La cultura e il ruolo del pubblico
La sussidiarietà in concreto: pubblico e privato negli spazi pubblici [*]
Intervista di Giorgio Calderoni e Gianni Saporetti a Marco Cammelli
Subsidiarity in reality: public and private and public
spaces
Public spaces represent a highly significant test for the difficulties and
the contradictions of urban systems. The drastic reduction of public resources
and the widening of the process of social fragmentation make the public space
a sort of no man's land between, on one side, public authorities which
are not anymore capable of taking care of it and, on the other, privates who
take refuge in their domestic space. This dramatic conclusion might only be
avoided if able to identify the subjects and the interests - individual, collective
and civic - involved in this process. These subjects and interests have been
so far sacrificed by the schematic contraposition of "public vs. private"
and only by favouring their action, it might be possible to generate critical
energies and resources.
G.C. e G.S.: Il tema di cui vorremmo parlare con lei è quello del senso civico, della possibilità che il cittadino, anche a livello individuale, svolga un'attività pubblica, e del rapporto che ci può essere fra l'impegno del cittadino e la città comè diventata oggi, con la sua conformazione urbanistica.
M.C.: L'argomento è legato alla centralità degli spazi pubblici, che sono ciò che denota la città. La città è fatta di spazi pubblici, altrimenti sarebbe o aperta campagna o proprietà privata organizzata in vario modo. Solo gli spazi pubblici determinano la città, le sue funzioni di integrazione, di connessione, di coesione, le funzioni di scambio, di governo, di legittimazione, eccetera. Qual è il problema? Che i forti processi di scomposizione e di frammentazione dei sistemi urbani e sociali attuali, frutto di dinamiche globali, hanno comportato una fortissima privatizzazione e accentuazione dell'individuo come singolarità e, quindi, un arretramento nella fruizione degli spazi pubblici, meno presidiati dal cittadino. Secondo me il problema del degrado, della difficoltà di presidiare gli spazi pubblici, di manutenerli, ha come antecedente questa migrazione nel privato di attività, di rapporti, di contatti, e anche di lavori, perché si lavora anche a casa. Questo, quindi, è un problema endemico che sarà difficile affrontare, tanto più in una situazione in cui le risorse si riducono. Aggiungiamo il fatto che per popolazioni urbane come immigrati e studenti, che non hanno alternative all'uso dello spazio pubblico, tutto questo può avere conseguenze sulla coesione sociale. La cura dello spazio pubblico diventa quindi un problema fondamentale proprio per bilanciare processi di disgregazione. Un problema grave, che tende ad aggravarsi, a fronte di risorse che si riducono. Sì, sembrerebbe una missione sostanzialmente impossibile e probabilmente lo è. Ma se c'è una speranza di poterlo aggredire, ha come premessa indispensabile quella di inquadrare bene il problema, capendo che cosa è in gioco, in modo da poter distribuire diversamente gli interventi e, pure, di agire sui mezzi e sulle forme di intervento. Così come nel welfare in generale, se c'è una cosa temibile è questa specie di gioco a somma zero: se il pubblico arretra, rimane uno spazio vuoto, sostanzialmente primitivo, e allora chi ha quattrini se la caverà per conto suo, sennò pazienza; se il pubblico arretra, cioè, arretra la garanzia del welfare e della protezione dei diritti sociali. La via d'uscita è proprio quella, invece, di scoprire, promuovere e sostenere altre forme di sostegno e di possibili soddisfazioni dei diritti sociali che non dipendano dallo Stato. Ecco, anche per quel che riguarda gli spazi pubblici, ritengo che il problema sia questo: vedere quali altre presenze e quali altre forme di intervento possano esserci.
G.C. e G.S.: Pensa a risorse del privato?
M.C.: Sì, le altre forme d'intervento sono del privato. Ma non parlo tanto della funzione che svolge un privato come le fondazioni bancarie, che hanno per missione di occuparsi di queste cose e dispongono di risorse. A questo proposito, fra l'altro, non bisogna dimenticare che mezzo paese è privo di fondazioni, a sud di Roma ce ne sono solo tre, e anche di mezzi ridotti, mentre nella sola Emilia-Romagna ce ne sono 18 o 19, delle quali alcune piccolissime, altre piccole, alcune medie e alcune grosse. Mi riferisco piuttosto a due importanti aree, quella del "privato-privato", proprio del singolo intendo, e quella del "privato comunità". Sono aree nelle quali, a mio avviso, possono essere individuate con accortezza delle risorse, delle opportunità. Alcune di queste opportunità dipendono da dati puramente egoistici, ma viva l'egoismo se serve. Per esempio: certamente c'è un interesse specifico del proprietario di un immobile a evitare che la sua area degradi. Quindi non vedo per quale motivo questa esigenza non possa essere messa a frutto del pubblico. Poi il modo e il come si può discutere. Un altro esempio: così come esistono forme di contributo per raggiungere certi obbiettivi, ad esempio perché arrivi la metropolitana, non vedo il motivo perché anche il contrasto al degrado non possa comportare forme di cointeressamento del privato, che altrimenti si vedrebbe penalizzato nel valore del proprio patrimonio. Sia pure per un motivo egoistico, il cittadino può essere disponibile a presidiare un bene pubblico: la piazza antistante, la via, i portici attorno alla sua attività o alla sua abitazione. Credo, cioè, che non vada sottovalutato l'aspetto virtuoso che possono avere elementi collegati alla naturale e legittima cura, da parte dei privati, dei propri interessi, che non necessariamente sono egoistico-negativi o depravati. Gli interessi possono essere utili, possono far girare un meccanismo positivo; sono un po' come l'asino col bandolo, quello gira e ti fa girare anche le cose. Questo è un primo filone, quello detto anche delle "broken-windows", del contrasto alla prima finestra rotta: la prima finestra rotta ne crea altre dieci, dieci ne fanno cento, dopodiché il tuo immobile da un milione di euro ne vale 600 mila.
G.C. e G.S.: Lei parlava anche di un'appartenenza civica...
M.C.: Poi c'è una seconda possibile forma di energia da utilizzare e valorizzare, che riguarda invece l'appartenenza civica, cioè forme non più solo privatistiche individuali, ma allargate, collettive, di gruppo, che un tempo si occupavano storicamente di una parte del territorio e che forse vanno riscoperte. Sono forme di tutela dell'ambiente e dei beni pubblici che possono gravare sui proprietari, come lo scolo dell'acqua, lo sgombero della neve, il taglio dell'erba che nasce dalle prode e che rischia di nascondere alla vista chi c'è dietro la curva. Sono tutte cose che nascono da un'appartenenza proprietaria, ma anche civica, e che hanno piena legittimazione costituzionale. Ecco, penso che anche queste possono tornare di grande attualità proprio per i problemi di cui stiamo parlando.Infine, in particolare nella parte urbana, andrebbero riscoperte le appartenenze di quartiere, inteso non già come circoscrizione, ma il quartiere alla Vasco Pratolini, il quartiere via, il quartiere enclave sociale, la parrocchia, che avevano esattamente costumi e forme di manutenzione propri. Ricordo sempre gli addobbi a Bologna, non so se si chiamino così in ogni altra città: periodicamente c'erano le feste di una parrocchia, con le processioni che giravano per tutto il territorio della parrocchia e in queste occasioni le facciate delle case venivano ridipinte ed era motivo di disdoro non farlo, perché, se non altro, il tuo vicino lo faceva... Gli addobbi - mi pare che le cadenze fossero venticinquennali, ma ce n'erano anche di più ravvicinate - rappresentavano un'occasione, religiosa ma essenzialmente civica, in cui il bene privato veniva risistemato in funzione pubblica o quanto meno in funzione collettiva. Mi chiedo se anche queste non siano piste possibili da analizzare. Devo dire che qualche piccolo segno, in questo senso, mi pare di averlo colto nella legge 2/2009, in cui, all'art. 23 si parla proprio dei piccoli interventi di sistemazione di arredo urbano fatti dai proprietari. Il proprietario dice: "Io faccio questo", il comune ha un tempo breve per dire sì o no, il privato fa il lavoro a sue spese e poi queste vengono scalate dalle tasse. è una cosa interessantissima, proprio per le cose che stiamo dicendo, ma talmente sconosciuta che spesso nemmeno le amministrazioni comunali ne sono a conoscenza.
G.C. e G.S.: Non scontiamo innanzitutto un problema culturale? Sembra che il tema degli spazi pubblici sia affrontato, dal lato pubblico, in forma solo repressiva, con l'ordinanza del sindaco che vieta questo e quell'altro e, dal lato privato, con l'indifferenza e comunque con una passività diffusa. Se pensiamo a esempi come quelli di New York, in cui la sopraelevata non più utilizzata è rinverdita dai cittadini con giardini e orti privati...
M.C.: La domanda solleva interrogativi molto seri. Non so, intanto, se si possa parlare di queste cose in modo indifferenziato, perché, un tempo almeno, su questi aspetti c'erano significative differenze fra centro, nord e sud. Nel Mezzogiorno l'idea che dove finiva la porta di casa, una casa pulitissima, iniziava una terra di nessuno in cui poter buttar di tutto, è stata lungamente dominante. Che poi era la vecchia consuetudine di tutta l'Europa. Non dimentichiamoci che gli hotel particulier, i palazzi privati, nascono esattamente per creare, nella corte, uno spazio aperto pulito, perché nella strada non si poteva girare in quanto rovesciavano veramente di tutto. Nell'Inghilterra di Shakespeare era così. Lo spazio pubblico come luogo di condivisione pubblica è una conquista recente, dopo che per lungo tempo era stato il regno di spazzatura, cani randagi e malandrini. Ecco allora che, per avere uno spazio vivibile per far passeggiare le dame si fanno questi hotel con giardino interno curato. Il problema, quindi, di una concezione per cui fuori dell'uscio di casa mia c'è la giungla, di cui non mi interesso, ha radici lunghe e viene superata decisamente solo con la Rivoluzione francese, che porta alla grande scoperta degli spazi pubblici, dove si tengono assemblee, feste comuni, si erigono monumenti-simbolo. Negli spazi pubblici le persone unite dalla fraternità e dall'uguaglianza si trovano. Il nostro paese che, notoriamente, è stato toccato solo parzialmente dalla Rivoluzione francese, ha reagito in modo parziale. Ecco, io temo che questa visione del pubblico come luogo residuale fuori dalla porta di casa mia, sia ritornato in qualche modo d'attualità anche al centro nord in questi ultimi decenni di enfatizzazione dell'individuo e del ritorno al privato. Non vorrei esagerare, ma in fondo il Suv è il pezzo di privato blindato e munito che io uso per muovermi nello spazio pubblico e che unisce il mio spazio privato a un altro spazio privato. Una specie di fortino o di appartamento. Quindi, tornando al Mezzogiorno, la cosa è innegabile: anche se non in tutto il Mezzogiorno, resta molto diffusa la concezione per cui se uno spazio è di tutti non è di nessuno e quindi non è tutelato. Ma nel centro nord non era così. La caratteristica di Bologna era che il cittadino considerava suo anche il palo della luce e il cartello stradale, tant'è che segnalava quando era deteriorato. Non succede più, quindi qui è successo qualcosa.Come propensione del pubblico, tu dicevi che prevale sostanzialmente un approccio repressivo. Non sono totalmente d'accordo. Pensiamo alla grande stagione dell'effimero pubblico, con gli spettacoli in piazza. é un tentativo positivo di usare lo spazio pubblico. Oppure pensiamo a quella che ormai in una serie di comuni, anche importanti, è un'usanza: la manutenzione di una rotonda, di un'aiuola sponsorizzata da un'impresa privata. Sono modi di curare il verde pubblico.
G.C. e G.S.: Tu hai fatto cenno ai portici, sui quali c'è tutta una storia da raccontare...
M.C.: I portici sono un monumento giuridico a quello che stiamo dicendo e quindi è una cosa di straordinario interesse. Forse non tutti sanno che nascono da un abuso edilizio. Nel XII secolo, Bologna è sovrappopolata. L'espansione dello studio ha portato in città tanti studenti con le relative corti di servitori. Bologna, che era ridotta alle dimensioni di un piccolo borgo, improvvisamente rischia di esplodere. A ciò fa fronte l'inventiva e la disinvoltura tradizionale della popolazione che si ingegna ad allargare gli spazi, a fare delle soppalcature che permettano di guadagnare una stanza. Questo viene fatto prima con superfetazioni che danno sulla strada, rette da pali messi in trasversale, che puntano sul muro della casa; in un secondo tempo i pali vengono messi in verticale andando quindi a poggiare direttamente sul suolo pubblico e restringendo quindi la strada e lo spazio pubblico. Ancora in Strada Maggiore si vedono esempi preclari di questo. In poco tempo questo dato, da abuso individuale legato all'egoismo dei singoli, diventa una caratteristica morfologica della città e del suo stile di urbe, tant'è che la commissione dell'ornato (quella che si occupava di questi dati), già qualche decina di anni dopo il 1200, contrassegna questo come uno stile urbano da rispettare nelle nuove costruzioni. Conclusione: ciò che prima era occupazione di suolo pubblico diventa, poche decine di anni dopo, suolo privato messo a disposizione della circolazione pubblica. E tuttora è così: i portici sono un bene privato, dei proprietari delle case, quindi è un pezzo di proprietà condominiale a fruizione pubblica. Questo ha anche creato problemi enormi, ovviamente: in un caso si è andati addirittura all'origine dei principi giuridici del rapporto fra diritto scritto e diritto non scritto con pronunce di altissimo livello culturale. Tutto era nato dal fatto che un proprietario aveva rimosso dal portico un motorino, che non poteva starci. Essendo una proprietà privata può il privato decidere per la rimozione? Come tutti sanno, il privato dovrebbe rivolgersi al giudice per fare valere le sue ragioni, non può operare direttamente, direttamente può operare solo l'amministrazione pubblica, una delle cui caratteristiche è, per l'appunto, l'esecutorietà, ossia la possibilità di attuare forzosamente un mandato che un provvedimento ha definito. Per intenderci, il privato non può mettere le mani sul suo debitore dicendo: "Adesso mi dai i quattrini", sarebbe un reato, deve rivolgersi al giudice. Quindi il proprietario aveva perso la causa. Ma ha poi fatto ricorso, a non ricordo quale corte internazionale, ottenendo ragione in forza del diritto di tutelare la propria proprietà nel caso diventi difficoltoso farlo. La corte ha stabilito che, di fronte all'inazione del pubblico, il privato ha il diritto di muoversi in prima persona. Tutto questo per dire che l'infinita rete dei portici bolognesi è un enorme insieme di beni privati a fruizione pubblica, a dimostrazione eclatante che non ci sono solo l'area pubblica e l'area privata, ma c'è anche una zona di confine straordinariamente estesa e sconosciuta, che forse vale la pena indagare per determinare chi può fare che cosa e come utilizzare le risorse possibili.
G.C. e G.S.: Tornando un attimo all'aspetto più culturale, e anche di ideologia politica, l'identificazione fra statale e pubblico non continua a far grandi danni? Si dice "scuola pubblica" mentre è solo statale...
M.C.: La grande semplificazione pubblico/privato in realtà è frutto dello Stato ottocentesco, dello Stato liberale nato dalla Rivoluzione francese, che per demolire ciò che c'era precedentemente, affermò che tutto doveva stare nel binomio Stato-individuo e in mezzo niente. Un dato così schematico serviva a liberarsi di tutto il ciarpame, di tutti i vincoli, i lacci e i laccioli dei sistemi precedenti. Il fatto è che i vincoli non erano solo quelli feudali, c'era anche il diritto dei territori, delle città, che avevano un proprio ordinamento che non era dato dal parlamento ma dai luoghi stessi; infatti il principe non era un legislatore, ma un magistrato che faceva rispettare la legge che trovava. è con la Rivoluzione francese che chi detiene il potere è colui che dà la legge, non colui che si fa garante delle regole che trova. Questo è fondamentale perché, se non ricostruiamo questa enorme opera di demolizione che fa la Rivoluzione francese, che Napoleone poi estende dappertutto, e che genera le nostre istituzioni, non capiremo mai perché certe cose facciano tanta fatica a tornar fuori. Il perché sta appunto nel fatto che sono sepolte dallo spesso strato di cemento ideologico del binomio "Stato=pubblico" versus "singolo=egoistico-privato"; il pubblico generale, il singolo particolare, punto. E in mezzo non deve esserci niente perché ciò che è in mezzo frena lo Stato e frena l'individuo. Ecco perché, allora, la lotta contro i sindacati, contro le leghe, eccetera, perché alteravano il binomio. Questa è l'origine delle difficoltà in cui ci imbattiamo nell'affrontare la questione degli spazi pubblici.
G.C. e G.S.: La sussidiarietà, quindi...
M.C.: Sì, con modus in rebus però. Io sono contrario a certe forme di irenismo del sociale, della sussidiarietà. Sono forme che vanno riscoperte con molta cura, con molta attenzione, con molto discernimento. Pensiamo solo al fatto che ci sono zone del paese che perderemmo immediatamente e su questo non si può scherzare: lì la sussidiarietà è già in atto e non è esattamente virtuosa. Ma più in generale teniamo presente che queste forme di privato vanno bene se c'è una società forte e robusta, con valori propri. Voglio dire che l'autonomia deve avere una cornice condivisa e riconosciuta. Ecco, in una situazione come quella italiana, in cui questa precondizione è fragile, e si è mostrata assai più fragile di quanto molti di noi credessero, certamente "il pubblico" deve mantenere molte delle sue funzioni. Ma è un pubblico che comunque deve essere profondamente rivisto. Di qui anche le difficoltà della sinistra che non può predicare le virtù del pubblico quando poi non è in grado di farlo marciare nel modo dovuto. La fatica immensa per arrivare a varare qualche riforma amministrativa, e l'esito che poi hanno avuto, sono anch'essi elementi che hanno influenzato in modo decisivo discorsi e comportamenti. Le premesse di forme esasperate di individualismo primitivo, oltreché rozzo, sono in parte dovute alle difficoltà, non voglio dire della sinistra, ma certamente del riformismo, a metter mano al pubblico.
G.C. e G.S.: Le virtù civiche di cui abbiamo parlato possono trovare il loro supporto istituzionale nel federalismo, nell'avvicinamento, cioè, il più possibile della cosa pubblica al cittadino?
M.C.: La domanda è calzante e indica uno degli sviluppi auspicabili, e spero possibili, del discorso che stiamo facendo. Questa zona grigia, di integrazione, o "terza" rispetto al singolo privato e al pubblico (zona in cui un interesse generale è portato avanti da chi non è pubblico in quanto tale, ma è collegato alla collettività), richiede un modellamento del sistema istituzionale e delle sue istituzioni. Tra l'altro, non c'è bisogno di un cambiamento costituzionale perché abbiamo già il riconoscimento del principio di sussidiarietà, che ci dice che le istituzioni favoriscono i cittadini e i soggetti sociali che soddisfano esigenze di carattere generale. Questo modellamento, però, non può che essere diversificato da situazione a situazione perché le istituzioni devono avere forme, figure e azioni adeguate a rapportarsi alle diverse realtà, in alcuni casi prolungandosi, in altre arretrando. Quindi il discorso è molto complicato. E su questo, infatti, siamo a zero come pubblico, non abbiamo nessuno strumento di articolazione del discorso perché ancora una volta, a livello delle idee fondamentali, delle categorie mentali, siamo ossessionati dall'uniformità, che è stata prima quella dello Stato liberale e poi quella dei movimenti socialisti, l'eguaglianza, cioè, intesa come "tutto uguale", uniforme, che ovviamente è il contrario di quello che stiamo dicendo. Quindi, sì, sono convinto che se il pubblico non sa modellarsi, non sa seguire le pieghe della società, non sa aderire alla realtà, sarà sempre più in difficoltà di azione, ma anche, attenzione, di legittimazione. Aderire, però, vuol dire differenziarsi e, per differenziarsi, ci vuole autonomia. Autonomia e differenziazione sono connesse. D'altra parte, per differenziarsi non basta averne la possibilità e gli strumenti, occorrono anche regole del gioco condivise. E' il problema della "cornice" di cui si parlava anche prima. In questo senso il federalismo di cui si parla (chiamiamolo pure così, anche se di federalismo non ha nulla, sarebbe più corretto usare il termine "autonomia", un'autonomia più attrezzata perché coinvolgerebbe anche le risorse) è certamente una buona risposta. Noi abbiamo invece sempre sfiorato il discorso delle autonomie locali, rigorosamente guardandocene: si fanno le regioni e si accentra tutto il prelievo al centro, che è una delle contraddizioni più folli in assoluto; enfatizzo le autonomie locali ma poi in realtà i corpi dello Stato rimangono perfettamente identici nell'innervatura amministrativa, soprattutto nelle sue categorie mentali; pensiamo ai sacerdoti della corte dei conti e del consiglio di Stato, che ancora contano nella vita concreta dell'amministrazione e che rimangono assolutamente inalterati in un autocentramento profondamente vissuto e sentito. Quindi, in conclusione, credo che per queste cose ci sia bisogno di potersi differenziare, ma appena si apre il problema della differenziazione si apre quello delle regole, perché non posso differenziare senza definire esplicitamente quali sono i limiti oltre i quali non è più differenza ma frantumazione.
G.C. e G.S.: Quindi potrebbe essere questa la ragione profonda dell'immobilismo?
M.C.: Perché non abbiamo differenziato? Perché non siamo in grado di indicare con chiarezza le regole intoccabili. E così trasformiamo tutto in una specie di pastone che un po' tiene e un po' non tiene, ma ci esime dal compito di indicare con chiarezza quali sono le regole del gioco condivise. Ma questa è una cosa con la quale non si costruisce né lo Stato centrato né lo Stato decentrato. Questo è il problema familistico tribale tipicamente italiano dove è il gruppo che media. Oggi però, con questo sistema, noi rischiamo di perdere interi strati di popolazione: le giovani generazioni rispetto alle vecchie generazioni e gli immigrati rispetto agli italiani potranno coesistere con noi solo se ci sono regole chiare, condivise e rispettate. In una società polverizzata e di individui la regola dovrebbe essere quella dei paesi anglosassoni: tu sei libero ma se sgarri sei punito. La bandiera e la regola tengono insieme il melting pot americano.é questa la vera sfida che abbiamo di fronte. Purtroppo invece il nostro sistema non ha mai voluto esplicitamente giocare troppo sulle regole, in parte anche per la nostra formazione, perché in un paese cattolico le regole sono morbide, hanno mille eccezioni, mille possibilità di rientro. Abbiamo sempre optato per "il pastone" dell'uniformità. è per questo che non credo al progetto della Lega, perché nel momento in cui stressa il discorso del federalismo, dovrebbe essere in grado di definire le regole, ma quelle che propone sono dissocianti, il che fa cadere l'intero progetto federalista. Allora è chiaro che rimane solo la secessione, che, per fortuna, però, in Italia non passerà mai.
G.C. e G.S.: Governare una città oggi sembra un'impresa difficilissima. Anche "piccoli problemi" come conciliare l'abitudine a far tardi degli studenti con l'esigenza di silenzio dei residenti sembrano insolubili...
M.C.: Noi sappiamo pochissimo delle città. Esiste il Comune, che è la veste amministrativa della città, ma la città non sappiamo definirla pur sapendo benissimo cos'è. Ancora una volta le categorie mentali sono fondamentali perché non si possono vedere le cose se non le si guardano in un certo modo, avendo, cioè, a disposizione dei codici d'interpretazione e di lettura. Se questi non ci sono diventa tutto difficile. Noi, in realtà, dovremmo rifare tutta la strumentazione: le città non hanno più confini, non hanno più un territorio limitato, non hanno più una popolazione definita perché hanno molte popolazioni; le città hanno le popolazioni degli studenti, dei residenti, dei pendolari, di quelli che la usano semplicemente perché vengono una settimana all'anno a fare le fiere, degli uomini della business community, dei turisti, eccetera. Allora di quali popolazioni stiamo parlando? Le istituzioni sono costruite su basi completamente diverse, non conoscono questa complessità. Come dicevo, la veste giuridica è il Comune, ma è una veste straordinariamente antica, disegnata su tre elementi definiti: un luogo, una popolazione, un governo. Ma noi oggi non abbiamo né un luogo, perché la città è esplosa al di fuori, né una popolazione, perché ne abbiamo almeno quattro o cinque, né un governo perché è diviso fra mille centri e sedi, non solo in verticale, ma anche in orizzontale. Oggi non c'è decisione pubblica di una città che non cominci e non finisca altrove passando per mille sedi. Qualunque decisione non banale passa per una serie di livelli non cittadini. Se io ho i servizi pubblici in multiutilities quotate in borsa, ho a che fare con governi privati e non con governi pubblici. La città è movimento, è flussi, la città è qualcosa che si muove, come la strada o un fiume che ha bisogno di cose diverse che si scambiano; allora tutto ciò che è flusso è città in senso profondo. Ma il governo dei flussi (se prendiamo per flussi le reti di energie, le telecomunicazioni, le autostrade, l'alta velocità) nulla ha a che fare con i governi cittadini. Insomma, in sintesi, noi abbiamo ancora una veste giuridica e istituzionale totalmente sfasata rispetto alla realtà. E quei pochi vagiti d'innovazione che sono le città metropolitane, sono fondamentalmente concepiti come dei comuni grossi. Non a caso, essendo comuni grossi, urtano contro la provincia che dice: "Ma cosa vuoi fare?", facendo scoppiare una lite da pianerottolo con chi c'è già, mentre il discorso è totalmente diverso e non ha nulla a che fare con i comuni. Conclusione: se fossi sindaco di questa città, non so che cosa farei di fronte a coloro che protestano perché gli studenti fanno tardi e rumoreggiano, ma certamente saprei che questo problema è la ricaduta specifica di una serie di problemi delicati e complicati, uno dei quali attiene al fatto che in città abitano diverse popolazioni. è per questo che ritengo che le città dovrebbero avere uno statuto differenziato, dove vengono delegati anche poteri regolativi e dove si possono mettere a punto forme di equilibrio pubblico-privato che oggi sarebbero impensabili, perché sono formule da trovare all'impronta, di volta in volta, a seconda di come si mettono le cose. Se invece una parte la fa il prefetto, una parte la fa l'Enel, una parte la fa Tav, io sindaco sostanzialmente rispondo di cose di cui non decido. Ma ogni volta che c'è un potere che non ha responsabilità e responsabilità che non hanno poteri, c'è qualcosa che non funziona.
Note
[*] Il presente contributo è apparso nel maggio 2011 sulla rivista La Città, edita a Forlì.