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Patrimonio culturale e sviluppo dei territori

Strumenti giuridici di valorizzazione del rapporto tra patrimonio culturale e territorio: il caso dei patti di collaborazione tra amministrazioni locali e cittadini [*]

di Eugenio Fidelbo

Sommario: 1. Premessa. - 2. I caratteri idonei a rendere i beni che compongono il patrimonio culturale suscettibili di essere ricompresi nella categoria economica dei commons: a) tutela delle funzioni; b) rapporto con la comunità territoriale di riferimento; c) sussidiarietà e partecipazione dei cittadini. Conseguenze sulla loro gestione e valorizzazione: i regolamenti per l'amministrazione condivisa dei beni comuni urbani. - 3. I regolamenti comunali per l'amministrazione condivisa ed i patti di collaborazione tra amministrazione e cittadini. Loro idoneità a realizzare forme di valorizzazione del patrimonio culturale. - 4. Possibilità di ricondurre i regolamenti ed i patti ad una o più fattispecie recate da fonti di rango legislativo. - 4.1. I patti di collaborazione come figure contrattuali atipiche. In particolare, i partenariati cc.dd. culturale e sociale. - 4.2. La soluzione pubblicistica. Provvedimenti attributivi di vantaggi economici ed accordi sostitutivi. - 5. Conclusioni.

Enhancing the relationship between cultural heritage and territory: the case of collaboration covenants between municipalities and citizens
Firstly, the article briefly highlights the homogeneity, albeit under a mere economic perspective, between cultural heritage and commons. The latter are in fact the designated object of the cooperation covenants between municipalities and citizens, which are increasingly being applied to cultural heritage. Subsequently, the contribution provides a description of the regulatory framework related to such agreements, underlining how they may achieve a new paradigm of the relationship between citizen and public administration. Finally, the third part aims to investigate the legal nature - either private or public - of the covenants.

Keywords: Cultural heritage; Commons; Cooperation covenants between municipalities and citizens.

1. Premessa

Il contributo che segue si occupa di analizzare una nuova figura di cooperazione pubblico privato, solo negli ultimi anni affacciatasi nel panorama giuridico italiano, alla luce della sua applicazione al settore del patrimonio culturale. Il riferimento è ai patti di collaborazione tra amministrazioni locali e cittadini, stipulati sulla base dei regolamenti comunali per la gestione condivisa dei beni comuni urbani [1].

L'esame della questione si snoderà in tre momenti.

Nel primo, si isoleranno le caratteristiche che rendono sovrapponibili i beni afferenti al patrimonio culturale e quelli riconducibili alla categoria economica dei commons. L'esemplificazione, necessariamente condotta con un certo grado di approssimazione, mira a porre in luce talune peculiarità che connotano i profili della valorizzazione e della gestione dei beni culturali e paesaggistici.

Logicamente successiva è l'analisi dei regolamenti e dei patti per l'amministrazione condivisa. Questi ultimi costituiscono infatti uno strumento di valorizzazione del patrimonio culturale dalle elevate potenzialità.

Infine, si cercherà di ricondurre i patti alle figure intermedie alle categorie del diritto pubblico e del diritto privato presenti nelle fonti di rango legislativo. Da una parte le fattispecie miste a prevalenza privatistica, che trovano la propria disciplina di riferimento nel codice dei contratti pubblici. Dall'altra, quelle a prevalenza pubblicistica, riconducibili agli accordi amministrativi.

2. I caratteri idonei a rendere i beni che compongono il patrimonio culturale suscettibili di essere ricompresi nella categoria economica dei commons: a) tutela delle funzioni; b) rapporto con la comunità territoriale di riferimento; c) sussidiarietà e partecipazione dei cittadini. Conseguenze sulla loro gestione e valorizzazione: i regolamenti per l'amministrazione condivisa dei beni comuni urbani

In via preliminare, e senza pretese di esaustività, sembra opportuno precisare le nozioni che verranno in rilievo nel corso della trattazione.

Ai sensi dell'art. 2, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio) il patrimonio culturale consta dei beni culturali e dei beni paesaggistici. I primi, oltre alle cose immobili e mobili che ai sensi del medesimo codice presentano "interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico", sono tutte le cose in base alla legge identificate "quali testimonianze aventi valore di civiltà" [2]. I secondi, sempre a mente della disposizione in questione, sono i beni indicati nel codice o individuati ex lege che costituiscono "espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio". A quest'ultima definizione deve aggiungersi quella di paesaggio, che a norma dell'art. 131, comma 1 del codice è "il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni" [3].

Il dato che emerge dalle fonti legislative è che le nozioni in esame si riferiscono a valori immateriali, ancorché da "identificarsi [necessariamente] in cose, intese come porzioni del mondo materiale" [4]. Sebbene l'oggetto della tutela o della valorizzazione non possa che essere il bene materiale, tuttavia la disciplina normativa appare funzionale alla salvaguardia ed al migliore godimento per la collettività dei valori (immateriali) ai beni sottesi. Ciò sembra trovare conferma nella circostanza per cui, rispetto all'originaria definizione di bene culturale elaborata dalla Commissione Franceschini, l'attuale codice abbia eliminato l'attributo materiale della testimonianza [5].

Discorso analogo può essere fatto con riguardo alle nozioni di bene paesaggistico e di paesaggio, le cui definizioni rimandano a "valori" espressivi dell'"identità" che al territorio deriva dall'interazione tra uomo e natura [6].

I caratteri, brevemente evidenziati, propri dei beni del patrimonio culturale mostrano evidenti assonanze con la categoria, sviluppata dalla scienza economica, dei commons [7].

Proprio questa ipotesi di partenza sarà sottoposta a verifica, necessariamente approssimativa, nelle righe seguenti. Ciò, non al fine di mettere in discussione le categorie dei beni poste dal diritto positivo, obiettivo che esula dal presente contributo.

Al contrario, queste ultime costituiscono la base giuridica attraverso la quale argomentare la sussistenza nei beni culturali di caratteri sostanziali idonei a farli ricadere all'interno della categoria economica dei c.d. beni comuni. In altri termini, si terranno ben distinti i diversi piani di analisi: da una parte quello giuridico, dall'altra quello economico. Ci si limiterà ad isolare gli elementi che sono stati ritenuti idonei - tanto dalle analisi che hanno inteso riconoscere una nuova tipologia di beni, tanto da quelle che ne hanno negato la possibilità - a caratterizzare i beni suscettibili di rientrare nel novero dei commons.

a) Tutela delle utilità e delle funzioni. La particolare compenetrazione tra elemento immateriale e sostrato materiale ha rilevanti conseguenze sul loro regime giuridico. Già da tempo, è stato messo in luce come il bene culturale sia "pubblico, in quanto bene di fruizione, e non di appartenenza" [8], sicché la sua pubblicità deve essere considerata non in ordine al regime proprietario, bensì alla destinazione pubblica del valore di cui il bene è testimonianza [9]. Ne consegue che la disciplina pubblicistica (in primis) di tutela prescinde dai profili dominicali.

È, quest'ultimo, un dato che la dottrina più attenta ed autorevole ebbe modo di rintracciare in riferimento all'istituto del demanio, il cui tratto caratteristico sarebbe rinvenibile nella appartenenza dei beni che vi rientrano alla collettività, a beneficio della quale la gestione di tali beni è affidata agli enti pubblici territoriali [10].

Non a caso, "gli immobili di interesse storico, archeologico e artistico" e "le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche" fanno parte, se appartenenti allo Stato o agli altri enti pubblici territoriali, del demanio pubblico c.d. accidentale (art. 822, secondo comma, c.c.) ed, ora, del "demanio culturale" (art. 53, d.lgs. n. 42 del 2004). Per altro verso, lo stesso codice dei beni culturali e del paesaggio proclama la destinazione alla fruizione collettiva dei beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica (art. 2, comma 4).

L'insensibilità della tutela rispetto all'appartenenza formale del bene appare confermata anche dalla disciplina dell'alienabilità dei beni immobili, diversi da quelli di cui all'art. 54, appartenenti al demanio culturale [11]. In particolare, l'art. 55, comma 3-quinquies, espressamente prevede che, sebbene l'autorizzazione all'alienazione comporti la sdemanializzazione del bene cui si riferisce, quest'ultimo resta comunque sottoposto a tutte le disposizioni di tutela. Peraltro, un regime autorizzatorio è prescritto anche per l'alienazione dei beni culturali appartenenti ad enti privati senza scopo di lucro (art. 56, comma 1, lett. b) e, in ogni caso, anche nell'ipotesi di alienazioni di beni appartenenti a persone fisiche od enti privati lucrativi, gli atti che trasferiscono la proprietà o, limitatamente ai beni mobili, la detenzione di beni culturali devono essere denunciati al ministero (art. 59).

I dati normativi e le opinioni riportate trovano conferma nella teoria economica dei beni. Essa evidenzia come, con riferimento ai commons, si sperimenti una recessività del profilo dell'appartenenza proprietaria dei beni, per esaltare le capacità, in termini di efficienza, delle modalità di regolazione trasversali alla dicotomia pubblico-privato [12].

b) Rapporto con la comunità territoriale di riferimento. Un ulteriore elemento che accomuna beni del patrimonio culturale e commons è il collegamento intercorrente con la comunità che abita il territorio su cui tali beni insistono.

A proposito dei beni comuni, è stato affermato che vi è "un nesso strutturale tra ciò che caratterizza l'identità di una comunità e la sua sopravvivenza, da un lato, e ciò che si può, o non si può, definire e disporre mediante simile patrimonio, dall'altro" [13]. Addirittura, per alcuni, l'esistenza di una "particolare relazione" tra bene e comunità di cittadini di riferimento costituisce l'elemento decisivo al fine dell'individuazione di un'autonoma categoria dei beni comuni [14].

Parimenti, viene sottolineato come il dibattito economico sui beni comuni tende a porre l'attenzione sull'elemento dell'informazione [15]. Sotto il profilo che in questa sede interessa, tale aspetto induce a ritenere più efficiente la gestione delle risorse da parte di soggetti che si trovano in "situazioni di vicinanza particolare col bene", grazie alla maggiore flessibilità che simili strutture organizzative presentano rispetto ad organizzazioni territoriali di più ampia scala. Sicché, il risultato cui perviene l'analisi empirica ravvisa "nella gestione collettiva e locale, in molti casi auto-organizzata, delle risorse l'ipotesi più efficiente di gestione" [16].

Per quanto concerne i beni culturali, il nesso con il territorio è esplicitato soprattutto nelle fonti sovranazionali di soft law.

L'Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile, del 25 settembre 2015 [17], fissando 17 "Obiettivi per lo sviluppo sostenibile", inserisce la protezione e la salvaguardia del patrimonio culturale nell'ambito dell'"Obiettivo 11", specificamente dedicato alle città ed agli insediamenti umani. A livello europeo, anche sulla base delle numerose iniziative intraprese, la Commissione, con la comunicazione del 22 maggio 2018 Una nuova agenda europea per la cultura, osserva che "le città e le regioni sono [...] in prima linea nello sviluppo guidato dalla cultura grazie alla maggiore autonomia locale [...] e alla loro vicinanza alle esigenze e potenzialità dei loro abitanti" [18].

c) Partecipazione dei cittadini e sussidiarietà c.d. orizzontale. Infine, i beni del patrimonio culturale ed i beni comuni presentano entrambi un'elevata permeabilità al principio di sussidiarietà ed alla partecipazione dei cittadini alle decisioni riguardanti la loro gestione.

Con riferimento ai secondi, si è accennato alla centralità che l'analisi economica ha rinvenuto nell'elemento dell'informazione [19]. Nell'ambito dei commons, essa non risponde solo a criteri di trasparenza dell'azione amministrativa, ma assume valore decisivo anche rispetto all'efficacia delle scelte. Alla rilevanza del ruolo dell'informazione consegue anche l'importanza della partecipazione alle decisioni sulla gestione delle utilità assicurate dalle risorse [20].

Spostando l'attenzione al settore del patrimonio culturale, emerge come la partecipazione sia declinata soprattutto nell'applicazione del principio di sussidiarietà [21]. Il codice dei beni culturali e del paesaggio prevede un ruolo dei privati nella conservazione dei beni appartenenti al patrimonio culturale di cui siano proprietari, possessori o detentori (art. 1, comma 5) [22] e, soprattutto, impone alla Repubblica di favorire e sostenere la partecipazione dei soggetti privati, singoli e associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale (art. 6, comma 3).

Negli ultimi anni, si è tentato di coinvolgere maggiormente i privati nella valorizzazione del patrimonio culturale [23]. Ciò è avvenuto mediante una pluralità di strumenti giuridici idonei sia ad attrarre le imprese, attraverso gli strumenti della concessione e della sponsorizzazione [24], sia i soggetti no profit, mossi dalla volontà di soddisfare interessi generali ritenuti meritevoli, che per sua natura il settore culturale è in grado di mobilitare [25].

All'esito di questa succinta analisi può, con buona approssimazione, essere affermato che i beni del patrimonio culturale presentano caratteri tali da poter essere considerati, sotto il profilo economico, come ricadenti nella categoria dei beni comuni. Dal punto di vista giuridico, le conseguenze più interessanti di una simile qualificazione riguardano, più che gli aspetti definitori, le modalità gestionali ed organizzative sperimentabili in relazione a questi beni [26].

A questo proposito, come anticipato nelle premesse, di recente ha fatto la propria comparsa nel panorama giuridico italiano uno strumento che presenta notevoli potenzialità, in generale, nella gestione dei beni comuni e, in particolare, in riferimento al patrimonio culturale. Si tratta dei patti di collaborazione tra amministrazioni e cittadini, stipulati in base ai regolamenti comunali per l'amministrazione condivisa dei beni comuni urbani.

3. I regolamenti comunali per l'amministrazione condivisa ed i patti di collaborazione tra amministrazione e cittadini. Loro idoneità a realizzare forme di valorizzazione del patrimonio culturale

Nel paragrafo precedente sono stati isolati tre elementi idonei a far ritenere il patrimonio culturale un bene comune in senso economico. La scelta non è esente, come tutte le classificazioni, da profili di arbitrarietà e rispecchia le finalità e l'oggetto dell'analisi. In questo caso, i profili evidenziati sono propedeutici alla dimostrazione, cui ci si dedicherà nelle righe seguenti, della omogeneità tra le caratteristiche dei beni culturali e le finalità dei patti tra pubblica amministrazione e cittadini e delle potenzialità dei secondi in termini di valorizzazione dei primi [27].

Come ricordato, i patti sono stipulati sulla base di atti di natura generale, ossia i regolamenti comunali per la gestione condivisa dei beni comuni urbani, i quali, in applicazione del principio di sussidiarietà c.d. orizzontale, ormai sancito anche in Costituzione (art. 118, quarto comma), disciplinano le modalità attraverso le quali addivenire a tali atti negoziali tra amministrazione e "cittadini attivi" [28].

La prassi applicativa ha evidenziato come i patti di collaborazione abbiano non di rado avuto ad oggetto il patrimonio culturale o, più in generale, il settore della cultura [29], confermando quanto sopra espresso in riferimento all'elevata capacità di tale settore di attrarre l'interesse dei privati, in special modo no profit.

Dall'analisi dei regolamenti, viene subito in rilievo l'approccio "funzionalista" che è stato precedentemente messo in luce. I "beni comuni urbani", oggetto dei patti di collaborazione, sono definiti a partire dalla loro idoneità ad "essere funzionali al benessere individuale e collettivo" [30], nonché "all'esercizio dei diritti fondamentali della persona" e "all'interesse delle generazioni future" [31]. Le varie tipologie di interventi realizzabili attraverso i patti sono volti a garantire e migliorare la "fruibilità" dei beni comuni urbani o, più ambiziosamente, ad incidere positivamente sulla "qualità della vita nella città" [32].

La ricostruzione dogmatica della categoria dei beni comuni, che sottende l'adozione dei regolamenti per l'amministrazione condivisa, ha come oggetto non tanto i beni, quanto, piuttosto, l'idoneità di questi ultimi ad attivare un modello amministrativo diverso da quello tradizionale, rinvenuto, per l'appunto, nel paradigma dell'amministrazione condivisa [33], che si connota per la condivisione "su un piano paritario [di] risorse e responsabilità nell'interesse generale" [34].

Il tasso di innovatività di un simile modello di amministrazione trova plastica rappresentazione nelle formule recate dai regolamenti. Tra i criteri che devono guidare i comuni nei procedimenti che portano alla stipula dei patti si rinvengono quelli di "fiducia reciproca", "inclusività e apertura", "informalità" [35].

L'attuazione delle disposizioni regolamentari sopra citate, poi, consente la realizzazione di circuiti virtuosi nel rapporto con il territorio, che, anche alla luce di quanto si è detto nel paragrafo precedente, trovano terreno fertile nel settore del patrimonio culturale. Ciò è del resto confermato anche dall'inserimento, tra i principi generali del regolamento, del principio di autonomia civica, la cui attuazione, come è stato opportunamente evidenziato, è idonea a dar luogo a processi di sviluppo dell'identità culturale [36]. D'altro canto, il principio di sussidiarietà, di cui indubbiamente regolamento e patti sono applicazione, ha forti legami anche con il principio autonomistico, sancito dalla Carta costituzionale [37].

La partecipazione civica costituisce la ragion d'essere degli istituti in esame. È stato rilevato come la stessa definizione di beni comuni urbani fatta propria dai regolamenti non è "fissa", ma "si "apre" al processo di riconoscimento che effettuano cittadini e amministrazione nel concreto: la norma, pertanto, non si occupa di dare ordine alla società, ma si preoccupa di "accogliere" le esperienze sociali" [38].

Non va poi dimenticato che la partecipazione dei cittadini trova puntuale sanzione in specifiche disposizioni di carattere procedurale.

In primo luogo, l'iniziativa per addivenire alla conclusione di simili atti negoziali non è rimessa solo all'amministrazione. I cittadini possono, infatti, partecipare sia nella fase di co-progettazione degli interventi da realizzare, sia sollecitando l'amministrazione: in tale ultima circostanza, l'atto introduttivo dei cittadini non costituisce una mera petizione o proposta in senso tecnico, ma una vera e propria istanza dal momento che l'amministrazione è tenuta a dare una risposta [39].

Per altro verso, sono previsti meccanismi partecipativi e di dibattito pubblico allorché vi siano più proposte aventi il medesimo oggetto. Il regolamento stabilisce che in questi casi, una volta esperito un tentativo volto a integrare le diverse proposte, l'amministrazione debba effettuare la propria scelta all'esito di procedure di tipo partecipativo [40].

Emerge che i regolamenti, di cui i patti costituiscono applicazione, presentino connotati omogenei alle caratteristiche dei beni culturali evidenziate nel paragrafo precedente. In tale prospettiva, i patti rappresentano uno strumento altamente idoneo "a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso", nonché a realizzare interventi di "riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati" [41].

4. Possibilità di ricondurre i regolamenti ed i patti ad una o più fattispecie recate da fonti di rango legislativo

Come più volte ricordato, la collaborazione tra amministrazione e cittadini si estrinseca nell'adozione dei patti, che sono "atti amministrativi di natura non autoritativa" [42]. Essi costituiscono "lo strumento con cui Comune e cittadini attivi concordano tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni" [43].

È bene precisare che, versandosi nel settore dei beni culturali, i patti costituiscono senza dubbio una modalità di "gestione indiretta attuata tramite concessione a terzi delle attività di valorizzazione" da affidarsi "mediante procedure di evidenza pubblica, sulla base di valutazione comparativa di specifici progetti", ai sensi dell'art. 115, comma 3 del codice dei beni culturali e del paesaggio [44].

Sorgono dubbi in merito alla qualificazione giuridica dei patti e dei regolamenti, alla luce del diritto positivo di fonte legislativa.

Da un punto di vista formale, il riferimento ad "atti di natura non autoritativa" rimanda all'applicazione "delle norme di diritto privato", secondo quanto disposto dall'art. 1, comma 1-bis, legge n. 241 del 1990, e dunque alla riconducibilità dei patti alla figura del contratto. Tuttavia, una simile opzione ermeneutica potrebbe rivelarsi non compatibile con le caratteristiche sostanziali dei patti di collaborazione e con le finalità generali dei regolamenti.

Come evidente, la qualificazione dei patti come atti negoziali di natura contrattuale o come accordi di tipo pubblicistico (ad esempio, quelli di cui all'art. 11, legge n. 241 del 1990) ha rilevanti ricadute pratiche, prima fra tutte l'astratta necessità di esperire le procedure di evidenza pubblica disciplinate dal codice dei contratti pubblici [45].

Peraltro, come si vedrà, la codificazione, proprio ad opera del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, di particolari forme di partenariati pubblico-privato, chiamati "culturali" o "sociali", rende ancora più impellente la definizione dei confini esatti delle fattispecie in esame.

4.1. I patti di collaborazione come figure contrattuali atipiche. In particolare, i partenariati cc.dd. culturale e sociale

Innanzitutto, come anticipato, i patti di collaborazione possono essere ricondotti alla nozione di contratto delineata dall'art. 1321 c.c.; del resto, è assodato che anche all'autonomia contrattuale della pubblica amministrazione è riconosciuta la libertà, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1, comma 1-bis, legge n. 241 del 1990 e 1322, secondo comma, c.c., di "concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare", purché realizzino interessi meritevoli di tutela.

In tale prospettiva, sarebbe piuttosto agevole far ricadere i patti in esame alle figure di partenariato disciplinate dal codice dei contratti pubblici [46].

L'idoneità di simili figure a costituire il referente legislativo dei patti di collaborazione si rinverrebbe nel loro elemento qualificante, individuato nel tasso di partecipazione del privato alla realizzazione dell'interesse generale perseguito dall'amministrazione. Il partenariato pubblico-privato rappresenterebbe la realizzazione di un'amministrazione cooperativa, "in una logica quasi di sussidiarietà" [47].

Il d.lgs. n. 50 del 2016 presenta almeno due tipologie di partenariato integrabili nella fattispecie dei patti di collaborazione aventi ad oggetto beni del patrimonio culturale: le "forme speciali di partenariato" che il Mibac può attivare per "assicurare la fruizione del patrimonio culturale della Nazione e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla tutela" (partenariato c.d. culturale, art. 151, comma 3); il partenariato c.d. sociale, a sua volta ricomprendente gli interventi di sussidiarietà orizzontale di cui all'art. 189, commi 2-5 [48], ed il baratto amministrativo, ex art. 190.

Per quanto riguarda il partenariato culturale, diretto, tra le altre cose a consentire "la gestione, l'apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili", esso può essere affidato mediante procedure semplificate di individuazione del partner privato analoghe o ulteriori rispetto a quelle previste per le sponsorizzazioni dall'art. 19.

Dunque la disciplina di default, applicabile a simili partenariati, prevede che l'individuazione del privato sia subordinata alla pubblicazione, per almeno trenta giorni, sul sito istituzionale dell'amministrazione di un avviso con il quale si comunica l'avvenuta ricezione di una proposta di collaborazione o si rende nota la ricerca di un partner privato [49]. Ciò che, soprattutto, appare rilevante evidenziare in questa sede è la posizione dell'amministrazione in seguito al decorso del termine di trenta giorni: in particolare, nel caso di pubblicazione dell'avviso di avvenuta ricezione di una proposta senza che siano presentate proposte contrattuali alternative, è possibile configurare un dovere in capo all'amministrazione di procedere alla stipula del contratto con l'impresa proponente definendo nel dettaglio, attraverso la negoziazione delle clausole accessorie, il regolamento contrattuale [50].

Una simile evenienza, sebbene limitata solo ad una delle possibili ipotesi di partenariato ex art. 151, comma 3, non sembra porsi in linea con i ricordati canoni di informalità e collaborazione che caratterizzano il rapporto amministrazione-cittadino nel paradigma dell'amministrazione condivisa.

Analoghe considerazioni possono essere svolte in riferimento al partenariato sociale.

Per quanto riguarda gli interventi di sussidiarietà orizzontale di cui ai commi da 2 a 5 dell'art. 189, si tratta di "opere di interesse locale", oggetto di "proposte operative di pronta realizzabilità" formulate da "gruppi di cittadini organizzati", nel rispetto della disciplina urbanistica e suscettibili di riguardare anche "immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale", previo assenso dell'autorità competente, senza spese a carico dell'amministrazione ed indicando costi e mezzi di finanziamento. Forme di agevolazioni o di esenzioni fiscali sono riconosciute ai privati, in un rapporto quasi-sinallagmatico con l'amministrazione che acquisisce a titolo originario al proprio patrimonio indisponibile le opere così realizzate.

Similmente, il baratto amministrativo (art. 190) è il contratto "di partenariato sociale", i cui criteri e condizioni sono definiti con apposita delibera dagli enti territoriali, da questi ultimi stipulabile "sulla base di progetti presentati da cittadini singoli o associati", riguardante, tra le altre cose, "l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere". Anche in questo caso, quale corrispettivo, l'amministrazione individua "riduzioni o esenzioni di tributi corrispondenti al tipo di attività svolta dal privato o dalla associazione ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un'ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa".

Rispetto al partenariato culturale, quelli sociali sono retti da una disciplina altrettanto (se non più) stringente per quanto riguarda le procedure di affidamento. Essi, in quanto partenariati pubblico privato sono sottoposti, con il limite della compatibilità, non solo ai principi generali di cui alla Parte I del codice, ma anche alle regole che presiedono all'affidamento delle concessioni di lavori e servizi ed alle procedure in materia di infrastrutture ed insediamenti prioritari, nonché a varie disposizioni della Parte II del codice relativa all'affidamento dei contratti di appalto [51]. Per quanto specificamente riguarda gli interventi in sussidiarietà, la procedura prevede una proposta operativa "di pronta realizzabilità" formulata da "gruppi di cittadini", su cui è prevista la formazione di un silenzio-diniego dell'amministrazione una volta decorsi due mesi dalla sua presentazione [52].

Ancora una volta, dunque, il procedimento presenta rigidità tali da risultare difficilmente compatibili con i principi sottesi ai patti di collaborazione. Anche le esperienze di applicazione pratica degli istituti evidenziano una scarsa cooperazione tra le parti nella definizione dell'oggetto degli interventi [53].

Del resto, non va dimenticato che gli accorgimenti procedurali stabiliti per le forme di partenariato culturale e sociale sono giustificati dalla natura patrimoniale del rapporto giuridico ad essi sotteso, che, a mente della definizione della fattispecie generale di partenariato, consente all'amministrazione di ottenere dai privati le risorse necessarie alla realizzazione di opere, attribuendo ad essi il diritto di sfruttamento economico del bene o di gestione del servizio connesso, contestualmente trasferendovi il rischio derivante da tali attività [54]. In altri termini, si tratta di una delle modalità di ricorso al mercato da parte della pubblica amministrazione, alternativa all'autoproduzione, che in quanto tale richiede l'applicazione delle norme volte a garantire la concorrenza tra le imprese [55].

Simile prospettiva sembra confermare la distanza intercorrente tra codeste fattispecie e le logiche dell'amministrazione condivisa [56], in special modo allorché essa abbia ad oggetto il patrimonio culturale i cui beni sono connotati da una spiccata idoneità a conferire utilità collettive (per la maggior parte) di carattere non meramente economico.

La logica "patrimoniale" ed "egoistica" che permea di sé le forme di partenariato sociale e che le differenzia nettamente dai moduli pattizi di cui ai regolamenti per l'amministrazione condivisa, è dimostrata dalla centralità, in una prospettiva sinallagmatica, della previsione di agevolazioni fiscali in favore dei privati.

Sebbene agevolazioni di questo genere in favore dei "cittadini attivi" siano previste anche dai regolamenti per l'amministrazione condivisa, in tale contesto esse si inseriscono in una logica meramente promozionale, assumendo una posizione ancillare rispetto all'oggetto del patto. La diversa prospettiva balza all'occhio, soprattutto nel baratto amministrativo. Qui, è richiesta una corrispondenza tra quanto dovuto e quanto concesso, rendendo la riduzione o l'esenzione di tributi, almeno in senso lato, un vero e proprio corrispettivo dell'attività svolta dai privati [57].

Dunque, la riconduzione dei patti a simili figure contrattuali non sembra cogliere le peculiarità del modello da essi proposto. I partenariati sopra ricordati, come tutte le forme di ricorso al mercato da parte della pubblica amministrazione per soddisfare gli interessi pubblici cui è preposta, rispondono alla tradizionale concezione che vede contrapposte autorità e libertà. Diversamente, il paradigma dell'amministrazione condivisa, come è stato detto e come si espliciterà meglio nel prossimo paragrafo, si caratterizza per una schietta collaborazione tra soggetto pubblico e cittadini, che attraversa tutta la vicenda culminante nell'adozione e nell'esecuzione dei patti di collaborazione.

4.2. La soluzione pubblicistica. Provvedimenti attributivi di vantaggi economici ed accordi sostitutivi

Esclusa la sussumibilità dei patti di collaborazione nelle fattispecie di partenariato del codice dei contratti, sembra opportuno cercarne i referenti legislativi nell'ambito delle figure dalla più decisa colorazione pubblicistica [58].

Un'opzione esegetica del genere appare coerente, innanzitutto, con il ruolo che l'amministrazione pubblica è chiamata a svolgere.

A tal proposito, una posizione di assoluta primazia deve riconoscersi alle finalità di interesse generale che guidano amministrazione e cittadini nella stipula dei patti. Ciò, non solo per il riferimento al principio di sussidiarietà che campeggia nell'articolo d'esordio dei regolamenti [59], ma soprattutto per l'accezione che di tale principio viene accolta nel paradigma dell'amministrazione condivisa. Nell'improntare i rapporti alla loro fiducia reciproca, le parti presuppongono che la rispettiva volontà di collaborazione sia orientata al perseguimento di finalità di interesse generale [60]; ancora, gli interessi, anche privati, di cui sono portatori i cittadini sono riconosciuti e valorizzati nell'ambito delle discipline pattizie in quanto contribuiscono al perseguimento dell'interesse generale [61].

Di qui, due conseguenze, a loro volta tra loro interconnesse, rilevanti rispettivamente sotto il profilo del contenuto dei patti e delle loro modalità di adozione.

Sotto il profilo prettamente contenutistico, sembra possibile configurare i patti di collaborazione come provvedimenti attributivi di vantaggi economici ai sensi dell'art. 12 della legge generale sul procedimento amministrativo. Ciò, in quanto, nonostante la definizione degli interventi da realizzare veda una cooperazione tra la parte pubblica e quella privata, il perseguimento dell'interesse pubblico che connota l'agire di entrambe sembra idoneo a rendere recessivi gli elementi di corrispettività della fattispecie [62]. In una simile prospettiva, i regolamenti comunali, in ossequio ai principi generali dell'azione amministrativa, integrerebbero la fattispecie degli atti recanti i criteri e le modalità predeterminati per l'attribuzione dei vantaggi economici [63].

Dal punto di vista della qualificazione formale dei patti, la centralità che dalla rilevata importanza delle (comuni) finalità di interesse generale deriva alla posizione della pubblica amministrazione avvicina la fattispecie a quella degli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all'art. 11, legge n. 241 del 1990 [64].

La qualificazione della gestione della collaborazione con i cittadini quale funzione istituzionale dell'ente territoriale [65] dimostra come l'amministrazione "spenda" un potere autoritativo, sebbene concretantesi in un accordo [66].

Stesso discorso vale per il principio secondo cui gli interventi devono essere organizzati in modo da consentire che in qualsiasi momento altri cittadini interessati possano aggregarsi alle attività [67], nonché per quelle disposizioni procedimentali che prescrivono il "consenso" dell'ente locale sulle proposte di collaborazione "al fine di garantire che gli interventi dei cittadini attivi per la cura dei beni comuni avvengano in armonia con l'insieme degli interessi pubblici e privati coinvolti" [68].

Esse presuppongono l'esercizio di un'attività, schiettamente pubblicistica, di ponderazione di interessi.

D'altra parte, il ricordato "consenso" del comune appare del tutto omogeneo alla "determinazione dell'organo che sarebbe competente all'adozione del provvedimento" che, ai sensi dell'art. 11, comma 4-bis, legge n. 241 del 1990, è requisito necessario per la stipulazione degli accordi integrativi e sostitutivi [69].

Lo stesso recesso pubblicistico, di cui all'art. 11, comma 4, legge n. 241 del 1990, indice della sussunzione dell'interesse pubblico nel regime giuridico dell'atto [70] trova sovente applicazione nelle clausole pattizie [71].

Infine, appare utile rilevare che la qualificazione dei patti come accordi sostitutivi non comporta la mancata applicazione della previsione del codice dei beni culturali secondo cui le attività di valorizzazione gestite da terzi devono affidarsi "mediante procedure di evidenza pubblica, sulla base di valutazione comparativa di specifici progetti". È infatti previsto dai regolamenti che, nel caso in cui vi siano più proposte di collaborazione riguardanti un medesimo bene, una volta infruttuosamente esperito un tentativo di integrazione di tali proposte, "la scelta della proposta da sottoscrivere viene effettuata mediante procedure di tipo partecipativo" [72].

5. Conclusioni

È possibile ritenere che la qualificazione pubblicistica dei patti di collaborazione, in particolare là dove essi abbiano ad oggetto la valorizzazione del patrimonio culturale, sembra rispondere in maniera migliore alle sfide poste dalla pluralità di interessi che la materia sottende, rispecchiando, per altro verso, la logica del nuovo paradigma dell'amministrazione condivisa.

Il punto di caduta è rappresentato dal principio solidaristico (art. 2 Cost.) ed al programma di emancipazione sancito all'art. 3, secondo comma, Cost.

Tali elementi sono idonei a tenere insieme, e a spiegare costituzionalmente, molteplici interessi.

Da un lato, la necessaria fruizione collettiva del patrimonio culturale, cui la promozione della cultura e la tutela del patrimonio culturale stesso, compiti della Repubblica ai sensi dell'art. 9 Cost., devono mirare, anche in prospettiva di solidarietà inter-generazionale. Dall'altro, la particolare accezione in cui il principio di sussidiarietà viene declinato all'interno del paradigma dei patti di collaborazione. Non un mero conferimento a privati, in una prospettiva sinallagmatica, di attività di interesse generale che l'amministrazione pubblica non riesce da sola a svolgere, ma una schietta collaborazione tra "governanti" e "governati", con questi ultimi mossi da intenti solidaristici [73], attuata sin dalle fasi di individuazione degli interessi generali di cui prendersi cura.

In entrambi i casi, poi, assume rilievo fondamentale la comunità territoriale di riferimento, elemento espressivo del principio autonomistico di cui all'art. 5 Cost.

È evidente che una così articolata congerie di esigenze, strettamente connesse a valori di dignità della persona umana, nonché in parte potenzialmente tra loro confliggenti, non possa trovare adeguato soddisfacimento attraverso una regolazione di tipo privatistico.

È stato ben messo in luce come le categorie del diritto privato non diano eccellente prova di sé al di fuori delle fattispecie che tradizionalmente competono loro, vale a dire quelle dei rapporti patrimoniali [74]. Questo perché, a differenza di quanto possa apparire, lo strumentario giuridico offerto dal diritto pubblico presenta una maggiore gamma di gradazioni possibili: il "pubblico interesse" per il perseguimento del quale deve essere stipulato un accordo integrativo o sostituivo del provvedimento appare contenere uno spettro più ampio di ipotesi rispetto al "rapporto giuridico patrimoniale" oggetto del contratto.

In altri termini, il diritto pubblico, per la sua attitudine a contemperare i diversi interessi, presenta maggiore flessibilità [75] ed una più spiccata capacità di adattamento e razionalizzazione delle istanze sociali emergenti, allorché esse investano direttamente la configurazione dei rapporti tra pubblico potere e cittadini [76].

 

Note

[*] Paper presentato in occasione del Convegno AIPDA "Arte, cultura e ricerca scientifica. Costituzione e Amministrazione", Panel "Patrimonio culturale e sviluppo dei territori", tenutosi a Reggio Calabria, 4-5-6 ottobre 2018.

[1] Il primo regolamento di questo genere è stato adottato dal Comune di Bologna, con delibera consiliare 19 maggio 2014, n. 172, recante il "Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani" ed è stato redatto in collaborazione con l'associazione Labsus - Laboratorio per la Sussidiarietà. Il regolamento di Bologna costituisce il modello sulla base del quale gli altri comuni italiani hanno adottato i propri regolamenti per l'amministrazione condivisa. In conseguenza di ciò, e per ragioni di comodità espositiva, nel corso del contributo si farà riferimento soprattutto alle disposizioni in esso contenute (salvi i casi in cui sarà necessario o opportuno dare conto di profili differenziali presenti in regolamenti successivi). Attualmente, sono 156 i comuni italiani ad avere adottato un simile strumento ed altri 66 hanno avviato le procedure di approvazione (dati reperibili sul sito www.labsus.org, ultimo accesso in data 20 settembre 2018). La rilevanza del fenomeno, come sottolinea anche F. Di Lascio, Spazi urbani e processi di rigenerazione condivisa, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributi al diritto delle città, (a cura di) F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, 2017, pag. 65, è confermata dall'eterogeneità dei comuni che hanno accolto tale possibilità di collaborazione tra cittadini e amministrazione, sia in termini demografici, sia da un punto di vista geografico.

[2] Con specifico riferimento ai beni culturali, evidenzia L. Casini, voce Beni culturali (dir. amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Sabino Cassese, I, Milano, 2006, pag. 680, come, ancorché risalente ai lavori della Commissione Franceschini, che vi aggiungeva il riferimento all'aspetto materiale della testimonianza, l'espressione "testimonianza avente valore di civiltà" risulta essere "limitata, sul piano normativo, dalla sua natura residuale: essa è usata solamente a chiusura e integrazione dell'elenco delle cose che presentano un interesse culturale".

[3] Come rileva G. Sciullo, Patrimonio e beni, Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Bologna, 2017, pag. 39, i concetti di "beni paesaggistici" e di "paesaggio" non sono pienamente identificabili, poiché i primi costituiscono una categoria particolare del secondo. La distinzione ha ricadute pratiche in termini di tecniche di tutela: "i valori espressi dal paesaggio come "rappresentazione dell'identità nazionale" (art. 131, comma 2) trovano sede specifica nel piano paesaggistico (art. 135), mentre per i beni paesaggistici gli strumenti di salvaguardia si collocano anche "a monte" del piano (artt. 136-142)".

[4] Si tratta, del resto, di un elemento da tempo messo in luce dalla dottrina, con riferimento ai beni culturali: per tutti, si veda M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 3 ss. La citazione riportata nel testo è tratta da V. Cerulli Irelli, I beni culturali nell'ordinamento italiano, in Studi parlamentari, 1994, pag. 28.

[5] Simile affermazione può ricavarsi da quanto affermato da V. Cerulli Irelli, I beni culturali nell'ordinamento italiano, cit., pag. 28 s., nel contesto normativo precedente a quello attuale, l'A. sosteneva che il "valore culturale di una pittura, poniamo, o di una scultura, e quindi il suo essere bene culturale, è intrinsecamente legato alla cosa pittura, alla cosa scultura, e la tutela del primo si identifica con la tutela della cosa in quanto tale [...]; a differenza di quanto avviene per le opere dell'ingegno [...] tutelate come meri beni immateriali". Già all'epoca, tuttavia, lo stesso A. operava una distinzione tra il "valore culturale di una cosa", che, in quanto tale, "resta bene immateriale" e la cosa stessa in cui il valore necessariamente si identifica. Analogamente, v. P.G. Ferri, voce Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., II, Torino, 1987, pag. 218 s. Più di recente, v. L. Casini, voce Beni culturali (dir. amm.), cit., pag. 680, che individua nell'immaterialità uno dei caratteri comuni, insieme alla pubblicità, a tutti i beni culturali, allo stesso tempo rilevando come tra bene culturale e cosa materiale intercorre un legale "inscindibile, irripetibile e assolutamente unico".

[6] Il diritto positivo riprende la celebre definizione di paesaggio coniata da Predieri, contrapposta ad una concezione meramente estetizzante: il paesaggio "è fatto fisico, oggettivo ma, al tempo stesso, un farsi, un processo creativo continuo, incapace di essere configurato come realtà o dato immobile; è il modo di essere del territorio nella sua percezione visibile. Il paesaggio, insomma, viene a coincidere con la forma e l'immagine dell'ambiente, come ambiente visibile, ma inscindibile dal non visibile, come un conseguente riferimento di senso o di valori a quel complesso di cose", così A. Predieri, voce Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 507. Si veda, oggi, anche la Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta a Firenze il 20 ottobre 2000 e ratificata dallo Stato italiano con la legge 9 gennaio 2006, n. 14.

[7] Come riportato da A. Farì, Beni e funzioni ambientali. Contributo allo studio della dimensione giuridica dell'ecosistema, Napoli, 2013, pag. 84, la scienza economica classifica i beni basandosi sulla stima delle loro caratteristiche sostanziali, senza attribuire rilievo decisivo al regime della loro formale appartenenza. A tal fine, ricorda G. Bravo, Dai pascoli a internet. Un'introduzione alle risorse comuni, in Stato e Mercato, 2001, pag. 487 ss., sono utilizzati due parametri: l'escludibilità e la rivalità nel consumo. Il primo indica la maggiore o minore facilità che un bene, una volta prodotto, venga consumato da chiunque lo desideri: più è costoso impedire che ciò accada, meno il bene è escludibile. La rivalità del bene (o sottraibilità), invece, sta ad indicare il fatto che il suo consumo da parte di un individuo, pregiudica le possibilità di godimento degli altri. L'incrocio di questi due parametri dà luogo alle quattro categorie dei beni: i beni pubblici ed i beni privati, si pongono ai poli opposti della classificazione, perché gli uni per definizione non escludibili e non rivali e gli altri, viceversa, facilmente escludibili e con alto tasso di rivalità nel consumo. Le tipologie intermedie sono, invece, rappresentate dai beni di club, connotati da bassa rivalità ed escludibilità agevole, e dai commons, che presentano notevole difficoltà di esclusione, ma allo stesso tempo un elevato grado di rivalità nel consumo.

[8] È la nota formula coniata da M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pag. 31. Essa rimanda alla categoria, dallo stesso A. proposta in Diritto pubblico dell'economia, Bologna, 1977, pag. 80, dei beni pubblici a fruizione collettiva. Altra parte della dottrina, occupandosi dei beni paesaggistici e del paesaggio dal punto di vista della pianificazione territoriale, ma con argomentazioni facilmente estensibili anche ai beni culturali, ha preferito rinvenire nel fenomeno in esame il mezzo tecnico della "conformazione della proprietà privata [...] per raggiungere i fini di mutamento della società": v. A. Predieri, voce Paesaggio, cit., pag. 521.

[9] Così, L. Casini, voce Beni culturali (dir. amm.), cit., pag. 680.

[10] Ci si riferisce, evidentemente, a M.S. Giannini, I beni pubblici. Dispense delle lezioni del Corso di Diritto Amministrativo tenute nell'Anno Accademico 1962-1963, Roma, 1963, pag. 47 ss. Come noto, nella sua teoria dei beni, l'A. distingueva una proprietà individuale, una proprietà divisa ed una proprietà collettiva. Quest'ultima, intesa come destinazione del bene all'uso generale, vede come recessiva ed irrilevante l'appartenenza della cosa, giacché, a differenza della proprietà individuale, il proprietario non è libero di disporre a piacimento del bene. La proprietà collettiva, a sua volta, era articolata in quattro diversi modelli. Tra questi, la forma più diffusa sarebbe quella della "proprietà collettiva demaniale", corrispondente grosso modo alla categoria codicistica dei beni demaniali. Simili beni sarebbero sottoposti al godimento della collettività - di volta in volta individuata come l'universalità degli esseri umani o come i cittadini di uno Stato o, ancora, come i residenti di un comune - per quanto concerne le utilità che essi prestano o sono idonei a prestare. L'ente preposto alla gestione, necessariamente un ente territoriale, dunque a fini generali e non costituito ad hoc, sarebbe un mero gestore dei beni di proprietà collettiva. A tal fine, eserciterebbe pubblici poteri secondo la volontà degli organi amministrativi, la quale non corrisponderebbe a quella dei componenti la collettività o della loro maggioranza: a differenza delle altre forme di proprietà collettiva enucleate (in particolare, ci si riferisce alla "proprietà comunitaria"), la proprietà collettiva demaniale prevede una gestione non negoziale o volontaria, ma legale e necessaria. È interessante notare come, secondo Giannini, il codice civile comprenda nel demanio beni che non presentano le caratteristiche dei beni demaniali stricto sensu, ma che ad essi siano assimilati: si tratta, ad esempio, delle opere destinate alla difesa nazionale ai sensi dell'art. 822 c.c., non preordinate al godimento universale. Osserva però V. Cerulli Irelli, I beni culturali nell'ordinamento italiano, cit., pag. 48, che "la configurazione del demanio pubblico (in genere) come proprietà collettiva [...] non ha avuto seguito", stante "l'assenza di norme positive che diano consistenza all'interesse del cittadino in ordine al godimento e alla tutela di determinate categorie di beni". Tuttavia, prosegue l'A., "proprio in materia di beni culturali (circa i quali la proprietà pubblica trova nel godimento pubblico la sua unica giustificazione) quella teoria potrebbe presentare consistenza e credibilità, ma richiederebbe comunque qualche affermazione e applicazione legislativa". A ben vedere, il legislatore sembra aver colmato simile lacuna: a tal proposito, v. infra nel testo.

[11] Per l'alienazione di simili beni è richiesta una apposita autorizzazione ministeriale, la quale deve essere corredata da una serie di indicazioni, riguardanti tanto l'attuale destinazione d'uso del bene ed il programma delle misure necessarie alla sua conservazione, tanto gli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire mediante l'alienazione, necessariamente coerenti con la (nuova) destinazione d'uso prevista, quanto le modalità di fruizione pubblica del bene stesso. Di conseguenza, il provvedimento autorizzatorio detta prescrizioni idonee a conformare il diritto di proprietà dell'acquirente, sia in ordine ai doveri di conservazione, sia in relazione alle condizioni di fruizione pubblica, sia, infine, agli obbiettivi di valorizzazione da conseguire.

[12] In tal senso, v. A. Farì, Beni e funzioni ambientali. Contributo allo studio della dimensione giuridica dell'ecosistema, cit., pag. 89, nonché M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell'ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007.

[13] Si esprime in questi termini, F. Cortese, Che cosa sono i beni comuni?, in Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi. Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, (a cura di) M. Bombardelli, Napoli, 2016, pag. 51. Non manca chi ha rinvenuto un collegamento tra beni comuni e autorità locali anche guardando al fenomeno dall'angolo visuale dell'ordinamento dell'Unione europea: a tal proposito, v. F. Giglioni, Beni comuni e autonomie nella prospettiva europea: città e cittadinanze, ivi, spec. pagg. 172 ss.

[14] Si tratta dell'opinione di G. Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, Pisa, 2017, pag. 199 s., secondo cui "tra i beni aperti all'uso generale, non sono le caratteristiche oggettive del bene a renderlo comune per un determinato gruppo sociale ma è la particolare relazione tra il gruppo e il bene, tale da creare o rafforzare il legame sociale tra i membri di una comunità, che porta a considerare il bene come comune per il medesimo gruppo", avendosi "una sorta di creazione del bene comune da parte della comunità". L'importanza del rapporto tra "beni comuni e legame sociale" è riconosciuta anche da quella parte della dottrina che sembra riferire il concetto di bene comune a comunità globali più che a gruppi circoscritti di individui: v. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, pag. 105 ss.

[15] Su cui v. anche infra nel testo, al punto c).

[16] Così, A. Farì, Beni e funzioni ambientali. Contributo allo studio della dimensione giuridica dell'ecosistema, cit., pag. 88 s., il quale aggiunge come la regolazione dei beni comuni necessiti "di una scala adeguata di governo" che, "anche qualora si volesse accogliere, per determinate risorse, una dimensione globale dei fenomeni", sia caratterizzata da "una visione gerarchica" delle strutture di governo, "formata da sottoinsiemi di scale ecosistemiche in rapporto tra loro".

[17] Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Risoluzione n. A/res/70/1, 25 settembre 2015, Trasformare il nostro mondo: l'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

[18] Comunicazione della Commissione, Una nuova agenda europea per la cultura, 22 maggio 2018, COM(2018) 267 final, pag. 5.

[19] La celebre ricostruzione operata sulla base dell'analisi empirica di numerosi casi da E. Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge, 1990; trad. it., Governare i beni collettivi, Venezia, 2006, individua quattro assunti: a) quando a coloro che si appropriano di beni collettivi non viene permesso di comunicare, questi tendono con più frequenza ad appropriarsene nella misura massima possibile; di conseguenza, b) quando coloro che si appropriano dei beni collettivi possono comunicare si raggiungono benefici comuni maggiori rispetto a quando non possono comunicare; c) quando le dotazioni sono relativamente basse, la comunicazione diretta consente a coloro che si appropriano dei beni collettivi di raggiungere e mantenere accordi che sono vicini al livello ottimale di appropriazione; d) in ultimo, quando coloro che si appropriano dei beni collettivi discutono e si accordano sui rispettivi livelli di appropriazione e sui sistemi sanzionatori, l'inganno sugli accordi mantiene un livello molto basso, di modo che gli attori tendono a raggiungere un risultato ottimale. Per la sintesi, qui riportata, delle quattro proposizioni, v. A. Farì, Beni e funzioni ambientali. Contributo allo studio della dimensione giuridica dell'ecosistema, cit., pag. 87 s.

[20] In tal senso, ancora, A. Farì, Beni e funzioni ambientali.Contributo allo studio della dimensione giuridica dell'ecosistema, cit., pag. 89 s., nonché, seppure nella opposta prospettiva volta a far emergere un'autonoma categoria giuridica dei beni comuni, G. Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, cit., pag. 413 ss.

[21] Un collegamento tra principio di sussidiarietà e partecipazione, come esercizio della sovranità popolare nelle forme e nei limiti della Costituzione, si rinviene in G. Arena, Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, in Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi. Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, cit., pag. 284: "I nostri padri e le nostre madri costituenti [...] pensavano all'esercizio della sovranità popolare attraverso il voto e la partecipazione alla vita dei partiti politici. Ma la democrazia rappresentativa oggi è in profonda crisi ed è quindi essenziale trovare altri spazi e altre modalità di partecipazione alla vita pubblica [...]. Ecco perché non soltanto è possibile, ma anzi auspicabile sostenere che, dal momento che la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, fra queste forme di esercizio della sovranità oggi va riconosciuta anche quella che si manifesta nel momento in cui i cittadini, singoli ma soprattutto associati, si impegnano autonomamente in attività finalizzate al perseguimento dell'interesse generale", secondo l'art. 118, quarto comma, Cost. In generale, sul principio di sussidiarietà così come accolto in Costituzione, v. V. Cerulli Irelli, voce Sussidiarietà (dir. amm.), in Enc. giur. Treccani, XXXV, Roma, 2003. Inteso nella sua accezione c.d. orizzontale, il principio, declinato in senso "apparentemente debole, rispetto a formulazioni più forti emerse a più riprese nel dibattito costituzionale", implica che "l'amministrazione pubblica dovrebbe limitare la propria azione a quei settori di intervento nei quali l'attività privata non possa più proficuamente o più efficientemente esplicarsi" (pag. 4).

[22] È bene precisare che la disposizione non implica una delega della funzione di tutela ai privati, non ipotizzabile a mente dell'art. 9 Cost., ma semplicemente obbliga questi ultimi, qualora proprietari, possessori o detentori di beni afferenti al patrimonio culturale, a "garantirne la conservazione". Sulla tutela, v. F. Merusi, sub Art. 9, in Commentario alla Costituzione, (a cura di) G. Branca, Bologna-Roma, I, 1975, pag. 434 ss., nonché M.S. Giannini, Sull'art. 9 della Costituzione, in Aa.Vv., Scritti in onore di Angelo Falzea, Milano, III, 1991, pag. 435 ss.

[23] Sul ruolo dei privati nel settore dei beni culturali, v. ex multis, C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon, 2001, 3; E. Bruti Liberati, Pubblico e privato nella gestione dei beni culturali: ancora una disciplina legislativa nel segno dell'ambiguità e del compromesso, ivi; M. Cammelli, Pubblico e privato nei beni culturali: condizioni di partenza e punti di arrivo, ivi, 2007, 2; G. Calderoni, G. Saporetti, La sussidiarietà in concreto: pubblico e privato negli spazi pubblici, ivi, 2011, 2.

[24] Come ricorda L. Casini, Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2004, pag. 484 ss., ai sensi dell'art. 115, d.lgs. n. 42 del 2004, la gestione dei beni culturali può avvenire in forma diretta o indiretta. In questa seconda ipotesi, che deve essere giustificata dal "fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali" e deve essere attuata nel rispetto dei livelli di qualità della valorizzazione di cui all'art. 114 (art. 115, comma 4), la gestione è esercitata tramite concessione a terzi delle attività di valorizzazione, che viene affidata all'esito di procedure di evidenza pubblica. Sulle sponsorizzazioni, v. ex multis, M. Renna, Le sponsorizzazioni, in La collaborazione pubblico-privato e l'ordinamento amministrativo, (a cura di) F. Mastragostino, Torino, 2011, pag. 521 ss.; R. Dipace, La sponsorizzazione, in I contratti con la pubblica amministrazione, (a cura di) C. Franchini, II, Torino, 2007, pag. 1194 ss.

[25] Sulla capacità del settore culturale ad attrarre i soggetti del c.d. terzo settore, v. G. Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, cit., pag. 139 ss.

[26] Questo aspetto è messo in evidenza da molti Autori, tra cui v. G. Arena, Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, cit., pag. 283 ss.; F. Cortese, Che cosa sono i beni comuni?, cit., spec. pag. 58 ss., che a tal proposito usa l'immagine dell'"attitudine parassitaria" dei beni comuni (pag. 60); A. Farì, Beni e funzioni ambientali. Contributo allo studio della dimensione giuridica dell'ecosistema, cit., spec. pag. 239 ss., che perviene ad una simile conclusione adottando un approccio che sposta l'attenzione dal bene alle funzioni (i "servizi ecosistemici"); F. Giglioni, I regolamenti comunali per la gestione dei beni comuni urbani come laboratorio per un nuovo diritto delle città, in Munus, 2016, pag. 271 ss., il quale rileva come l'autonomia organizzativa degli enti locali, in primo luogo i comuni, sia in grado di ovviare alle rigidità delle definizioni poste dal diritto statuale. Peraltro, la centralità del profilo organizzativo rispetto a questi temi, era stata a suo tempo colta, sebbene nell'ambito di una analisi avente un oggetto in parte diverso da quello affrontato in questa sede, da G. Rossi, Enti pubblici associativi. Aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere, Napoli, 1979, spec. pag. 147 ss., nonché pag. 265 ss.

[27] Ai sensi dell'art. 6, la valorizzazione "consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale. In riferimento al paesaggio, la valorizzazione comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati" (comma 1). Essa deve essere "attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze" (comma 2).

[28] È con questa formula che i regolamenti comunali si riferiscono a "tutti i soggetti, singoli, associati o comunque riuniti in formazioni sociali, anche di natura imprenditoriale o a vocazione sociale, che si attivano per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani" (art. 2, lett. c, Regolamento di Bologna).

[29] Cfr. Labsus, Rapporto Labsus 2017 sull'amministrazione condivisa, in labsus.org, pag. 9 s., dove, con riferimento ai settori di intervento, si evidenzia come il 16% dei patti di collaborazione adottati nei comuni italiani siano riferibili alle voci "Beni culturali" (6%) o "Cultura (10%). Tuttavia, la stima potrebbe essere anche più bassa dell'effettivo "peso" del settore in esame giacché lo stesso Rapporto avverte che "nel 43% dei casi analizzati le aree di intervento si sovrappongono tra loro" (p. 10). La tendenza appare confermata anche prendendo a riferimento i singoli beni interessati dai patti: sebbene gli "Spazi culturali" costituiscano (solo) nel 6% dei casi l'oggetto dei patti, all'interno della categoria "Altro" (21%), rientrano ipotesi di cura dei beni culturali (come nei casi dei comuni di Siena, Lecco e Lucca) o di organizzazione di manifestazioni culturali (p. 10). I dati del Rapporto 2017 sono stati tratti sulla base di una rilevazione condotta su un campione di 113 patti attivi nel primo semestre 2017, su un totale di 390 patti rinvenuti. Avvertono i redattori del Rapporto che "il numero totale dei patti attivi fino a quel periodo è ampiamente sottostimato". Essi dovrebbero superare le 400 unità e presentano un trend in crescita. Attraverso una stima dei patti già rilevati nel Rapporto Labsus 2016, è possibile affermare che a partire dalla presentazione del primo Regolamento, sono stati stipulati in Italia oltre 1.000 patti (pg. 9).

[30] Così, l'art. 2, lett. a, Regolamento di Bologna.

[31] Le ultime due formule sono tratte dai regolamenti comunali "di seconda generazione", di cui è "capofila" il regolamento di Torino, approvato con delibera consiliare 11 gennaio 2016, n. 375.

[32] I regolamenti comunali in questione prevedono diverse specie di interventi attuabili attraverso i patti che differiscono per il grado di complessità. In particolare, il regolamento bolognese codifica tre tipi di interventi: gli "interventi di cura" che sono "volti alla protezione, conservazione ed alla manutenzione dei beni comuni urbani per garantire e migliorare la loro fruibilità e qualità"; la "gestione condivisa", che si sostanzia in attività "di cura dei beni comuni urbani svolta congiuntamente dai cittadini e dall'amministrazione con carattere di continuità e di inclusività"; gli "interventi di rigenerazione", ossia "di recupero, trasformazione ed innovazione dei beni comuni, partecipi, tramite metodi di coprogettazione, di processi sociali, economici, tecnologici ed ambientali, ampi e integrati, che complessivamente incidono sul miglioramento della qualità della vita nella città": v. art. 2, lett. f), g) e h). La tendenza a graduare le tipologie di interventi realizzabili con i patti è, peraltro, stata oggetto di ulteriore approfondimento da parte del regolamento di Torino: v. art. 6.

[33] Il modello dell'amministrazione condivisa, secondo G. Arena, Introduzione all'amministrazione condivisa, in Studi parlamentari, 1997, pag. 29 ss., che ne ha coniato l'espressione, presuppone un rapporto tra amministrazione e cittadini che consenta il superamento del ruolo passivo di questi ultimi come "amministrati per diventare co-amministratori, soggetti attivi che, integrando le risorse di cui sono portatori con quelle di cui è dotata l'amministrazione, si assumono una parte di responsabilità nel risolvere i problemi di interesse generale" (p. 29), sì da far emergere "la possibilità di un nuovo rapporto dei cittadini con l'amministrazione in una società pluralista: siano cittadini singoli, associati, soggetti economici, essi possono diventare protagonisti nella soluzione di problemi di interesse generale ed al tempo stesso nella soddisfazione delle proprie esigenze, instaurando con l'amministrazione un rapporto paritario di co-amministrazione in cui ciascuno mette in comune le proprie risorse e capacità, in vista di un obiettivo comune" (p. 63). Peraltro, appare evidente come simili concettualizzazioni siano profondamente influenzate dal pensiero di Feliciano Benvenuti. A tal proposito, v. F. Benvenuti, Il nuovo cittadino, Venezia, 1994, pag. 104 ss. F. Cortese, Che cosa sono i beni comuni?, cit., pag. 39 ss., distingue questo approccio "funzionalista" al tema dei beni comuni, rispetto a quello più radicale che contesta l'adeguatezza degli attuali modelli di gestione "alla luce di un'analisi presupposta di matrice schiettamente ideologica", secondo la quale "i beni comuni non sono altro che l'espressione di un paradigma più generale - quello di "comune" tout court - posto in alternativa alla nozione di "pubblico", in quanto storicamente "degenerato"" da opzioni politiche di fondo "di ispirazione neoliberista e a vocazione "privatizzante"".

[34] Si tratta della definizione di amministrazione condivisa fatta propria da alcuni regolamenti comunali di più recente adozione, come ad esempio quello di Monza (delibera consiliare 21 marzo 2016, n. 15).

[35] Si tratta di formule invero innovative, che di rado si incontrano in testi normativi, sebbene rispondano a criteri generali e di buon senso che informano di sé l'attività amministrativa: ciò è piuttosto evidente con riferimento al principio dell'informalità, che trova parziale rispondenza nell'art. 1, legge 7 agosto 1990, n. 241, che impone alla pubblica amministrazione, "nell'adozione di atti di natura non autoritativa" di agire "secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente" (comma 1-bis) e che, soprattutto, fa divieto di "aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria" (comma 2). Anche i canoni della "inclusività e apertura", a mente dei quali "gli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni devono essere organizzati in modo da consentire che in qualsiasi momento altri cittadini interessati possano aggregarsi alle attività" (art. 3, lett. d, Regolamento di Bologna), costituiscono un'applicazione dei principi e delle regole di partecipazione al procedimento amministrativo previste dalla legge generale del 1990. Per altro verso, non mancano profili di novità. Il principio di "fiducia reciproca", lungi dal costituire mera duplicazione della tutela del legittimo affidamento, postula che "ferme restando le prerogative pubbliche in materia di vigilanza, programmazione e verifica, l'Amministrazione e i cittadini attivi improntano i loro rapporti alla fiducia reciproca e presuppongono che la rispettiva volontà di collaborazione sia orientata al perseguimento di finalità di interesse generale" (art. 3, lett. a, Regolamento di Bologna).

[36] Cfr., in tal senso, F. Giglioni, I regolamenti comunali per la gestione dei beni comuni urbani come laboratorio per un nuovo diritto delle città, cit., pag. 288.

[37] Così, G. Arena, Nuove risorse e nuovi modelli di organizzazione, cit., pag. 289.

[38] F. Giglioni, I regolamenti comunali per la gestione dei beni comuni urbani come laboratorio per un nuovo diritto delle città, cit., pag. 288, il quale, evidentemente, pone l'attenzione sulla formula letterale dei regolamenti: i beni comuni urbani sono quelli che "i cittadini e l'Amministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo" (art. 2, lett. a, Regolamento di Bologna; si tratta di una formula riportata in tutti i regolamenti comunali per l'amministrazione condivisa finora approvati) (enfasi aggiunta).

[39] Sul punto, ancora, F. Giglioni, I regolamenti comunali per la gestione dei beni comuni urbani come laboratorio per un nuovo diritto delle città, cit., pag. 293 ss.

[40] Art. 10, comma 7, Regolamento di Bologna e, in termini analoghi, art. 10, comma 7, Regolamento di Torino. Tale aspetto viene sottolineato, anche con riferimento al rilievo della posizione dei terzi, da L. Muzi, L'amministrazione condivisa dei beni comuni urbani: il ruolo dei privati nell'ottica del principio di sussidiarietà orizzontale, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributi al diritto delle città, cit., pag. 131 s., per evidenziare come i patti di collaborazione non implichino un arretramento del decisore pubblico, il quale è comunque chiamato, seppure con strumenti diversi rispetto a quelli tradizionali di tipo autoritativo, ad esercitare una corretta ponderazione degli interessi in campo.

[41] Si tratta di attività ed obiettivi ricompresi nella funzione di valorizzazione del patrimonio culturale, come definita dall'art. 6, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.

[42] Art. 1, comma 3, Regolamento di Bologna.

[43] Art. 5, comma 1, Regolamento di Bologna. Ai sensi dell'art. 5, comma 2, l'oggetto dell'accordo riguarda sia gli aspetti direttamente connessi all'attività di cura: dagli obiettivi, durata e modalità della collaborazione, con specifico riferimento alle modalità di fruizione collettiva dei beni che formano oggetto del patto, dalla vigilanza sull'andamento della collaborazione, alle forme di sostegno messe a disposizione dal Comune, che possono consistere anche nell'affiancamento del personale comunale nei confronti dei cittadini; sia i profili "patologici" del rapporto: le conseguenze di eventuali danni, patiti da terzi o dallo stesso comune in occasione o a causa degli interventi, la previsione di coperture assicurative e di riparto di responsabilità, le cause di esclusione di singoli cittadini per inosservanza del regolamento o del patto

[44] Secondo G. Sciullo, La gestione dei servizi culturali tra Codice Urbani e Codice dei contratti pubblici, in Aedon, 2018, 1, pag. 2 s., il rapporto tra le norme dei due codici (dei beni culturali e dei contratti pubblici) deve essere inteso in una logica di reciproca integrazione, attraverso "il normale dispiegarsi del criterio cronologico nel rapporto fra Codice Urbani e Codice dei contratti: effetto abrogativo delle disposizioni incompatibili del Codice Urbani, perché anteriori nel tempo, e covigenza delle discipline da essi dettate nel caso opposto".

[45] Altro profilo rilevante, come rammenta anche L. Muzi, L'amministrazione condivisa dei beni comuni urbani: il ruolo dei privati nell'ottica del principio di sussidiarietà orizzontale, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributi al diritto delle città, cit., pag. 132 ss., riguarda la posizione dei terzi che siano del pari interessati alla fruizione degli spazi e dei beni oggetto di patti.

[46] Non sembra invece venire in rilievo, in generale, il contratto di sponsorizzazione, che realizza una causa del tutto peculiare. Come si vedrà, del resto, ciò non ha particolare rilevanza sotto il profilo delle procedure di evidenza pubblica eventualmente da seguire.

[47] In tal senso, A. Travi, Il partenariato pubblico-privato. I confini incerti di una categoria, in, Negoziazioni pubbliche. Scritti su concessioni e partenariati pubblico-privati, (a cura di) M. Cafagno, A. Botto, G. Fidone, G. Bottino, Milano, 2013, pag. 10 s., il quale rileva come la categoria dei partenariati sia stata tradizionalmente "invocata per descrivere istituti del genere del project financing e della concessione, nelle quali si verifica l'affidamento a un imprenditore privato di un determinato intervento di interesse generale" e che solo successivamente abbia visto dilatarsi esponenzialmente le figure in essa ricadenti. Lo stesso elemento della partecipazione dei privati costituirebbe "elemento essenzialmente quantitativo e non qualitativo, e perciò difficilmente utilizzabile per discriminare rispetto ad altre figure", sicché il vero "valore innovativo della figura sarebbe rappresentato, in questa prospettiva, dal superamento di una distanza istituzionale fra amministrazione e privati".

[48] A ben vedere, tra gli interventi di sussidiarietà orizzontale, si annoverano anche quelli di cui al comma 1 dell'art. 189. Tuttavia, in questa sede, esso sembra avere poco rilievo in quanto riguarda solo la manutenzione di "aree riservate al verde pubblico urbano e gli immobili di origine rurale, riservati alle attività collettive sociali e culturali di quartiere".

[49] La circolare interpretativa del Mibac, 9 giugno 2016, avente ad oggetto "Sponsorizzazione di beni culturali - articolo 120 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 - articoli 19 e 151 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50", precisa che la proposta di sponsorizzazione non determina alcun obbligo di pubblicare l'avviso sul sito del ministero in quanto l'amministrazione è tenuta a vagliare, in via preliminare, l'ammissibilità della proposta sotto il profilo della compatibilità della controprestazione richiesta con le esigenze di tutela del bene culturale e della congruenza dell'offerta economica o dell'utilità prospettata, compiendo ogni sforzo "ragionevole e proporzionato" per colmare eventuali lacune o carenze della proposta suscettibili di miglioramento.

[50] In tal senso, v. A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione e profili di specialità, in Aedon, 2017, 1, pag. 8, la quale, anche con riferimento alla circolare ministeriale citata nella nota precedente, rileva come "al di là della terminologia utilizzata pare evidente che l'"interlocuzione" tra amministrazione e "aspirante" sponsor intervenuta prima della pubblicazione dell'avvio di sponsorizzazione sia riconducibile ad una vera e propria negoziazione pre-contrattuale finalizzata a predeterminare i contenuti essenziali del contratto prima della scelta dello sponsor". Diversamente, nel caso in cui l'iniziativa provenga dalla pubblica amministrazione o, sempre nell'ipotesi di iniziativa privata, qualora pervengano più proposte contrattuali, l'amministrazione potrà, rispettivamente, liberamente negoziare il contratto, senza esperire procedure comparative, o procedere ad un confronto concorrenziale minimo tra le imprese.

[51] L'art. 179, d.lgs. n. 50 del 2016, che, in apertura della Parte IV, detta la disciplina comune al partenariato pubblico privato, all'affidamento mediante contraente generale ed alle "altre modalità di affidamento" ivi contenute, dispone, al comma 1, che vi si applichino, con il limite della compatibilità, non solo la Parte I, recante principi generali della materia ed esclusioni, e le disposizioni transitorie e finali di cui alla Parte VI, ma anche le Parti III e V, aventi ad oggetto, rispettivamente, le procedure di affidamento delle concessioni di lavori e di servizi e quelle delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari. In aggiunta, il successivo comma 2 stabilisce l'applicabilità, sempre "in quanto compatibili", delle disposizioni in materia di calcolo delle soglie comunitarie e di affidamento dei contratti sotto soglia, di cui al Titolo I della Parte II, e - stante l'espresso rinvio all'art. 164, comma 2, la cui operatività era, peraltro, già desumibile dal ricordato richiamo alle norme sulle concessioni - delle disposizioni recate dal successivo Titolo II relative "alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione".

[52] Ulteriori oneri procedimentali sono poi previsti dall'art. 181, recante la procedura di affidamento specificamente concernente il partenariato pubblico privato. Sebbene sia ragionevole ritenere che anche il procedimento generale dei partenariati pubblico privato si applichi agli interventi di sussidiarietà ed al baratto amministrativo con il limite della compatibilità, nondimeno l'art. 181 disciplina un procedimento piuttosto complesso. Esso, una volta prescritto l'esperimento di procedure ad evidenza pubblica "anche mediante dialogo competitivo" (comma 1), dispone che a base di gara sia posto il progetto definitivo ed uno schema di contratto e di piano economico finanziario, "che disciplinino l'allocazione dei rischi tra amministrazione aggiudicatrice e operatore economico" (comma 2), imponendo una serie di valutazioni istruttorie riguardanti l'analisi del rischio economico dell'operazione ed i suoi impatti economico-sociali (comma 3).

[53] In tal senso, con specifico riferimento al baratto amministrativo, v. F. Giglioni, Limiti e potenzialità del baratto amministrativo, in Riv. trim. sc. amm., n. 2016, 3, pag. 9.

[54] Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. eee), d.lgs. n. 50 del 2016, il partenariato pubblico privato è "il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto con il quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici per un periodo determinato in funzione della durata dell'ammortamento dell'investimento o delle modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività consistenti nella realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un'opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connesso all'utilizzo dell'opera stessa, con assunzione di rischio secondo modalità individuate nel contratto, da parte dell'operatore".

[55] Come rilevato da G. Rossi, Diritto pubblico e diritto privato nell'attività della pubblica amministrazione: alla ricerca della tutela degli interessi, in Dir. pubbl., 1998, pag. 668, si assiste ad una "progressiva erosione degli istituti pubblicistici consistenti in privilegi delle pubbliche amministrazioni nell'attività contrattuale". I profili di specialità sono volti, soprattutto, a garantire la trasparenza, l'imparzialità e, in particolare, la par condicio degli operatori economici potenziali contraenti in funzione di una maggiore apertura al mercato.

[56] Mentre il ricorso al mercato per soddisfare gli interessi pubblici alla cui cura è preposta l'amministrazione, è dovuto, se non a deficienze, almeno ad una valutazione dell'amministrazione stessa di migliore perseguimento di tali esigenze, i patti di collaborazione, come ricorda G. Arena, Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, cit., pag. 297, non suppliscono a mancanze ma intendono creare un valore aggiunto e nuovo nell'"affrontare meglio, insieme, la complessità delle sfide che il mondo attuale pone a tutti, amministrazioni pubbliche e cittadini" (enfasi aggiunta). Parimenti, riproponendo un'evocativa immagine di F. Giglioni, I regolamenti comunali per la gestione dei beni comuni urbani come laboratorio per un nuovo diritto delle città, cit., pag. 288, si può dire che, a differenza del paradigma dell'amministrazione condivisa, la logica sottesa alla figura del partenariato non "si preoccupa di "accogliere" le esperienze sociali", ma "di dare ordine alla società", nel solco della tradizionale dicotomia autorità-libertà. A conclusioni simili, perviene anche M.V. Ferroni, Le forme di collaborazione per la rigenerazione di beni e spazi urbani, in Nomos, 2017, 3, pag. 6 ss., attraverso la riconduzione dei patti di collaborazione ad una logica di sussidiarietà, necessariamente integrata dal principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.

[57] Simili considerazioni sono svolte anche da F. Giglioni, Limiti e potenzialità del baratto amministrativo, cit., pag. 10. All'art. 190, d.lgs. n. 50 del 2016, è stabilito che gli enti territoriali individuano riduzioni o esenzioni di tributi "corrispondenti al tipo di attività svolta dal privato o dalla associazione" e "in relazione alla tipologia degli interventi". Peraltro, il baratto amministrativo, nella sua versione di cui all'art. 24, d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. con modif. dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, precedente al suo inserimento nel codice dei contratti pubblici, è stato oggetto di attenzione da parte della Corte dei conti. La sezione regionale di controllo per l'Emilia-Romagna, nel fornire parere al Comune di Bologna, ha individuato alcune criticità di tale strumento, non tutte recepite dal legislatore del 2016. In particolare, sotto questo ultimo aspetto, va segnalato che la necessità, emersa dal parere del giudice contabile, di concepire l'agevolazione fiscale come limitata nel tempo, non ha trovato seguito nell'art. 190. Inoltre, è stata criticata la prassi di talune amministrazioni di applicare le agevolazioni fiscali a soggetti debitori fiscali: v. Corte conti, Emilia-Romagna, contr., 23 marzo 2016, n. 27/2016/PAR; nello stesso senso, Id., Veneto, contr., 21 giugno 2016, n. 313/2016/PAR, nonché Id., Lombardia, contr., 6 settembre 2016, n. 225/2016/PAR.

[58] Peraltro, mette conto rilevare che non mancano opinioni secondo le quali appare insoddisfacente tanto l'opzione contrattual-privatistica, che quella pubblicistica dell'accordo sostitutivo del provvedimento, qualificando i patti come espressione di una logica "a geometria variabile" ed evocando un "neocontrattualismo selettivo", idoneo a prevenire conflitti e ad esaltare le capacità di autogoverno delle autonomie locali: in tal senso, v. P. Michiara, I patti di collaborazione e il regolamento per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani. L'esperienza del Comune di Bologna, in Aedon, 2016, 2, pag. 10 ss. Tuttavia, ci si rifà alla lezione di Salvatore Pugliatti secondo il quale: "Ogni crisi nel campo del diritto riconduce lo studioso alla distinzione tra diritto pubblico e diritto privato: e quando più acuta è la crisi, i più inclinano a negare la distinzione; cioè si fermano alla superficie, e dimenticano che l'esigenza razionale del diritto come ordinamento è nella dinamica dei due termini: pubblico e privato. Infatti, negata la distinzione, si dissolve il diritto: tutto pubblico, espressione di forza non controllata né limitata di chi detiene il potere; tutto privato, organismo senza la forza di un potere - quello, privo di garanzia, questo, privo di vitalità". Così, S. Pugliatti, voce Diritto pubblico e diritto privato, in Enc. dir., XII, Milano, pag. 696 s., il quale ivi trascrive fedelmente il preludio della Prefazione ai suoi Istituti del diritto civile, I, Milano, 1943. Il passo è, significativamente, citato anche da G. Rossi, Diritto pubblico e diritto privato nell'attività della pubblica amministrazione: alla ricerca della tutela degli interessi, cit., pag. 678.

[59] Cfr. art. 1, comma 1, Regolamento di Bologna. Come noto, secondo il principio di sussidiarietà, "Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale" (art. 118, quarto comma, Cost.).

[60] Art. 3, lett. a, Regolamento di Bologna.

[61] Art. 4, comma 5, Regolamento di Bologna.

[62] Sul punto può venire in soccorso anche la giurisprudenza amministrativa che, seppure in un contesto privo del referente normativo rappresentato dal regolamento per l'amministrazione condivisa, si è trovata a conoscere di una fattispecie dalla struttura parzialmente analoga a quella dei patti di collaborazione. Si tratta di una delle sentenze che sono intervenute nella vicenda dell'assegnazione di una sala cinematografica romana, la Sala Troisi, riconosciuta di interesse storico-artistico sin dal 1984. Essa, versando in stato di abbandono, è stata assegnata dal Comune proprietario dell'immobile ad una associazione perché si occupasse del suo restauro e vi svolgesse attività di interesse socio-culturale. I provvedimenti con cui l'amministrazione capitolina ha, prima, riacquisito il cespite mediante autotutela possessoria e, poi, bandito una procedura di comparazione per l'affidamento del cinema sono stati impugnati dalla società detentrice dell'immobile. La pronuncia che in questa sede interessa, riguardante il bando, è stata emessa dal Tar Lazio, Roma, sez. II, 6 aprile 2016, n. 4158. In tale occasione il tribunale amministrativo romano ha ritenuto legittimo il bando che limitava la partecipazione alla procedura ai soli enti senza scopo di lucro in quanto si trattava di una concessione non rientrante nell'ambito di applicazione dell'allora vigente codice degli appalti, ma affidata ai sensi dell'art. 12, legge n. 241 del 1990. Ovviamente, la differenza più significativa con la fattispecie in esame è che l'affidamento non è seguito ad un confronto collaborativo tra decisore pubblico ed ente associativo privato. Ulteriore conferma viene dalla giurisprudenza contabile, che, prima del suo inserimento nel nuovo codice dei contratti pubblici, riconduceva il baratto amministrativo sotto l'art. 12: v., oltre ai citati pareri, Corte conti, Emilia-Romagna, n. 27/2016/PAR; Id., Veneto, n. 313/2016/PAR; Id., Lombardia, n. 225/2016/PAR; anche Id. Molise, contr., 21 gennaio 2016, n. 12/2016/PAR. Conferma simile assunto F. Giglioni, sub Art. 12. L'obbligo di predeterminazione dei criteri per i provvedimenti attributivi di vantaggi economici, in Codice dell'azione amministrativa, (a cura di) M.A Sandulli, 2ª ed., Milano, 2017, pag. 680 s.

[63] Come ricorda F. Giglioni, sub Art. 12. L'obbligo di predeterminazione dei criteri per i provvedimenti attributivi di vantaggi economici, cit., pag. 670 s., all'art. 12 si ricollegano i principi generali, anche di valenza costituzionale, che conformano l'azione amministrativa sia sotto il profilo delle garanzie (imparzialità, trasparenza, legalità, affidamento legittimo, prevedibilità e certezza delle decisioni, rafforzamento delle tutele), sia sotto il profilo dell'efficienza (buon andamento).

[64] Evidentemente, le due qualificazioni - provvedimento attributivo di vantaggi economici dal punto di vista sostanziale, accordo sostitutivo sotto l'aspetto formale - sono del tutto compatibili ed integrabili in un unico atto amministrativo, a maggior ragione in seguito alla legge 11 febbraio 2015, n. 15 che ha eliminato la riserva di legge recata dall'art. 11 in relazione agli accordi sostitutivi. Attualmente, dunque, qualsiasi procedimento, tranne quelli di cui all'art. 13, può concludersi con un accordo tra amministrazione e privato. A tal proposito, osserva B.G. Mattarella, Il procedimento, in Istituzioni di diritto amministrativo, (a cura di) S. Cassese, 5ª ed., Milano, 2015, pag. 338, come possano esitare in un accordo non solo i procedimenti (come quelli concessori) che riflettono un incontro di volontà tra amministrazione e privato, ma anche procedimenti dai ben più decisi caratteri autoritativi, come quelli sanzionatori. La letteratura in tema di accordi amministrativi è molto vasta. In questa sede, senza pretese di esaustività, possono essere ricordati i contributi di F. Fracchia, L'accordo sostitutivo, Padova, 1998; E. Bruti Liberati, voce Accordi pubblici, in Enc. dir. (agg.), Milano, 2001; G. Greco, Accordi amministrativi fra provvedimento e contratto, Torino, 2003; M. Renna, Il regime delle obbligazioni nascenti dall'accordo amministrativo, in Dir. amm., 2010, pag. 270 ss.

[65] Art. 10, comma 1, Regolamento di Bologna.

[66] Come ricordato da G. Rossi, Principi di diritto amministrativo, 3ª ed., Torino, 2017, pag. 370, l'accordo sostitutivo di provvedimento è ammissibile solo in presenza di potere discrezionale dell'amministrazione, essendo difficilmente configurabile la stipulazione di simili accordi là dove il soggetto pubblico sia intestatario di poteri vincolati. Precisa, poi, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, 17ª ed., (a cura di) F. Fracchia, Milano, 2015, pag. 565 s., che gli accordi (sostitutivi) costituiscono una delle due possibili forme dell'esercizio del potere autoritativo, insieme agli atti in senso stretto; diversamente, quando la p.a. agisca in modo non autoritativo, essa è assoggettata alle norme di diritto privato.

[67] Art. 3, lett. d, Regolamento di Bologna.

[68] Art. 10, comma 3, Regolamento di Bologna; si vedano, altresì, gli artt. 7 ss., Regolamento di Torino, dai quali emerge la centralità del ruolo del soggetto pubblico nei procedimenti di adozione dei patti.

[69] Tale profilo è rilevato anche da G. Calderoni, I patti di collaborazione: (doppia) cornice giuridica, in Aedon, 2016, 2, pag. 2.

[70] In tal senso, G. Falcon, voce Convenzioni e accordi amministrativi, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, 1988.

[71] Il dato viene riportato da L. Muzi, L'amministrazione condivisa dei beni comuni urbani:il ruolo dei privati nell'ottica del principio di sussidiarietà orizzontale, cit., pag. 132, la quale, a titolo esemplificativo, cita anche l'inserimento di un simile recesso nella disciplina regolamentare adottata dal Comune di Fano (art. 2, comma 1, lett. e).

[72] Art. 10, comma 7, Regolamento di Bologna.

[73] In letteratura, v. M.V. Ferroni, Le forme di collaborazione per la rigenerazione di beni e spazi urbani, cit., pag. 6 ss., che ritiene in rapporto di necessario collegamento la sussidiarietà orizzontale ed il principio di solidarietà nell'ambito dei patti di collaborazione.

[74] Il riferimento è, in particolare, a G. Rossi, Diritto pubblico e diritto privato nell'attività della pubblica amministrazione: alla ricerca della tutela degli interessi, cit., pag. 671 ss.

[75] A questo proposito, viene in rilievo la formula, proposta da A. Massera, Lo Stato che contratta e che si accorda, Pisa, 2011, pag. 562, secondo cui l'art. 11, legge n. 241 del 1990, costituisce una norma cornice, modello generale degli accordi tra autorità pubbliche e cittadini.

[76] L'implicito riferimento è agli studi sul diritto delle città o, più in generale, sul diritto pubblico informale che di recente ha coinvolto anche la dottrina italiana: sul punto, v., in particolare, F. Giglioni, Il diritto pubblico informale alla base della riscoperta delle città come ordinamento giuridico, in Riv. giur. ed., 2018, pag. 3 ss.; Id., Order without law in the experience of Italian cities, in Italian Journal of Public Law, 2017, pag. 291 ss.; C. Iaione, Governing the urban commons, ivi, 2015, pag. 170 ss.

 



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