La digitalizzazione del patrimonio culturale
Condivisione e interoperabilità dei dati nel settore del patrimonio culturale: il caso delle banche dati digitali
Sommario: 1. Patrimonio, beni culturali e digitalizzazione. - 2. La nuova disciplina degli open data: aperture ai privati e vincoli al riutilizzo. - 3. La diffusione e il riuso di riproduzioni e informazioni di beni culturali pubblici. - 3.1. La libera riproduzione di beni culturali in pubblico dominio tra diritti di esclusiva e principio tariffario. - 3.2. La condivisione di informazioni tramite database aperti: l'esempio del Catalogo generale dei beni culturali. - 4. Limiti e prospettive per l'utilizzo dei dati nella fruizione del patrimonio culturale digitale.
Data Sharing and Interoperability in The Cultural Heritage Sector: The Case of Digital Databases
In recent years, several EU regulatory interventions have helped to redesign the rules on the re-use of public sector information. However, exceptions have been made towards cultural institutions (libraries, museums and archives), which have then been transposed into domestic legislation making the data re-use regulation quite heterogeneous in this field. The article reveals that the rules on cultural heritage images reproduction are different from the ones provided for catalographic databases in the same area. In this respect, the strategy and open access regime adopted by the Central Institute for the Catalogue and Documentation for the Cultural Heritage General Catalogue have been taken as an example of compliance with the needs of cultural heritage digital accessibility and a successful public-private information pooling.
Keywords: Cultural Heritage; Data Interoperability; General Catalogue.
1. Patrimonio, beni culturali e digitalizzazione
È un rilievo ormai abbastanza noto e condiviso quello secondo cui l'esercizio della funzione amministrativa è sempre più influenzato dalla presenza, crescente e pervasiva, della tecnologia digitale e dei suoi successivi sviluppi. L'onnipresenza dei dati, di banche dati e l'interconnessione tra questi stanno trasformando profondamente il funzionamento dell'amministrazione, destinato a mutare ancora in futuro [1].
In questo senso è stato evidenziato come il fenomeno della digitalizzazione, legato all'attuazione di strategie politiche, stimolate dalle necessità del mercato, dalla trama delle relazioni globali, e accolte dalla normativa europea, incida "trasversalmente" sul diritto amministrativo. A tale fenomeno è strettamente connesso il presupposto di un'apertura allo scambio o alla condivisione di dati [2]. Una condivisione che non implica soltanto la messa in comune di informazioni - più o meno aggregate - tra diverse amministrazioni, ma presuppone una più ampia diffusione all'esterno delle stesse, anche in favore di privati, siano essi cittadini o operatori di mercato, nel rispetto delle garanzie imposte dalle norme sulla privacy e in materia di concorrenza [3].
In ragione della complessità e dello studio, per certi versi ancora in fieri, degli effetti e dell'impatto che lo sviluppo digitale ha avuto e sta avendo sulla società e sugli apparati preposti alla cura di interessi pubblici, in particolare nel settore del patrimonio culturale, in questa sede si affronteranno solo alcuni degli aspetti che riguardano la materia, in quanto mostrano particolare interesse ai fini della garanzia di accessibilità e fruizione dei beni e del patrimonio culturale nel suo complesso [4].
Più specificamente, tenendo a mente i problemi e gli interrogativi posti dalla coesistenza tra diverse discipline operanti nel settore, in primo luogo, si cercherà di ricostruire ed interpretare il quadro di regole previste per il riuso e la diffusione delle informazioni del settore pubblico. In secondo luogo, si focalizzerà l'attenzione sulla disciplina applicabile al riutilizzo dei dati nel settore del patrimonio e dei beni culturali pubblici, siano essi considerati singolarmente, oppure come insieme di informazioni rispetto alla banca dati che li custodisce. Si darà poi conto dei limiti che ancora permangono in tale ambito e di quali potranno essere, in prospettiva, gli sviluppi a fronte del recepimento della più recente direttiva sugli open data nel settore pubblico.
L'obiettivo dell'indagine è quello di comprendere in che misura la (nuova) normativa in materia di riuso dei dati, emanata per implementare l'impiego delle tecnologie digitali - e, di rimando, di favorire il fenomeno della digitalizzazione a cui essa risponde - sia in grado di incidere sull'esercizio delle funzioni e sull'erogazione di servizi pubblici in materia di patrimonio culturale.
In particolare, l'analisi sarà condotta guardando all'esperienza delle banche dati catalografiche, in virtù del ruolo fondamentale che svolgono nella raccolta, studio e analisi dei dati in materia di patrimonio culturale e, più specificamente al Catalogo generale curato dall'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), quale soggetto istituzionale incaricato di gestire i processi di digitalizzazione e i relativi sviluppi nel settore [5].
A tal fine, in via preliminare, è però opportuno chiarire alcuni concetti chiave che riguardano, da un lato, la definizione di "banca dati", così come delineata in ambito internazionale, dal legislatore europeo e da quello nazionale; dall'altro, il concetto di "catalogo" e il suo ruolo nell'ambito dell'esercizio delle funzioni pubbliche connesse al patrimonio culturale.
Per "banca dati" (database) si intende "una raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti e individualmente accessibili grazie a mezzi elettronici o in altro modo" [6]. In base alla disciplina vigente, ad essere tutelato è sia il creatore della "struttura" del database, sia il "contenuto" della stessa [7]. Con riferimento alle banche dati pubbliche, ossia quelle realizzate da pubbliche amministrazioni attraverso investimenti pubblici, la legge in materia di diritto d'autore stabilisce poi che spetti in loro favore "il diritto d'autore sulle opere create e pubblicate sotto loro nome e a loro conto e spese" [8].
Tra le banche dati pubbliche, nel settore del patrimonio culturale, si annoverano anche i cataloghi redatti e/o curati a livello statale o regionale. Il catalogo in sé nasce come strumento di "accertamento patrimoniale" dei beni espressivi di un "rilevante interesse culturale" e l'attività di catalogazione ad esso connessa emerge, inizialmente, sulla spinta dell'esigenza di limitare le esportazioni di opere d'arte e/o di evitare traffici illeciti delle medesime [9]. Tuttavia, tale strumento ha poi assunto nel tempo una funzione ulteriore rispetto a quella del "riconoscimento del valore storico-artistico dei beni", strumentale alle attività scientifico-conoscitive di supporto alla funzione di tutela, ossia quella di promozione della conoscenza dei beni in esso inseriti, in maniera funzionale alla loro valorizzazione [10].
Le attività di catalogazione sono state, inoltre, progressivamente interessate dall'evoluzione dei sistemi tecnologici di raccolta e classificazione dei dati, allo scopo di creare una rete di informazioni, disponibili su tutto il territorio nazionale [11]. Pertanto, di recente, si trovano a confrontarsi anche con le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, sulla base degli atti di pianificazione emanati dall'amministrazione competente, in conformità con le disposizioni del Codice dell'Amministrazione Digitale (CAD), oltre che con le regole tecniche formulate dall'Agenzia per l'Italia Digitale (AgID), chiamata gestire e coordinare le strategie di valorizzazione del patrimonio informativo nazionale.
2. La nuova disciplina degli open data: aperture ai privati e vincoli al riutilizzo
I dati delle pubbliche amministrazioni sono "formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e la riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dai privati", fatti salvi i limiti imposti dalle regole in materia di protezione dei dati personali e "nel rispetto della normativa comunitaria in materia di riutilizzo delle informazioni nel settore pubblico" [12].
Tale previsione, contenuta all'interno del Codice dell'Amministrazione Digitale (CAD), rappresenta un precipitato - anche se in via indiretta, ma tuttora in vigore - delle innumerevoli modifiche a cui la materia della gestione e condivisione dei dati nel settore pubblico è stata sottoposta, a partire dalle regole fissate nella Direttiva 2003/98/CE, fino ad arrivare alla più recente disciplina indicata nella Direttiva 2019/1024 relativa all'apertura dei dati e al riutilizzo dell'informazione nel settore pubblico (Public Sector Information - PSI) [13].
La struttura attuale trova però il suo cardine in alcune delle disposizioni (già) contenute nella Direttiva 2013/37/UE, che 'inaugura' la stagione attuativa delle politiche di riforma in materia di riutilizzo dei dati del settore pubblico alla luce dell'evoluzione tecnologica digitale, in quanto finalizzata ad incoraggiare "un'ampia disponibilità e il riutilizzo delle informazioni del settore pubblico a fini privati o commerciali, con vincoli minimi o in assenza" di essi, per favorirne la circolazione [14].
L'analisi, lo sfruttamento e l'elaborazione dei dati rappresentano, infatti, degli asset strategici nella moderna digital sharing economy e "le norme adottate nel 2003 non rispecchiano più questi rapidi mutamenti", pertanto una loro riformulazione è stata percepita come necessaria per poter "cogliere le opportunità economiche e sociali offerte dal riutilizzo di dati pubblici" [15]. A tale considerazione segue la previsione di un obbligo generalizzato a carico degli Stati membri di "rendere riutilizzabili tutti i documenti, a meno che l'accesso sia limitato o escluso" dalla normativa nazionale in materia e negli altri casi individuati dalla direttiva stessa [16].
Il riutilizzo dei documenti del settore pubblico "non dovrebbe essere soggetto a condizioni" di accessibilità, se non nei casi in cui esse siano giustificate da un obiettivo di pubblico interesse. In queste ultime circostanze, è prevista la possibilità dell'impiego di una licenza che regoli le forme e modi di accessibilità e riuso dei dati. Tra esse la più incoraggiata è la c.d. licenza aperta, che prevede quale obbligo nei confronti del titolare quanto meno la citazione della fonte da cui il documento o l'informazione proviene [17].
Nonostante rafforzi l'importanza della diffusione e riutilizzo dei dati in possesso di enti pubblici, la Direttiva PSI 2013, se da un lato, incoraggia il settore pubblico a prevedere "vincoli minimi" per il riutilizzo degli stessi, favorendo regimi di licenza aperta [18]; dall'altro, mostra un ambito di applicazione soggettivo limitato ai soli enti o istituti pubblici - anche culturali - non prendendo in considerazione soggetti gestori di servizi pubblici e istituti culturali privati. Un gap colmato oggi dalla successiva Direttiva 2019/1024, la quale estende il suo ambito di applicazione anche ad enti privati che svolgano attività di interesse generale, accostando agli enti pubblici, gli "organismi di diritto pubblico" [19].
L'intervento più recente lascia comunque impregiudicato un elemento importante, già contenuto nella Direttiva PSI 2013, e forse poco enfatizzato in virtù della mancanza di un richiamo esplicito alla disciplina in materia di banche dati all'interno della stessa [20].
L'elemento a cui si riferisce è, in particolare, quello per il quale l'obbligo di open access (secondo gli ormai noti principi dell'open by design e by default) può essere derogato o escluso sia nei casi in cui ciò sia previsto dalla normativa nazionale, sia "negli altri casi individuati dalla direttiva stessa", tra i quali rientrano "i documenti su cui soggetti terzi vantano diritti di proprietà intellettuale" [21]. Il riferimento ai "terzi" ha indotto a dedurre a contrario dalla previsione che qualora il diritto di proprietà intellettuale esista in capo al soggetto pubblico o, ancora, laddove esso non sussista (più), la normativa in materia di riuso dei dati trovi allora piena applicazione [22].
In particolare, tale inciso è stato di recente valorizzato e interpretato dalla giurisprudenza di merito, contribuendo a far emergere la portata delle sue rilevanti implicazioni, anche per quel che riguarda le banche dati del "settore pubblico", così come descritto da ultimo dalla Direttiva PSI 2019 [23]. Più specificamente, è stato ritenuto che in virtù degli obblighi previsti in ambito europeo in materia di open data, nel caso di coinvolgimento di banche dati pubbliche e ai fini della loro tutela, è opportuno interpretare il concetto di "parte sostanziale" - a cui fa riferimento la legge in materia di diritto d'autore ai fini dell'estrazione di dati da database - in senso restrittivo [24].
In altri termini, si amplia la possibilità di estrarre informazioni nel caso di banche dati riconducibili al "settore pubblico", in ragione del più esteso ambito soggettivo a cui si applica la Direttiva PSI 2019. Da una diversa prospettiva, allo stesso tempo, ciò implica un conseguente indebolimento delle garanzie riconosciute dalla medesima legge in materia di estrazione, reimpiego e rielaborazione di informazioni raccolte in banche dati se in possesso o curate da un soggetto pubblico [25].
3. La diffusione e il riuso di riproduzioni e informazioni di beni culturali pubblici
I medesimi obblighi in tema di open access dei dati appartenenti al settore pubblico, come anticipato, sono stati espressamente estesi anche al "materiale culturale", detenuto in istituti della cultura (musei, archivi, biblioteche), in quanto "le loro collezioni sono e diverranno sempre più materiale prezioso per il riutilizzo" e l'analisi di dataset, anche prodotti dall'impiego di software sviluppati dalla tecnologia digitale (app, QR codes, etc.) [26].
Nel valutare gli effetti che tale disciplina ha avuto (e avrà), in particolare, sull'ordinamento del patrimonio e dei beni culturali, si nota come il quadro sia piuttosto disomogeneo. Poiché, se da un lato, il materiale di istituzioni culturali diverse da biblioteche, archivi e musei resta escluso dall'ambito di applicazione della disciplina open access per ragioni di tutela del diritto d'autore [27]; dall'altro sono ancora vigenti alcuni 'limiti' alla libera riproduzione di beni culturali e a prescindere dall'uso della stessa, come per esempio il versamento di un corrispettivo in denaro, benché si tratti di una tariffa limitata ai soli costi marginali [28].
Il sovrapporsi di regole sovranazionali e nazionali non ha sempre trovato una compiuta e/o immediata risposta da parte del legislatore interno, soprattutto in materia di beni culturali. Quest'ultimo è, infatti, nella condizione di dover coniugare la tradizionale visione proprietaria su cui è incentrata la disciplina di settore, con le più recenti e innovative istanze di accesso aperto e riuso delle informazioni pubbliche. Di qui le difficoltà spesso incontrate nell'uniformare la disciplina nazionale alle previsioni europee.
Pertanto, nel tentativo di ricostruire la disciplina applicabile al riuso dei dati nel settore del patrimonio e dei beni culturali pubblici alla luce dell'aggiornamento della normativa europea in materia di open data, due sono le prospettive da tenere in considerazione. La prima, è quella che riguarda le ipotesi di condivisione e diffusione di singole riproduzioni di beni culturali, per scopi privati, lucrativi o non lucrativi. La seconda è, invece, quella che attiene al riutilizzo e alla condivisione dei dati come insieme di informazioni contenute e organizzate in banche dati.
3.1. La libera riproduzione di beni culturali in pubblico dominio tra diritti di esclusiva e principio tariffario
La regola tradizionalmente applicata in ambito nazionale prevede un controllo sulle riproduzioni (anche digitali) di beni culturali, realizzato mediante un regime concessorio e la determinazione del relativo canone, funzionale a garantire la conservazione, la pubblica fruizione e ad assicurare la compatibilità della destinazione d'uso con il valore culturale che le stesse riproduzioni esprimono [29].
Esistono però delle eccezioni a tale regime, recentemente introdotte, che prevedono invece il libero riuso delle riproduzioni da parte dei privati. Esse riguardano i casi in cui ne faccia richiesta un singolo per uso personale, o per motivi di studio, ovvero la richiesta giunga da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, oltre che per finalità di ricerca, libera manifestazione del pensiero, espressione creativa e promozione della conoscenza del patrimonio culturale. Il presupposto per il libero riuso in tutte le circostanze citate è dato, in ogni caso, dall'assenza di scopo di lucro nelle finalità per cui la riproduzione o informazione viene richiesta [30].
Con riferimento ai documenti in possesso di istituti della cultura, vige comunque un generale "principio di tariffazione" - ribadito anche nell'ultimo intervento del legislatore europeo - che implica il pagamento di una tariffa a titolo di corrispettivo per le spese di riproduzione sostenute dall'ente. Tale rimborso è dovuto anche nel caso in cui la riproduzione sia richiesta a scopi personali, istituzionali, comunque non lucrativi. Il corrispettivo non è dovuto solo qualora la riproduzione sia richiesta per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero, promozione della conoscenza del patrimonio culturale, in quanto tali attività se realizzate a scopo non lucrativo "sono in ogni caso libere" [31].
Tuttavia, nonostante le notevoli riduzioni di limiti alla diffusione di riproduzioni di beni culturali, la disciplina appena richiamata consente (e, per certi versi, agevola) la persistenza di regimi di privativa nel riuso delle informazioni e dei dati nel settore. Regimi di privativa altrimenti negati, in via generale, dall'ordinamento in base al divieto di accordi di esclusiva per il riutilizzo di documenti delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico, già introdotto in sede di recepimento della Direttiva 2003/98 [32].
La disciplina generale non si applica però in materia di beni culturali in ragione della specialità che connota il settore, supportata dalla deroga normativa espressa introdotta a seguito del recepimento della Direttiva PSI 2013 [33]. Infatti, in sede di estensione delle regole fissate dalla Direttiva PSI 2003, il legislatore europeo ha messo in luce e dato rilevanza - oltre che riconoscimento - a "numerosi accordi di cooperazione tra biblioteche universitarie, musei, archivi e soggetti privati che prevedono la digitalizzazione di risorse culturali garantendo diritti di esclusiva a partner privati" [34].
Visti anche i risultati in termini di implementazione delle relative attività che tali partenariati pubblico-privati sono stati in grado di realizzare, accelerando l'accesso dei cittadini al patrimonio culturale, è stato dunque ritenuto opportuno riconoscere e conservare tale regime di esclusiva, limitando però il periodo di tempo al "più breve possibile" per il recupero da parte del partner privato dei propri investimenti [35].
3.2. La condivisione di informazioni tramite database aperti: l'esempio del Catalogo generale dei beni culturali
Come anticipato, la normativa interna di settore non prende in considerazione le banche dati di beni culturali e i loro contenuti se non con riferimento all'attività di catalogazione.
Le metodologie di raccolta, di scambio, accesso ed elaborazione dati "sono individuate dal Ministero, con il concorso delle regioni", attraverso meccanismi consensuali, tra cui la stipula di protocolli di intesa e/o accordi [36]. Inoltre, i dati prodotti dall'attività di catalogazione su tutto il territorio nazionale "affluiscono" poi ad un'unica banca dati nazionale, il Catalogo generale, curato dall'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) [37].
Nel definire il Catalogo generale, è stato rilevato che esso non debba essere inteso come "entità unitaria operante a livello centrale", ma piuttosto come "sommatoria articolata di sistemi distribuiti sul territorio", di cui una delle componenti è anche il Sistema Informativo Generale del Catalogo (SIGECweb), piattaforma digitale di consultazione dei suoi contenuti, a cui affluiscono dati appartenenti a soggetti pubblici e privati, gestita dallo stesso ICCD [38].
La struttura del Catalogo generale si fonda, quindi, sulla riconduzione dei dati raccolti su tutto il territorio nazionale, poi trasfusi a livello centrale, e sulla loro accessibilità da parte di altri organi della stessa amministrazione per il coordinamento nell'esercizio delle funzioni di tutela e valorizzazione [39]. Con l'apertura della piattaforma digitale, i dati e le informazioni del Catalogo sono messi a disposizione di un numero più ampio di utenti, che possono fruirne liberamente, secondo il regime di licenza adottato in relazione ai diversi contenuti [40].
Ai fini dell'analisi, il Catalogo generale rappresenta la principale banca dati pubblica di beni culturali in Italia, si distingue per il suo carattere onnicomprensivo - dal momento che in esso sono catalogati beni culturali sia pubblici, sia privati - e per le funzioni di coordinamento che è chiamato a svolgere, per ciò è forse l'esempio più importante nel suo genere.
In attuazione della strategia di incentivazione al riutilizzo dei dati del patrimonio informativo pubblico, è stato coerentemente attribuito all'Istituto il compito di predisporre le misure più adatte alla diffusione dei propri contenuti per finalità conoscitive e di promozione del patrimonio culturale [41]. Pertanto, "il Catalogo nazionale dei beni culturali, in ogni sua articolazione, deve essere pubblicamente accessibile e i dati resi disponibili per usi istituzionali delle amministrazioni e riusi da parte della collettività" e ciò viene realizzato attraverso la piattaforma digitale SIGECweb, che gestisce l'intero flusso della catalogazione secondo criteri standard [42].
Le politiche di pubblicazione, circolazione e uso e riuso del patrimonio informativo del Catalogo generale devono comunque tener conto anche della normativa generale in materia di riutilizzo dei dati da parte delle pubbliche amministrazioni e, in particolare, della necessità di espressa adozione di un regime di licenza aperto, graduato secondo le proprie necessità, onde evitare l'applicazione del principio open by default.
Infatti, al contrario di quanto osservato con riferimento alla diffusione mediante riuso di immagini di beni culturali pubblici - dove resta in vigore un discrimen tra usi commerciali e non commerciali dell'informazione, sotto forma di dato-immagine - per quel che riguarda i dati catalografici contenuti all'interno di apposite banche dati la differenziazione non sembra ravvisabile.
Pertanto, vale quanto genericamente indicato dal legislatore europeo e progressivamente recepito da quello nazionale, ossia le amministrazioni che producono e/o raccolgono tale genere di dati sono tenute a rendere accessibili e disponibili le proprie informazioni con "licenze d'uso di tipo aperto", così da consentire la più ampia condivisione possibile [43]. Di conseguenza, l'assenza di una scelta in merito al regime di licenza aperta da adottare comporta l'applicazione del regime di open access in via automatica (open by default o licenza aperta standard) [44].
Qualora si intenda limitare - in maniera più o meno restrittiva - la circolazione dei dati, è necessario optare per uno dei regimi di licenza aperta a disposizione, così come individuati dall'AgID nelle linee guida per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico [45]. Ciò soprattutto in quanto le informazioni non protette o regolate nella loro diffusione da detto regime, sono liberamente disponibili per il riuso e la rielaborazione da parte di chiunque, anche per finalità commerciali [46].
Con specifico riguardo al regime adottato dall'ICCD per il Catalogo generale, l'opzione intrapresa è stata quella verso un tipo di licenza aperta che prevede l'obbligo in capo al titolare del "la sola attribuzione della fonte" [47]. Tra le tipologie di licenze disponibili, l'Istituto ha scelto una di quelle che maggiormente consente il riuso e la condivisione di dati. Non ha però optato per una licenza 'totalmente aperta', quale è quella di "pubblico dominio" per evitare di rinunciare "permanentemente e irrevocabilmente a tutti i diritti sul documento e sui suoi contenuti, dati inclusi", come invece prevede la licenza di pubblico dominio [48].
Al contrario di quanto previsto per istituti della cultura come musei, archivi e biblioteche, il principio tariffario non si applica alle banche dati catalografiche e al Catalogo generale, i cui dati sono quindi "rilasciati in formato aperto e senza l'applicazione di tariffe d'uso, in quanto dati non esplicitamente soggetti a tariffazione" [49]. Tale impostazione meno limitativa si giustifica sulla base della natura dell'attività catalografica come attività di "natura partecipativa" e per la quale, dunque, il costo di produzione del dato o dell'informazione non ricade di fondo su un unico soggetto [50].
4. Limiti e prospettive per l'utilizzo dei dati nella fruizione del patrimonio culturale digitale
La disciplina in materia di accesso aperto e riutilizzo dei dati del settore pubblico sembra quindi aver inciso (e in grado di incidere, per il futuro) in maniera rilevante sull'esercizio delle funzioni, nell'erogazione dei sevizi pubblici e, più in generale, sul diritto amministrativo in sé considerato. Non a caso, specialmente nell'ultimo quinquennio, si sono moltiplicati gli studi sugli effetti che una simile apertura verso i dati, la loro riproducibilità e il loro studio a scopo di analisi, potrà portare in termini di trasformazione dell'azione pubblica, la quale interessa anche il settore del patrimonio culturale [51].
L'incisività di tale disciplina si manifesta almeno in due modi.
Una prima manifestazione è data dalle opportunità che può offrire l'interscambio di dati, non solo tra pubbliche amministrazioni, ma anche tra soggetti pubblici e privati che realizzino attività di interesse generale. Questo dà, inoltre, la possibilità di utilizzare un numero maggiore ed eterogeneo di informazioni anche a scopi di programmazione e per il coinvolgimento di diversi stakeholder nello svolgimento di attività di interesse pubblico, tra cui rientra la fruizione del patrimonio culturale.
In tal senso, la recente Direttiva PSI è destinata ad influenzare la dialettica pubblico-privato, particolarmente complessa proprio nel settore dei beni culturali, contribuendo ad aprirne i termini di dialogo. Tuttavia, come ricordato, esistono tutt'ora diritti di privativa di immagini e/o dati garantiti in favore di determinati partner, a scapito di altri, in virtù di accordi stipulati per la digitalizzazione delle collezioni di istituti culturali pubblici. In ogni caso, la rimodulazione dei termini di durata dei partenariati imporrà una necessaria revisione degli stessi in favore di una maggiore condivisione e apertura alla diffusione dei contenuti riprodotti.
Una seconda dimostrazione è data dal contributo che detta disciplina porta nell'abbattere molti dei limiti ostativi alla più ampia fruizione dei beni culturali, contribuendo al processo di formazione di un "patrimonio culturale digitale" comune, come già da tempo auspicato dall'UNESCO nella Carta per la conservazione dello stesso patrimonio digitale. Infatti, nel definire l'accessibilità ai suoi contenuti e "massimizzarne" la fruizione, si enunciava già allora la necessità che la disponibilità dei materiali digitali, soprattutto di quelli in pubblico dominio, non fosse condizionata da alcuna "restrizione immotivata" e il regime oggi applicabile alle banche dati pubbliche sembra orientato in tal senso [52].
Restano però ancora degli ostacoli da superare per una piena attuazione dei principi open access.
Il primo ha a che vedere con l'armonizzazione di fatto delle regole previste dai singoli ordinamenti, da realizzare tramite il coordinamento delle norme interne con la disciplina sovranazionale. Il secondo riguarda il bilanciamento tra posizioni di diritto astrattamente configurabili (e talvolta concretamente sovrapponibili), confliggenti con l'interesse pubblico al riuso e libero accesso ai dati. Situazioni di conflitto queste ultime che riguardano, nel settore del patrimonio culturale, per lo più il rapporto tra fruizione generalizzata tramite riproduzioni o riutilizzo dati e/o informazioni digitali, e tutela dei diritti di proprietà intellettuale insistenti sugli stessi.
In quest'ottica, gli Stati membri avranno allora una grande responsabilità nel garantire l'efficacia e l'effettività della disciplina in materia di open data, rimessa tanto alla concreta condivisione dei dati e del loro libero riuso (salve le deroghe espressamente previste); quanto all'applicazione sempre più generalizzata di regimi di licenza aperta, secondo le opzioni selezionate dall'ente che dispone dei dati, allo scopo di abbattere per quanto possibile le barriere al loro riutilizzo. Operazioni che hanno comportato e comporteranno uno sforzo da parte dei governi nazionali verso l'adeguamento della normativa interna, oltre che dei costi per il supporto dei processi di digitalizzazione [53].
In tale contesto, il Catalogo generale curato dall'ICCD rappresenta allora un buon esempio a dimostrazione della possibilità di impiego dei nuovi strumenti tecnologici, graduando le forme di tutela dei contenuti digitali e contribuendo ad una maggiore fruizione del patrimonio culturale, sia pubblico che privato, da parte degli utenti. Esso dimostra, inoltre, come sia possibile opporre la logica dell'open access a quella della data-ownership, per lo più applicata a datasets (anche culturali) di medie-grandi dimensioni e per i quali, per la verità, la tutela accordata dai regimi di esclusiva esistenti - tra cui quello previsto dalle norme sul diritto d'autore - non sembra essere progressivamente più adeguata.
Note
[1] In tal senso, si veda la riflessione di J.-B. Auby, Prefazione, in G. Carullo, Gestione, fruizione e diffusione dei dati dell'amministrazione digitale e funzione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2017, XX. Sull'evoluzione dell'amministrazione verso una sua organizzazione come "nativa digitale", si rimanda al recente contributo di P. Piras, Il tortuoso cammino verso un'amministrazione nativa digitale, in Dir. Inf., 2020, 1, pag. 43 ss., il quale si sofferma in particolare sul modello di organizzazione dell'amministrazione pubblica e sul grado di attuazione dei relativi processi di digitalizzazione.
[2] In tema di condivisione dei dati come elemento chiave della nuova "economia digitale", oltre che come pilastro delle politiche europee nello scorso e nel prossimo decennio, tra gli altri, si v. O. Borgogno, Regimi di condivisione dei dati e interoperabilità: il ruolo e la disciplina delle A.P.I., in Dir. Inf., 2019, pag. 689 ss. Mentre sulle strategie di politica europea in relazione ai c.d. big data, tra gli altri, si rimanda a C. Buzzacchi, La politica europea per i big data e la logica del single market: prospettive di maggiore concorrenza?, in Concorrenza e mercato, 2016, 1, pag. 153 ss.
[3] In generale, sul fenomeno della digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, anche con riferimento ai dati del patrimonio culturale, tra gli altri, si v. L. Casini, Lo Stato nell'era di Google e A. Simoncini, Profili costituzionali dell'amministrazione algoritmica, entrambi in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 4, rispettivamente pag. 1111 ss. e pag. 1149 ss. Dedicati all'esame, gli effetti e le implicazioni che le nuove tecnologie digitali hanno portato e stanno portando all'interno degli ordinamenti nazionali, valutandone in chiave critica i cambiamenti. Ancora, in argomento e anche con riferimento al settore dei beni culturali, si v. F. Faini, Il volto dell'amministrazione digitale, in Dir. Inf., 2019, 4/5, pag. 1099 ss.; G. Pellicciari, La digitalizzazione della cultura tra interessi pubblici e privati. Il valore immateriale dei beni culturali, in L'immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli e A. Bartolini, Torino, Giappichelli, 2018, pag. 185 ss.; A. Bartolini, Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. amm., 2019, 2, pag. 223 ss.
[4] Sugli altri aspetti e problemi che pure interessano il patrimonio culturale e le relative banche dati, si rimanda agli altri contributi pubblicati in questo fascicolo della Rivista.
[5] D.m. 22 febbraio 2017.
[6] Art. 2, co. 1, n. 9, legge 22 aprile 1941, n. 633 (c.d. legge sul diritto d'autore - l.d.a.), così come modificata dal d.lg. 6 maggio 1999, n. 169, emanato in recepimento della Direttiva 96/9/CE (cons. 17 e art. 1, par. 2). Per una ricostruzione della disciplina delle banche dati e dei profili di tutela che l'ordinamento prevede in favore dei rispettivi contenuti, si rimanda, tra gli altri, S. Di Minco, La tutela giuridica delle banche dati. Verso una direttiva comunitaria, in Informatica e diritto, 1996, pag. 176 ss.; R. Imperiali, R. Imperiali, La tutela giuridica delle banche dati, in Diritto comunitario degli scambi internazionali, 1996, pag. 378 ss.; M.S. Spolidoro, Il contenuto del diritto connesso sulle banche dati, in AIDA, 1997, pag. 46 ss. Per una riflessione della portata della disciplina, anche in prospettiva internazionale, si v. I. Stamatoudi, The EU Databases Directive: Reconceptualising Copyright and Tracing the Future of the Sui Generis Right, in Revue Hellénique de Droit International, 50, 1997, pag. 441 ss.
[7] Nel primo caso, la tutela è assicurata dalla disciplina in materia di diritto d'autore o dal regime del copyright, di conseguenza la protezione sussiste solo qualora la banca dati sia qualificabile come "creazione intellettuale originale", cfr. art. 3, par. 1, Direttiva 96/9/CE. Nel secondo caso, invece, è previsto che i contenuti possano essere tutelabili in via autonoma rispetto alla struttura, ma non in base al diritto d'autore, piuttosto in virtù di un "diritto sui generis", riconosciuto proprio dalla norma europea, che è però invocabile solo nel caso in cui la costituzione della struttura abbia comportato un "investimento rilevante sotto il profilo qualitativo o quantitativo" da parte del suo costitutore, cfr. art. 3, par. 2 e art. 7, par. 1 Direttiva 96/9/CE. Sul diritto applicabile alle banche dati, sulla natura e il contenuto del diritto sui generis e i profili correlati, si vedano in particolare i contributi pubblicati nella rivista AIDA, 1997 e, tra gli altri, quelli di L. Mansani, Proprietà intellettuale e giacimenti culturali, pag. 117 ss.; M.C. Cardarelli, Il diritto sui generis: la durata, pag. 64 ss.; V. Di Cataldo, Banche-dati e diritto sui generis: la fattispecie costitutiva, pag. 20 ss. Sulle differenze concettuali tra "banca dati", "informazione" e "dato", si rinvia poi al più recente studio di G. Carullo, Gestione, fruizione e diffusione dei dati dell'amministrazione digitale e funzione amministrativa, op. cit., pag. 63 ss.
[8] Art. 11, l.d.a.
[9] Le prime attività di catalogazione risalgono ad iniziative portate avanti negli Stati pre-unitari e, in particolare, nello Stato Pontificio e nella Repubblica di Venezia, cfr. A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni culturali degli antichi Stati italiani (1571-1870), Firenze, Polistampa, 2015, pag. 32 ss. e M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli Stati italiani preunitari, in Giur. cost., 1982, pag. 2422 ss.
[10] Risalgono all'inizio del secolo scorso le leggi relative alle linee guida per la compilazione degli elenchi, questi ultimi redatti per individuare e riconoscere il valore culturale del bene catalogato, oltre che per renderlo oggetto di studio e analisi a fini di ricerca. È proprio per ottemperare a queste funzioni che viene istituito prima l'Ufficio Centrale per il Catalogo e la Documentazione (1969), il quale viene poi trasformato in Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione con l'istituzione del ministero per i Beni culturali e Ambientali (1974-75), con il compito di: organizzare l'attività di catalogazione elaborando metodologie, vocabolari terminologici e di documentare il patrimonio culturale attraverso le collezioni fotografiche; provvedere alla formazione attraverso la promozione di stage per studenti universitari e progetti formativi. Per una ricostruzione delle evoluzioni delle funzioni associate al catalogo, v. C. Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, Bologna, Il Mulino, 2014, pag. 117 ss. Per un commento alla norma del Codice riguardante le attività di catalogazione e la sua contestualizzazione nell'ambito delle funzioni amministrative associate ai beni culturali, si rimanda a P. Petraroia, Catalogazione - Articolo 17, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2004, pag. 127 ss.; M. Tiberii, L. Moro, Art. 17 - Catalogazione, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, pag. 270 ss.
[11] In argomento, in particolare, si v. S. Vasco Rocca (a cura di), Beni culturali e catalogazione. Principi teorici e percorsi di analisi, Roma, Gangemi Editore, 2016, pag. 13 ss., nell'ambito del quale oltre ad essere contestualizzata la funzione del catalogo, anche in rapporto al "bene culturale" come nozione in sé, si segnala come l'attività di catalogazione sia mutata nel tempo, anche a fronte delle evoluzioni degli strumenti impiegati per sostenerne a realizzazione.
[12] Art. 50, co. 1, d.lg. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell'Amministrazione Digitale - CAD). Sull'ampliamento dell'accesso ai dati nel CAD, tra gli altri, si v. F. Manganaro, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull'accesso ai dati, informazioni ed atti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. amm., 2019, 4, pag. 743 ss.
[13] La Direttiva 2003/98/CE (c.d. PSI-1) è stata infatti recepita con d.lg. 36/2006, successivamente emendato dalla legge 124/2015 a seguito delle modifiche introdotte dalla Direttiva 2013/37/UE (c.d. PSI-2). Il percorso delle riforme che hanno interessato prima "l'informatizzazione", poi la "digitalizzazione" della pubblica amministrazione è un percorso lungo e complesso, anche e soprattutto in ragione dei mutamenti che velocemente si susseguono in campo tecnologico. In questo senso, il legislatore - non solo nazionale, ma anche europeo - ritiene necessario un continuo aggiornamento delle regole, a cui si collegano però problematiche legate all'incertezza del quadro normativo vigente o comunque al suo conforme adeguamento. Per un'analisi delle modifiche intervenute nel tempo e più di recente in materia, tra gli altri, si rimanda a B. Carotti, L'Amministrazione digitale: le sfide culturali e politiche del nuovo codice, in Gior. dir. amm., 2017, 1, pag. 7 ss.; F. Costantino, Autonomia dell'amministrazione e innovazione digitale, Napoli, Jovene, 2012, pag. 37 ss.; P. Otranto, La neutralità della rete internet: diritti fondamentali, interessi pubblici e poteri amministrativi, in Funzione promozionale del diritto e tutela multilivello, (a cura di) F.J. Lacava, P. Otranto, F. Auricchio, Bari, Cacucci, 2017, pag. 182 ss.
[14] Cons. 3, Direttiva 2013/37/UE.
[15] Cons. 5, Direttiva 2013/37/UE.
[16] Cons. 8, Direttiva 2013/37/UE.
[17] Art. 8 e cons. 44, Direttiva 2019/1024, che prosegue statuendo che "le eventuali licenze per il riutilizzo dell'informazione del settore pubblico dovrebbero comunque imporre il minor numero di restrizioni al riutilizzo", riducendo quindi le limitazioni alla sola citazione della fonte, a cui si aggiunge l'incoraggiamento agli Stati membri di prevedere licenze pubbliche standardizzate disponibili online, "che consentano a chiunque di accedere liberamente ai dati e contenuti, nonché di utilizzarli, modificarli e condividerli liberamente e per qualsiasi finalità".
[18] Cons. 3 e 26, Direttiva 2013/37/UE. Con riferimento a quest'ultimo, si prevede espressamente che "le eventuali licenze per il riutilizzo di informazioni del settore pubblico dovrebbero comunque imporre il minor numero possibile di restrizioni al riutilizzo, limitandole, ad esempio, all'indicazione della fonte. Al riguardo dovrebbero svolgere un ruolo importante le licenze aperte disponibili in linea che conferiscono diritti di riutilizzo più ampi".
[19] Art. 2, par. 1, nn. 1) e 2), Direttiva 2019/1024.
[20] La disciplina della protezione di banche dati è contenuta all'interno della Direttiva 96/9/CE, poi recepita all'interno della l.d.a., artt. 64-quinquies e ss. e artt. 102 e ss. La Direttiva 2019/1024 apre un nuovo fronte nel regime di tutela delle banche dati in possesso di soggetti pubblici, cfr. cons. 55 e art. 1, par. 2, lett. c), in base ai quali "nell'ambito della convenzione di Berna e dell'accordo TRIPS, è opportuno escludere dall'ambito di applicazione della presente direttiva i documenti su cui i terzi detengono diritti di proprietà intellettuale", e ciò vale anche nel caso in cui il documento in questione sia in possesso di biblioteche universitarie, musei e archivi.
[21] Cons. 9 e 18, Direttiva 2013/37; cons. 55 e art. 1, co. 2, lett. c), Direttiva 2019/1024.
[22] In tal senso, di recente, cfr. ord. Trib. Roma, XVII Sez. civ., Trib. Imprese, R.G. n. 34006 del 05/09/2019, pag. 10. Sulla disciplina in materia di banche dati e gli orientamenti europei, di recente, si v. V. Falce, L'"insostenibile leggerezza" delle regole sulle banche dati nell'unione dell'innovazione, in Riv. dir. ind., 2018, 4, pag. 377 ss.
[23] Art. 2, par. 1, Direttiva 2019/1024.
[24] Art. 64-sexies, co. 1, lett. a), legge 633/1941, in base al quale "le eventuali operazioni di riproduzione permanente della totalità o di parte sostanziale del contenuto su altro supporto sono comunque soggette all'autorizzazione del titolare del diritto".
[25] Cfr. ord. Trib. Roma, R.G. n. 34006 del 05/09/2019, op. ult. cit., nella quale il giudice ha rigettato l'istanza promossa da Trenitalia S.p.A. per l'applicazione di una misura cautelare interdittiva ex artt. 102-bis ss. l.p.a. a fronte di un'estrazione e reimpiego dati provenienti dal datatbase di Trenitalia da parte della società di diritto inglese GoBright. Il rigetto dell'istanza è stato motivato, tra le altre, proprio citando la normativa europea in materia di riuso dei dati del settore pubblico alla luce delle modifiche intervenute (soprattutto sul piano soggettivo) nel 2019, nella misura in cui "quando si parla quindi di estrazione, reimpiego, ovvero rielaborazione di un quantitativo di dati provenienti da un soggetto a cui la disciplina comunitaria impone la massima divulgazione dei dati in proprio possesso, il concetto di 'parte sostanziale' del prelievo deve essere interpretato ed applicato in conformità alla volontà del legislatore comunitario in un'ottica di sostanziale sovrapposizione fra il concetto di 'totalità' e quello di 'parte sostanziale'. Quindi solo la prova stringente di una sottrazione di una banca dati complessiva può fondare il rilascio di un provvedimento interdittivo".
[26] Cons. 17 e 18, Direttiva 2013/37/UE.
[27] Cons. 18, Direttiva 2013/37; art. 1 par. 2, lett. j) e cons. 65, Direttiva 2019/1024.
[28] Cons. 22, Direttiva 2013/37. Sulle problematiche relative alla riproduzione ed uso di immagini relative a beni culturali, più ampiamente, si v. L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I 'pieni' e i 'vuoti' normativi, in Aedon, 2018, 3 e alla bibliografia ivi citata, e con riferimento al recepimento della normativa europea PSI, sia consentito rimandare a M.C. Pangallozzi, La fruizione del patrimonio culturale nell'era digitale: quale evoluzione per il 'museo immaginario'?, in Aedon, 2020, 2.
[29] Secondo l'idea per cui la trasposizione di beni materiali in forma di dati digitali rappresenta un'operazione "costitutiva", così P. Forte, Il patrimonio culturale digitale: un'enorme sfida per la comunità nazionale, in "Impresa Cultura" - Rapporto annuale Federculture, Roma, Gangemi Editore, 2018, pag. 297 ss.
[30] Art. 108, co. 3, d.lg. 42/2004, così come modificato dall'art. 12 del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, conv. in legge 24 luglio 2014, n. 106, in base al quale "nessun canone di concessione è dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro", benché resti comunque la previsione del pagamento di un corrispettivo a carico dei richiedenti a titolo di "rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione concedente", coerente con il principio di tariffazione per il recupero dei costi marginali, previsto dalla normativa europea e da ultimo ribadito all'art. 6, part. 1, Direttiva 2019/1024. Resta però un generale controllo sull'uso dei beni culturali e delle loro riproduzioni, subordinate a concessione o comunque a manifestazione di consenso al riuso in favore del singolo richiedente da parte dell'amministrazione proprietaria o detentrice del bene, a fronte della corresponsione di un canone, cfr. art. 106, co., art. 107, co. 1 e art. 108, co. 1, d.lg. 42/2004.
[31] Art. 108, co. 3-bis, d.lg. 42/2004.
[32] Il riferimento è, in particolare, all'art. 1, co. 1, del d.lg. 24 gennaio 2006, n. 36, in base al quale "I documenti delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico possono essere riutilizzati da tutti gli operatori potenziali sul mercato, anche qualora uno o più soggetti stiano già procedendo allo sfruttamento di prodotti a valore aggiunto basati su tali documenti. I contratti o gli altri accordi tra il titolare del dato in possesso dei documenti e terzi non stabiliscono diritti esclusivi, salvo che ciò non risulti necessario per l'erogazione di un servizio di interesse pubblico".
[33] La deroga trova legittimazione anche all'interno dell'ordinamento nazionale, laddove si provvede a qualificare e quantificare il diritto di esclusiva per la digitalizzazione di risorse culturali, "definito con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, sentita l'Agenzia per l'Italia digitale" e di "durata non superiore a dieci anni, fatta salva la possibilità di prevedere una durata maggiore soggetta a riesame nel corso dell'undicesimo anno e successivamente ogni sette anni", cfr. art. art. 1, co. 1-bis, d.lg. 36/2006, come inserito dall'art. 1, d.lg. 18 maggio 2015, n. 102.
[34] Cons. 30, Direttiva 2013/37.
[35] Cons. 31, Direttiva 2013/37.
[36] Art. 17, co. 2, d.lg. 42/2004, il riferimento è in particolare all'accordo sottoscritto il 1° febbraio 2001 in sede di Conferenza Stato-Regioni, nell'ambito del quale è stato affidato al ministero - per il tramite dell'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) - il compito di individuare standard e metodologie da seguire per uniformare e unificare l'attività di catalogazione dei beni culturali su tutto il territorio nazionale, anche con il supporto delle professionalità ed esperienze tecniche degli enti locali, cfr. M. Tiberii, L. Moro, Art. 17. Catalogazione, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, op. cit., pag. 284 ss. Più in generale, per una disamina dell'evoluzione della disciplina della catalogazione da un punto di vista giuridico, si v. N. Gazzeri, La catalogazione dei beni culturali tra competenze del ministero e iniziativa regionale: quadro storico e prospettive di sviluppo, in Aedon, 1998, 1; A. Cicerchia, Una banca dati per il patrimonio culturale: il progetto Oikia, in Aedon, 2001, 1 e più di recente, con specifico riferimento alle questioni riguardanti il patrimonio librario, si v. G. Spedicato, Digitalizzazione di opere librarie e diritti esclusivi, in Aedon, 2011, 2 e con riguardo al mercato dell'arte, A. Visconti, Contraffazione di opere d'arte e posizione del curatore d'archivio, in Aedon, 2020, 1.
[37] Art. 17, co. 5, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, così come modificato dall'art. 2 d.lg. 24 marzo 2006, n. 156. Con riferimento alla natura giuridica, all'organizzazione e alle funzioni dell'ICCD, si v. G. Sciullo, Il Mibac dopo il d.P.R. n. 91/2009: il centro rivisitato, in Aedon, 2009, 3; C. Barbati, Organizzazione e soggetti, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo Bologna, Il Mulino, 2017, pag. 107 ss., oltre che le informazioni disponibili su http://www.iccd.beniculturali.it/it/chisiamo/la-storia-ICCD.
[38] Art. 17, co. 5, d.lg. 42/2004, così come modificato dall'art. 2, d.lg. 24 marzo 2006, n. 156 e cioè a seguito dell'accordo intervenuto nel 2001 in Conferenza Stato-regioni. In argomento, più approfonditamente, si v. M. Tiberii, L. Moro, Art. 17. Catalogazione, op. ult. cit., pag. 286.
[39] Sul rapporto Stato-regioni nell'ambito dell'attività di catalogazione dei beni culturali, si rimanda a N. Gazzeri, La catalogazione dei beni culturali tra competenze del ministero e iniziativa regionale: quadro storico e prospettive di sviluppo, cit.; L. Moro, Quale governance per il catalogo nazionale dei beni culturali?, in Aedon, 2017, 1. Per quanto riguarda poi le modalità utilizzo e fruizione dei dati ad uso interno delle amministrazioni, si prevede che essi siano forniti in modo accurato, non contraddittorio, completo e tempestivo a fini di interoperabilità, cfr. Linee guida per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico, Agenzia per l'Italia Digitale (AgID), 2017, pag. 26 ss., disponibili su https://docs.italia.it/italia/daf/lg-patrimonio-pubblico/it/stabile/index.html.
[40] Per un approfondimento in merito alle strategie e discipline adottate dall'ICCD, si rinvia al documento Linee guida per la pubblicazione e la promozione del riuso del Catalogo generale dei beni culturali, disponibili su http://www.iccd.beniculturali.it/getFile.php?id=6607.
[41] L'ICCD coordina oggi anche i programmi di digitalizzazione del patrimonio culturale di competenza del ministero, tramite il neo-istituito servizio Digital Library, e a tal fine ha il compito di elaborare un Piano nazionale di digitalizzazione. oltre che di curarne l'attuazione, cfr. d.m. 22 febbraio 2017 e in particolare l'art. 1, co. 1, lett. a) e lett. c), che interviene sul decreto di organizzazione e funzionamento dell'ICCD, d.m. 7 ottobre 2008.
[42] Sul SIGECweb e le sue funzioni, si v. http://www.iccd.beniculturali.it/it/sigec-web. Sulle funzioni del Catalogo generale, si v. M. Tiberii, L. Moro, Art. 17. Catalogazione, op. ult. cit., pag. 287, dove si richiama inoltre la letteratura in base alla quale, data l'assenza di pretese proprietarie nei confronti dei dati e delle informazioni digitali del settore pubblico, essi siano riconducibili ai c.d. digital commons e con essi anche quei dati afferenti ai beni culturali. Per una disamina più approfondita di tali questioni si rimanda, in particolare, ai contributi di G. Resta, La privatizzazione del patrimonio culturale nell'era digitale, in Paolechiave, 2013, 49, pag. 53 ss. e di A. Tumicelli, L'immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, 1, in cui sono affrontate problematiche di natura sostanziale legate anche alla riproduzione e alla circolazione delle immagini di beni culturali attraverso strumenti digitali.
[43] La necessità di prevedere licenze d'uso - anche a tutela un libero riutilizzo dei dati delle pubbliche amministrazioni - trova un suo fondamento anche sulla base del regime giuridico di tutela previsto, in via generale, per le banche dati e più specificamente per le banche dati realizzate dalle amministrazioni con investimenti pubblici, cfr. art. 11, legge 633/1941.
[44] Art. 52, d.lg. 82/2005 (CAD), in base al quale "I dati e i documenti che i soggetti di cui all'articolo 2, comma 2 pubblicano, con qualsiasi modalità, senza l'espressa adozione di una licenza di cui all'art. 2, comma 1, lett. h) del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36, si intendono rilasciati come dati di tipo aperto ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettere l-bis) e l-ter), del presente Codice".
[45] Cfr. Linee guida per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico, op. ult. cit.
[46] Sui vari tipi di licenze adottabili, con specifico riferimento al contesto del Catalogo nazionale curato dall'ICCD, v. Linee guida per la pubblicazione e la promozione del riuso del Catalogo generale dei beni culturali, cit.
[47] Così nel documento di Linee guida per la pubblicazione e la promozione del riuso del Catalogo generale dei beni culturali, cit., pag. 8 ss., il quale fa poi espresso rimando alle Linee guida per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico, cit., pag. 26 ss., in cui si raccomanda di "gestire l'attribuzione della fonte indicando il nome dell'organizzazione unitamente all'URL della pagina Web dove si trovano i dataset o i contenuti da licenziare".
[48] Cfr. Linee guida per la pubblicazione e la promozione del riuso del Catalogo generale dei beni culturali, op. ult. cit.
[49] Linee guida per la pubblicazione e la promozione del riuso del Catalogo generale dei beni culturali, cit., pag. 12.
[50] In altri termini, ricade su chi produce le descrizioni catalografiche, su chi realizza le immagini, su chi verifica scientificamente i dati raccolti, chi gestisce la banca dati. Per questo si sottolinea che eventuali utili provenienti da corrispettivi da fissare comunque con decreto ministeriale, "dovrebbero essere determinati e ridistribuiti tra una pluralità di soggetti", cfr. Linee guida per la pubblicazione e la promozione del riuso del Catalogo generale dei beni culturali, op. ult. cit.
[51] Tra gli altri, si vedano i contributi di S. Rossa, Open data e amministrazioni regionali e locali. Riflessioni sul processo di digitalizzazione partendo dall'esperienza della Regione Piemonte, in Dir. Inf., 2019, 4, pag. 1121 ss.; A. Rossato, Open data: origini e prospettive, in I beni comuni digitali, (a cura di) A. Pradi, A. Rossato, Napoli, 2014, pag. 105 ss.; F. Costantino, Open Government, in Dig. Disc. Pubbl., Agg., Torino, 2015, pag. 272 ss.; F. Sciacchitano, Disciplina e utilizzo degli "Open Data" in Italia, in Riv. dir. media, 2018, 1, pag. 283 ss.; R. De Meo, La riproduzione digitale delle opere museali fra valorizzazione culturale ed economica, in Dir. Inf., 2019, 1, pag. 669 ss.; G. Strazza, Saper salvaguardare il patrimonio culturale: cosa imparare dall'incendio di Notre-Dame, in Riv. giur. ed., 2019, 5, pag. 239 ss.; E. Carloni, I principi della legalità algoritmica. Le decisioni automatizzate davanti al giudice amministrativo, in Dir. amm., 2020, 2, pag. 415 ss., M.W. Monterossi, Estrazione e (ri)utilizzo di informazioni digitali all'interno della rete internet. Il fenomeno del c.d. web scraping, in Dir. Inf., 2020, 2, pag. 327 ss.
[52] Art. 2, parr. 1 e 2, Carta per la conservazione del patrimonio culturale, UNESCO, ottobre 2003. In argomento e sulle implicazioni che la Carta ha avuto soprattutto in materia di patrimonio culturale immateriale in ambito (soprattutto) internazionale, S. Corbett, Digital Heritage. Legal Barriers to Conserving New Zealand's Early Video Games, in New Zealand Business Law Quarterly, marzo, 2007; K. Hennessy, Cultural heritage on the web: applied digital visual anthropology and local cultural property rights discourse, in International Journal of Cultural Property, 19(3), 2012, pag. 345 ss.; N.A. Silberman, From cultural property to cultural data: the multiple dimension of "ownership" in a global digital age, in International Journal of Cultural Property, 21(3), 2014, pag. 365 ss. Da una prospettiva interna, tra gli altri, C. Camardi, L'eredità digitale. Tra reale e virtuale (1), in Dir. Inf., 2018, 1, pag. 65 ss.
[53] Per uno sguardo critico sui limiti e le potenzialità delle nuove previsioni in materia di libero accesso ai dati del settore pubblico, alla luce della Direttiva PSI 2019, si v. A. Wallace, E. Euler, Revisiting access to cultural heritage in the public domain: EU and international developments, in International Review of Intellectual Property and Competition Law, 51(7), 2020, pag. 823 ss., in cui si evidenzia come "digitalization and open access requires institutions to take on new obligations, find new funding sources, and acquire new expertise. This increases costs at a time when government funding for the heritage sector continues to steadily decline".
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