenti forzature in atto tra politica e amministrazione, ove il rispetto dei tempi e dei vincoli europei porta all’”amministrare per legge” e quest’ultima sostituisce direttamente sedi decisionali e sequenze procedimentali, il richiamo alla necessaria intermediazione amministrativa e all’importanza della istruttoria e della motivazione (§ 3.6), così come il cenno operato alle esigenze dei centri storici [7], assumono un significato che supera il caso specifico. Anche perché è proprio in queste fasi e su questo terreno che possono trovare spazio e prendere respiro decisioni convergenti, interventi collaborativi e azioni concertate con altre amministrazioni pubbliche e soggetti privati [8].

Si può certo discutere di tutto, ma è difficile negare che questi problemi siano reali e richiedano oltre a rimedi specifici anche valutazioni sistemiche. Un buon motivo per essersi allontanati in questo caso dal rassicurante ancoraggio, per il giudice e per l’amministrazione, della res e dalle prudenti (e, appunto, limitate) aperture introdotte dal legislatore con l’art. 7-bis del Codice.

Tuttavia proprio questo ordine di considerazioni rischia di aprire ulteriori interrogativi. E’ chiaro infatti che l’estensione della tutela al vincolo di destinazione amplia l’arco delle scelte possibili per l’amministrazione ma nello stesso tempo accentua l’interdipendenza della scelta con altre variabili (a partire da quella sulla sostenibilità economica dell’attività) e dunque implica altri dati, saperi, apprezzamenti che poi ricadono su profili importanti come l’accezione di discrezionalità in gioco o le quote di potere amministrativo da affidare in questi casi a più adeguate modalità collaborative e consensuali.

Il silenzio o la non chiarezza su questi aspetti finisce per lasciare spazio alla lettura opposta e assai più limitata, vale a dire il rafforzamento dei poteri di tutela accompagnato dalla piena conferma dell’assetto esistente e relative modalità. Il che porterebbe o a interpretare la pronuncia in modo assai restrittivo o all’opposto a dubitare fortemente, proprio sul piano della proporzionalità, della coerenza in quest’ultima tra ampiezza delle considerazioni svolte e ridotta portata degli effetti che in concreto possono trarsene.

Se così fosse la portata dell’intervento della Adunanza Plenaria, invece di attirare l’attenzione su questi profili come sarebbe conseguente, si ridurrebbe di molto e confermerebbe il valore sintomatico dell’accenno operato nel testo alle amministrazioni locali per evitare che sia negato allo Stato quello che viene loro riconosciuto (§ 3.4). In breve, più par condicio interistituzionale ad integrazione delle attribuzioni ministeriali che apertura al contesto nel quale il bene culturale, e in particolare l’attività che vi è svolta, trova la propria naturale ed effettiva collocazione.

La sentenza è recentissima, i commenti, compreso questo, inevitabilmente a caldo. Per il momento entrambe le ipotesi restano sul tavolo: escluderne fin d’ora una sarebbe prematuro e potrebbe essere una occasione persa.

 

Note

[*] Attualità-valutato dalla Direzione,

[**] Marco Cammelli, professore emerito di Diritto Amministrativo presso l’Università di Bologna, Via Zamboni 33, 40126 Bologna, marco.cammelli@gmail.com.

[1] Legge 9 marzo 2022, n. 22, Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale, su cui le puntuali osservazioni critiche di N. Recchia, Una prima lettura della recente riforma della tutela penalistica dei beni culturali, in Aedon, 2022, 2, 90 ss. e D. Colombo, Osservazioni in tema di furto di beni culturali, in Aedon, 2023, 1.

[2] Cioè, giova ripeterlo ancora una volta, prevenzione (complesso di attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto), manutenzione (complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti) e restauro. In particolare, per il comma 5 “Il Ministero definisce, anche con il concorso delle regioni e con la collaborazione delle università e degli istituti di ricerca competenti, linee di indirizzo, norme tecniche, criteri e modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali”.

[3] Come “i valori e gli elementi identitari, di memoria collettiva e di testimonianza storica” di cui i beni culturali “sono espressione per determinati gruppi sociali e contesti culturali” (& 5.6).

[4] M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, V edizione, Bologna, Il Mulino, 2022.

[5] G. Sciullo, A proposito delle valutazioni di compatibilità rispetto a vincoli storico-artistici e paesaggistici, in Aedon, 2018, 2 e Id., Sull’utilizzo del vincolo culturale di destinazione d’uso, in Aedon, 2023, 1.

[6] M. Cammelli, Patrimonio culturale: dinamiche e nodi istituzionali, in Economia della Cultura, 2021, 4, pag. 526 ss.

[7] G. Severini, Centri storici: occorre una legge speciale o politiche speciali, in Aedon, 2015, 2.

[8] A. Bartolini, Lo statuto della Città d’arte, in Aedon, 2015, 2.

 

 

 



copyright 2023 by Società editrice il Mulino
Licenza d'uso


inizio pagina