testata

I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso

Sull’utilizzo del vincolo culturale di destinazione d’uso [*]

di Girolamo Sciullo [**]

Sommario: 1. Generalità. - 2. I beni culturali ex art. 10 del Codice. - 3. Le testimonianze materiali rappresentative di espressioni di identità culturale ex art. 7-bis.

On the utilization of the cultural constraint of intended use
The paper addresses the issue of the utilization of the cultural constraint of intended use in the light of the Cons. St., Ad. Plen. no. 5/2023.

Keywords: Cultural heritage; Cultural constraint of intended use.

1. Generalità

Non entro (direttamente) nel merito dell’impianto argomentativo impiegato dall’Ad. Plen. n. 5/2023, ma preferisco considerare il possibile impatto della sentenza, in particolare l’applicazione che ne potrà fare il suo immediato destinatario, ossia l’autorità preposta alla tutela del patrimonio culturale.

Su questo versante appare innegabile che la pronuncia ‘mette a disposizione’ degli organi del Mic uno strumento in precedenza, al più, considerato ammissibile in circostanze eccezionali e circoscritte (§ 2). Si tratta del vincolo di destinazione d’uso, consistente, secondo le parole della sentenza, nella prescrizione della “continuità dell’uso attuale cui la cosa [rectius, il bene culturale] è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata” (§ 3.8).

Alla luce del contenuto della pronuncia la misura risulta ‘ordinaria’ sotto vari profili. Da un lato, quanto ai presupposti, il vincolo è apponibile laddove, ad avviso dell’autorità di tutela, “usi della res diversi da quelli attuali siano di pregiudizio per la conservazione dei suoi caratteri artistici o storici ovvero per la sua integrità materiale” (§ 3.5), dall’altro, quanto all’ambito, la misura può investire sia le cose costituenti beni culturali ex art. 10 del Codice sia le testimonianze materiali che rappresentano le espressioni di identità culturale collettiva di cui alle convenzioni Unesco del 2003 e 2005 richiamate dall’art. 7-bis.

Questo secondo profilo (l’area delle res interessate) merita qualche precisazione. Benché muova da una questione interessante un bene culturale ex art. 10, comma 3, lett. d), e a tale classe di beni si riferisca il primo principio di diritto affermato (§ 7), la pronuncia considera anche i beni culturali ex se, quando afferma che “il vincolo di destinazione può essere imposto anche su un immobile già sottoposto a tutela per il proprio intrinseco pregio artistico” (§ 4). Il passaggio è sintetico (fin troppo), ma la sua portata è inequivocabile: non solo i beni ex comma 3, lett. d), ma in generale tutti quelli previsti dall’intero art. 10 sono assoggettabili alla misura. In secondo luogo, alle testimonianze materiali di cui all’art. 7-bis la pronuncia sembra assimilare i beni etnoantropologici disciplinati dall’art. 10 (§ 6.7). L’affermazione risulta oscura, ma la si può trascurare: i beni etnoantropologici ricadono sotto la disciplina dell’art. 10 o per valore intrinseco oppure per relationem (ex comma 3, lett. d), sicché nulla aggiunge al loro statuto disciplinare la possibile valenza come testimonianze materiali ai sensi dell’art. 7-bis.

All’applicazione del vincolo di destinazione d’uso la pronuncia, poi, non pone limiti né temporali (esso può essere disposto tanto all’atto della comunicazione del mutamento della destinazione d’uso ex art. 21, comma 4, quanto al momento della dichiarazione d’interesse, in forza del principio di prevenzione ex art. 29, comma 2) (§ 3.9), né sostanziali. Sono esclusi solo il divieto di imporre un “obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività commerciale o imprenditoriale [in corso] e l’attribuzione di una “‘riserva di attività” a favore di un determinato gestore” ossia “una sorta di ‘rendita di posizione’” (§ 3.7).

Con queste premesse l’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso apparirebbe una misura di utilizzo sostanzialmente non diverso, sotto il profilo della sua praticabilità, dalla dichiarazione o dalla verifica dell’interesse culturale ai sensi degli artt. 13 e 12. Senonché non vanno trascurati alcuni fattori, di carattere giuridico o di opportunità che, a seconda dei casi, limitano, condizionano l’impiego della misura o quanto meno dovrebbero indurre l’autorità di tutela ad un utilizzo prudente dalla stessa.

2. I beni culturali ex art. 10 del Codice

Iniziando dal caso dei beni culturali ex art. 10, può ritenersi che un freno al ricorso al vincolo derivi da uno dei presupposti che secondo la pronuncia giustificano la misura. Se il pregiudizio all’”integrità materiale” del bene che usi diversi da quello in atto arrecherebbero appare di agevole motivazione, non altrettanto può dirsi per l’altro presupposto, alternativamente indicato, costituito dal pregiudizio alla “conservazione dei suoi caratteri artistici e storici”. La pronuncia ne dà infatti una conformazione rigorosa: esso ricorre quando “il valore culturale espresso dalla res non [può] essere salvaguardato e trasmesso se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso, che compenetratosi nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, è divenuto ad esso ‘consustanziale’” (§ 3.9). In altri termini, secondo la pronuncia, il vincolo di destinazione motivato in ragione della tutela dei valori espressi dal bene culturale si giustifica solo quando la prosecuzione dell’attività in atto sia “inscindibile e compenetrata negli elementi materiali [della res] considerati di interesse storico-culturali” (§ 3.7).

Il che porta altresì a ritenere che il vincolo, almeno per l’aspetto appena indicato, possa essere stabilito, nel caso di beni culturali ex art. 10, comma 3, lett. d), prevalentemente per quelli ‘per testimonianza identitaria’, in cui è ravvisabile una “compenetrazione tra res e funzione o uso”, viceversa non necessariamente ricorrente a proposito dei beni ‘per riferimento’ o ‘di interesse storico indiretto’ in relazione ai quali la riferibilità può essere data anche da un singolo evento [1].

Un fattore di condizionamento discende poi dalla natura della discrezionalità che l’autorità esercita relativamente all’apposizione del vincolo. La pronuncia (§ 3.3 e 4.8) muove dalla considerazione dell’interesse culturale di cui all’art. 9 Cost., come delineata dalla risalente sentenza della Corte costituzionale n. 151/1986, ossia di un valore “prevalente su qualsiasi altro interesse - ivi compresi quelli economici - nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti”. Il che la porta la pronuncia ad affermare che nel provvedimento di apposizione del vincolo l’amministrazione faccia esercizio di discrezionalità tecnica, con i conseguenti noti limiti per il sindacato giurisdizionale (§ 3.9). Così argomentando, però, la sentenza inopinatamente trascura gli sviluppi intervenuti al riguardo nella giurisprudenza costituzionale, secondo i quali “La Costituzione italiana richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” [di certi valori] significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio [nel caso in cui siano coinvolti altri interessi], proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato... secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza” (così Corte cost. n. 85/2013, § 9, cfr. anche la n. 196/2004 § 23). Si tratta di una posizione interamente ora recepita dal giudice amministrativo (cfr. Cons. St, VI, n. 8167/2022, § 3.4, ma v. anche la recentissima Cons. St., IV, n. 2836/2023, § 11.3) anche proposito dell’attività svolta dalla pubblica amministrazione, e che ha portato lo stesso giudice a dare spazio al criterio della ponderazione degli interessi, con gli annessi principi di proporzionalità e ragionevolezza, in sede di prescrizioni di tutela indiretta (Cons. St., VI, cit., § 3.3 e § 5) e di modulazione del vincolo diretto (Cons. St., I, n. 1961/2022), e più in generale quando vengono stabilite le concrete misure di tutela e di conservazione ‘a valle’ dell’accertamento dell’interesse culturale (cfr. in particolare Cons. St., VI n. 2061/2020, §§ 9-10).

In conclusione, è da pensare che l’autorità di tutela anche in sede di valutazioni relative all’apposizione di un vincolo di destinazione d’uso non possa sottrarsi ad un bilanciamento degli interessi in gioco, da condursi in particolare secondo i tre step (idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto) che connotano il principio di proporzionalità.

Ancora, di particolare interesse risulta quanto osservato dal giudice amministrativo (Cons. St., VI, n. 1003/2015) a proposito di una fattispecie relativa ad un progetto di trasformazione del corpo di una sala cinematografica e teatrale (“Cinema Teatro Concordi” di Padova) in edificio a destinazione commerciale e residenziale. Venne al riguardo osservato che se “l’apprezzamento circa l’importanza dell’interesse culturale... appartiene alla valutazione propria dell’Amministrazione a ciò preposta, è anche vero che la valutazione non può prescindere dalla considerazione delle concrete coordinate di spazio e di tempo in cui [il bene] è calato”, ed è tenuta a “tener conto di un complesso e integrato sistema attinente all'interesse pubblico in concreto, nel quale la sopravvivenza della testimonianza culturale deve inevitabilmente collegarsi alla necessità di preservare, con il valore culturale, la stessa esistenza materiale e la vitalità del contesto del quale il bene stesso è parte integrante”. Nel caso esaminato il collegio concluse che il mantenimento integrale di tutti gli elementi strutturali dell’immobile, disposto dall’autorità di tutela, si traduceva in una limitazione della destinazione d’uso che appariva “generare un’insostenibilità economica dell’utilizzazione”, con ciò venendo “a contraddire la stessa salvaguardia materiale del bene, cui la legge di tutela è orientata”.

Dalla sentenza emerge un preciso e condivisibile caveat: il vincolo di destinazione d’uso, proprio perché, come afferma l’Adunanza Plenaria, non può imporre nessun obbligo di esercizio dell’uso in atto (specie se commerciale), richiede che l’Amministrazione prima di stabilirlo valuti la sostenibilità economica della prosecuzione dell’uso in questione e quindi il rischio che la eventuale cessazione si rifletta sulla stessa sopravvivenza del bene, tanto in termini materiali della res, quanto in relazione ai valori culturali in essa incorporati.

Il riferimento nella sentenza appena richiamata al ‘contesto’ del bene culturale è presente anche nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria con un sintetico, ma significativo, cenno ai c.d. locali storici e alla loro rilevanza sul tessuto urbano del ‘centro storico’. Il dato suggerisce di prospettare anche una ricaduta in termini procedimentali dell’apposizione del vincolo di destinazione d’uso. Quando questo è destinato a riflettersi sul contesto in cui è inserito il bene culturale, in particolare con un’incidenza sull’assetto del centro (o del nucleo) storico [2] della città, è da pensare che l’autorità di tutela debba dare “notizia dell’inizio del [relativo]procedimento” anche al comune e alla città metropolitana [3] in quanto entità preposte al governo del territorio. Ciò in forza dell’art. 7, comma 1, della legge 241/1990, e in considerazione dei possibili riflessi, in termini di “pregiudizio”, sull’assetto urbano derivanti dal vincolo.

3. Le testimonianze materiali rappresentative di espressioni di identità culturale ex art. 7-bis

Sul vincolo di destinazione d’uso relativo alle testimonianze materiali rappresentative di espressioni di identità culturale ex art. 7-bis possono senz’altro richiamarsi le osservazioni appena indicate. Una considerazione aggiuntiva appare però necessaria.

Nel testo della pronuncia sono presenti talune affermazioni che meritano attenzione: in particolare quella secondo cui “l'art. 7-bis d.lgs. n. 42 del 2004 cit. ha dunque integrato il sistema di tutele tradizionali già previsto dalla normativa di settore, consentendo di tutelare anche le manifestazioni culturali immateriali, costituenti 'espressioni di identità culturale collettiva', in uno alle testimonianze materiali che le rappresentano” (§ 6.7) [4].

Tale affermazione può indurre a ritenere che il riconoscimento dell’interesse culturale nelle testimonianze materiali di cui all’art. 7-bis, la conseguente loro qualificazione come beni culturali ai sensi del Codice e in progressione l’apposizione del vincolo di destinazione d’uso in vista della condivisione e trasmissione nel tempo delle espressioni d’identità collettiva che esse rappresentano rendano possibile tutelare direttamente tali espressioni con gli strumenti codicistici.

Si tratterebbe però di una conclusione da respingere, perché deborda dalla portata dell’art. 7-bis [5]. La disposizione ha carattere meramente ricognitivo/esplicativo: prende atto che - seppur il patrimonio culturale è complessivamente dato tanto da beni materiali quanto da beni immateriali - la disciplina del Codice riguarda solo i beni materiali. Pertanto, precisa che quanto alle espressioni di identità collettiva di cui alle convenzioni Unesco richiamate, che sono essenzialmente costituite da entità immateriali (attività), sono soggette alla disciplina codicistica solo le loro testimonianze materiali in presenza dei requisiti previsti dal Codice [6]. Attraverso la tutela accordata a tali testimonianze (una volta qualificate come beni culturali) può senz’altro ritenersi che ricevano salvaguardia le espressioni (immateriali) di identità culturale collettiva di riferimento, ma ciò solo indirettamente, in particolare nel senso che attraverso l’apposizione del vincolo di destinazione d’uso tali testimonianze vengono funzionalizzate alla condivisione, diffusione e trasmissione nel tempo delle espressioni di identità collettiva cui sono legate.

Del resto, a ritenere il contrario, ossia che l’art. 7-bis consenta l’applicazione degli strumenti in cui si articola la tutela codicistica alle espressioni di identità culturale collettiva in quanto tali e quindi anche alle loro forme immateriali, non si saprebbe indicare per queste la possibile operabilità di tali strumenti. A parte forse (e con le necessarie precisazioni) il caso delle rievocazioni storiche, la dichiarazione di interesse culturale - come più volte sottolineato in sede dottrinale [7] - sarebbe priva di effetti giuridici ‘conformativi’ non essendo ipotizzabili in particolare divieti di modifiche o limiti alla circolazione giuridicamente coercibili, che oltretutto si porrebbero in contrasto con la libertà di espressione del pensiero tutelata dall’art. 21, co. 4, Cost.

Il fatto è che le espressioni di identità culturale, in quanto patrimonio “costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi” (si pensi per un esempio alla possibile new entry de “La cucina italiana”) non si prestano per loro natura ad essere oggetto della disciplina vincolistica del Codice, ma - come recita l’art. 2, comma 3 della convenzione Unesco del 2003 - solo ad essere “salvaguardate” attraverso “misure volte a garantirne la vitalità” (quali in particolare la identificazione, promozione, valorizzazione e trasmissione), misure per le quali inoltre - pare opportuno sottolinearlo - non si configura né una privativa pubblica né tantomeno statale.

Per chiudere una postilla suggerita da un ordinamento non secolare, ma di sicuro riferimento. Un caso esemplare in cui è rintracciabile, per usare la terminologia dell’Adunanza Plenaria, una ‘consustanziale’ compenetrazione fra res e funzione è costituito dall’edificio/chiesa, che l’ordinamento canonico definisce come “edificio sacro destinato al culto divino” (can. 1214 CIC) [8]. È appena il caso di ricordare che, secondo una stima attendibile, delle circa 95.000 chiese esistenti in Italia almeno 85.000 rivestono valore storico e artistico [9].

Orbene l’ordinamento canonico nell’indicare al can. 1210 CIC l’utilizzo dei luoghi sacri (e quindi anche dell’edificio/chiesa) non lo circoscrive agli usi inerenti all’esercizio e alla promozione del culto (come pure della pietà e della religione), ma, con l’esclusione di ogni attività contraria alla santità del luogo, ammette che l’autorità ecclesiastica possa, per modum actus, permettere altri usi, pur non coincidenti con dette finalità [10].

A ben vedere sembra ricorrere in tale disposto null’altro che l’applicazione di una virtù teologale, la ‘prudenza’ intesa come uso del discernimento nell’agire pratico, virtù questa che ‘laicamente’ sul tema qui esaminato si può ben raccomandare anche alle autorità di tutela del Mic.

P.S. Dopo la stesura della precedente nota è intervenuta il 20 aprile l’approvazione da parte della Camera dei Deputati del disegno di legge di conversione del d.l. n. 13/2023, recante disposizioni urgenti per l’attuazione del PNRR (Atto C. 1089). Il disegno di legge ha mantenuto fondamentalmente invariato l’art. 45, co. 5, lett. a), del decreto-legge, che ha aggiunto alla fine dell’art. 3, co. 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio il seguente periodo: “Le funzioni di tutela sono esercitate conformemente a criteri omogenei e priorità` fissati dal Ministero della cultura”. Lasciando il disparte il dubbio sulla necessità di una disposizione attributiva di un potere già conferito da altri atti normativi agli apparati centrali del MiC (d.lgs. 165/2001, art. 16, co. 1; Codice, art. 12, co. 2 e 7, e art. 25, co. 9; d.p.c.m. 169/2019, in particolare art. 16, co. 1), e da questi, seppur timidamente, esercitato (cfr., ad es., Nota 5085/2009 della DG per i beni architettonici, storico-artistici ed etnoantropologici), non si può non auspicare che tale potere grazie alla conferma venga utilizzato in modo significativo, a cominciare magari proprio per fornire indirizzi sulla ‘delicata’ applicazione del vincolo di destinazione d’uso.

 

Note

[*] Attualità-valutato dalla Direzione.

[**] Girolamo Sciullo, professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Bologna, Via Zamboni 22, 40126 Bologna g.sciullo@studiogam.it.

[1] Per tale ordine di concetti cfr. G. Morbidelli, Artt. 10 e 11, Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, pag. 143.

[2] Le due realtà sono distinte dal Codice nell’art. 136, comma 1, lett. b).

[3] Entrambi gli enti sono considerati dall’art. 14, comma 3, del Codice.

[4] Da segnalare anche l’altra secondo cui “In definitiva, anche la tutela dei beni culturali (in uno alle attività) che costituiscono ‘espressione di identità culturale collettiva’ può essere disposta sulla base del Codice dei beni culturali” (§ 4.8).

[5] Su tale disposizione cfr. per tutti G. Severini, Artt. 1-2, Codice, cit., pag. 29 s.

[6] A conferma del suo carattere ricognitivo/esplicativo può osservarsi che anche in mancanza dell’art-7-bis le testimonianze materiali che rappresentano espressioni di identità culturale collettiva ben potrebbero ricevere tutela da parte del Codice ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), in quanto qualificabili come beni culturali ‘per testimonianza identitaria’.

[7] Cfr. ad es. G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, G. Severini, Immaterialità di patrimoni culturali?, P.F. Ungari, La sponsorizzazione dei beni culturali, in I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche, (a cura di) A. Bartolini, D. Brunelli, G. Caforio, Napoli, Jovene, 2014, rispettivamente pag. 180 ss., 123 e 148 ss.

[8] “Aedes sacra, divino cultui destinata”.

[9] Cfr. A. Tomer, ‘Aedes sacrae’ e ‘Edifici destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico’. La condizione giuridica delle chiese tra ordinamento canonico e ordinamento statale, Bologna, BUP, 2022, pag. 12.

[10] “Ordinarius vero per modum actus alios usus, sanctitati tamen loci non contrarios, permittere potest”. Sul punto si rinvia all’ampia analisi di A. Tomer, ‘Aedes sacrae’, cit., pag. 172 ss. e in part. 195 ss., dove per gli utilizzi ‘permissibili’ si richiamano anche i documenti delle autorità ecclesiali (Conferenza Episcopale Italiana, organi della Curia romana) che li hanno precisati.

 

 

 



copyright 2023 by Società editrice il Mulino
Licenza d'uso


inizio pagina