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Ancora sulla tutela del patrimonio culturale

Osservazioni in tema di furto di beni culturali (art. 518-bis c.p.)

di Davide Colombo [*]

Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il bene giuridico tutelato. - 2.1. La problematica nozione di “bene culturale”. - 3. L’elemento oggettivo. - 4. L’elemento soggettivo. - 5. Il tentativo. - 6. Circostanze. - 7. Punibilità e trattamento sanzionatorio. - 8. Rapporto con altri reati. - 9. Profili di responsabilità dell’ente. - 10. Prospettive de jure condendo.

Observations in term of theft of cultural heritage (art. 518-bis of the criminal code)
This paper aims to analyse the new crime of theft of cultural property, introduced in Article 518-bis of the Italian Criminal Code by Law no. 22/2022, focusing in particular on the critical issues inherent in the notion of “cultural property” and in the interaction with other crimes.

Keywords: Cultural Heritage; Cultural Property; Theft.

1. Introduzione

La legge 9 marzo 2022, n. 22, in ottemperanza all’impegno assunto dall’Italia mediante la sottoscrizione della Convenzione di Nicosia [1], ha introdotto nel codice penale un nuovo Titolo VIII-bis, contenente incriminazioni poste a tutela del patrimonio culturale, in parte corrispondenti a figure delittuose già esistenti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, in parte inedite.

Tra queste, è stata prevista - all’art. 518-bis c.p. - una nuova fattispecie incriminatrice che punisce il furto di beni culturali. In particolare, ai sensi della disposizione richiamata, “[c]hiunque si impossessa di un bene culturale mobile altrui, sottraendolo a chi lo detiene, al fine di trarne profitto, per sé o per altri, o si impossessa di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 927 a euro 1.500”.

Prima della riforma, il furto di beni culturali, sebbene figurasse tra i reati più ricorrenti nell’ambito del traffico di opere d’arte e di cose d’antichità [2], non era riguardato da una norma ad hoc, sicché, onde assicurare comunque una tutela penale, si era soliti ricorrere (ove possibile) all’aggravante della destinazione delle cose a pubblica riverenza prevista per il furto comune dall’art. 625, n. 7, c.p., in virtù, essenzialmente, della fruizione pubblica che talora caratterizza il bene culturale [3]. Si trattava, invero, di una soluzione che, benché apprezzabile nell’intenzione di sopperire a una vistosa lacuna normativa, tuttavia risultava evidentemente inadeguata se rapportata all’obiettivo di approntare una salvaguardia congrua ed efficace del patrimonio culturale. Infatti, come è stato limpidamente osservato in dottrina, “[i]nnanzitutto l’applicazione della circostanza poteva essere completamente elisa dal concorso di circostanze attenuanti ritenute dal giudice prevalenti nel giudizio di bilanciamento. Inoltre rimaneva dubbia la riconducibilità all’aggravante dei beni culturali di proprietà privata. Infine, sul piano concreto, irragionevolmente si parificava, dal punto di vista della norma applicabile, il furto di opere d’arte a quello degli autoveicoli parcheggiati sulla pubblica via e a quello compiuto nei supermercati” [4].

Come anticipato, il legislatore della riforma, sul decisivo impulso fornito dalla Convenzione di Nicosia, ha colmato questa lacuna, introducendo, nel codice penale, l’art. 518-bis c.p., il quale costituisce un autonomo titolo delittuoso incentrato sulla culturalità del bene oggetto della condotta furtiva.

La formulazione di una fattispecie incriminatrice di nuovo conio impone di soffermarsi ad analizzarne i connotati salienti, al fine di perimetrarne con precisione l’ambito applicativo, iniziando, naturalmente, dall’individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma, il quale costituisce la chiave di volta su cui si regge l’intera riforma.

2. Il bene giuridico tutelato

Nel Preambolo della Convenzione di Nicosia si legge che “the diverse cultural property belonging to peoples constitutes a unique and important testimony of the culture and identity of such peoples, and forms their cultural heritage”.

La funzione identitaria e di coesione sociale esplicata dal patrimonio culturale è riconosciuta pressoché universalmente [5] e viene valorizzata a livello normativo già in fonti unionali: ai sensi dell’art. 3, par. 3, TFUE, infatti, l’Unione “vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo”; in tale settore, l’azione dell’Unione deve essere volta - ai sensi dell’art. 167 TFUE - a sostenere il “miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei” e la “conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea”.

L’esigenza di salvaguardare e sensibilizzare i beni culturali e i beni paesaggistici, che insieme costituiscono il patrimonio culturale [6], è stata avvertita anche dalla nostra Assemblea Costituente, la quale ha inserito nella nostra Carta Costituzionale, tra i principi fondamentali, la disposizione di cui all’art. 9, il cui secondo comma prevede che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” [7].

Il rilievo costituzionale conferito al patrimonio culturale nel suo complesso stabilisce il fondamento assiologico che legittima l’impiego, ai fini di tutela, del diritto penale [8], anche in considerazione dell’unicità e della deperibilità, nonché della difficile ripristinabilità, del bene giuridico in questione [9], le quali impongono la predisposizione di strumenti di protezione adeguati, idonei ed efficaci [10].

Più nello specifico, la meritevolezza di tutela discende dall’interesse pubblicistico connaturato alla culturalità del patrimonio storico-artistico-paesaggistico [11] - i cui connotati superindividuali di “testimonianza materiale avente valore di civiltà” (art. 2, co. 2, Codice dei beni culturali, decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) permangono anche laddove i beni siano di proprietà privata [12] - e dalla constatazione che la funzione ideale dispiegata da tali res rischia di essere compromessa qualora il sostrato materiale portatore del valore culturale immateriale [13] sia danneggiato o reso indisponibile [14] alla fruizione collettiva [15].

In questa prospettiva, la fattispecie incriminatrice di cui al neo-introdotto art. 518-bis c.p. tutela dunque la funzione intrinseca dei beni culturali, apprestando il presidio penale contro condotte esiziali o sottrattive che, oltre a ledere il rapporto materiale tra detentore e res, vanificano il valore morale, spirituale, civile, formativo del patrimonio culturale.

2.1. La problematica nozione di “bene culturale”

Nonostante la centralità, nell’ambito dell’intervento novellatore operato dalla legge n. 22/2022, del riferimento al patrimonio culturale, le fattispecie incriminatrici contenute nel nuovo Titolo VIII-bis del codice penale sono poi innervate, salvo sparute eccezioni (artt. 518-undecies, 518-duodecies, 518-terdecies e 518-quaterdecies c.p.) [16], dalla più ristretta categoria dei beni culturali [17]. Così avviene anche in relazione al furto, venendo infatti punito - all’art. 518-bis c.p. - l’impossessamento illecito di un bene culturale mobile altrui o di beni culturali appartenenti allo Stato in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini.

Al fine di individuare il corretto ambito applicativo del delitto de quo, è dunque dirimente addivenire a una esatta perimetrazione della nozione di bene culturale.

Va osservato fin da subito come il legislatore della riforma non abbia autonomamente definito “agli effetti penali” cosa debba intendersi per bene culturale, benché quest’ultimo costituisca elemento normativo costitutivo del fatto tipico [18]. L’abdicazione del legislatore penale al ruolo che dovrebbe essergli proprio, invero, contagia inesorabilmente i precetti penali di cui al nuovo Titolo VIII-bis c.p. di vaghezza, in spregio ai principi di determinatezza e rimproverabilità (artt. 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost.) e dunque di accessibilità e prevedibilità (art. 7 CEDU) che invece dovrebbero essere posti a fondamento di ogni incriminazione [19].

In assenza di una norma definitoria a al di là dell’ampia nozione di cultural property fornita dall’art. 2 della Convenzione di Nicosia, occorre fare riferimento alla nozione di bene culturale fissata ai fini amministrativi dall’art. 2 Codice dei beni culturali [20].

Ai sensi della disposizione richiamata, segnatamente in base al dettato del secondo comma, “sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”. Tra le categorie richiamate dall’art. 10 Codice dei beni culturali. vi rientrano beni culturali ex lege, qualora appartenenti a soggetti pubblici, nonché altri beni che, appartenenti a soggetti pubblici o a persone giuridiche private senza scopo di lucro ovvero a privati, siano divenuti culturali a seguito, rispettivamente, della verifica dell’interesse culturale di cui all’art. 12 Codice dei beni culturali ovvero della dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13 Codice dei beni culturali.

Resta da capire se e, nel caso, in che modo la riforma abbia inciso sull’annoso dibattito relativo all’applicazione “formale” o “sostanziale” della nozione extrapenale di bene culturale. Da un lato, tutelare il patrimonio culturale ‘formale’ significa circoscrivere la protezione approntata dalle norme penali ai soli beni il cui valore culturale sia stato oggetto di previa dichiarazione; dall’altro lato, tutela del patrimonio culturale “sostanziale” (o “reale”) significa “assegnare protezione alle cose in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti” [21]. Evidenti le divergenti istanze e le correlate problematiche che animano il dilemma: se si intraprende la via formale, si soddisfa un’esigenze di certezza e di conoscibilità del precetto, ma si rischia di privare di tutela tutti quei beni culturali sforniti della necessaria dichiarazione in tal senso; viceversa, la via sostanziale assegna protezione a ogni res essenzialmente culturale, a scapito, tuttavia, dell’esigenza di certezza che dovrebbe coniugarsi ad ogni pulsione incriminatrice [22].

Ebbene, in dottrina, mentre secondo alcuni Autori la questione è rimasta irrisolta [23], secondo altri l’orientamento di fondo della riforma sarebbe a favore della tutela del patrimonio culturale reale [24]. In particolare, in assenza di un esplicito richiamo alle definizioni fornite dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, al giudice sarebbe riconosciuto un maggior margine interpretativo, tale da estendere la protezione penale a un più ampio novero di beni intrinsecamente culturali.

In giurisprudenza, d’altra parte, già prima della riforma, in tema di impossessamento illecito di beni culturali (già art. 176 Codice dei beni culturali, oggi rifluito nell’art. 518-bis c.p.), quando si tratti di beni appartenenti allo Stato, è stato adottato un approccio sostanziale [25], essendo infatti stata negata la necessità di accertare l’interesse culturale della res o l’esistenza di un provvedimento amministrativo in tal senso, reputando invece sufficiente che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni [26], quali la tipologia, la localizzazione, la rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria [27].

Un simile orientamento ermeneutico - che, sembra lecito pronosticare, verrà mantenuto anche in relazione alle nuove fattispecie di reato inserite nel codice penale [28] - non pare tuttavia suscettibile di estensione, con particolare riferimento al furto ex art. 518-bis c.p., anche ai casi in cui vengano in rilievo beni di proprietà privata. Se la necessità che esista la dichiarazione di interesse culturale ex art. 13 Codice dei beni culturali. può in realtà essere superata in ragione dell’assenza di un rinvio espresso da parte della norma penale all’art. 10, co. 3, Codice dei beni culturali [29], non ci si più tuttavia esimere dal constatare come, in tal caso, si smarrirebbe la ratio dell’inasprimento sanzionatorio rispetto al furto semplice ex art. 624 c.p. Se, infatti, la predisposizione di una tutela di matrice penale in relazione al furto di beni culturali privati si giustifica in virtù dell’interesse dell’ordinamento ad avere contezza, in prospettiva chiaramente futura, della collocazione delle res che costituiscono il patrimonio culturale, tale interesse evidentemente avvizzisce laddove la condotta sottrattiva abbia ad oggetto beni celati alla cognizione dello Stato, per il quale è conseguentemente indifferente - da un punto di vista si potenziale esplicazione della funzione culturale del bene - chi ne sia l’attuale e materiale detentore.

3. L’elemento oggettivo

La formulazione del nuovo art. 518-bis c.p. rispecchia in larga parte quella prevista in tema di furto semplice (art. 624 c.p.), limitandosi infatti a specificare l’oggetto materiale della condotta - i.e. un bene culturale mobile altrui [30]. Oltre a ciò, viene altresì prevista la punibilità per chiunque “si impossessa di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini” (c.d. “furto archeologico”), ipotesi originariamente prevista dall’art. 176 Codice dei beni culturali (disposizione conseguentemente abrogata dalla stessa legge 22/2022). L’art. 518-bis c.p. si configura dunque come disposizione a più norme, punendo infatti autonomamente il c.d. furto di beni culturali strictu sensu, da un lato, e il c.d. furto archeologico (i.e. l’impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato), dall’altro.

Per quanto concerne l’ipotesi di furto di beni culturali strictu sensu, la struttura del reato è speculare, come già accennato, a quella del furto semplice, caratterizzandosi esclusivamente in ragione dell’oggetto materiale della condotta, che deve consistere in un bene culturale mobile altrui.

Sulla definizione di bene culturale ci si è già soffermati in precedenza. Quanto alla nozione di mobilità, il bene deve presentare un’esistenza autonoma che ne consenta lo spostamento; tale mobilità può essere originaria oppure derivata, nel caso cioè di beni “mobilizzati” [31] (nell’ambito che ci interessa, si pensi al caso di una statua divelta dal piedistallo). Quanto al requisito dell’altruità, invece, esso consiste in “ogni vincolo di interesse determinabile alla stregua delle norme che disciplinano la distribuzione dei beni” [32], derivante in primis dall’altrui proprietà del bene, ma potenzialmente anche dall’esistenza di diritti reali o personali di godimento, dovendosi invece escludere dalla nozione di altruità i casi in cui il detentore del bene non abbia il potere di farne uso, come nell’ipotesi del creditore pignoratizio [33].

Infine, in maniera del tutto analoga alla struttura tipica del furto semplice, per l’integrazione della fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 518-bis c.p. è richiesta la detenzione del bene da parte di altro soggetto quale presupposto di condotta, la sottrazione del bene medesimo e infine il suo impossessamento da parte dell’agente [34].

Maggiormente peculiare è la fattispecie di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, o “furto archeologico”. In primo luogo, va osservato come il riconoscimento autonomo di tale ipotesi delittuosa all’interno dell’art. 518-bis c.p. sia stata una scelta necessaria, atteso che la struttura ordinaria del furto mal si attaglia al furto archeologico, per il quale non è prevista, infatti, una condotta sottrattiva [35]. La fisiologica assenza di uno specifico momento sottrattivo, che potrebbe indurre a ritenere i beni in questione res nullius, è sopperita dall’esistenza nel nostro ordinamento di due norme (l’art. 91 Codice dei beni culturali e l’art. 826, co. 2, cc.) che affermano l’appartenenza allo Stato dei beni culturali in qualsivoglia modo ritrovati nel sottosuolo o nei fondali marini. Alla luce di ciò, trova giustificazione la ricomprensione del furto archeologico nella cornice dell’art. 518-bis c.p., con la conseguenza che l’apprensione [36] dei beni indicati dall’art. 91 Codice dei beni culturali e dall’art. 826, co. 2, c.c. è qualificabile come furto quand’anche non vi sia un precedente detentore materiale cui sottrarre i beni medesimi; e difatti, presupposto di condotta non è l’altrui previa detenzione, bensì l’avvenuto ritrovamento dei beni culturali in seguito a ricerche date in concessione (art. 89 Codice dei beni culturali) o a scoperte fortuite (art. 90 Codice dei beni culturali) [37].

Va peraltro segnalato che, secondo parte della dottrina, l’assenza di una condotta di sottrazione nella struttura tipica del furto archeologico avrebbe dovuto far propendere per l’inclusione della fattispecie di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato non nell’alveo del reato di furto, bensì in quello del delitto di appropriazione indebita di beni culturali (art. 518-ter c.p.), proprio perché la sottrazione al detentore, elemento di fattispecie tipico del furto, sarebbe “strutturalmente incompatibile col c.d. “furto archeologico”, ovvero l’impossessamento della res a opera del suo scopritore” [38].

Sempre in riferimento al furto archeologico, va infine osservato che, differentemente rispetto all’abrogato art. 176 Codice dei beni culturali, il nuovo art. 518-bis c.p. non richiama espressamente l’art. 91 Codice dei beni culturali, limitandosi invece a riprodurne solo una parte della disposizione (segnatamente, il riferimento ai beni “rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini”), ma non anche quanto previsto dal secondo comma dell’articolo de quo, ai sensi del quale, qualora si proceda alla demolizione di un immobile per conto dello Stato o di altri enti pubblici, “tra i materiali di risulta che per contratto siano stati riservati all’impresa di demolizione non sono comprese le cose rinvenienti dall’abbattimento che abbiano l’interesse di cui all’articolo 10, comma 3, lettera a)”, ossia le cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico “particolarmente importante” [39]. Pertanto, l’assenza di un richiamo espresso all’art. 91 Codice dei beni culturali e la mancata trasposizione della previsione di cui al secondo comma comportano, rispetto al previgente art. 176 Codice dei beni culturali, una abolitio criminis parziale, con conseguente retroattività della norma successiva più favorevole [40].

4. L’elemento soggettivo

Per quanto concerne l’elemento soggettivo, le due fattispecie di reato previste dall’art. 518-bis c.p. - il furto di beni culturali strictu sensu e il furto archeologico - richiedono ambedue il dolo, sebbene declinato in maniera differente.

La fattispecie di furto archeologico prevede il dolo generico [41]: l’agente deve essersi rappresentato e aver voluto tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica, ossia l’impossessamento di un bene culturale rinvenuto nel sottosuolo o nei fondali marini. Non è necessario, invece, che l’agente sia consapevole che tali beni appartengano di diritto allo Stato. La norma, infatti, chiarisce espressamente che i beni culturali rinvenuti nei luoghi descritti sono di proprietà statale: “[...] appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini [...]” (enfasi aggiunta). Pertanto l’eventuale erronea rappresentazione dell’agente di essere al cospetto di res nullius costituisce ignoranza sulla legge penale (art. 5 c.p.), che come noto non esclude il dolo.

Invece, per quanto attiene al furto di beni culturali strictu sensu, la norma prevede espressamente un dolo specifico che deve accompagnare la condotta, consistente nella finalità di trarre per sé o per altri un profitto. Va osservato al proposito che, in relazione al furto comune ex art. 624 c.p., la previsione di un dolo specifico di profitto ha dato adito a un nutrito dibattito giurisprudenziale, incentrato sul significato da attribuire proprio al concetto di profitto; questione che, oggi, si ripresenta in termini analoghi in relazione al nuovo delitto di cui all’art. 518-bis c.p. Secondo un primo orientamento, che fa propria un’interpretazione estensiva della nozione, il fine di profitto non va riferito necessariamente alla volontà di trarre un vantaggio di natura patrimoniale dal bene sottratto, ben potendo invece il profitto perseguito consistere anche solo nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere, quindi, ad una finalità di vendetta, di ritorsione o di dispetto [42]; un secondo orientamento, invece, ritiene che il profitto debba avere natura necessariamente economico-patrimoniale [43]. A tal proposito va segnalato che, al momento in cui si scrive, la questione circa l’esatto significato da attribuire alla nozione di dolo specifico di profitto nel furto è stata rimessa alle Sezioni unite [44], il cui autorevole responso potrà forse domare i tralatizi dibattiti sul tema.

Ad ogni modo, accanto al dolo specifico - comunque inteso - è richiesto il dolo nella sua dimensione generica, vale a dire la rappresentazione e volizione della sottrazione e dell’impossessamento, nonché dell’altruità del bene e del suo carattere culturale.

La necessità da ultimo annotata che il dolo dell’agente investa anche la natura culturale del bene oggetto di furto comporta notevoli conseguenze in relazione alla disciplina dell’errore.

Prima della riforma operata dalla legge n. 22/2022, per punire il furto di beni culturali si ricorreva, come già accennato, alla circostanza aggravante del furto comune prevista nell’art. 625 n. 7 c.p., in virtù dell’asserita fruizione pubblica che tendenzialmente caratterizza i beni culturali. Con la conseguenza che, a mente il criterio di imputazione delle circostanze aggravanti previsto dall’art. 59, co. 2, c.p., in punto di elemento soggettivo era sufficiente la conoscibilità della natura culturale del bene, e dunque - in astratto - della sua pubblica fruibilità.

Con l’introduzione del Titolo VIII-bis nel codice penale, tuttavia, i beni culturali hanno trovato espresso riconoscimento come elementi costitutivi delle fattispecie incriminatrici, di talché il carattere culturale del bene dev’essere ricompreso nel fuoco del dolo (anche solo eventuale) dell’agente, quale oggetto della sua rappresentazione e volizione [45].

La questione che si pone, poc’anzi accennata, risiede nella rilevanza da attribuire all’errore in cui, in ipotesi, l’agente incorra circa la culturalità del bene rubato.

L’assenza di una definizione valida ai fini penali della nozione di “bene culturale”, benché quest’ultima sia espressamente richiamata dalle fattispecie incriminatrici di cui al nuovo Titolo VIII-bis, impone di indagare se l’errore sulla qualificabilità del bene come “culturale” costituisca un errore sulla legge penale (art. 5 c.p.) ovvero un errore sul fatto di diritto (art. 47, co. 3, c.p.), ossia un errore su una norma extrapenale. La differenza, come noto, non è di poco conto. Ex art. 5 c.p., infatti, nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale (a meno che, alla luce dei principi dettati da Corte cost., sent. 24 marzo 1988, n. 364 [46], si tratti di ignoranza inevitabile). Ai sensi dell’art. 47, co. 3, c.p., invece, “l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”; in tal caso, dunque, la punibilità dell’agente in errore sarebbe sempre esclusa, anche a voler aderire all’orientamento secondo cui, in virtù di un implicito richiamo al primo comma dell’art. 47 c.p. [47], la responsabilità permarrebbe in caso di errore dovuto a colpa, qualora il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo, non essendo infatti prevista nel nostro ordinamento un’ipotesi di furto colposo [48].

Orbene, secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, tutti gli errori di interpretazione di norme giuridiche richiamate attraverso un elemento normativo costituiscono altrettanti errori sulla legge penale, riconducibili alla disciplina di cui all’art. 5 c.p., dunque inidonei - salvo che inevitabili - a scusare l’agente [49]. Tale impostazione, nello specifico settore della tutela penale del patrimonio culturale, viene condivisa da parte della dottrina, secondo cui l’operatività dell’art. 47, co. 3, c.p. creerebbe vuoti di tutela in relazione a condotte colpose [50]. È stato altresì evidenziato che l’applicabilità dell’art. 5 c.p. discenderebbe dal fatto che la qualifica giuridica del bene come culturale inerisce alla struttura stessa della fattispecie e alla portata del precetto penale, integrandolo [51].

Tale indirizzo ermeneutico, tuttavia, benché comprensibile nel suo tentativo di scongiurare surrettizie invocazioni dell’errore da parte dell’agente, contrasta apertamente con il dettato normativo - dacché implica una sostanziale abrogazione dell’art. 47, co. 3, c.p. - e, come è stato evidenziato da autorevole dottrina, appare concettualmente errato [52]. Infatti, parafrasando gli Autori da ultimo citati, una cosa è ignorare che sottrarre i beni culturali altrui sia un reato più grave del furto di cose mobili generiche, altra cosa è non rendersi conto che nel caso concreto il bene che l’agente ha sottratto era culturale. Mentre nella prima ipotesi si è pacificamente in presenza di un errore sulla legge penale, nella seconda si deve necessariamente ritenere sussistente un errore sul fatto di diritto ex art. 47, co. 3, c.p.

Le esigenze di tutela percepite dall’orientamento più severo potrebbero d’altra parte, in prospettiva de jure condendo, essere facilmente soddisfatte mediante l’elaborazione di una definizione di “bene culturale” valida ai fini penali. Ricorrendo tale evenienza normativa, infatti, l’errore sulla culturalità del bene configurerebbe senza dubbio alcuno un errore sulla legge penale, così tarpando velleità elusive della responsabilità penale fondate su maliziose impetrazioni del riconoscimento dell’errore.

5. Il tentativo

La configurabilità del tentativo è pacifica in relazione all’ipotesi di furto di beni culturali strictu sensu. La scansione dell’iter criminis nelle due diverse frazioni di condotta della sottrazione e dell’impossessamento è evidentemente speculare alla struttura del furto semplice ex art. 624 c.p., sicché, in tema di tentativo, valgono le medesime riflessioni elaborate da giurisprudenza e dottrina in relazione a tale delitto, a cui pertanto si rinvia [53].

La questione si fa invece più complicata laddove venga in considerazione la fattispecie di furto archeologico. Tale ipotesi delittuosa, infatti, benché incardinata sulla sola condotta di impossessamento e non anche su un previo momento sottrattivo, è tuttavia fisiologicamente preceduta da una fase di (abusiva) effettuazione di ricerche archeologiche o, più in generale, di opere per il ritrovamento di beni culturali [54]. Tale attività, tuttavia, costituisce di per sé reato ex art. 175 Codice dei beni culturali [55]; inoltre, laddove la ricerca sia eseguita avvalendosi di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli, viene in rilievo altresì l’art. 707-bis c.p. [56], introdotto dalla stessa legge n. 22/2022 [57]. Dunque, per quanto inerisce al furto archeologico, la configurabilità del tentativo dev’essere valutata in esclusivo riferimento alla condotta di impossessamento che caratterizza la fattispecie incriminatrice. Orbene, se l’effettivo impossessamento del bene culturale rinvenuto segna l’avvenuta consumazione del reato, allora l’ipotesi tentata può essere individuata nei casi in cui l’agente ponga in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a conseguire un autonomo potere di signoria sulla cosa ritrovata: a titolo di esempio, in dottrina si è fatto riferimento “ai frequenti casi di occultamento delle cose ritrovate nei pressi del luogo di ritrovamento in attesa del momento opportuno per essere trasportate (e “messe al sicuro”) altrove, ipotesi nelle quali concorreranno la contravvenzione dell’art. 175 Cbcp e il tentativo del (nuovo) delitto dell’art. 518-bis c.p. (già art. 176 Cbcp)” [58].

6. Circostanze

L’art. 518-bis, co. 2, c.p. prevede circostanze aggravanti speciali e ad effetto speciale. In particolare, la disposizione prevede che “la pena è della reclusione da quattro a dieci anni e della multa da euro 927 a euro 2000 se il reato è aggravato da una o più delle circostanze previste nel primo comma dell’articolo 625 o se il furto di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini, è commesso da chi abbia ottenuto la concessione prevista dalla legge”.

Per quanto riguarda il richiamo alle circostanze aggravanti previste dall’art. 625 c.p., va osservato che il rinvio operato dall’art. 518-bis, co. 2, c.p. è circoscritto al primo comma dell’art. 625 c.p., e non esteso al secondo comma, il quale disciplina l’ipotesi di concorso tra più circostanze previste dal comma primo. Ne consegue che tale norma non trova applicazione rispetto al furto di beni culturali, come peraltro si inferisce dal medesimo art. 518-bis, co. 2, c.p., in cui si prevede che la cornice edittale indipendente viene in rilievo qualora ricorrano “una o più” delle aggravanti ex art. 625, co. 1, c.p.

Quanto al furto archeologico, l’art. 518-bis, co. 2, c.p. contempla una circostanza soggettiva - il furto è commesso da chi abbia ricevuto una concessione di ricerca - che rispecchia l’aggravante già prevista dall’abrogato art. 176 Codice dei beni culturali in relazione al reato di impossessamento illecito di beni culturali statali. Con riferimento a tale disposizione, era stato osservato - e la riflessione è certamente valida anche a seguito della mera trasposizione dell’aggravante dal codice dei beni culturali al codice penale - che è il ruolo peculiare ricoperto dall’agente, soggetto qualificato e munito, in qualità di concessionario, di specifici poteri e doveri, a determinare la particolare nota di disvalore del fatto, secondo lo schema tipico del reato proprio., il che giustifica l’inasprimento del trattamento sanzionatorio [59].

Ulteriori circostanze sono state introdotte dal legislatore della riforma agli artt. 518-sexiesdecies e 518-septiesdecies c.p., i quali contemplano, rispettivamente, aggravanti e attenuanti applicabili a tutti i reati previsti dal neo introdotto Titolo VIII-bis.

Quanto alle aggravanti, il citato art. 518-sexiesdecies c.p. prevede che “la pena è aumentata da un terzo alla metà quando un reato previsto dal presente titolo: 1) cagiona un danno di rilevante gravità; 2) è commesso nell’esercizio di una attività professionale, commerciale, bancaria o finanziaria; 3) è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, preposto alla conservazione o alla tutela di beni culturali mobili o immobili; 4) è commesso nell’ambito dell’associazione per delinquere di cui all’articolo 416”. La disposizione de qua, come è stato osservato, individua, con carattere di unitarietà, presupposti circostanziali prima diffusi tra varie previsioni [60]. Segnatamente, l’ipotesi di cui al n. 1 ripropone l’aggravante comune di cui all’art. 61, n. 7, c.p.; il n. 2 riproduce l’aggravante speciale (avente natura oggettiva, e dunque estensibile a tutti i concorrenti nel reato) prevista dall’art. 648-ter. 1, co. 1, c.p. per il delitto di autoriciclaggio; il n. 3 prevede un’ipotesi aggravante soggettiva, che valorizza la qualifica pubblicistica dell’agente [61]; il n. 4, infine, introduce un inasprimento sanzionatorio per quei reati-fine, tra quelli previsti a tutela del patrimonio culturale dal Titolo VIII-bis, commessi nell’ambito di associazioni per delinquere, dalle forme di organizzazione più rudimentali fino alle c.d. archeomafie [62].

Le aggravanti disciplinate dall’art. 518-sexiesdecies c.p. sono a effetto speciale, essendo infatti stabilito un aumento della pena da un terzo alla metà. Ciò comporta che, qualora taluna delle aggravanti previste dalla disposizione in parola dovesse concorrere con una o più delle circostanze di cui all’art. 625 c.p., con conseguente applicazione dell’art. 518-bis, co. 2, c.p., il trattamento sanzionatorio per il furto di beni culturali pluriaggravato sarebbe determinato, ai sensi dell’art. 63, co. 4, c.p. e giacché è l’art. 518-bis, co. 2, c.p. a prevedere l’inasprimento di pena maggiore, prendendo in considerazione la cornice edittale indipendente di tal ultima norma, di talché la pena sarà quella della reclusione da quattro a dieci anni e della multa da euro 927 a euro 2000, ferma restando la facoltà di aumento da parte del giudice in virtù del medesimo art. 63, co. 4, c.p.

L’art. 518-septiesdecies c.p. contempla due ipotesi circostanziali attenuanti applicabili ai delitti previsti dal nuovo Titolo VIII-bis, e dunque anche al furto di beni culturali. In particolare, la norma, al primo comma, rispecchiando la generale attenuante patrimonialistica di cui all’art. 62, n. 4, c.p. [63], statuisce che “la pena è diminuita di un terzo quando un reato previsto dal presente titolo cagioni un danno di speciale tenuità ovvero comporti un lucro di speciale tenuità quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità”. Il secondo comma invece prevede un’ipotesi circostanziale attenuante “premiale”, benché non sottratta al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. [64], nel caso di ravvedimento operoso ovvero di collaborazione post delictum da parte del reo; in particolare, la disposizione prevede che “la pena è diminuita da un terzo a due terzi nei confronti di chi abbia consentito l’individuazione dei correi o abbia fatto assicurare le prove del reato o si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori o abbia recuperato o fatto recuperare i beni culturali oggetto del delitto” [65].

7. Punibilità e trattamento sanzionatorio

In tema di punibilità, va osservato come la causa di non punibilità disciplinata dall’art. 649, co. 1, c.p. sia applicabile, per espressa previsione normativa, ai soli reati previsti dal Titolo XIII, dal quale esulano i delitti contro il patrimonio culturale, contenuti nel Titolo VIII-bis. Conseguentemente, qualora il furto di beni culturali sia commesso in danno del coniuge non legalmente separato, della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell’adottante o dell’adottato, o infine di un fratello o di una sorella che convivano con il soggetto agente, il reato sarà comunque punibile, attesa la natura di causa di non punibilità in senso stretto dell’art. 649, co. 1, c.p. e, dunque, la preclusione a possibili estensioni analogiche, finanche in bonam partem.

Tale conclusione, d’altra parte, non solleva particolari perplessità. Invero, il giudizio di opportunità che ha portato il legislatore ad escludere la punibilità nei casi in cui reati contro il patrimonio di matrice non violenta siano commessi nel contesto familiare non è idoneo a dispiegare la propria valenza anche in relazione ai delitti contro il patrimonio culturale, ivi compreso il furto ex art. 518-bis c.p., in ragione del peculiare bene giuridico da essi protetto, alla cui tutela non si può rinunciare in nome dell’interesse alla pace familiare.

Venendo ora al trattamento sanzionatorio, l’art. 518-bis c.p. commina la pena della reclusione da due a sei anni, congiunta alla multa da euro 927 a euro 1500. Evidente è l’inasprimento della risposta punitiva rispetto a quanto previsto in relazione al furto semplice ex art. 624 c.p., il quale applica la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da euro 154 a euro 516. A ben vedere, la pena prevista per il furto di beni culturali corrisponde a quella prevista per il furto ex art. 624 c.p. aggravato da una (sola) tra le circostanze dell’art. 625 c.p.

Ancora più vistoso è l’aggravamento di pena inerente al furto archeologico: se, prima della riforma, l’art. 176 Codice dei beni culturali (ora abrogato) stabiliva lo stesso massimo edittale previsto dall’art. 624 c.p., oggi, essendo la fattispecie confluita nell’alveo dell’art. 518-bis c.p., saranno applicabili le pene ben più severe previste da quest’ultima norma.

Qualora ricorrano aggravanti, le differenze del trattamento sanzionatorio stabilito per il furto di beni culturali rispetto al furto semplice divengono meno marcate. Avuto riguardo, in particolare, alle ipotesi circostanziali previste dall’art. 625 c.p., va osservato che, qualora ricorra solo una di esse, la pena per il furto di beni culturali diviene quella della reclusione da quattro a dieci anni e della multa da 927 a 2000 euro, mentre per il furto di beni qualsiasi si prevede la reclusione da due a sei anni e la multa da 927 a 1500 euro. Tuttavia, laddove siano configurabili due o più delle aggravanti ex art. 625 c.p., la pena per il furto di beni culturali rimane quella della reclusione da quattro a dieci anni e della multa da 927 a 1500 euro, mentre per il furto, in virtù dell’art. 625, co. 2, c.p. la cornice edittale spazia dai tre ai dieci anni di reclusione e dai 206 ai 1549 euro di multa, di talché le differenze sanzionatorie tra le due fattispecie divengono più labili.

Lo stesso discorso non vale, però, per quanto concerne l’ipotesi di furto archeologico. Infatti, nel caso in cui ricorra la specifica aggravante esaminata in precedenza (il furto archeologico è commesso da chi ha ottenuto la concessione di ricerca prevista dalla legge), l’art. 518-bis c.p. prevede la pena della reclusione, anche qui, da quattro a dieci anni, congiunta alla multa da 927 a 1500 euro. Il previgente art. 176, co. 2, Codice dei beni culturali, invece, stabiliva un aggravamento sanzionatorio decisamente meno severo, comminando infatti la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 103 a euro 1033.

Va infine rilevato che, ai sensi dell’art. 518-sexiesdecies, co. 2, c.p., nel caso in cui il reato sia commesso nell’esercizio di un’attività professionale o commerciale, si applicano la pena accessoria dell’interdizione da una professione o un’arte (art. 30 c.p.) e la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 36 c.p.).

8. Rapporto con altri reati

Il furto di beni culturali si pone chiaramente in rapporto di specialità rispetto al furto semplice ex art. 624 c.p., in ragione della particolare tipologia di res su cui deve incidere la condotta di sottrazione e di impossessamento dell’agente.

Problemi si pongono invece laddove vengano in rilievo ulteriori fattispecie incriminatrici, prima fra tutte quella di cui all’art. 624-bis c.p. Occorre capire, infatti, quale sia la disciplina applicabile in caso di furto di bene culturale in abitazione, nella quale è ragionevole presumere che il bene culturale sia custodito.

Preliminarmente, occorre ricordare che, secondo l’orientamento assolutamente prevalente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, ai fini dell’applicazione dell’art. 15 c.p., il criterio di specialità è da intendersi in senso logico-formale, ritenendo, cioè, che il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dal citato art. 15 c.p., possa ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse [66].

Se, dunque, la corretta applicazione del principio di specialità richiede una comparazione strutturale tra le norme incriminatrici considerate, si può concludere agevolmente come i reati di furto di beni culturali e di furto in abitazione si pongano in rapporto di specialità reciproca, in parte per specificazione (la natura culturale della res) in parte per aggiunta (il luogo destinato a privata dimora).

Secondo alcuni Autori, in caso di specialità reciproca parte per specificazione e parte per aggiunta, non verrebbe meno l’identità di materia richiesta dall’art. 15 c.p., sicché, in applicazione del principio di specialità, dovrà essere escluso un concorso di reati e dovrà essere invece configurato un concorso apparente di norme [67]. Pervenuti pertanto alla conclusione per cui debba essere applicata una sola norma, si pone la questione di comprendere a quale delle due fattispecie occorra dar rilievo; a tal proposito, si è suggerito di guardare al trattamento sanzionatorio previsto da ciascuna di esse, ritenuto indice primario e significativo della norma prevalente [68], e ritenere applicabile il reato interessato dalla cornice edittale più severa - nel caso che ci interessa, dunque, il furto in abitazione [69].

Una simile soluzione, tuttavia, si espone inesorabilmente a due rilevanti obiezioni.

In primis, una volta ritenuto che il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. debba essere inteso in senso logico-formale, ossia fondato sulla comparazione strutturale tra le fattispecie, non pare potersi poi estendere la portata dell’art. 15 c.p. fino a farvi ricomprendere ipotesi di specialità reciproca, in cui, per definizione, la struttura delle fattispecie considerate ha elementi che si intersecano, ma che non vengono completamente ricompresi gli uni negli altri. La sostanziale impraticabilità dell’estensione del principio di specialità a questi casi è evidente nel momento in cui si deve individuare, una volta escluso il concorso di reati, quale sia la norma in concreto applicabile. Infatti, se davvero i casi di specialità reciproca possono essere risolti alla luce del principio di specialità, dovrebbe potersi individuare una fattispecie strutturalmente generale rispetto all’altra speciale, e conseguentemente applicare solo quest’ultima. L’individuazione del criterio del trattamento sanzionatorio più severo, invece, tradisce le premesse dei fautori della teoria per cui i casi di specialità reciproca possano essere risolti alla luce dell’art. 15 c.p.: come è stato perspicuamente osservato, infatti, l’indirizzo che qui si critica propone un criterio strutturale per definire il rapporto tra le norme, ma poi utilizza un criterio di valore per individuare la norma prevalente [70].

In secundis, ritenere che, in caso di furto di bene culturale in abitazione, si configuri un concorso apparente di norme da risolvere in favore dell’applicazione del solo art. 624-bis c.p., priva di rilevanza penale il disvalore di condotta sotteso all’elemento specializzante dell’art. 518-bis c.p. e volto ad assicurare tutela al bene giuridico (il patrimonio culturale) protetto da tale norma. Per fare un esempio pratico, secondo l’opzione esegetica caldeggiata dagli Autori citati, l’ordinamento opporrebbe le medesime conseguenze penali a chi, introdottosi nell’altrui abitazione, sottragga un televisore e a chi, invece, introdottosi anch’egli in un luogo di privata dimora, sottragga un Van Gogh. Peraltro, con palesi disparità di trattamento rispetto alla risposta sanzionatoria approntata qualora il furto avvenga fuori dall’abitazione, in ipotesi in cui, cioè, l’apprensione del bene culturale verrebbe punita ben più severamente rispetto alla sottrazione di una cosa mobile qualsiasi.

Una soluzione speculare a quella testé congegnata potrebbe ravvisarsi, una volta appurato il rapporto di specialità reciproca tra le fattispecie, nel riconoscimento, sì, di un concorso apparente di norme, ma ritenendo quale unico reato applicabile il furto di beni culturali. In tal modo, operando una pur “artificiosa” scissione del reato complesso del furto in abitazione nei delitti che lo costituiscono, si potrebbe contestare, accanto alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 518-bis c.p., anche quella di cui all’art. 614 c.p., di talché verrebbe garantita tutela a tutti i beni giuridici in rilievo (patrimonio, bene culturale, inviolabilità del domicilio), evitando al tempo stesso violazioni del ne bis in idem sostanziale.

Una simile soluzione, tuttavia, per quanto apprezzabile ne sia l’intento e per certi versi anche l’esito, sconta invero tre importanti profili critici.

In primo luogo, essa opererebbe una scomposizione del reato complesso di cui all’art. 624-bis c.p. priva di fondamento normativo, ponendosi anzi in aperto contrasto con la disciplina dettata all’uopo dall’art. 84 c.p.

In secondo luogo, una siffatta soluzione assegnerebbe, in sostanza, prevalenza al furto di beni culturali rispetto al furto in abitazione, sulla base di considerazioni fondate essenzialmente o su un’aprioristica valorizzazione dell’elemento speciale per specificazione [71], in spregio al criterio del reato più grave, che invece trova in più parti espresso riconoscimento normativo (si pensi all’art. 81 c.p., ma anche, a titolo di esempio, all’art. 301 c.p.) [72], oppure su un evanescente apprezzamento assiologico di predominanza del patrimonio culturale quale bene giuridico da tutelare, il quale tuttavia non trova alcun riscontro normativo, se non un fumoso conforto derivante dalla collocazione dei beni in gioco all’interno della Carta Costituzionale (tra i principi fondamentali il patrimonio culturale, all’art. 14 Cost. l’inviolabilità del domicilio).

Infine, l’interpretazione in esame finirebbe per condurre a contraddittorie e indesiderabili conseguenze sul piano pratico, giacché, aderendo alla soluzione prospettata, si correrebbe il rischio di sanzionare più lievemente il furto in abitazione di un bene culturale rispetto a quello di una cosa mobile qualsiasi. Quest’ultimo, infatti, verrebbe punito ai sensi dell’art. 624-bis c.p., la cui cornice edittale prevede quale minimo quattro anni di reclusione, mentre il furto in abitazione di un bene culturale avrebbe quale pena base quella prevista dall’art. 518-bis c.p., il cui minimo consta di due anni di reclusione, da aumentare per effetto della disciplina di cui all’art. 81 c.p., per il concorso formale con la violazione di domicilio, fino al triplo, dunque con un aumento minimo di un giorno, pervenendo dunque a un minimo edittale pari a due anni e un giorno di reclusione.

Invero, la dottrina e la giurisprudenza più accorte non sono rimaste indifferenti alle problematiche inerenti al rapporto di specialità reciproca tra fattispecie. Conseguentemente, pur rifuggendo una soluzione fondata sull’estensione della disciplina dell’art. 15 c.p. anche a tal genere di ipotesi, sono stati elaborati criteri ulteriori, volti a configurare un concorso apparente di norme: è la c.d. soluzione pluralistica [73]. Superata la rigidità del criterio di specialità, ancorata al raffronto strutturale tra le fattispecie incriminatrici, tali ulteriori criteri operano invece sul piano delle valutazioni sostanziali, ossia di valore.

In particolare, i criteri a cui si fa riferimento sono quelli della sussidiarietà e della consunzione (o dell’assorbimento).

Secondo il principio di sussidiarietà, laddove più norme incriminatrici risultino astrattamente applicabili al caso di specie, non vi sarebbe concorso di reati, bensì conflitto apparente, qualora le fattispecie ipotizzabili sottendano stadi o gradi diversi di offesa al medesimo bene giuridico protetto [74] ovvero qualora una fattispecie tuteli, accanto al bene giuridico protetto da altra norma, uno o più beni ulteriori [75].

In questa prospettiva, il criterio di sussidiarietà non pare in grado di venire in soccorso in riferimento alla problematica del rapporto tra furto in abitazione e furto di beni culturali, attesa l’evidente diversità ontologica dei beni giuridici rispettivamente tutelati.

Quanto al criterio della consunzione (o dell’assorbimento, o del ne bis in idem sostanziale), non v’è unità di vedute in ordine ai connotati caratterizzanti, né in dottrina, né in giurisprudenza (la quale, peraltro, tranne sporadiche eccezioni [76], tende a escludere qualsivoglia valenza del criterio in parola) [77].

Secondo un primo orientamento, il criterio di consunzione verrebbe in rilievo laddove, in base ad una valutazione da operare alla luce dei parametri normativi ed etico-sociali di riferimento, la cornice edittale prevista per il reato “assorbente” appaia proporzionata al disvalore complessivo dell’episodio criminoso, pur se la concreta articolazione dello stesso finisce per integrare anche fattispecie minori [78]. In questi termini, il rapporto tra furto in abitazione e furto di beni culturali potrebbe essere risolto, mediante il criterio di consunzione, ritenendo assorbito il disvalore della condotta di cui all’art. 518-bis c.p. nella più severa cornice edittale di cui all’art. 624-bis c.p. Così operando, tuttavia, si finirebbe - come rilevato in precedenza - per privare di conseguenze penali il disvalore insito all’apprensione illecita non di una res qualunque, ma di un bene culturale, dacché il furto in abitazione di un bene culturale verrebbe sostanzialmente equiparato al furto in abitazione di una cosa mobile qualsiasi, a evidente scapito degli obiettivi della riforma che ha introdotto il Titolo VIII-bis nel codice penale. Peraltro, va osservato che la validità delle considerazioni fin qui svolte sfumerebbe qualora ricorresse una o più delle circostanze aggravanti di cui all’art. 625 c.p., per cui la pena del furto in abitazione diverrebbe quella della reclusione da cinque a dieci anni, mentre per il furto di beni culturali da quattro a dieci anni, con una evidente convergenza del trattamento sanzionatorio tale da far dubitare della possibilità di ritenere che il furto in abitazione riesca a coprire l’intero disvalore offensivo della fattispecie di cui all’art. 518-bis c.p.

Un secondo orientamento ermeneutico ritiene che il criterio della consunzione individui i casi in cui la commissione di un reato è strettamente funzionale ad un altro e più grave reato, sicché il primo sia assorbito nel secondo [79]. Anche se così delineato, tuttavia, il criterio di consunzione non pare ugualmente in grado di venire in soccorso rispetto alla problematica in esame. Infatti, se detto criterio - come ipotizzato - presuppone un rapporto di strumentalità tra due reati, nel senso che la commissione del primo è necessaria alla commissione del secondo, allora non fornisce alcun parametro dirimente per risolvere il conflitto tra norme, dacché, a ben vedere, è l’introduzione nell’altrui abitazione ad essere funzionale all’apprensione del bene culturale ivi custodito, con la conseguenza che, in ossequio all’opzione esegetica in parola, sarebbe l’art. 624-bis c.p. ad essere “assorbito” nell’art. 518-bis c.p. Il che, se può invero essere ritenuto sensato prendendo in considerazione le fattispecie astratte, smarrisce ogni ragionevolezza nel momento in cui si osserva che il furto in abitazione è punito più severamente del furto di beni culturali [80].

Se, dunque, i criteri elaborati normativamente e per via esegetica non consentono ragionevolmente di configurare un concorso apparente tra art. 624-bis c.p. e art. 518-bis c.p., la soluzione che rimane è quella di ritenere sussistente un concorso formale di reati. Risultato non sconosciuto alla giurisprudenza, la quale infatti tende a profilare un concorso di reati (e non un concorso apparente di norme) allorché tra le relative fattispecie incriminatrici intercorra - come nel caso in esame - un rapporto di specialità reciproca [81].

In fin dei conti, il riconoscimento di un concorso formale tra le due fattispecie delittuose non pare suscettibile di destare particolari preoccupazioni quantomeno in punto di trattamento sanzionatorio. Infatti, a mente la disciplina dettata dall’art. 81, co. 1, c.p., dovendo individuare la violazione più grave, alla luce delle cornici edittali comminate, nel furto in abitazione, la pena irrogabile sarà quella prevista per tal ultimo delitto, aumentata fino al triplo. Dunque, da un punto di vista prettamente sanzionatorio, la culturalità del bene sottratto andrà ad atteggiarsi alla stessa stregua di una circostanza aggravante ad effetto speciale, il cui inasprimento di pena potrà comunque essere modulato dal giudice, nell’ambito del proprio potere discretivo, in considerazione del concreto disvalore della condotta posta in essere dall’agente. Con l’importante differenza, rispetto ad un’ipotetica natura circostanziale della culturalità della res, che l’aggravamento sanzionatorio previsto per il concorso formale di reati sarà sottratto al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p., con ciò garantendo una tutela effettiva al bene giuridico protetto dall’art. 518-bis c.p.

Considerazioni del tutto analoghe a quelle fin qui svolte in riferimento al furto in abitazione valgono in relazione al rapporto tra l’art. 518-bis c.p. e l’art. 628 c.p. Anche in questo caso, infatti, le due fattispecie delittuose si pongono in rapporto di specialità reciproca, in parte per specificazione (la natura culturale della res nel furto di beni culturali) in parte per aggiunta (la violenza alla persona o la minaccia nella rapina), senza che vengano in soccorso, per le medesime ragioni suesposte, i criteri di sussidiarietà e di consunzione onde configurare un concorso apparente di norme (per quanto, a dire il vero, l’elevata cornice edittale prevista per la rapina potrebbe indurre a ritenere tale fattispecie “assorbente” rispetto al reato di cui all’art. 518-bis c.p.)

In chiusura in tema di furto di beni culturali strictu sensu, non ci si può esimere dal constatare che il riconoscimento di un concorso formale tra tale delitto e quelli di furto in abitazione e di rapina, benché costituisca la soluzione che, per le ragioni sopra esplicate, parrebbe, da un lato, maggiormente aderente al dettato normativo e, dall’altro, più attenta alle esigenze di tutela dei beni giuridici in considerazione, tuttavia non risulta affatto soddisfacente, poiché stride violentemente con il principio del ne bis in idem sostanziale. D’altra parte, come si è visto, altre soluzioni, tese a ritenere configurato un concorso apparente di norme, si dimostrano, al momento di individuare la norma in concreto applicabile, forse ancor più insoddisfacenti, in un caso (ritenendo applicabile il solo furto in abitazione) perché non verrebbe apprestata una adeguata e specifica tutela al bene giuridico protetto dall’art. 518-bis c.p., nell’altro caso (dando rilievo al solo furto di beni culturali, in concorso con la violazione di domicilio) perché si opererebbe un’eccessiva e invero ingiustificata malleazione del dato normativo.

La verità è che la problematica in esame non si presta ad alcuna risoluzione pienamente condivisibile, dacché sconta una vistosa lacuna normativa, incolmabile su un piano meramente interpretativo, esigendo invece un apposito intervento legislativo, del tutto analogo a quello posto in essere in passato con riferimento ad altre fattispecie delittuose. Il pensiero, in particolare, va al rapporto tra furto in abitazione e rapina. In astratto, infatti, questi due reati si pongono in rapporto di specialità reciproca per aggiunta bilaterale, e, da un lato, sarebbe arduo, nell’alveo di un ipotetico concorso apparente di norme, stabilire quale dei due delitti applicare, mentre dall’altro lato il concorso formale apparirebbe, anche in questo caso, una palese violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. Con riferimento ai reati de quibus, tuttavia, il problema in realtà non si pone, poiché il legislatore ha previsto, all’art. 628, co. 3, n. 3-bis, c.p., una specifica aggravante per il reato di rapina, integrata laddove il fatto sia commesso in uno dei luoghi di cui all’art. 624-bis c.p., di talché il furto in abitazione è assorbito in tale ipotesi circostanziale. In maniera analoga, pertanto, un intervento normativo che introducesse una specifica aggravante - auspicabilmente sottratta al giudizio di bilanciamento - per i reati di cui agli artt. 624-bis e 628 c.p., configurabile qualora la condotta abbia ad oggetto un bene culturale, consentirebbe di risolvere le problematiche inerenti al rapporto tra furto di beni culturali e, rispettivamente, furto in abitazione e rapina.

Venendo infine al furto archeologico, si ritiene ammissibile il concorso con la contravvenzione di cui all’art. 175 Codice dei beni culturali [82], la quale punisce, alla lett. a), chiunque esegue ricerche archeologiche o, in genere, opere per il ritrovamento di beni culturali senza concessione, ovvero non osserva le prescrizioni date dall’amministrazione. Alla conclusione della configurabilità di un concorso tra reati è pervenuta la stessa Suprema Corte, la quale, chiamata a pronunciarsi sul rapporto tra l’art. 175 Codice dei beni culturali e il previgente art. 176 Codice dei beni culturali, ha avuto modo di chiarire che “la condotta prevista dall’art. 175 del D.Lgs. 42/04 (già art. 124 del d.lgs. n. 490/99 si realizza indipendentemente dal rinvenimento degli oggetti e concorre con il reato di impossessamento di oggetti di interesse archeologico, attesa la diversità delle due fattispecie, in quanto è chiamato a rispondere ugualmente di tale reato anche chi sia munito della concessione per effettuare ricerche archeologiche [...]: mentre, in quest’ultimo caso, la condotta penalmente rilevante riguarda l’apprensione di beni di interesse archeologico, nel primo caso la rilevanza penale deriva dall’assenza di permesso per la ricerca archeologica che, per incidens, non è necessario che avvenga in siti archeologici appositamente individuati da un provvedimento amministrativo” [83].

9. Profili di responsabilità dell’ente

Per quanto concerne la responsabilità da reato delle persone giuridiche, qualora il furto di beni culturali sia commesso da un ente, nel suo interesse o a suo vantaggio, il nuovo art. 25-septiesdecies d.lgs. n. 231/2001 - introdotto dall’art. 3 legge n. 22/2022 - lo sanziona con l’applicazione della pena pecuniaria da 400 a 900 quote e con l’applicazione delle sanzioni interdittive per la durata non superiore a due anni [84].

Affinché l’ente possa essere chiamato a rispondere del reato de quo, è necessario che la persona fisica che per esso agisca - apicale o dipendente - commetta materialmente il furto o, almeno, concorra con l’autore effettivo (anche solo moralmente, come nel caso di commissione del furto), dovendosi altrimenti dover ritenere integrate le diverse fattispecie di ricettazione o di riciclaggio.

Quanto poi alla predisposizione di adeguati modelli di organizzazione e gestione, si potrebbe prevedere l’elaborazione di protocolli e procedure di tracciamento della provenienza dei beni culturali acquisiti dall’ente. Tale soluzione, se è vero che non previene in senso stretto il furto di beni culturali (quanto, piuttosto, la successiva ricettazione), tuttavia assume una indubbia funzione deterrente, che ben potrebbe essere sufficiente a scoraggiare la commissione (anche) del delitto di cui all’art. 518-bis c.p.

10. Prospettive de jure condendo

All’esito dell’analisi della nuova fattispecie di furto di beni culturali, sia consentito di appuntare alcune brevi annotazioni in prospettiva de jure condendo, di cui comunque si è già dato ampiamente conto nel corso della trattazione.

In particolare, sono due le linee di intervento normativo su cui si potrebbe riflettere.

In primo luogo, per quanto attiene alla vexata quaestio relativa alla esatta individuazione dell’oggetto materiale della condotta, parrebbe opportuno addivenire a una definizione valida agli effetti penali della nozione di bene culturale. Compito certamente gravoso, poiché implica una operazione di cristallizzazione testuale di un concetto dai contorni invero sfumati. Una simile soluzione, tuttavia, pare imporsi per fornire il precetto penale di un adeguato grado di determinatezza, irrinunciabile presupposto di ogni istanza incriminatrice.

In secondo luogo, onde restringere il perimetro del concorso formale di reati, sarebbe necessario, pur lasciando immutato l’art. 518-bis c.p., intervenire in relazione a quelle fattispecie che con tale reato potrebbero in vario modo intrecciarsi (si pensi ai richiamati delitti di furto in abitazione e di rapina). In particolare, si potrebbe congegnare, per tali fattispecie incriminatrici, una apposita circostanza aggravante [85], auspicabilmente sottratta al giudizio di bilanciamento, integrata laddove la condotta del reo abbia ad oggetto beni culturali. Soluzione che si potrebbe astrattamente estendere anche in relazione a ulteriori ipotesi criminose, neglette dal legislatore della riforma, ma che potrebbero potenzialmente risultare ugualmente offensive dello specifico bene giuridico tutelato dai reati di cui al Titolo VIII-bis (si pensi, a titolo di esempio, al delitto di estorsione).

 

Note

[*] Davide Colombo, dottorando di ricerca in Diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano, Via Festa del Perdono 7, 20122 Milano, davide.colombo.1998@gmail.com.

[1] Su tale argomento, si rinvia a L. D’Agostino, Dalla “vittoria di Nicosia” alla “navetta” legislativa: i nuovi orizzonti normativi nel contrasto ai traffici illeciti di beni culturali, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2018, 1, pag. 78 ss. Per uno sguardo alla letteratura internazionale sul tema, v. ex multis D. Fincham, The Blood Antiquities Convention as a Paradigm for Cultural Property Crime Reduction, in Cardozo Arts & Entertainment Law Journal, 2019, vol. 37, n. 2, pagg. 299-336, nonché M.M. Bieczy?ski, The Nicosia Convention 2017: A New International Instrument Regarding Criminal Offences against Cultural Property, in Santander Art and Culture Law Review, 2017, vol. 3, 2, pagg. 255-274.

[2] L. Natali, Patrimonio culturale e immaginazione criminologica. Panorami teorici e metodologici, in AA.VV., Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato e internazionale, Milano, Giuffrè, 2015, pag. 45.

[3] Cass., sez. V, 9 marzo 2010, n. 21558; Cass., sez. II, 25 novembre 1975, n. 1721; Cass., sez. II, 19 gennaio 1973, n. 6906.

[4] G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, in Sist. pen., 29 aprile 2022, pag. 10.

[5] Il trattato internazionale sulla Convenzione per la protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale, ratificato nel 1972 dalla Conferenza generale dell’UNESCO, è attualmente sottoscritto da 175 Stati membri, il cui impegno di tutela è volto essenzialmente a garantire la conservazione dell’eredità culturale e naturale a beneficio delle future generazioni.

[6] Offre risalto alla distinzione tra beni culturali e beni paesaggistici, entrambe categorie di beni che si pongono rispetto alla nozione di patrimonio culturale in un rapporto di species-genus, G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pagg. 4-5, il quale osserva come la stessa Costituzione, pur accostando tali distinte classi di beni nella medesima funzione culturale e nella necessità di salvaguardia, tuttavia non li identifichi, riconoscendone la diversità ontologica e così legittimando tecniche di tutela che, laddove necessario, siano modulate in relazione alle specificità dei rispettivi oggetti di protezione.

[7] Sul punto S. Moccia, Riflessioni sulla tutela penale dei beni culturali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, pag. 1302 ss.; Cfr. anche V. Manes, La tutela penale, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, Il Mulino, 2011, pag. 290 ss.

[8] In questo senso ex multis P. Troncone, La tutela penale del patrimonio culturale italiano e il deterioramento strutturale del reato dell’art. 733 c.p., in Dir. pen. cont., 1° aprile 2016, pag. 3.

[9] Ritiene che i beni culturali siano una “risorsa limitata” e “non rinnovabile” P.B. Campbell, The illicit antiquities trade as a transnational criminal network: characterizing and anticipating trafficking of cultural heritage, in International Journal of Cultural Property, 2013, pag. 114 ss.

[10] Sul tema della necessità di incriminazione di condotte offensive di beni costituzionalmente protetti, v. D. Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, pag. 484 ss.

[11] V. Manes, La tutela penale, cit., pag. 291; C. Perini, Itinerari di riforma per la tutela penale del patrimonio culturale, in La legislazione penale, 19 febbraio 2018, pag. 11. Cfr. anche Corte cost., sent. 12 luglio 2000, n. 378.

[12] Si veda, sul punto, la Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pag. 11.

[13] Sul rapporto tra “sostrato materiale” e “valore immateriale” dei beni culturali, cfr. L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3, passim.

[14] L’esigenza di tutelare anche i beni culturali di proprietà privata, potenzialmente sottratti alla disponibilità pubblica, discende dalla possibilità di fruizione futura di tali beni, atteso infatti che la funzione di testimonianza culturale del bene non è suscettibile di esaurirsi in un periodo prossimo al presente, e anzi accresce il proprio valore con il trascorrere del tempo. In questa prospettiva, l’ordinamento ha interesse non solo a proteggere da danneggiamenti e deperimenti, ma anche ad avere traccia dei beni culturali che, benché di proprietà privata e eventualmente resi indisponibili al pubblico, in futuro potrebbero svolgere la propria funzione ideale; il che giustifica come mai, nell’alveo del codice dei beni culturali e del paesaggio, i beni di titolarità privata siano qualificati come culturali solo allorché sia intervenuta la dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13 Codice dei beni culturali.

[15] G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pag. 5.

[16] Gli artt. 518-duodecies e 518-terdecies c.p. tutelano, oltre ai beni culturali, anche i beni paesaggistici - dunque l’intero spettro delle res costituenti il patrimonio culturale. Forniscono un quadro singolare, invece, gli artt. 518-undecies e 518-quaterdecies c.p.: il primo, rubricato “uscita o esportazione illecite di beni culturali”, tutela - accanto, appunto, ai «beni culturali» - anche le “[...] cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico o altre cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela ai sensi della normativa sui beni culturali”; il secondo, relativo alla contraffazione di opere d’arte, fa riferimento invece a “[...] un’opera di pittura, scultura o grafica ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico o archeologico”. Sul tema, si vedano le note critiche di C. Iagnemma, I nuovi reati inerenti ai beni culturali. Sul persistere miope di una politica criminale ricondotta alla deterrenza punitiva, in Arch. pen., 2022, 1, pag. 7, la quale osserva che “non si comprende, a ben vedere, quale sia il discrimen tra le varie locuzioni [...] né, parimenti, è possibile stabilire se queste ultime indichino soltanto i beni culturali formalmente identificati come tali sul piano amministrativo”. Negli stessi termini A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, in La legislazione penale, 19 dicembre 2021, pag. 64, secondo la quale la formulazione delle disposizioni richiamate avrebbe la conseguenza di “lasciare irrisolti - e anzi potenziati - i più volte richiamati problemi di determinatezza, conoscibilità e rimproverabilità storicamente ed endemicamente sollevati dal diritto penale dei beni culturali”.

[17] G. De Marzo, La nuova disciplina in materia di reati contro il patrimonio culturale, in Il foro italiano, 2022, 4, col. 125.

[18] Il silenzio serbato dal legislatore penale è stato duramente criticato da larga parte della dottrina: A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, cit., pag. 63; C. Iagnemma, I nuovi reati inerenti ai beni culturali. Sul persistere miope di una politica criminale ricondotta alla deterrenza punitiva, cit., pag. 7; L. D’Agostino, Dalla “vittoria di Nicosia” alla “navetta” legislativa: i nuovi orizzonti normativi nel contrasto ai traffici illeciti di beni culturali, cit., pag. 89; A. Natalini, Riforma ipertrofica e casistica, senza una norma definitoria, in Guida al dir., 2022, 13, pag. 28 ss. V’è stato anche chi, di converso, ha guardato con favore all’assenza di una definizione valida ai fini penali della nozione di bene culturale, osservando che, esistendo già una definizione nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, fornirne un’altra, valida “agli effetti penali”, avrebbe comportato il rischio di confusione: così C. Sotis, La tutela penale dei beni culturali mobili. Osservazioni in prospettiva de jure condendo, in AA. VV., Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato e internazionale, Milano, Giuffrè, 2013, pag. 134; in termini analoghi G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pagg. 32-33, il quale osserva che “è proprio la mancanza di espresso collegamento con le disposizioni definitorie del Codice dei beni culturali e del paesaggio a consentire (legittimare) una flessibilità applicativa in favore della tutela del patrimonio culturale reale”.

[19] La necessità di garantire un sufficiente tasso di determinatezza nel diritto penale dei beni culturali era già stata espressa da F.C. Palazzo, La nozione di cosa d’arte in rapporto al principio di determinatezza della fattispecie penale, in La tutela penale del patrimonio artistico, Milano, Giuffrè, 1977, pag. 236 ss. e di recente ribadita, in senso critico rispetto alle scelte di normazione del legislatore, da A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, cit., pag. 64; G. Morgante, Art. 174, in Leggi penali complementari, (a cura di) T. Padovani, Milano, Giuffrè, 2007, pag. 65; A. Massaro, Diritto penale e beni culturali: aporie e prospettive, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, Roma TrE-Press, Roma, 2017, pag. 185.

[20] Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pag. 14.

[21] G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pag. 31.

[22] I termini della questione sono perspicuamente illustrati da G.P. Demuro, Una proposta di riforma dei reati contro i beni culturali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, pag. 1361 ss.

[23] Ex multis A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Torino, Giappichelli, 2023, pag. 118.

[24] G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pag. 31, secondo cui “tale indirizzo di base è conforme alla nostra Costituzione, la quale all’art. 9 indica quale compito fondamentale della Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico”. Condivide l’opinione che l’opzione di fondo del legislatore della riforma sia stata per la tutela del patrimonio culturale reale U. Santoro, La riforma dei reati contro il patrimonio culturale: commento alla L. n. 22 del 2022, in Dir. pen. proc., 2022, 7, pag. 876, secondo cui, tuttavia, una simile scelta genera tensione coi principi di legalità e colpevolezza, che va a frustrare le legittime attese di certezza degli operanti del settore.

[25] Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pag. 16.

[26] Cass., sez. III, 16 luglio 2020, n. 24988; Cass., sez. II, 18 luglio 2014, n. 36111; Cass., sez. III, 15 maggio 2014, n. 24344; Cass., sez. III, 7 luglio 2011, n. 41070.

[27] Cass., sez. III, 28 giugno 2007, n. 35226.

[28] Condivisibili, in tal senso, le riflessioni di A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, cit., pag. 119, secondo la quale, per quanto concerne l’ipotizzabile futuro atteggiamento della giurisprudenza, è probabile un effetto ‘inerziale’ di attrazione e trascinamento di tutte le fattispecie del Titolo VIII-bis verso la soluzione interpretativa prevalente in relazione alle pregresse fattispecie di danno a beni culturali, optando quindi per ritenere l’applicabilità dei nuovi delitti a tutti i beni culturali reali.

[29] G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pagg. 32-33.

[30] Cfr. A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, cit., pag. 227; L. Ramacci, Primo rapido sguardo d’insieme sulla Legge 9 marzo 2022, n. 22 in tema di reati contro il patrimonio culturale, in Lexambiente, 2022, 1, pag. 110; U. Santoro, La riforma dei reati contro il patrimonio culturale: commento alla L. n. 22 del 2022, cit., pag. 877.

[31] Sul tema, ex multis A. Lanzi, Furto, in Enciclopedia giuridica Treccani, XIV, 1989, pag. 1.

[32] Così R. Bartoli, I delitti contro il patrimonio, in Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, (a cura di) R. Bartoli, M. Pelissero, S. Seminara, Torino, Giappichelli, 2021, pag. 252.

[33] Sul tema del requisito dell’altruità della cosa nel furto, v. amplius S. Lalomia, sub art. 624, in Codice penale commentato, diretto da E. Dolcini, G.L. Gatta, III, V ed., pag. 2244 ss.

[34] La tesi per cui sottrazione e impossessamento costituirebbero, nel reato di furto, due modalità distinte di aggressione al bene, è stata da tempo avvalorata da Cass., SS. UU., 17 aprile 2014, n. 52117.

[35] G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pag. 13.

[36] Con riferimento all’originaria ipotesi di cui all’art. 176 Codice dei beni culturali, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che, ai fini del perfezionamento del reato, la condotta di impossessamento si configura laddove l’agente abbia posto in essere un’azione a mezzo della quale appreso la cosa spostandola dal luogo in cui si trovava in origine per collocarla altrove, nel proprio dominio, non essendo invece sufficiente a integrare il reato l’atteggiamento meramente passivo di chi si sia limitato a ricevere il bene per successione ereditaria: così Cass., sez. III, 19 aprile 2006, 13701).

[37] Sul tema, in relazione all’abrogato art. 176 Codice dei beni culturali, si vedano ex multis P.G. Ferri, Uscita o esportazione illecite, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Gli illeciti penali, (a cura di) A. Manna, Milano, Giuffrè, 2005, pag. 240; P. Cipolla, Rapporti tra impossessamento di beni culturali e ricerche archeologiche clandestine, nella tematica del concorso di norme, in Cass. pen., 2008, pag. 3795 ss.

[38] A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, cit., pag. 23.

[39] Sul tema, in relazione alla disciplina previgente, si veda G.P. Demuro, sub art. 176, in Commento articolo per articolo alla parte quarta (Sanzioni [artt. 160-181]) del d.lgs. 22/1/2004, in La legislazione penale, 2004, pag. 464.

[40] Sul punto, si veda la Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pag. 25.

[41] G. De Marzo, La nuova disciplina in materia di reati contro il patrimonio culturale, cit., col. 129. In particolare, sottolineano la circostanza che, sulla base di argomenti testuali e sistematici, il dolo specifico di profitto debba essere riferito solo al furto di beni culturali in senso stretto A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, cit., pag. 228; E. Romanelli, Opportunità di emersione del sommerso in materia di reati contro il patrimonio culturale: una proposta di misura premiale, in Leg. Pen., 27 giugno 2022, pag. 29; L. Ramacci, Primo rapido sguardo d’insieme sulla Legge 9 marzo 2022, n. 22 in tema di reati contro il patrimonio culturale, cit., pag. 111.

[42] In questi termini, v. Cass., sez. I, 22 aprile 2022, n. 20442; Cass., sez. IV, 6 ottobre 2021, n. 4144; Cass., sez. IV, 26 novembre 2019, n. 13842; Cass., sez. V, 16 gennaio 2019, n. 11225. In critica a questo indirizzo ermeneutico, assolutamente maggioritario in giurisprudenza, cfr. R. Bartoli, I delitti contro il patrimonio, cit., pag. 255, secondo cui ampliare la nozione di profitto sì da ricomprendervi qualsiasi vantaggio, anche di natura non patrimoniale, ha “la conseguenza che nella sostanza il dolo specifico finisce per perdere qualsiasi rilevanza e ruolo selettivo, tant’è vero che spesso viene confuso con il movente”.

[43] Si vedano, ex multis, Cass., sez. V, 5 aprile 2019, n. 25821; Cass., sez. V, 23 gennaio 2018, n. 30073.

[44] Per un commento all’ordinanza di rimessione, v. A. Aimi, La nozione di dolo specifico di profitto al vaglio delle Sezioni unite, in Sistema Penale, 2023, 2, pag. 5 ss.

[45] Non pare condivisibile, invece, l’orientamento formatosi in giurisprudenza in relazione alle fattispecie penali contenute - ante riforma - nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, secondo cui, quanto alla richiesta consapevolezza del valore culturale del bene da parte del soggetto attivo, sarebbe sufficiente un accertamento presuntivo che finisce per arrestarsi, di fatto, alla mera percettibilità della nota di valore della cosa (così Cass., sez. III, 15 febbraio 2005, n. 21400; più recentemente Cass., sez. III, 18 dicembre 2014, n. 6202). Una simile soluzione opera una ingiustificata sovrapposizione tra effettiva rappresentazione e prevedibilità in concreto, svilendo il ruolo selettivo delle condotte penalmente rilevanti ricoperto dall’elemento soggettivo, in nome della necessità di superare le difficoltà di accertamento del dolo che possono, non si nega, emergere nei casi concreti. D’altra parte, considerato che è sufficiente il dolo eventuale per integrare l’elemento soggettivo della fattispecie incriminatrice de qua, la riconoscibilità dell’interesse culturale della res potrà certamente costituire un indice da cui desumere la rappresentazione dell’agente, ma senza che ciò si traduca in una presunzione automatica di effettiva conoscenza del carattere culturale del bene.

[46] Tra i molti commenti, si veda D. Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1988, 2, pag. 686 ss.

[47] Ex multis, si vedano M. Romano, Commentario sistematico del Codice Penale, I, Milano, Giuffrè, 2004, pag. 503; G. Grasso, Considerazioni in tema di errore su legge extrapenale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, n. 1976, 1, pag. 138 ss.

[48] A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, cit., pag. 49.

[49] Cass., sez. III, 8 aprile 2019, n. 23810; Cass., sez. VII, 13 luglio 2017, n. 44293; Cass., sez. I, 8 febbraio 2017, n. 42795; Cass., sez. II, 31 gennaio 2017, n. 8889; Cass., sez. VI, 13 gennaio 2017, n. 9473.

[50] In tal senso G.P. Demuro, Beni culturali e tecniche di tutela penale, Milano, Giuffrè, 2002, pag. 158 ss.

[51] Così A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, cit., pag. 50. Sulla distinzione tra errore su norme extrapenali integratrici, come tale inquadrabile nella disciplina di cui all’art. 5 c.p., ed errore su norme extrapenali non integratrici, da assoggettarsi alla disciplina di cui all’art. 47, co. 3, c.p., si vedano, ex plurimis, D. Pulitanò, L’errore sulla legge extrapenale, Milano, Giuffrè, 1974, pag. 113 ss.; M. Romano, Commentario sistematico del Codice Penale, cit., pagg. 497-499. In riferimento ai reati contro il patrimonio culturale, cfr. G.P. Demuro, Beni culturali e tecniche di tutela penale, cit., pag. 222 ss.

[52] In questi termini G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, X, Milano, Giuffrè, 2021, pag. 380.

[53] Ex plurimis si vedano F. Cingari, Quale sia il momento consumativo del furto, in St. iuris, 2001, pag. 1513 ss.; R. Bartoli, Per la perfezione del furto occorre anche l’impossessamento della cosa, in Giur. it., 2015, pag. 721 ss.; Id., I delitti contro il patrimonio, cit., pagg. 256-257. In giurisprudenza, cfr. i principi espressi da Cass., SS. UU., 16 dicembre 2014, n. 52117.

[54] Così la Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pag. 25.

[55] Su tale norma, che configura una contravvenzione di pericolo astratto, si è pronunciata di recente Cass., sez. III, 26 novembre 2015, n. 51681, la quale ha confermato l’indirizzo giurisprudenziale, originatosi a partire da Cass., sez. V, 17 luglio 1973, n. 8839, secondo cui l’integrazione del reato in parola prescinderebbe dall’esistenza o meno di un sito archeologico.

[56] La contravvenzione di cui all’art. 707-bis c.p. è un reato di sospetto e di possesso (A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, cit., pag. 21; C. Iagnemma, I nuovi reati inerenti ai beni culturali. Sul persistere miope di una politica criminale ricondotta alla deterrenza punitiva, cit., pag. 13), che denota “la volontà del legislatore di apprestare una tutela anticipata dei beni culturali”: così L. D’Agostino, Dalla “vittoria di Nicosia” alla “navetta” legislativa: i nuovi orizzonti normativi nel contrasto ai traffici illeciti di beni culturali, cit., pag. 86 nt. 36.

[57] Sul tema del rapporto tra art. 175 Codice dei beni culturali e art. 707-bis c.p., si veda G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pag. 14.

[58] G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pag. 14.

[59] V. Manes, La tutela penale, cit., pag. 301.

[60] G. De Marzo, La nuova disciplina in materia di reati contro il patrimonio culturale, cit., col. 134.

[61] Osserva G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, cit., pag. 29, che “nella individuazione del soggetto si sarebbe forse potuto tener conto che simile ratio aggravatrice vale non solo per i funzionari pubblici preposti in vario modo alla amministrazione e tutela di beni culturali, ma anche per i privati concessionari e per coloro i quali svolgono semplici compiti di custodia, non facilmente inquadrabili tra i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio”.

[62] Cfr. la Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pagg. 57-58. Sul tema, si veda L. Grossi, Le Archeomafie: le possibili intersezioni fra la criminalità organizzata e l’organizzazione del crimine, in Il traffico illecito dei beni culturali, AA. VV., Università degli Studi Roma Tre, Roma, 2021, pag. 70 ss.

[63] Così la Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pag. 59.

[64] C. Iagnemma, I nuovi reati inerenti ai beni culturali. Sul persistere miope di una politica criminale ricondotta alla deterrenza punitiva, cit., pag. 14.

[65] Sulla distinzione tra tale ipotesi attenuante e quella invece precedentemente prevista dall’abrogato art. 177 Codice dei beni culturali, cfr. G. De Marzo, La nuova disciplina in materia di reati contro il patrimonio culturale, cit., col. 135, nonché A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, cit., pag. 29, secondo cui la previsione premiale di cui al neo introdotto art. 518-septiesdecies c.p. sarebbe leggermente meno favorevole rispetto a quella dell’abrogato art. 177 Codice dei beni culturali.

[66] In questi termini Cass., SS.UU., 28 ottobre 2010, n. 1235. Tale posizione è stata seguita da Cass., sez. V, 19 maggio 2014, n. 39822; Cass., sez. V, 20 giugno 2017, n. 35591; Cass., sez. V, 18 aprile 2019, n. 22475. In dottrina, cfr. A. Cadoppi, P. Veneziani, Manuale di diritto penale, Padova, Cedam, III ed., 2007, pag. 465; B. Romano, Diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, IV ed., 2020, pagg. 415-416; G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., pagg. 596-597.

[67] Così V.B. Muscatiello, Concorso di norme. I presupposti e la disciplina della pluralità apparente, in A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Trattato di diritto penale, vol. II, Torino, Utet, 2014, pag. 963.

[68] F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, Cedam, 2013, pag. 488.

[69] G. De Marzo, La nuova disciplina in materia di reati contro il patrimonio culturale, cit., col. 129. Giunge alla stessa conclusione anche la Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pag. 23.

[70] M. Pelissero, Il concorso apparente di norme, in C.F. Grosso, M. Pelissero, D. Petrini, P. Pisa, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, III ed., 2020, pag. 609.

[71] G. De Marzo, La nuova disciplina in materia di reati contro il patrimonio culturale, cit., col. 129.

[72] Porta tale esempio S. Vinciguerra, Diritto penale italiano. I. Concetti, fonti, validità, interpretazione, Padova, Cedam, 2009, pag. 529.

[73] B. Romano, Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 417; A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, VIII ed., 2003, pag. 198; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, VIII ed., 2019, pag. 727; M. Pelissero, Il concorso apparente di norme, cit., pag. 609.

[74] A. Cadoppi - P. Veneziani, Manuale di diritto penale, cit., pagg. 466-467.

[75] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., pag. 598.

[76] Tra cui si segnala Cass., sez. VI, 10 aprile 2019, n. 18572.

[77] Sul punto, emblematiche le considerazioni spese da Cass., SS.UU., 20 dicembre 2005, n. 47164, secondo cui “i giudizi di valore che i criteri di assorbimento e di consunzione richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l'applicazione di una norma penale”.

[78] In questi esatti termini A. Cadoppi, P. Veneziani, Manuale di diritto penale, cit., pagg. 466-467.

[79] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., pag. 602.

[80] Con l’assurda conseguenza che, accogliendo l’ipotesi qui prospettata, il furto in abitazione di un bene culturale sarebbe punito meno severamente del furto in abitazione di una cosa mobile qualsiasi.

[81] Cfr. ex multis Cass., sez. 18 aprile 2019, n. 22475; Cass., sez. V, 13 novembre 2017, n. 11049; Cass., sez. I, 30 novembre 2015, n. 19230; Cass., sez. V, 14 giugno 2013, n. 37088; Cass., sez. II, 16 novembre 2012, n. 3397; Cass., sez. II, 27 marzo 2008, n. 15879; Cass., sez. II, 26 ottobre 2005, n. 40921; Cass., sez. I, 24 giugno 2004, n. 30546.

[82] V. Relazione n. 34/22 dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pag. 26.

[83] Cass., sez. III, 7 maggio 2015, n. 9927. In precedenza, conforme, Cass., sez. III, 26 ottobre 2007, n. 44967.

[84] In tema, v. L. Troyer, M. Tettamanti, Le nuove norme in materia di reati contro il patrimonio culturale ed il loro impatto sulla responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001, in Riv. dott. commercialisti, 2022, 2, pagg. 291-325, nonché Id., Reati contro il patrimonio culturale e responsabilità degli enti: questioni interpretative e suggerimenti pratici, in Le Società, 2022, 11, pagg. 1174-1182.

[85] Va segnalato come parte della dottrina, in commento alla riforma operata dalla legge 22/2022, abbia ritenuto che, con particolare riferimento al reato di furto di beni culturali, la previsione di un autonomo titolo delittuoso rappresenterebbe di per sé un afflato punitivo eccessivo, e che sarebbe stato più opportuno prevedere (solo) un’aggravante specifica del furto: propende per questa soluzione R.E. Omodei, Il traffico di beni culturali: un caso studio delle distorsioni e dei limiti nel contrasto ai traffici illeciti, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2021, 3, pag. 1010 ss.; cfr. anche N. Recchia, Una prima lettura della recente riforma della tutela penalistica dei beni culturali, in Aedon, 2022, 2, nonché A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, cit., pag. 232.

 

 

 



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