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Alienazione e utilizzazione del demanio storico-artistico
nel d.p.r. 283/2000: una prima lettura
(Lecce, 2 dicembre 2000)

 

Una banca dati per il patrimonio culturale: il progetto Oikia

di Annalisa Cicerchia


Sommario: 1. Stime circa la consistenza dei beni del demanio storico-artistico. - 2. Il dilemma dell'alienazione. - 3. Il progetto Oikia.



1. Stime circa la consistenza dei beni del demanio storico-artistico

In assenza di liste ufficiali del patrimonio immobiliare storico-artistico, l'unico censimento nazionale condotto finora in Italia è quello che ha fatto da base alla Carta del rischio, realizzata nel 1996 per iniziativa del ministero dei Beni culturali - istituto centrale del Restauro. Quel progetto, utilizzando fonti bibliografiche (guide del Touring Club italiano e guide archeologiche Laterza) [1], ha individuato la presenza, nel territorio italiano, di 57.000 beni storico-artistici. Di questi, 5.000 sono archeologici; tra i restanti 52.000 beni architettonici, le chiese sono 17.000.

Poiché la Carta del rischio non rileva il dato circa la proprietà (pubblica, privata o ecclesiastica) dei beni conteggiati, la grandezza del sottoinsieme pubblico, a tutt'oggi, deve essere stimata.

Un primo tentativo di stima risulta svolto da Modigliani e Padoa Schioppa Kostoris [2]. Il numero dei beni storico-artistici pubblici (stato+comuni) viene valutato in circa 36.700 in tutta Italia, con 2.288 edifici di proprietà statale.

Inferenze prudenziali, costruite sulla base delle risultanze dello studio che l'Isae (istituto di Studi e Analisi economica) sta svolgendo a Roma dal 1997, con la collaborazione dell'Iccd (istituto centrale per il Catalogo e la Documentazione), del comune di Roma e del ministero delle Finanze, inducono a ipotizzare che la quota pubblica (in massima parte comunale e statale) dei 35.000 beni architettonici censiti nella Carta del rischio e non appartenenti alla tipologia delle chiese non debba essere inferiore al 25% [3], cioè circa 9.000. Va osservato inoltre che le fonti bibliografiche utilizzate in sede di Carta del rischio appaiono molto selettive rispetto all'universo, per il momento ancora non interamente quantificato, del "vincolato". Il rapporto rilevato in base al confronto con l'esperimento romano è di circa 1 a 4, ovvero 1 edificio inserito in una guida del Touring per ogni 4 edifici vincolati. Ipotizzando che il rapporto sia costante per l'intero territorio nazionale, si può supporre che dai circa 9.000 edifici che ragionevolmente costituiscono la quota pubblica dell'universo Carta del rischio, si pervenga a una stima complessiva prossima alla quantificazione proposta da Modigliani e Padoa Schioppa Kostoris.

La discriminazione fra beni alienabili e beni inalienabili andrà quindi fatta su un insieme che, per difetto, si può stimare intorno a non meno di 36.000 edifici, i quali saranno, per usare l'ormai accettata terminologia di N. Lichfield, di qualità culturale variabile.

La cifra dei candidati è tuttavia destinata ad accrescersi, secondo modalità difficilmente prevedibili, allo stato attuale delle conoscenze, nella misura in cui nella selezione verranno inclusi, come peraltro prevede il regolamento, gli edifici costruiti fino al 1955, che, tranne rarissime eccezioni, non sono stati compresi nelle rilevazioni del Touring Club e quindi della Carta del rischio.

 

2. Il dilemma dell'alienazione

Alla base della iniziale introduzione del tema dell'alienazione di parte dei beni di demanio storico-artistico c'è, com'è noto, quello che si può definire il "movimento" per il risanamento della finanza pubblica italiana, portatore di legittime istanze di riordino e di razionalizzazione di una materia che ha condizionato, in un senso o nell'altro, non solo l'ingresso in Europa, ma anche gli orientamenti di sviluppo del paese. E' in quel clima, che all'epoca portava i tratti dell'urgenza, se non della drammaticità, che autorevoli economisti avanzarono l'ipotesi che potesse rendersi necessario vendere alcuni "gioielli di famiglia", magari quelli che soffrivano, allora, di cattive condizioni di manutenzione o di forme di gestione particolarmente irrazionali, tanto sotto il profilo economico, quanto sotto il profilo della fruibilità e dell'accessibilità pubblica di questa parte del patrimonio culturale [4].

Una prima indagine, condotta dall'Ispe (istituto di studi per la Programmazione economica) [5] presso gli archivi Sogei del ministero delle Finanze sui dati disponibili al 1994, portava a individuare, nel centro storico di Roma, numerosi di questi casi: grandi appartamenti o aree commerciali in palazzi storici prestigiosi concessi a privati con canoni di locazione di gran lunga inferiori a quelli che sarebbero risultati dall'applicazione dell'equo canone [6], o, in molti casi, concessioni gratuite o semigratuite ad associazioni, non sempre meritorie, talora inattive, e così via, per non parlare dei casi di vera e propria occupazione abusiva. Ciò che colpiva era inoltre la mancanza di dati certi ed aggiornati circa consistenze, natura dei contratti, scadenze, canoni effettivamente riscossi.

Per porre rimedio a questo stato di cose, l'alternativa logica era, evidentemente, quella fra parziale alienazione del patrimonio - fondata sulla fiducia che il privato sappia custodire meglio questo genere di beni - e razionalizzazione del suo uso, con un rilancio della vocazione pubblica, finalizzata a una maggiore fruizione di tipo culturale o a un più intensivo uso governativo degli spazi.

G. Vaciago ha tentato di ricostruire, in un saggio breve e brillante [7], la storia infinita dei progetti di alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, sia comune, sia storico-artistico. Questa ricostruzione si ferma alle soglie del regolamento, di cui si discute in questa circostanza.

Si è scritto e si è dibattuto molto, sulle ragioni della natura pubblica di beni come quelli di cui si tratta qui. Si è molto scritto e dibattuto anche sulla particolare vocazione alla tutela che, specie in Italia, il settore pubblico e, soprattutto, in maniera pressoché esclusiva, lo Stato, si riconosce da quasi un secolo. Per questo, senza ripercorrere argomentazioni meditate e complesse, mi limiterò a riferire che, ripetendo nel novembre 1999 la rilevazione presso il ministero delle Finanze, l'équipe di ricerca Isae-Iccd [8] rilevò un drastico cambiamento nella gestione degli stessi edifici, per i quali si era di fatto optato per un uso pressoché esclusivamente governativo (sedi di ministeri e di uffici pubblici), sanando quasi completamente le situazioni amministrative dei (pochi) usi privati rimasti (compresi quelli che coinvolgono soggetti religiosi) ed aumentando, secondo le indicazioni di legge (fino a sei volte), i canoni attivi. Qui e lì restavano smagliature del sistema, anche di rilievo (immobili storici, completi di collezioni d'arte, ricevuti dallo Stato in eredità, non rivendicati e quindi persi!), ma il processo di risanamento è in corso e la sua direzione - uso pubblico, piuttosto che alienazione - è netta.

Nel frattempo, il ministero per i Beni e le Attività culturali ha mantenuto le sue promesse e ha emanato il regolamento sull'alienazione.

Ora, a monte dell'applicazione del regolamento, a me sembra utile mettere sinteticamente in evidenza una serie di circostanze che caratterizzano, in Italia, la gestione del patrimonio architettonico pubblico e che la rendono molto problematica.

1. Sul patrimonio culturale esiste un trade-off fra funzioni-obiettivo che lo interpretano per le sue caratteristiche storiche, artistiche e simboliche intrinseche e funzioni-obiettivo che lo considerano come strumentale per il conseguimento di altre finalità sociali ed economiche, quali il risanamento della finanza pubblica, lo sviluppo economico locale, il turismo, l'occupazione, ecc. Queste diverse funzioni obiettivo sono, di norma, sostenute da soggetti istituzionali diversi al livello centrale, mentre, al livello locale, tendono a sovrapporsi. Il trade-off, essendo scarsamente formalizzato, è altrettanto scarsamente governato.

2. Il patrimonio culturale è, nel suo complesso, a tutt'oggi, conosciuto in maniera insufficiente, nonostante la innegabile, grande qualità degli studi particolari su singoli beni. Non esistono le liste del patrimonio immobiliare pubblico, né sono disponibili in forma adeguatamente rapida i dati interdisciplinari (ovvero storici, artistici, architettonici, giuridici, amministrativi, urbanistici, economici, catastali, geologici, fisici, ecc.) che ne consentirebbero una gestione efficace e razionale, una tutela effettiva e una piena fruizione pubblica.

3. Sul patrimonio culturale esiste una sorta di tabù di giudizio, che rende estremamente delicato ogni tentativo di discriminare fra che cosa è bene culturale e che cosa non lo è. Per questa ragione, la pratica prevalente in Italia è un ricorso inclusivo al criterio cronologico, che la legge 1° giugno 1939, n. 1089 introduce, al contrario, in senso esclusivo. In altre parole, gli edifici con più di 50 anni (con il regolamento, 45), godono di una presunzione di qualità culturale, il che amplia enormemente il numero di beni che avrebbero, almeno in teoria, titolo a ricevere tutela attiva da parte pubblica. A tutti è nota, purtroppo, la visione di quei reperti archeologici per i quali il vincolo e quindi la tutela, si esauriscono in una recinzione con il nastro bianco e rosso.

4. Con il regolamento, tuttavia, il processo di selezione si è avviato. Il Mbac pubblica, sul suo sito, gli esiti delle scelte e le loro motivazioni. Quali sono i criteri che presiedono a queste scelte? Nel Regno Unito, N. Lichfield, nei Paesi Bassi, P. Nijkamp, in Canada, R. Kalman, hanno provato a offrire strumenti avanzati di supporto a questo tipo di decisioni (generalmente, metodi di analisi multicriteri) e, più in generale, alla decisionalità in materia di conservazione urbana.

 

3. Il progetto Oikia

L'Isae e l'Iccd stanno concludendo, in questi mesi, un progetto sperimentale [9] di costruzione di una banca dati del patrimonio immobiliare storico-artistico di proprietà pubblica (banca dati Oikia), finalizzata alla gestione informatizzata delle informazioni utili per la classificazione dei beni nelle categorie stabilite dal "regolamento per la disciplina delle alienazioni di beni immobili del demanio storico e artistico", quale supporto tecnico alla decisionalità pubblica in materia. I dati raccolti riguardano la consistenza e le caratteristiche catastali degli edifici, le loro proprietà storiche ed artistiche e gli usi attuali, con e senza reddito, le eventuali concessioni, gli usi governativi, ma anche la datazione, gli autori, gli apparati decorativi, l'iconografia tradizionale, ecc. E' la prima volta, in Italia, che queste diverse informazioni convergono in un unico sistema informatizzato.

Se il progetto riceverà il sostegno necessario, l'esperimento potrà essere esteso geograficamente e proposto all'attenzione operativa dei decisori [10].



Note

[1] Sulla scia della Carta del rischio e con cofinanziamenti comunitari nel quadro delle iniziative Interreg IIC - misura 4.1, sono stati avviati di recente due progetti (Archimed - Mediterraneo centrale e orientale e Mediterraneo occidentale e Alpi latine), sempre sotto il coordinamento del Mbac - Icr, che prevedono, tra numerose altre cose, una rilevazione sul campo dei beni, articolata regionalmente e con un più elevato grado di disaggregazione.

[2] F. Modigliani, F. Padoa Schioppa Kostoris, Sostenibilità e solvibilità del debito pubblico in Italia, Bologna, 1998.

[3] A Roma, caso indubbiamente anomalo, dove si concentra oltre il 10% dei beni di demanio storico-artistico dello Stato, la percentuale di edifici pubblici sul totale degli architettonici (chiese escluse) supera il 50%.

[4] F. Modigliani, F. Padoa Schioppa Kostoris, Sostenibilità e solvibilità del debito pubblico in Italia, cit.

[5] L'Ispe si è fuso nel 1999 con l'Isco (istituto di studi per la Congiuntura) per dare vita all'Isae.

[6] A. Cicerchia, F. Padoa Schioppa Kostoris, Economia e beni culturali: alcune annotazioni, in Economia della Cultura, n. 2/1998, 153-167.

[7] G. Vaciago, Il futuro degli immobili pubblici, in Documenti di lavoro Isae, n. 1 (1999).

[8] Composta, insieme a chi scrive, da G. Schermi, C. Rossi e G. Castelli e assistita informaticamente da R. Zuco.

[9] Finanziato nel quadro del progetto finalizzato Beni culturali del Cnr.

[10] In conclusione, peraltro, pare utile fornire il quadro dei principali riferimenti bibliografici. Si vedano dunque: T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 1995; L. Bobbio, Politica dei beni culturali, in Economia e politica dei beni culturali, a cura di G. Brosio, Torino, 1994; A. Cicerchia, Valutazione e valorizzazione dei beni culturali: considerazioni sullo stato dell'arte in Italia con riferimento alla programmazione territoriale, in Documenti di lavoro Ispe, n. 66 (1997); A. Cicerchia, La consistenza del patrimonio culturale immobiliare pubblico: alcune ipotesi circa la sua distribuzione regionale, progress report al progetto finalizzato Beni culturali, mimeo, Roma, 1997; A. Cicerchia, F. Padoa Schioppa Kostoris, Economia e beni culturali: alcune annotazioni, cit.; N. Lichfield et al., Rapporto sull'analisi costi-benefici per il patrimonio culturale costruito, numero speciale di Restauro, n. 111-112 (1990); M. Maggi, L'economia dei beni culturali in Italia: i benefici degli interventi, in Economia e politica dei beni culturali, cit.; F. Modigliani, F. Padoa Schioppa Kostoris, Sostenibilità e solvibilità del debito pubblico in Italia, cit.; A. Monti, A. Paolucci, La politica di privatizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato, Camerino, 1992; P. Nijkamp, Quality and quantity. Evaluation Indicators for our Cultural-Architectural Heritage, mimeo, Napoli, 1999; K.A. Sable, Historic Built Resources: an Example of the Double Public Good, relazione presentata alla Ninth International Conference on Cultural Economics, Boston, Mass., 8-12 maggio 1996; G. Vaciago, Il futuro degli immobili pubblici, cit.

 



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