Sulla tutela dei beni culturali
Quale governance per il Catalogo nazionale dei beni culturali [*]
di Laura Moro
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il contesto istituzionale. - 3. La rete. - 4. Quale governance per la rete del Catalogo dei beni culturali.
Associated issues with the governance of National Catalogue of Cultural Heritage
After over a century of activity in the construction of national catalogue of cultural heritage, the widespread impression is that this catalogue does not exist or that otherwise does not produce the long-awaited effects. One reason for this difficulty of appreciation is that we have to manage a complex reality, whose actors are many and linked by complicated relationships that have had over the years great changes and still await a new composition. The paper analyzes the characteristics of the network of authorities which form part of the national catalogue of cultural heritage, the operating mode and the related governance issues.
Keywords: Cultural heritage; Cataloguing; Knowledge; Institutional governance; Network.
Dopo oltre un secolo di attività spese per la costruzione di un Catalogo nazionale dei beni culturali, l'impressione più diffusa è che questo catalogo non esista o che comunque non produca gli effetti attesi. Andando alla ricerca del colpevole, ci si imbatte in una realtà articolata [1], i cui attori sono molti e legati da relazioni complesse che hanno subito negli anni profonde evoluzioni e che attendono ancora oggi una nuova composizione.
Le riflessioni che seguono analizzano le caratteristiche della rete dei soggetti che concorrono alla formazione del Catalogo nazionale dei beni culturali, il funzionamento di tale network e le problematiche di governance connesse.
Il Catalogo nazionale dei beni culturali, già nella sua definizione normativa [2] viene descritto come un sistema partecipativo Stato-regioni: le regioni [3], infatti, concorrono tanto alle definizione delle metodologie di conoscenza del patrimonio quanto alla catalogazione vera e proprio sul territorio. Anche da un punto di vista della gestione dei dati conoscitivi, il Catalogo nazionale è concepito come una rete tra sistemi informativi articolati sul territorio [4].
>In questo contesto istituzionale, l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (nel prosieguo ICCD) [5] ha compiti di ricerca, indirizzo, coordinamento tecnico-scientifico e formazione in materia di catalogazione e documentazione dei beni culturali [6]; inoltre gestisce il Sistema informativo generale del catalogo (SIGECweb), che rappresenta il "polo centrale" del Catalogo nazionale articolato sul territorio. Occorre qui subito precisare che Catalogo nazionale e Catalogo generale non sono la stessa cosa: il primo si riferisce all'insieme dei patrimoni informativi prodotti dalle amministrazioni dello Stato e da quelle degli enti locali, il secondo invece fa riferimento al sistema informativo centrale, il SIGECweb, gestito dall'ICCD. Il Catalogo generale [7] è dunque una componente del Catalogo nazionale, ma non coincide con esso.
Tale assetto istituzionale [8] fortemente decentrato può essere letto come un tentativo, forse tardivo, di applicare i principi del new public management al processo di catalogazione dei beni culturali; se da un lato si fa chiaramente riferimento al principio di sussidiarietà, è altrettanto vero che la devoluzione alle amministrazioni locali di una funzione che storicamente è sempre stata gestita a livello statale, va letta come la volontà di cercare maggior efficienza attraverso una gestione del processo vicina al governo del territorio. Il modello precedente, invece, di natura evidentemente burocratica, era nella sua rigidità estremamente semplice: il patrimonio culturale costituiva un universo definito e circoscrivibile, l'azione di tutela si svolgeva per iniziativa statale, inclusa quindi anche la catalogazione; i sistemi informativi erano cartacei (schedari e fototeche) e l'implementazione dell'archivio centrale era garantita da una catena gerarchica corta (direzione generale - soprintendenze); anche l'utenza era nota e circoscritta a poche categorie sociali.
L'apertura di questo modello avviene in forza di diverse spinte: mutano gli assetti istituzionali e le regioni si consolidano come nuovi soggetti deputati al governo della società; parallelamente muta e si evolve il concetto stesso di patrimonio culturale e con esso si amplia enormemente il numero dei potenziali utenti. Con il decentramento amministrativo degli anni Novanta, la catalogazione diviene un'attività che rientra tanto nelle competenze statali (attività che afferisce alla tutela del patrimonio) quanto in quelle regionali (attività che afferisce alla valorizzazione) [9]. Quindi, diversamente da quello che avviene in Francia [10], la catalogazione non viene interamente delegata alle regioni, rimanendo un'attività statale alla quale le regioni "concorrono", come previsto tutt'oggi dall'art. 17 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. A un assetto organizzativo fortemente centralizzato e gerarchico come quello iniziale se ne sostituisce uno "divisionale" di natura fortemente competitiva, e poco collaborativa, tra Stato e regioni e tra regione e regione [11].
Analizzato in senso ampio, il contesto di riferimento del Catalogo del patrimonio culturale si configura come un insieme articolato, un ecosistema di soggetti per i quali il Catalogo produce valore, distinti in relazione all'ambito di attività (produzione di catalogazione, produzione di conoscenza, produzione di nuovi contenuti), ai possibili usi del Catalogo e alle proprie finalità istituzionali (tutela e/o valorizzazione del patrimonio), come rappresentato nello schema che segue [12].
Il Catalogo nazionale dei beni culturali è dunque concepito, sia giuridicamente che strutturalmente, come un rete (rete tra pubbliche amministrazioni; rete tra soggetti pubblici e soggetti privati di rilevanza pubblica). Tuttavia la lettura di tale rete cambia a seconda del paradigma di analisi che viene utilizzato.
Secondo il modello razionale-burocratico che la norma descrive, il funzionamento della rete dovrebbe seguire un modello pivotale: lo Stato mantiene prerogative di governo più forti delle regioni [13]; le regioni sono autonome nel gestire le attività di catalogazione nel territorio di competenza (non è vi è dunque interdipendenza amministrativa o delle risorse) creando dei centri di catalogazione regionale [14]; il meccanismo di integrazione è dato dal rispetto degli standard di catalogazione nazionali emanati dall'ICCD (interdipendenza conoscitiva), grazie ai quali è possibile formare il Catalogo nazionale come sommatoria dei sistemi informativi regionali, che si presume, quindi, tutti omogenei ed interoperanti, in quanto la norma prevede che siano costruiti sugli standard nazionali.
Nella realtà tale modello risulta del tutto astratto, dal momento che le regioni, muovendosi all'interno della propria autonomia, hanno proceduto in modo disomogeneo, tra loro e rispetto alle direttive nazionali. Come reazione il Mibact, attraverso l'ICCD, ha agito moltiplicando la produzione di standard e implementando ed irrobustendo il Sistema informativo generale del catalogo (SIGECweb), con il risultato di aumentare ancora di più il divario e la conflittualità con gli altri soggetti della rete.
Cambiando paradigma descrittivo, tale rete sembrerebbe più efficacemente descritta attraverso la metafora dell'agone politico, dove la conflittualità e la competizione derivano dal ruolo istituzionale svolto da ciascuno dei soggetti. Gli equilibri all'interno della rete sono perciò giocati su rapporti di forza che variano nel tempo [15], sulla base di meccanismi negoziali legati alla quantità di risorse che vengono messe in gioco (e meno sulla qualità dei risultati raggiunti). Tale modello interpretativo presuppone che i soggetti della rete abbiano obiettivi divergenti, regolati attraverso complessi meccanismi di mediazione volti a contemperare le funzioni istituzionali e le esigenze di ciascuno [16]. E infatti, anche a seguito della riforma costituzionale del 2001, allo Stato sono attribuite le funzioni di tutela e alle regioni compiti in ordine alla valorizzazione del patrimonio culturale; tale conflittualità si risolve con lo strumento della negoziazione che si concretizza nell'intesa tra amministrazione pubbliche [17]. Nell'ambito della catalogazione, tali intese vengono sottoscritte tra le regioni e l'ICCD, pertanto la rete sembrerebbe rimane di tipo pivotale; nella realtà l'efficacia di tali intese è pressoché nulla, dal momento che non si sono verificate effettive convergenze di interessi a collaborare [18].
Questo schema di funzionamento, già di per sé complesso, nasconde al suo interno un altrettanto complesso sistema di relazioni, giacché le regioni, a loro volta, governano delle reti a livello territoriale; infatti, si pongono come nodi della rete composta dagli enti territoriali (comuni, enti pubblici o privati di rilevanza pubblica, come ad esempio le fondazioni) [19]. A suo volta l'ICCD coordina la rete delle soprintendenze territoriali del Mibact, i soggetti che realizzano concretamente la catalogazione, ora direttamente nel Sistema informativo generale del catalogo SIGECweb.
La rete del Catalogo nazionale, per effetto di tutti i meccanismi sopra descritti, si può dunque definire come una rete di reti. Una rappresentazione sintetica di questo network di reti è di difficile rappresentazione; nelle tabelle che seguono vengono analizzati [20] i segmenti che lo compongono:
Rete |
Tipo di rete |
Interdipendenza |
Connessione |
Rete ICCD - soprintendenze |
Debolmente pivotale: trattandosi di uffici di fatto paritetici, dotati ciascuno di ampi poteri discrezionali, il potere di coordinamento dell'ICCD è molto debole |
Istituzionale: l'ICCD verifica l'operato delle soprintendenze e esprime un parere sulla programmazione delle risorse |
Numero di nodi inferiore a cento; interazione costante nel tempo anche se non frequente |
Rete ICCD - regioni |
Apparentemente pivotale: nonostante le norme descrivano una rete il cui nodo centrale è rappresentato dal Mibact, nella realtà la rete è paritetica |
Apparentemente amministrativa: sebbene le norme prevedano chiare interdipendenze amministrative tra Stato e regioni nella gestione del processo di catalogazione, nella realtà è difficile attivare concrete forme di interdipendenza |
Numero di nodi inferiore a venti; interazione sporadica |
Rete regioni - enti territoriali |
Pivotale, dal momento che le regioni governano le strutture amministrative dei centri di documentazione e assegnano le risorse finanziarie |
Istituzionale, amministrativa e finanziaria |
Numero di nodi variabile da regione a regione, comunque superiore a cento; interazione frequente |
Gli strumenti di governo di questo sistema di reti sono teoricamente in mano all'ICCD e alle regioni, ma nella realtà ciascun nodo della rete gode di un'autonomia enorme. Appare del tutto evidente, quindi, come il tema centrale non sia tanto quello del controllo della rete, quanto piuttosto quello della governance del network.
4. Quale governance per la rete del Catalogo dei beni culturali
Collocare il Catalogo dei beni culturali a cavallo tra finalità di tutela e finalità di valorizzazione, oltre che porlo costituzionalmente tra le competenze di due diversi livelli di governo [21], significa attribuirgli tanto una funzione di regolazione (individuazione dei beni culturali ai fini di tutela), quanto di erogazione di un servizio per la collettività (acceso pubblico alla conoscenza del patrimonio culturale).
Ciò determina un intreccio di competenze che hanno delle ripercussioni forti nella governance della rete; a questo si aggiungano le difficoltà intrinseche dovute alla numerosità dei nodi e alla scarsa interdipendenza degli stessi.
Appare quindi del tutto evidente che un network di questo tipo non si può governare "burocraticamente" sulla base delle prescrizioni normative; anche se questa sarebbe la missione istituzionale dell'ICCD, e quindi anche il parametro su cui l'ICCD viene valutato in termini di performance. Tale visione burocratica per funzionare presuppone una strutturazione gerarchica che questa rete possiede solo sulla carta. Ma questo network di reti non si può nemmeno "orientare" solo con un approccio di tipo manageriale-imprenditoriale, facendo leva sulla razionalità e sulla convenienza del suo successo (fare "rete" sulla catalogazione conviene a tutti), poiché la scarsa interdipendenza tra i nodi comporta che sia molto difficile individuare un obiettivo comune.
L'approccio che sembrerebbe più adatto a questo tipo di rete è quello della community, ossia un modello che "costruisce" la collaborazione e non la dà per scontata come un dato di partenza. Tale modello cooperativo sembrerebbe particolarmente adatto anche perché presuppone di profilare i servizi offerti dalla rete, sia verso il suo interno (ad esempio la produzione di standard di catalogazione o di trasferimento dati da parte di ICCD; protocolli di interoperabilità applicativa profilati sulle singole realtà regionali) che verso l'ambiente esterno (ad esempio, diversi modalità di consultazione pubblica e di riuso dei dati, a seconda dell'utenza a cui ci si riferisce).
Ciò non significa che un modello imprenditoriale non sia in taluni casi necessario, basti pensare al tema della prevenzione e gestione dell'emergenza, giacché le catastrofi naturali non seguono i perimetri amministrativi; o a quello di governo del territorio, ad esempio, nella pianificazione paesaggistica; o ancora a quello dello sviluppo di politiche turistiche, che richiedo modelli di gestione che ottimizzino i risultati in tempi certi. In tutti questi casi, infatti, la cooperazione tra l'amministrazione statale e gli enti locali non può essere vista come un opzione ma come una necessità; eppure i fatti hanno dimostrato che anche di fronte all'interesse comune della prevenzione dei rischi del territorio, la cooperazione in tema di conoscenza del patrimonio culturale continua ad essere un terreno di aspro confronto piuttosto che di incontro.
Come esempio della difficoltà di realizzare modelli cooperativi, si può citare il caso del "Compendio regionale per la catalogazione" [22], una piattaforma web collaborativa realizzata nel 2012 dall'ICCD con l'idea di consolidare la rete degli enti catalogatori sul territorio nazionale, di facilitare gli scambi e di creare uno strato informativo comune.
Nonostante formalmente il progetto sia stato fin da subito apprezzato, nella sostanza sono stati pochi gli enti che hanno aderito attivamente all'iniziativa partecipando agli scambi e fornendo notizie. Solo la costante presenza dell'ICCD ha tenuto in piedi il progetto, a dimostrazione del fatto che le regioni non hanno riconosciuto nella messa a sistema delle informazioni a livello nazionale un elemento di interesse.
Il fallimento di questo strumento, rispetto alle aspettative, porta a fare alcune considerazioni. In primo luogo occorre constatare che non basta avere una buona idea sul piano del metodo perché questa si dimostri efficace; se non si ricercano primariamente i punti attorno a cui costruire un valore condiviso, anche gli strumenti migliori sono destinati a naufragare. Prima di mettere in campo "strumenti" collaborativi bisogna dunque attivare "processi" collaborativi (cosa che nello specifico del Compendio regionale per la catalogazione è mancato o non è stato sufficiente). Appare pertanto necessario costruire un capitale sociale condiviso, anche tra pubbliche amministrazioni, dal momento che il fatto di essere in una rete di amministrazioni pubbliche può significare condividere gli stessi principi che regolano l'azione, ma non significa affatto avere la stesso framework di riferimento. Inoltre, quando si ragiona in termini di amministrazioni pubbliche, non si può dare per scontato che le condizioni per la governance esistano già e si tratti solo di attivarle; piuttosto il primo passo della governance è quello di costruire tali condizioni nel tempo attraverso la valorizzazione di comportamenti o pratiche emergenti [23].
Appare quindi necessario da un lato massimizzare quanto prodotto negli anni dall'amministrazione statale e regionale in termini di conoscenza del patrimonio (attività che, tra l'altro, ha visto l'impiego di ingenti risorse), unificando le conoscenze attraverso sforzi organizzativi di natura prettamente imprenditoriale, facendo leva quindi sul valore d'uso del patrimonio informativo pubblico rappresentato dal Catalogo nazionale. Parallelamente però, è solo attraverso azioni dal basso - e qui si intende non necessariamente a livello di cittadini ma anche a livello di amministrazioni locali - che si può far crescere una comunità di soggetti che riconosca nel Catalogo nazionale un valore. Nell'alternanza, o meglio nella compresenza, di questi due modelli potrebbe essere identificata la governance della rete.
Proprio in questa direzione l'ICCD sta cercando di assumere un ruolo non già di coordinatore, quanto piuttosto di "facilitatore", attraverso una leadership "di servizio". Questo significa accettare due condizioni ormai ineludibili.
La prima comporta di riconoscere il fatto che il Mibact non è l'unico soggetto che può elaborare un "pensiero" attorno al patrimonio culturale, ma che tuttavia ha la responsabilità di creare le condizioni affinché altri soggetti possano dare il proprio contributo per la conservazione e la valorizzazione di tale patrimonio. Questo evitando i comportamenti tipici di un certo modello di pubblica amministrazione, come quelli "paternalistici" (ti spiego come si fanno le cose), delle negoziazioni aggressive (ti do se mi dai) o autoritativi (se non fai ti sanziono). Ciò, banalmente, significa abbandonare l'idea di poter "imporre" degli standard nazionali di catalogazione (modello razionale), quanto piuttosto creare delle procedure semplificate per chi utilizza tali standard; oppure dotare il sistema informativo centrale di funzionalità che possano facilitare l'azione del catalogare, dando prevalenza al risultato piuttosto che alla definizione "formale" della procedura. Significa, in altre parole, creare le condizioni affinché sia effettivamente utile seguire i sistemi e gli standard nazionali.
La seconda condizione riguarda l'idea stessa di Catalogo che deve superare l'immagine di "conta" del patrimonio; ovviamente il Catalogo è anche il perimetro di ciò che è patrimonio, e quindi riveste certamente e primariamente una funzione regolatrice. Tuttavia la sua funzione non può limitarsi a questo ambito amministrativo. Il web semantico, il così detto web dei dati, apre le porte ad altre forme di cooperazione tra amministrazioni pubbliche e tra questi e i soggetti privati. Il riutilizzo dei dati del Catalogo presuppone di passare dalla prospettiva interna di erogazione di una prestazione (la produzione e pubblicazione dei dati), che ha il focus sullo standard tecnico, a quella esterna di fornitura di un servizio (il facilitare processi di uso e riuso), centrata invece sui bisogni dell'utenza. Il riuso quindi rappresenta il processo che consente all'utente di avere un prodotto a mezzo di un servizio. Il prodotto non è il dato sul bene catalogato, ma i nuovi contenuti che si possono creare a partire dai dati aperti messi a disposizione; il servizio è la messa a disposizione di dati in formato aperto (su piattaforme caratterizzate da alta usabilità), con caratteristiche tali da saper intercettare i bisogni (anche inespressi) e poter generare il maggior numero possibile di prodotti. Si tratta quindi di creare delle piattaforme che mettano in condizione il destinatario di ottenere ciò di cui ha bisogno, che non necessariamente è il prodotto ideale, nella forma e con le modalità che gli sono più congeniali.
In questo senso il compito dell'ICCD, e più in generale del Mibact, è quello di conquistare un ruolo attivo nella generazione, non di procedure, ma di valori condivisi, andando ad intercettare quelle realtà che hanno bisogno del Catalogo dei beni culturali come soluzione ai propri problemi.
Note
[*] Il presente contributo è stato prodotto nell'ambito dell'Executive Master in Management delle Amministrazioni pubbliche della SDA Bocconi School of Management di Milano.
[1] Per un inquadramento delle vicende del Catalogo dei beni culturali in Italia si veda: L. Moro, Il catalogo del patrimonio culturale italiano. Nuove centralità e prospettive future, in Economia della Cultura, anno XXV, n. 3-4/2015, Il Mulino, Bologna 2015, pagg. 419-432.
[2] D.lgs. n. 42/2004, art. 17, comma 1. "Il Ministero, con il concorso delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, assicura la catalogazione dei beni culturali e coordina le relative attività".
[3] Le regioni sono gli interlocutori principali, ma non gli unici: alla formazione del Catalogo concorrono tutti gli enti pubblici o privati senza fine di lucro che detengono o gestiscono beni culturali.
[4] D.lgs. n. 42/2004, art. 17, comma 5: "I dati di cui al presente articolo affluiscono al catalogo nazionale dei beni culturali in ogni sua articolazione".
[5] Ufficio dirigenziale di II fascia dotato di autonomia amministrativa e contabile, attualmente afferente alla direzione generale educazione e ricerca del Mibact.
[6] D.m. 7 ottobre 2008, oggi reperibile in http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/381/norme-regolamenti-e-circolari.
[7] Il Catalogo generale è costituito da due piattaforme: quella operazionale, attraverso cui si producono le schede di catalogo (www.sigecweb.beniculturali.it), che contiene ad oggi oltre 2,6 milioni di schede di catalogo, e quella di consultazione pubblica (www.catalogo.beniculturali.it), che espone oggi circa 760 mila schede di catalogo.
[8] Si veda l'Accordo tra il ministro per i Beni e le Attività culturali e le regioni per la catalogazione dei beni culturali, approvato dalla Conferenza Unificata nel 2001, oggi reperibile in http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/516/convenzioni/convenzioni_557ffbc705f26/50.
[9] Il citato accordo Stato-regioni del 2001 all'art. 2 ricorda: "La catalogazione costituisce lo strumento conoscitivo basilare per il corretto ed efficace espletamento delle funzioni legate alla gestione del territorio ai fini del conseguimento di reali obiettivi di tutela ed è strumento essenziale di supporto per la gestione e la valorizzazione del patrimonio immobile e mobile nel territorio e nel museo, nonché per la promozione e la realizzazione delle attività di carattere didattico, divulgativo e di ricerca".
[10] Per una rilettura attuale del modello francese si veda Une aventure de l'esprit. L'Inventaire général du patrimoine culturel, atti del convegno "1794, 1964, 2004, 2014, Dynamiques d'une aventure de l'esprit, l'Inventaire général du patrimoine culturel", Parigi 5-7 novembre 2014, Lione 2016.
[11] Tale fase storica è acutamente ed efficacemente descritta nel contributo di M. Cammelli, I tre tempi del Ministero dei beni culturali, in Aedon, 2016, 3.
[12] Lo schema è frutto della collaborazione con Cles s.r.l. Centro di Ricerche e Studi sui Problemi del Lavoro, dell'Economia e dello Sviluppo, ed è stato elaborato nel febbraio 2015.
[13] D.lgs. n. 42/2004, art. 17, comma 2: "Le procedure e le modalità di catalogazione sono stabilite con decreto ministeriale".
[15] In estrema sintesi e semplificazione, dalla fase fortemente "statalista" nel governo dei beni culturali, che ha dominato dall'unità d'Italia fino agli Settanta, si è passati ad un'apertura regionalista che, cominciata con le leggi delega degli anni Settanta, è culminata con la riforma del Titolo V della Costituzione. Oggi sembrerebbe riaffermarsi un modello nuovamente sbilanciato a favore dello Stato, con la ripresa di competenze prima delegate, come avvenuto nelle modifiche succedutesi nel tempo del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e come tentato nella fallita riforma costituzionale del 2016.
[16] Ad esempio, vengono negoziati gli scambi dei dati di catalogo prodotti dagli uffici del Mibact o da quelli regionali; oppure viene negoziato l'oggetto della catalogazione (chi cataloga cosa); o ancora le modalità di pubblicazione dei dati.
[17] L'istituto dell'accordo o dell'intesa tra amministrazioni, regolato in via generale dall'art. 15 della legge 241/1990, ricorre più volte nel Codice dei bei culturali e del paesaggio; maggiormente rilevanti appaiono gli accordi di valorizzazione di cui all'art. 112 del Codice e gli accordi di co-pianificazione paesaggistica disciplinati dall'art. 135. Per ciò che attiene la catalogazione, la forma dell'intesa è espressamente prevista dall'art. 17 nel caso di attività di catalogazione di beni appartenenti ad altri soggetti.
[18] Le intese sottoscritte dall'ICCD dal 2001 ad oggi sono consultabili all'indirizzo http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/516/convenzioni. Delle intese stipulate negli ultimi anni, le uniche che sembrerebbero produrre risultati concreti sono quelle sottoscritte con la regione Puglia e con la provincia autonoma di Trento, a seguito delle quali è stata realizzata l'interoperabilità tra il SIGECweb e la Carta dei beni culturali della Puglia e il sistema informativo trentino. Tutte gli altri accordi non hanno prodotto ad oggi risultati concreti, rimanendo delle mere dichiarazioni di principio.
[19] Le regioni sostengono di fare una catalogazione "partecipata", dal momento che nella maggior parte dei casi hanno il compito di distribuire i finanziamenti per realizzare le attività di catalogo e ne raccolgono poi gli esiti presso i centri di documentazione regionale.
[20] Per il metodo di analisi utilizzato si vede G. Fosti, A. Rotolo, Modello Weberiano e Welfare reticolare: network e Pubbliche Amministrazioni, in Rilanciare il welfare locale Ipotesi e strumenti: una prospettiva di management delle reti, a cura di G. Fosti, Egea, Milano 2013, pagg. 95-118.
[21] Il Titolo V della Costituzione pone la tutela del patrimonio culturale tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, mentre la valorizzazione rientra tra quelle di legislazione concorrente; questo implica complessi rapporti tra i diversi livelli di governo.
[22] http://compendio.iccd.beniculturali.it.
[23] G. Valotti, Nuovi modelli di governance: oltre le mode e le tradizioni, in Management pubblico, a cura di G. Valotti, Egea, Milano 2005, pagg. 25-43.