Paesaggio
Il ruolo del paesaggio e del suo governo nello sviluppo organizzativo e funzionale del Ministero e delle sue relazioni inter-istituzionali [*]
Sommario: 1. Impostazione del tema. 2. Cenni sull'organizzazione ministeriale dalla fine dell'800 alla prima metà del '900. - 3. La costituzione del ministero per i Beni culturali e ambientali. - 4. Il primo regionalismo, la legge "Galasso", il decreto 112 del 1998 e il nuovo titolo V della Costituzione. - 5. Le riforme succedutesi negli anni successivi. - 6. Il Codice: l'ampliamento del ruolo e delle competenze delle soprintendenze. - 7. Il riequilibrio necessario: regole tecniche, piani paesaggistici, potenziamento degli organici, qualificazione e formazione, semplificazioni. 8. Nuovi spunti ricostruttivi: le "comunità culturali" della Convenzione di Faro del 2005 e la sussidiarietà orizzontale. - 9. Conclusioni. - Allegato. La gestione del personale ministeriale.
Landscape and its governance in organizational and functional evolution of Mibact and its inter-institutional relationships
The paper describes the evolution of
the ministerial organization from late 19th century, from the setting up of the
Ministry for Cultural and Environmental Heritage (1974-1975) to the development
of regional competences until the Code of Cultural Heritage and Landscape
(2004) and then, taking inspiration to the fundamental essay by Alberto
Predieri "Meaning of the constitutional law on protection of landscape"
(edited in 1969), reflects about the relationship between landscape and urban
planning to define the most suitable organization for effective management of protection
and valorization policies of the landscape.
Keywords: Landscape; Mibact; Organizational Reforms; Soprintendenza.
Nel trattare del ruolo del paesaggio e del suo governo nello sviluppo organizzativo e funzionale del ministero e delle sue relazioni inter-istituzionali muovo dalla considerazione che alla base del disegno organizzativo opera (o dovrebbe operare) la natura stessa (natura in senso giuridico, ma anche in senso fattuale e pre-giuridico) del "paesaggio" (di ciò che si intende per "paesaggio"). Non senza osservare che, alle volte, al contrario, sono le esigenze di distribuzione delle competenze (o di spartizione del potere) che - con un rovesciamento logico spesso foriero di problemi - pretendono di condizionare i "fatti" e di adeguarli alle proprie esigenze: alludo al noto dibattito su "tutela-valorizzazione" (endiadi unitaria o dicotomia errata?).
Ripercorrendo per sommi capi la storia dello sviluppo organizzativo dell'amministrazione (statale) preposta alla tutela del paesaggio, è agevole rilevare dunque come la struttura organizzativa si sia sempre posta e si ponga tuttora in raccordo diretto, quasi coessenziale, con l'idea, profondamente radicata nella nostra storia giuridica, della intima connessione tra paesaggio e patrimonio culturale, culminata nel secondo comma dell'art. 9 della Costituzione e nella Parte I del codice di settore del 2004, che ha formalmente sancito l'inclusione dei beni paesaggistici, al pari dei beni culturali, nella nozione unitaria di patrimonio culturale.
Considero poi che il collegamento con le strutture e le funzioni amministrative degli altri livelli di governo territoriali è sempre stato, sì, presente nella legislazione, anche meno recente (si pensi, ad esempio, alle Commissioni provinciali previste dall'artt. 2 della legge n. 1497 del 1939), ma ha assunto un significato nuovo (e, per certi versi, problematico) con il passaggio dal decentramento amministrativo al pluralismo autonomistico, al regionalismo, al quasi-federalismo.
Come ho sostenuto in varie sedi negli ultimi anni [1], la persistenza (e, in una recente fase normativa, coincidente con il primo decreto correttivo del codice di settore, il potenziamento) del ruolo amministrativo e gestionale dello Stato è frutto a sua volta del quadro (mutato nel 2001 anche a livello costituzionale) di distribuzione e ordine dei compiti e delle funzioni nella materia, se si vuole anche come "reazione" alla riconduzione di tali compiti e funzioni a livelli territoriali di governo forse non differenziati e non adeguati.
È comunque chiaro - questo, credo, sia il punto fondamentale da sottolineare e mettere in luce - che la disposizione distributiva e l'ordine organizzativo delle funzioni sono direttamente dipendenti dalla nozione giuridica di paesaggio che si ritiene di accogliere o di costruire.
Di questo Alberto Predieri - come dirò più ampiamente nelle conclusioni - era appieno consapevole ed è stato probabilmente il primo Studioso della materia, con il contributo del 1969 di cui oggi celebriamo il cinquantenario della pubblicazione, a porre in chiara evidenza questi nessi e queste prospettive.
In che modo, dunque, la nozione di paesaggio condiziona il disegno degli assetti organizzativi e la distribuzione delle competenze? In termini puramente indicativi e in estrema sintesi, è possibile - secondo me - distinguere due visioni fondamentali circa il modo di trattare giuridicamente il paesaggio: un primo modo - che io chiamo "territorialista" - che vede il paesaggio come un aspetto dell'urbanistica-governo del territorio; un secondo modo - che possiamo per convenzione chiamare "culturale" - che vede il paesaggio nella lettura tradizionale che lo associa al patrimonio culturale [2]. Per il "modo territorialista", assume un rilievo centrale il ruolo delle autonomie territoriali, secondo un criterio di sussidiarietà verticale, mentre il ruolo dello Stato è relegato, come nella materia della tutela dell'ambiente, in uno spazio ristretto di coordinamento e indirizzo generale, di formazione del "quadro" nazionale e delle linee guida e regole tecniche generali di settore (lo Stato fa solo la "teoria", ma non ha funzioni e compiti nella pratica attuazione); per il "modo culturale" il paesaggio può, invece, assurgere ad autonoma "materia" e deve ammettersi un ruolo amministrativo e gestionale dello Stato, attraverso i suoi uffici periferici, oltre il ruolo di regolazione generale e uniforme del settore a livello nazionale (lo Stato mantiene un suo ruolo attivo e decisivo non solo nella teoria, ma anche nella pratica).
Questo discorso si lega alla dialettica "sussidiarietà verticale - differenziazione - adeguatezza - sussidiarietà orizzontale" dell'art. 118 Cost. Ho rilevato in altra sede [3] come il confronto tra i due diversi approcci al tema della tutela del paesaggio (detto in altri termini, il modello della eccezione del patrimonio culturale e quello della gestione sostenibile dello sviluppo del territorio) implichi, sullo sfondo, una questione ancor più generale ed essenziale, che riguarda quale modello di diritto amministrativo sia da prediligere nella cura degli interessi pubblici ambientali e, in particolare, paesaggistici. Quest'ultimo tema intercetta a sua volta le questioni, attualissime in tutto il dibattito di diritto amministrativo, della semplificazione, da un lato, e, dall'altro, dell'alternativa (o della ricerca del giusto punto di mediazione) tra proceduralismo, consensualismo, localismo, legittimazione politica delle decisioni e (dall'altro lato) sostanzialismo, autoritatività, centralismo, legittimazione tecnica delle scelte (tema cui si riconnette altresì la questione, anch'essa essenziale e viepiù attuale, dopo le riforme del procedimento del 2015, se le scelte valoriali, riferibili all'ambito dello jus, debbano essere desunte anche in via interpretativa dal sistema, o debbano, quanto meno, essere compiute dal legislatore, oppure debbano, invece, essere rimesse al procedimento e alla conferenza di servizi).
Nella tutela del paesaggio, insomma, forse è più importante stabilire chi fa tutela, ancor più che stabilire come si fa la tutela e in che cosa essa deve consistere. O, meglio, è pregiudiziale ad ogni altra considerazione, sul piano logico-giuridico, la corretta definizione dell'oggetto e della funzione (che cos'è il "paesaggio" e in che cosa deve consistere la sua tutela); da tale premessa logico-giuridica deve seguire coerentemente una scelta sui mezzi, sul come e sul chi deve esercitare la funzione (l'organizzazione, il riparto delle competenze); ma, agli effetti pratici, stabilire chi esercita la funzione di tutela può nella realtà delle cose fare la differenza.
Le considerazioni sopra svolte sulla polisemia della nozione di paesaggio spiegano il dissidio insanabile tra la lettura giuridica del tema del paesaggio - che tende a distinguere e a differenziare (la nota teorica delle tutele parallele degli interessi differenziati) [4] - e le letture meta-giuridiche, urbanistica, dell'architettura, ambientale (in senso ampio), ma anche storica, antropologica, ermeneutica, semantica, filosofica, entrambe (le suddette letture metagiuridiche), che tendono a unire, convergenti, cioè, sia pur muovendo da presupposti diversi e pervenendo a soluzioni organizzative opposte, nella convinzione della necessità di una visione unitaria, integrale e integrata, olistica, sistemica, interdisciplinare, onnicomprensiva del paesaggio, e che tendono dunque a unificare e a cumulare in capo a un unico centro decisionale tutta la competenza in materia di paesaggio (i primi, i "territorialisti", guardando al comune e alla regione; i secondi, i "culturalisti", pensando a un unico super-ministero statale, che fonda insieme Ambiente, Beni culturali e Infrastrutture, oppure alla vecchia idea gianniniana di creare un'apposita amministrazione autonoma dello Stato, una sorta di Agenzia speciale autonoma e indipendente, in luogo di un apposito ministero [5], oppure alla rete delle soprintendenze come a un potere diffuso sul territorio, una sorta di "magistratura tecnica", dove l'autonomia tecnico-scientifica si eleva a vera e propria autonomia e indipendenza, anche al di fuori dei circuiti di indirizzo e di responsabilità politica governativo-parlamentare). Insomma, la questione centrale, che si ripropone costantemente e che resta irrisolta, è data dall'alternativa tra l'idea "un territorio, una disciplina, un'autorità competente" [6] e l'idea delle tutele parallele degli interessi differenziati, variamente declinata, che fa perno, invece, sulla differenziazione delle competenze come riflesso necessario della diversità dei valori-beni-interessi (spesso in conflitto tra loro) espressi dalla medesima porzione di territorio.
La risposta del Predieri, nel fondamentale contributo del 1969, è nota e risulta attualissima: "14. Dalla collocazione nell'ambito della materia della tutela del paesaggio, dell'urbanistica come sub-materia, e comunque dalla nozione di tutela del paesaggio accolta, deriva che per il combinato disposto dell'art. 9, 2° comma della Costituzione, e dell'art. 9, 1° comma della Costituzione, ad una regolazione unitaria degli interventi umani sul territorio, che modificano il paesaggio il quale va tutelato nella sua unitarietà, deve corrispondere un'organizzazione dell'apparato statale improntata al principio del buon andamento e dell'efficienza, intesa come "adeguatezza o idoneità a raggiungere il risultato voluto; potere adeguato, effettività, efficacia". Al fine costituzionalmente imposto di una tutela globale del territorio dovrebbe corrispondere un'organizzazione tale da garantire questa globalità".
Di questi problemi, centrali, si mostra consapevole la Carta del paesaggio, predisposta su iniziativa del Segretariato generale del ministero a cura dell'Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio all'esito dell'elaborazione maturata nel corso degli Stati generali del paesaggio svoltisi in Roma nell'ottobre 2017, presentata il 14 marzo 2018 dal Sottosegretario di Stato con delega al paesaggio On.le Borletti Buitoni [7]. Il primo capitolo della Carta del paesaggio, intitolato Promuovere nuove strategie per governare la complessità del paesaggio, muovendo dalla consapevolezza che "l'azione di tutela paesaggistica si innesta nelle diverse politiche pubbliche, di settore e di governo del territorio, legate all'ambiente, all'agricoltura, alle infrastrutture, alla pianificazione", rileva come "Per governare i cambiamenti del paesaggio e gestirne la complessità occorrono, quindi, una visione condivisa di lungo periodo e una gamma di strumenti diversi, non solo normativi e procedurali, che attraversino tutte le politiche pubbliche i cui effetti ricadano sul paesaggio. Le azioni proposte per raggiungere questo primo obiettivo mirano al rafforzamento dell'autonomia giuridica del concetto di paesaggio, ma anche all'assunzione di procedure condivise per l'attuazione di politiche di pianificazione e di gestione integrata e coordinata del territorio".
Insomma, la domanda - essenziale e strategica - che scaturisce dal tema del ruolo del paesaggio e del suo governo nello sviluppo organizzativo e funzionale del ministero e delle sue relazioni inter-istituzionali è la seguente: qual è la struttura organizzativa e la distribuzione delle competenze che possono meglio assicurare e garantire un alto livello di tutela del paesaggio?
Ma può essere utile ripercorrere velocemente i passaggi salienti dell'evoluzione storica dell'organizzazione amministrativa e della distribuzione delle competenze in materia di paesaggio, per capire le ragioni dello stato attuale delle cose e per provare a immaginare possibili scenari evolutivi.
2. Cenni sull'organizzazione ministeriale dalla fine dell'800 alla prima metà del '900
In un'interessante relazione presentata nel corso della cerimonia di intitolazione a Giovanni Spadolini del salone dell'ex Consiglio nazionale, svoltasi nella sede del Collegio romano del ministero, in Roma, il 4 agosto 2016, il Prof. Melis così tratteggiava, in poche, efficaci parole, le linee evolutive più risalenti dell'organizzazione ministeriale sul finire del XIX secolo (a partire dall'istituzione, nel 1881, della "Direzione generale di Antichità e Belle Arti" del ministero della Pubblica istruzione): "Nel 1882 Baccelli promosse il primo ruolo unico degli impiegati: 388 posti distinti in personale tecnico e amministrativo. Custodi, guardie, bidelli, inservienti; ma anche ispettori, architetti e topografi, disegnatori, esperti in musei. Fiorelli dirigeva l'apparato con polso sicuro. Nel 1889 fu lui a volere 12 Commissariati regionali per le antichità e le belle arti. Nel 1895 il personale venne distinto tra addetti ai monumenti da una parte, e alle gallerie, musei e scavi dall'altra. Del 1902 venne la prima legge per la conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e d'arte, nel 1903 fece seguito quella sull'esportazione di oggetti di scavo e di altri oggetti di rilevanza archeologica e artistica. Dal 1907 gli uffici locali, attivi sul territorio, presero il nome e la struttura di soprintendenze. Del 1909 è la legge Rosadi, il punto più alto dell'intervento giolittiano, lucida anticipazione di un disegno virtuoso che poi purtroppo si interruppe" [8].
Le soprintendenze sono state istituite nel 1904 (con il regio decreto n. 431 del 17 luglio 1904). La disciplina è stata poi definita dalla legge n. 386 del 27 giugno 1907. Hanno ereditato le funzioni degli Uffici regionali per la conservazione dei monumenti, istituiti nel 1890 [9]. La legge del 1907 aveva distinto le soprintendenze nei tre (oggi diciamo tradizionali) settori: soprintendenze alle antichità, soprintendenze ai monumenti e soprintendenze alle gallerie. Erano in numero di 47 (14 per gli scavi e le antichità, 18 ai monumenti, 15 alle gallerie e oggetti d'arte), variamente distribuite sul territorio (secondo un prevalente criterio di competenza regionale).
Con la riforma del 1923 (regio decreto 31 dicembre 1923, n. 3164, Nuovo ordinamento delle Soprintendenze alle opere di antichità e d'arte) vennero ridotte da 47 a 25 (la riforma si inseriva nella più generale riforma della pubblica amministrazione, già allora ispirata a criteri che oggi definiremmo di spending review) e articolate in due tipi: soprintendenze alle antichità e soprintendenze all'arte medievale e moderna (che riunivano quelle ai monumenti e quelle alle gallerie). Vi erano poi alcune soprintendenze uniche, che cumulavano le competenze dei primi due tipi [10]. Il personale direttivo, con questa riforma diretta all'efficienza e allo snellimento dell'amministrazione, si ridusse da 145 a 133 unità (ben 267 funzionari ed agenti di ruolo vennero dispensati dal servizio [11]).
Le soprintendenze ai monumenti vennero ad assumere, con la legge "Croce" 11 giugno 1922, n. 778, anche le competenze attuative di questa nuova legge in materia di paesaggio.
Peraltro esistevano già prima della legge Croce l'idea (e una prassi) di una tutela ambientale dei beni culturali (per usare la formula efficace poi contenuta nell'art. 31 del d.p.r. 3 dicembre 1975, n. 805, recante la disciplina dell'Organizzazione del ministero per i Beni culturali e ambientali). Se ne ha una prova evidente leggendo D'Amelio [12], che dimostrava come la legge Rosadi del 1909, ancorché "monca" delle disposizioni sul paesaggio, che pure erano state proposte, ma non approvate per l'opposizione del Senato, fosse in realtà senz'altro applicabile anche al "paesaggio storico" italiano, e ciò proprio in forza della stretta commistione, sul territorio, tra monumenti culturali e naturali, tra cose di interesse storico e artistico e architettonico e cose di interesse paesaggistico. Si può ritenere che, già allora, la tutela dei monumenti comprendesse anche la tutela del loro contesto paesaggistico (almeno sotto il profilo delle prescrizioni di tutela indiretta; si noti che l'art. 14 della legge del 1909, come sostituito dalla legge n. 688 del 1912, art. 3, già prevedeva che Nei luoghi nei quali si trovano monumenti o cose immobili soggette alle disposizioni della presente legge, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazione di piani regolatori, possono essere prescritte dall'autorità governativa le distanze, le misure e le altre norme necessarie, affinché le nuove opere non danneggino la prospettiva e la luce richiesta dai monumenti stessi). La legge "Croce" n. 778 del 1922 introdusse il sistema della speciale protezione delle cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria, nonché delle bellezze panoramiche, mediante dichiarazione e notificazione ai proprietari, possessori e detentori e mediante l'assoggettamento all'obbligo di previa autorizzazione di ogni alterazione che vi dovesse essere apportata [13]. Questa funzione di tutela era demandata alle soprintendenze ai monumenti. L'art. 4 della legge "Croce" prevedeva anch'essa misure di tutela indiretta [14]. L'art. 7 disegnava un sistema di vigilanza e controllo del territorio articolato e diffuso [15], con un significativo coinvolgimento degli enti territoriali.
Con la riforma "Bottai" del 1939 (legge 22 maggio 1939, n. 823) si tornò quindi alla tradizionale tripartizione delle soprintendenze (Scavi e antichità, Monumenti, Gallerie), si aumentò il numero di questi uffici, che divennero 58, si procedette a un complessivo ridisegno dei perimetri delle relative circoscrizioni territoriali di competenza. Restavano peraltro 9 soprintendenze "miste", che cumulavano le funzioni di quelle ai monumenti e di quelle alle gallerie. Alle soprintendenze ai monumenti (in numero di 13, di cui 6 di prima classe, 4 di seconda e 3 di terza classe), cui erano preposti architetti (archeologi, invece, a quella alle antichità e storici dell'arte a quelle alle gallerie), erano affidati i compiti di tutela (oltre che dei monumenti e relative pitture murali del medioevo e dell'età moderna, anche) delle bellezze naturali e panoramiche e l'esame di tutte le questioni urbanistiche relative ai piani regolatori [16].
Questo impianto ha retto sostanzialmente fino alla costituzione del ministero per i Beni culturali e ambientali ad opera del decreto-legge 14 dicembre 1974, n. 657, convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 1975, n. 5.
Cosa è successo nel secondo dopoguerra? Come ha risposto questo sistema organizzativo ministeriale alle pressioni della ricostruzione post-bellica e della crescita impetuosa degli anni '60? Sappiano che questo apparato di tutela ha risposto poco e male, essendosi rivelato del tutto inadeguato a fare fronte a tali, epocali, sconvolgimenti dei territori e dei paesaggi italiani. Del resto, 13 soprintendenze ai monumenti, con vaste aree di competenza [17], con scarso personale, non potevano in alcun modo fare fronte all'impetuoso e incontenibile sviluppo edilizio legato alla ricostruzione post-bellica e all'avvio del boom economico degli anni '60.
In proposito mi paiono, anche qui, molto efficaci le parole sintetiche di Melis: "E tuttavia, nei convulsi decenni che seguirono, specie in quelli della crescita, spesso sregolata, la consapevolezza dell'entità e del valore del patrimonio si smarrì. Non la ebbero quelle prime classi dirigenti, pure virtuose ma assediate da ben altri problemi immediati; non la ebbe l'opinione colta, se si eccettuano settori intellettuali di nicchia. Ha scritto Francesco Franceschini nel 1969: "Era fatale che si ingenerasse una sorta di rassegnazione e inefficiente stanchezza negli uffici: proprio mentre, per il disordinato svilupparsi delle nuove attività economiche ed edilizie, cominciavano a moltiplicarsi le infrazioni". Nel 1955 però la Camera istituì una commissione, che lavorò nel 1956-1958, pur senza produrre esiti. E nel 1964-66 venne, finalmente, la Commissione Franceschini. Tra i suoi buoni risultati, uno merita di essere sottolineato: l'idea di una amministrazione autonoma per i beni culturali. Dopo Spadolini si sono susseguiti ben 24 ministri (25, se si conta un interim di Andreotti), i cui nomi da soli (una lunga serie di politici di secondo piano, solo episodicamente grandi personalità) dicono della marginalità del ministero. La lunga sequenza delle riforme interne, un vero e proprio terremoto di norme e di sconquassi organizzativi, testimonia dell'assenza di un progetto unitario e della frammentarietà e spesso improvvisazione e velleitarismo degli interventi. Bilancio non positivo".
3. La costituzione del ministero per i Beni culturali e ambientali
Per descrivere la genesi del ministero, ad opera di Spadolini, prendo in prestito le parole del compianto Prof. Galasso: "Nel secondo dopoguerra, con il governo Parri, venne ricostituito il sottosegretariato per le Belle arti, affidato a Carlo Ragghianti (che però durò sei mesi). Poi, con il IV governo Rumor, durato dal luglio 1973 al marzo 1974, era stato istituito il ministero per i Beni culturali, affidato a Camillo Ripamonti, sostituito da Giuseppe Lupis, come ministro ai beni culturali e all'ambiente, nel V governo Rumor, durato dal marzo al novembre 1974, quando, con la costituzione del IV governo Moro, a quel ministero era andato Spadolini. E Spadolini, appunto, già il 14 dicembre 1974, a neppure un mese dalla nascita del governo, otteneva la promulgazione di un decreto legge che istituiva il ministero per i beni culturali e ambientali, convertito nella legge n°. 5 del 29 gennaio 1975, pubblicata col n°. 43 sulla Gazzetta Ufficiale del successivo 14 febbraio" [18].
Il primo regolamento di organizzazione del ministero (il d.p.r. 3 dicembre 1975, n. 805 - Organizzazione del Ministero per i beni culturali e ambientali), all'art. 31, affidava alle soprintendenze per i beni ambientali e architettonici "...sino a quando resta in vigore la legge 1° giugno 1939, n. 1089, e successive modificazioni, la cura dei beni culturali... costituiti da edifici, ville, complessi immobiliari, la tutela ambientale dei beni culturali contemplati dalla legge 1° giugno 1939, n. 1089"; affidava altresì alle predette soprintendenze per i beni ambientali e architettonici "la tutela dei beni di cui alla legge 29 giugno 1939, n. 1497, e successive modificazioni, nonché di quelli contemplati da leggi speciali", precisando che "Dette soprintendenze, per quanto attiene all'aspetto urbanistico della tutela e della valorizzazione dei beni medesimi, mantengono relazioni con le amministrazioni regionali e comunali". Il regolamento di organizzazione del 1975 confermava le commissioni provinciali previste dall'art. 2 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, composte dal soprintendente per i beni ambientali e architettonici, dal soprintendente per i beni archeologici e da due esperti, di cui uno designato dalla regione.
Il regolamento del 1975 prevedeva un unico ufficio centrale per la tutela (Ufficio centrale per i beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici e storici), nonché un comitato di settore "per i beni ambientali e architettonici". L'art. 32 prevedeva conferenze periodiche di coordinamento "non inferiori a quattro nel corso dell'anno, allo scopo di fornirsi reciproche informazioni e proposte sulla attività di rispettiva competenza e per il coordinamento intersettoriale delle attività stesse. Alle conferenze sono invitati anche rappresentanti di altri organi periferici dello Stato le cui competenze istituzionali abbiano rilevanza ai fini del coordinamento dell'azione amministrativa, per quanto concerne lo specifico settore dei beni culturali e ambientali. È, altresì, invitato alla conferenza un rappresentante della regione, designato dall'organo regionale competente. Le risultanze e le proposte della conferenza costituiscono la base dei programmi operativi predisposti dai singoli organi e sono sottoposti all'esame dei comitati di settore competenti per materia. Con decreto del ministro sono stabilite le norme per l'attuazione della conferenza". L'art. 35 prevedeva quindi l'istituzione in ogni capoluogo di regione di un comitato regionale per i beni culturali composto dai capi degli uffici che costituiscono la conferenza regionale di cui all'art. 32 e da un numero pari di membri rappresentanti della regione e da questa eletti o nominati secondo propri provvedimenti, con funzioni di collegamento informativo e conoscitivo permanente tra lo Stato e la regione, di coordinamento delle iniziative e delle attività esecutive dello Stato e della regione mediante lo scambio di informazioni reciproche, la predeterminazione di programmi annuali e pluriennali delle iniziative comuni e delle iniziative dello Stato, della regione e degli enti infraregionali, da sottoporre, quando investano problemi o soluzioni di particolare impegno, al Consiglio nazionale dei beni culturali e ambientali; di promozione e di proposta di interventi, amministrativi e tecnici, da parte dello Stato e della regione. Il regolamento demandava opportune intese la definizione delle modalità di esercizio delle suddette funzioni e la possibilità che il comitato potesse chiamare a partecipare alle proprie riunioni amministratori ed esperti.
Insomma, già nell'originario disegno del 1975 erano assicurati significativi momenti di coordinamento e di leale cooperazione tra i diversi livelli territoriali di governo.
4. Il primo regionalismo, la legge "Galasso", il decreto 112 del 1998 e il nuovo titolo V della Costituzione
Il "monopolio" ministeriale di queste funzioni di tutela è entrato in crisi con il primo regionalismo, nel quale lo sforzo di accorpamento delle materie compiuto in attuazione del principio sancito dall'articolo 1 dalla legge delega n. 382 del 1975 ha introdotto una polarizzazione "territorialista" del concetto di paesaggio e nella conseguente distribuzione delle competenze. Il d.p.r. attuativo n. 616 del 1977 ha tentato, come è noto, al fine di razionalizzare la ripartizione dei trasferimenti e delle deleghe regionali, di raggruppare le funzioni amministrative in "settori organici" [19]: in tal modo la materia dei "beni ambientali" finì per essere collocata nel settore organico dell'"assetto ed utilizzazione del territorio" (così la rubrica del titolo V del citato d.p.r. n. 616). È da notare che negli anni '70 non era ancora nato il ministero dell'Ambiente (istituito con legge n. 349 del 1986) e non era ancora maturata la consapevolezza dell'autonomia del diritto dell'ambiente. Inoltre l'articolo 80 del d.p.r. n. 616 del 1977 ha forgiato, in questo contesto, la nota nozione estesa di "urbanistica" come inclusiva delle funzioni amministrative relative alla "disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente" [20]. Il d.p.r. 15 gennaio 1972, n. 8 concernente il trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica e di viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale e dei relativi personali ed uffici, all'articolo 1, ha trasferito alle regioni la redazione e l'approvazione dei piani territoriali paesistici di cui all'articolo 5 della legge 1497 del 1939. In tal modo, contrariamente all'insegnamento del Predieri, che aveva configurato, nello scritto del 1969 che costituisce l'occasione di questo nostro incontro, l'urbanistica come una sub-materia del paesaggio (inteso come forma integrale dell'intero paese), la tutela del paesaggio (dei "beni ambientali") finiva per diventare una sub-materia (o, io dico, un mero aspetto) dell'urbanistica.
La legge "Galasso" del 1985 (decreto-legge n. 312 del 1985, convertito, con modificazioni con la legge n. 431 del 1985), anche come reazione a questo spostamento del punto focale del regime giuridico del paesaggio verso l'urbanistica (con conseguente attribuzione della gestione, per via di sub-delega, ai comuni, con estromissione del ministero), introdusse l'istituto dell'annullamento ministeriale, "ultima Thule della tutela" [21] (con il connesso allargamento delle aree vincolate a circa il cinquanta per cento del territorio nazionale, per effetto dell'introduzione dei vincoli "morfologico-ubicazionali" ex lege). La legge Galasso ha altresì introdotto la figura dei piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, che si pone "a scavalco" tra urbanistica e paesaggio.
Fino alla riforma del titolo V della Costituzione, introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001, in base al testo originario dell'art. 117 della Carta fondamentale, le regioni avevano competenza legislativa concorrente, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, nelle materie "musei e biblioteche di enti locali" e "urbanistica".
L'art. 57 del d.lgs. n. 112 del 1998 attribuiva ai piani territoriali di coordinamento provinciale il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, mentre confermava (art. 149, comma 6) la riserva allo Stato delle funzioni e dei compiti statali in materia di beni ambientali di cui all'articolo 82 del d.p.r. n. 616 del 1977, come modificato dalla legge "Galasso" n. 431 del 1985 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge n. 312 del 1985. Il testo unico del 1999 (d.lgs. n. 490 del 1999) si limitava a confermare (art. 11 - Coordinamento con funzioni e competenze di regioni ed enti locali) le competenze attribuite alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e Bolzano dai rispettivi statuti e dalle relative norme di attuazione, le funzioni attribuite alle regioni a Statuto ordinario dal decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1972, n. 3 e le funzioni e le competenze attribuite alle regioni e agli enti locali dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
Il nuovo titolo V della Costituzione ha in sostanza ripreso i termini e i concetti contenuti nei decreti del 1998 e del 1999, senza una particolare elaborazione (anzi, non senza una certa qual confusione: il termine "paesaggio" non compare nell'art. 117; nel secondo comma si parla, alla lettera s), di tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali; nel terzo comma si parla, invece, di valorizzazione dei beni culturali e ambientali).
5. Le riforme succedutesi negli anni successivi
Dall'istituzione del ministero nel 1975 ad oggi si contano ben cinque riforme organizzative.
Con il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 il ministero diviene ministero per i Beni e le Attività culturali, articolato in non più di dieci direzioni generali, coordinate da un segretario generale (art. 54 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300). Il d.p.r. 29 dicembre 2000, n. 441 (Regolamento recante norme di organizzazione del Ministero per i beni e le Attività culturali) prevedeva conseguentemente un sistema "a segretariato generale" (con otto direzioni generali centrali, tra cui la direzione generale per i beni architettonici ed il paesaggio) e la creazione delle soprintendenze regionali per i beni e le attività culturali (con compiti innovativi di coordinamento dell'attività delle altre soprintendenze, degli archivi di Stato e delle biblioteche pubbliche statali presenti nel territorio regionale, nonché di cura dei rapporti del ministero con le regioni, gli enti locali e con le altre istituzioni presenti nella regione). Merita di essere segnalata la competenza delle soprintendenze regionali prevista dalla lettera e) del comma 2 dell'art. 13: e) predispone, d'intesa con le regioni, programmi e piani finalizzati all'attuazione degli interventi di riqualificazione, recupero e valorizzazione delle aree sottoposte alle disposizioni di tutela paesaggistico-ambientale.
Con il decreto legislativo 8 gennaio 2004, n. 3 e il conseguente d.p.r. 8 giugno 2004, n. 173 (Regolamento di organizzazione del Ministero per i Beni e le Attività culturali), il ministero passa al sistema dipartimentale (quattro dipartimenti, per i beni culturali e paesaggistici, per i beni archivistici e librari, per la ricerca, l'innovazione e l'organizzazione, per lo spettacolo e lo sport), articolati al loro interno in dieci direzioni generali, cui si aggiungono venti direzioni regionali periferiche, le direzioni regionali, articolazioni territoriali di livello dirigenziale generale del Dipartimento per i beni culturali e paesaggistici, che hanno preso il posto dei segretariati regionali della riforma "Veltroni". Resta la direzione generale per i beni architettonici e paesaggistici. La direzione regionale ingloba le funzioni paesaggistiche già proprie del segretario regionale. Aveva - art. 20, comma 3, lettere p) e q) - compiti di richiesta alle commissioni provinciali, su iniziativa delle soprintendenze di settore, dell'adozione della proposta di dichiarazione di interesse pubblico per i beni paesaggistici, ai sensi dell'articolo 138 del Codice, e di proposta al direttore generale competente l'adozione in via sostitutiva della dichiarazione di interesse pubblico per i beni paesaggistici (il potere di vincolo restava in capo al DG centrale, anche se, stante la allora versione originaria del codice del 2004, il potere di quest'ultimo organo era limitato - art. 8, comma 2, lett. o) - alla sola adozione in via sostitutiva della dichiarazione di notevole interesse pubblico relativamente ai beni paesaggistici, ai sensi dell'articolo 141 del Codice).
Con il d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233 (Regolamento di riorganizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali, a norma dell'articolo 1, comma 404, della L. 27 dicembre 2006, n. 296) si è tornati al sistema imperniato sul Segretariato generale (otto uffici dirigenziali di livello generale centrali e diciassette uffici dirigenziali di livello generale regionali, coordinati da un segretario generale, nonché due uffici dirigenziali di livello generale presso il Gabinetto del ministro). La direzione generale che si occupa di paesaggio viene ridenominata in "Direzione generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l'architettura e l'arte contemporanee". I poteri di vincolo vengono portati in testa alla direzione regionale (art. 17, comma 2). Tale potere era ancora erroneamente limitato alla richiesta alle commissioni provinciali, anche su iniziativa delle soprintendenze di settore, dell'adozione della proposta di dichiarazione di interesse pubblico per i beni paesaggistici, ai sensi dell'articolo 138 del codice [lettera o) del comma 3 dell'art. 17]. L'art. 7, comma 2, lettera p), attribuiva invece al direttore generale centrale l'adozione, ai sensi dell'articolo 141 del Codice, sentiti i direttori regionali competenti, della dichiarazione di notevole interesse pubblico relativamente ai beni paesaggistici che insistano su un territorio appartenente a più regioni.
Con il d.p.r. 2 luglio 2009, n. 91 (Regolamento recante modifiche ai decreti presidenziali di riorganizzazione del ministero e di organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministro per i beni e le attività culturali) è stata creata la direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale. Il d.p.r. del 2009, novellando quello del 2007, ha ridenominato la direzione generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l'architettura e l'arte contemporanee in direzione generale per il Paesaggio, le Belle arti, l'Architettura e l'Arte contemporanee. I poteri di vincolo vengono correttamente completati, tenendo conto delle modifiche apportate al codice dai decreti correttivi del 2006 e del 2008, con l'aggiunta delle lettere o-bis) e o-ter), con riferimento all'adozione, su proposta del soprintendente e previo parere della regione, ai sensi dell'articolo 138 del Codice, della dichiarazione di notevole interesse pubblico relativamente ai beni paesaggistici, ai sensi dell'articolo 141 del medesimo Codice, e alla integrazione del contenuto delle dichiarazioni di notevole interesse pubblico relativamente ai beni paesaggistici, ai sensi dell'articolo 141-bis del Codice, anche d'intesa con la regione o con gli altri enti pubblici territoriali interessati e su proposta del soprintendente.
Il d.p.c.m. 29 agosto 2017, n. 171 ha varato, infine, l'ultima (ad oggi) riforma organizzativa, creando la direzione generale "Belle arti e paesaggio", abolendo i direttori regionali per tornare ai segretariati regionali, che hanno, più o meno, le competenze delle soprintendenze regionali. Il potere di vincolo viene attribuito al potenziato comitato regionale di coordinamento, che diventa commissione regionale per il patrimonio culturale e cumula le funzioni di commissione di garanzia per il patrimonio culturale di cui all'articolo 12, comma 1-bis, del decreto-legge n. 83 del 2014, convertito nella legge n. 106 del 2014.
In realtà si è poi aggiunta una sesta, e non meno profonda, riforma del sistema, con il decreto ministeriale 23 gennaio 2016, recante "Riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ai sensi dell'articolo 1, comma 327, della legge 28 dicembre 2015, n. 208". Tale riforma - la cui introduzione con lo strumento del decreto ministeriale non regolamentare ha suscitato polemiche e contenziosi [22] - ha creato la direzione centrale unica per la tutela (direzione generale "Archeologia, belle arti e paesaggio") e ha previsto la creazione di soprintendenze miste Archeologia, belle arti e paesaggio su tutto il territorio nazionale, attraverso l'accorpamento delle 17 soprintendenze Archeologia con le 31 soprintendenze Belle arti e paesaggio, aggiungendo 7 "nuove" soprintendenze, individuate in base alla presenza di Città metropolitane, alla dimensione territoriale e della popolazione (lasciando le due soprintendenze speciali di Pompei e di Roma previste dal d.p.c.m. n. 171 del 2014, i cui soprintendenti esercitano però anche i compiti di tutela paesaggistica spettanti ai soprintendenti ABAP), nonché la soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città dell'Aquila e i comuni del cratere, già istituita, fino al 31 dicembre 2019, ai sensi dell'articolo 54, comma 2-bis, del decreto legislativo 30 luglio.
Il decreto ha disciplinato altresì l'organizzazione interna delle soprintendenze, prevedendo che ogni soprintendenza ABAP debba essere articolata in almeno sette aree funzionali (organizzazione e funzionamento; patrimonio archeologico; patrimonio storico e artistico; patrimonio architettonico; patrimonio demoetnoantropologico; paesaggio; educazione e ricerca).
Il modello della soprintendenza mista o unica, come abbiamo visto sopra, fu già sperimentato in Italia tra il 1923 e il 1939, ma allora la sua introduzione non fu accompagnata da due accorgimenti ritenuti indispensabili per la sua buona riuscita: 1) mantenere una articolazione degli uffici diffusa sul territorio; 2) garantire la presenza in ogni struttura di tutte le specifiche professionalità. Il decreto 23 gennaio 2016 punta invece a soddisfare entrambe queste condizioni, sia mediante la presenza di 39+2 presidii di tutela, sia attraverso l'articolazione delle soprintendenze in aree funzionali.
Si è poi aggiunto il decreto ministeriale 9 aprile 2016, recante "Disposizioni in materia di aree e parchi archeologici e istituti e luoghi della cultura di rilevante interesse nazionale ai sensi dell'articolo 6 del decreto ministeriale 23 gennaio 2016", che ha operato la perimetrazione dei singoli istituti e luoghi della cultura provvedendo anche all'assegnazione dei singoli siti, immobili e complessi monumentali.
Si è avuto quindi il decreto ministeriale 24 ottobre 2016, recante "Riorganizzazione temporanea degli uffici periferici del ministero nelle aree colpite dall'evento sismico del 24 agosto 2016, ai sensi dell'articolo 54, comma 2-bis, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni", che ha istituito, fino al 30 settembre 2021, l'Ufficio del Soprintendente speciale per le aree colpite dal sisma del 24 agosto 2016.
Infine il decreto ministeriale 12 gennaio 2017, recante "Adeguamento delle Soprintendenze speciali agli standard internazionali in materia di musei e luoghi della cultura, ai sensi dell'articolo 1, comma 432, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, e dell'articolo 1, comma 327, della legge 28 dicembre 2015, n. 208", ha ridenominato la soprintendenza speciale di Pompei in Parco archeologico di Pompei ed ha istituito il Parco archeologico del Colosseo. Di conseguenza il decreto 12 gennaio 2017, oltre a produrre effetti circoscritti ad alcune limitate disposizioni del d.p.c.m. n. 171 del 2014, interviene direttamente come novella sui quattro principali decreti ministeriali di organizzazione del ministero.
Oggi sono dunque presenti sul territorio nazionale [23]: 40 soprintendenze Archeologia, belle arti e paesaggio, incluse le due "temporanee", una per la città dell'Aquila e i comuni del cratere, istituita, fino al 31 dicembre 2019, l'altra per le aree colpite dal sisma del 24 agosto 2016, istituita fino al 30 settembre 2021 e 1 soprintendenza speciale, la soprintendenza speciale Archeologia, belle arti e paesaggio di Roma; 12 soprintendenze archivistiche e bibliografiche e 3 soprintendenze archivistiche; 25 musei e 6 parchi archeologici di rilevante interesse nazionale [24].
6. Il Codice: l'ampliamento del ruolo e delle competenze delle soprintendenze
Abbiamo già rilevato come con la legge "Galasso" del 1985 si è avuto un incremento esponenziale delle aree e degli immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, sui quali le soprintendenze statali esercitavano le competenze di controllo di annullamento ministeriale. Con il codice del 2004, soprattutto dopo la prima modifica del 2006, si è verificata una condizione di evidente sovraccarico delle funzioni ministeriali. Con l'introduzione del parere vincolante del soprintendente nel 2006, divenuto operativo dal 2010, si è passati da una condizione in cui le soprintendenze esaminavano una piccola percentuale delle pratiche paesaggistiche - tre per cento di annullamenti ministeriali delle autorizzazioni rilasciate dalle autorità preposte alla gestione dei vincoli [25] - a una condizione in cui le soprintendenze co-decidono con il parere vincolante tutte le pratiche paesaggistiche [26], dal cambio della canna fumaria o della pluviale, fino al nuovo centro commerciale da edificare in mezzo al verde.
Analoghi effetti sono derivati dalla generalizzazione della tutela ope legis degli immobili pubblici o di enti morali ultracinquantennali - oggi ultrasettantennali. Questa "inflazione" dei carichi di lavoro si è verificata mentre le strutture venivano progressivamente indebolite per la revisione della spesa e il blocco del turn over.
Ha concorso, inoltre, alla diffusione - soprattutto presso la politica locale e in certi ambienti confindustriali - dell'idea della soprintendenza come fattore di blocco della crescita, la mancata adozione di regole tecniche e di linee guida cogenti capaci di imbrigliare e di asciugare "a monte" l'eccessiva discrezionalità interpretativa che caratterizza spesso negativamente le decisioni dei soprintendenti (autonomia tecnico-scientifica che spesso trasmoda in libero convincimento o in vero e proprio arbitrio, peraltro poco sindacabile in sede di controllo, anche giurisdizionale, trattandosi di determinazioni che attingono a standard valutativi tratti da scienze deboli comprendenti e opinabili e non da scienze esatte certificabili e misurabili [27]).
Ma al di là di ogni altra considerazione, la causa principale dell'inefficienza dell'azione di tutela (e, quindi, della sua percezione sociale negativa come fattore di blocco e di ritardo), resta la spending review "cieca" dei tagli lineari e del blocco indiscriminato del turn over, che ha grandemente indebolito gli appartati organizzativi dell'amministrazione: con risorse sempre più scarse e personale sempre più anziano e in forte diminuzione non è possibile fare controlli rapidi ed efficaci. Sono intervenuti recenti, importanti, iniziative in senso contrario (il concorso a 500 posti di funzionario tecnico nel ministero di settore indetto nel 2016), ma esse restano oggettivamente insufficienti e ci vorrà del tempo perché possano far sentire i loro effetti positivi.
7. Il riequilibrio necessario: regole tecniche, piani paesaggistici, potenziamento degli organici, qualificazione e formazione, semplificazioni
Come governare questa complessità? Quale punto di equilibrio stabilire (e come raggiungerlo) tra effettività dei livelli di tutela e semplificazione, speditezza, efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa?
Occorre agire a vari livelli, contemporaneamente e in parallelo:
- definizione di regole tecniche (vestizione dei vincoli, pianificazione paesaggistica di adeguato livello di dettaglio precettivo con efficacia verticale e non solo orizzontale; accordi tra pubbliche amministrazioni; regolamenti edilizi e carte della qualità);
- potenziamento e migliore formazione (soprattutto amministrativa) del personale (funzionari e dirigenti delle soprintendenze; diffusione della cultura del procedimento e della motivazione degli atti) [28];
- semplificazioni.
Non è possibile in questa sede sviluppare tutti i punti di questo programma.
Qualcosa merita di essere qui ribadito, invece, sul tema della semplificazione e, in particolare, sul nuovo regolamento di semplificazione relativo all'individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata introdotto con il d.p.r. 13 febbraio 2017, n. 31, che costituisce un caso di studio, a questo riguardo, anche per le tante (inutili) polemiche che ha suscitato (forse anche per una non compiuta comprensione della logica di questo intervento riformatore) in molti settori dell'ambientalismo e delle associazioni e comitati che lottano per la tutela del paesaggio, nonché tra gli stessi funzionari ministeriali.
Il regolamento del 2017 attua la previsione dell'art. 12, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106 (come modificato dall'art. 25, comma 2, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164), che ha previsto che fossero adottate, con regolamento, disposizioni modificative e integrative del previgente regolamento di semplificazione (d.p.r. n. 139 del 2010), al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, nonché allo scopo di operare ulteriori semplificazioni procedimentali in materia di autorizzazioni paesaggistica. Va segnalato per incidens che questo tema della "lieve entità" venne introdotto nella riforma del 2008 (dal secondo decreto correttivo n. 63 del 2008), in sede di negoziato finale nella conferenza unificata, in accoglimento di forti istanze di semplificazione provenienti dalle autonomie territoriali.
Tale previsione, già contenuta nel comma 14 dell'art. 146 a partire dal 2008, era stata attuata (in modo quasi non percepibile nella pratica applicativa) con il citato d.p.r. n. 139 del 2010. La riforma del 2017 ha cercato di rafforzare questo strumento di semplificazione, pur con forti limitazioni (ed esclusioni) delle misure di semplificazione per i beni sottoposti a vincoli di bellezza individua o di centro o nucleo storico ai sensi dell'art. 136, lettera c), del codice.
Gli allegati al regolamento individuano 31 tipologie di interventi escluse dall'autorizzazione paesaggistica (all. A) e 42 tipologie di interventi di lieve entità sottoposte a procedura semplificata (all. B). Il procedimento finalizzato al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica semplificata nei casi di interventi di lieve entità (all. B) si conclude nel termine di 60 giorni (a fronte dei 120 giorni necessari per la procedura ordinaria, ridotti a 90 in caso di indizione conferenza di servizi), con una semplificazione e riduzione degli oneri burocratici di comunicazione e documentazione a carico di cittadini e imprese.
Senza entrare nel dettaglio [29], è utile sottolineare in questa sede (al fine di focalizzare i caratteri essenziali che la semplificazione deve assumere in questa materia) i cardini logico-finalistici attorno ai quali ruota questo provvedimento:
- principio di proporzionalità [30]: introdurre una semplificazione ragionevole e ragionata in base alla quale il tipo e il grado di controllo amministrativo devono essere proporzionati alle cose cui si riferiscono;
- principio di riequilibrio tra il dominio utile del proprietario e il dominio eminente pubblico sul valore paesaggistico del bene: restituire all'area di naturale dominio utile del proprietario, possessore o detentore qualificato la corretta gestione del bene (conservazione programmata, manutenzione ordinaria e straordinaria, risanamento conservativo, miglioramento antisismico, efficientamento energetico);
- principi di economia dei mezzi giuridici e di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa: alleggerire il carico di pratiche delle soprintendenze e degli uffici regionali/comunali di oltre un terzo degli affari trattati costituiti da pratiche per lo più irrilevanti, per consentire loro di concentrare le scarse risorse sugli affari davvero rilevanti (evitando rischi di silenzio-assenso);
- principio di semplificazione: alleggerire il peso burocratico inutile sui cittadini e sulle imprese, anche per correggere la percezione negativa, sempre più diffusa nella società, del ruolo delle soprintendenze e della funzione di tutela del patrimonio culturale, viste come un freno alla crescita e come un inutile appesantimento burocratico, anziché (come dovrebbe essere) come una risorsa e una garanzia per la qualità dello sviluppo del Paese;
- principio di conservazione programmata: favorire la gestione ordinaria e la buona manutenzione delle aree e degli immobili tutelati, anche per incentivare e semplificare l'efficientamento energetico e il miglioramento antisismico degli immobili.
Parrebbe dunque evidente l'impatto strategico positivo che tali previsioni regolamentari - se correttamente intese e applicate con spirito collaborativo, senza aprioristiche opposizioni polemiche - potrebbero svolgere sul ristabilimento di un rapporto positivo (e non più solo di contrasto) tra soprintendenze e cittadini e imprese, sia in termini di alleggerimento degli oneri burocratici a carico dei cittadini e delle imprese, sia in termini di migliore funzionalità degli uffici amministrativi preposti alla tutela. Eppure anche questa - in effetti, minima - semplificazione è stata da molti avvertita come un intollerabile vulnus alla tutela.
Quale riflessione può derivarsi da questa esperienza? Anche in questo caso si percepisce il peso della divaricazione, della spaccatura ideologica - che divide purtroppo il Paese in parti inconciliabili tra loro in quasi tutti i settori di interesse pubblico e perciò politico - che vede contrapposto il mondo della tutela e il mondo della semplificazione, con il rifiuto a priori di ogni forma di semplificazione o, al contrario, di ogni forma di tutela preventiva che possa ritardare il "fare impresa" o le libertà dei cittadini. Il regolamento del 2017 è stato da molti demonizzato per il solo fatto di contenere nella sua rubrica la parola "semplificazione" e per il solo fatto di derivare da una delega ridefinita nei suoi contenuti dal decreto-legge così detto "sblocca - Italia" del 2014. Se si potesse ragionare con calma, senza pregiudizi ideologici, sul merito delle scelte, sarebbe probabilmente possibile comprendere che la strada della proporzionalità può costituire la giusta via per raggiungere quel "punto di riequilibrio" al quale è dedicato questo paragrafo. Il rifiuto a priori delle benché minime misure di semplificazione e di adattamento alla realtà sociale ed economica (e giuridica) in evoluzione e la pretesa di conservare un ruolo pervasivo della soprintendenza mediante procedure autorizzative (di durata non breve e talora indefinita) per ogni tipo di affare, senza distinguere tra cose rilevanti e cose irrilevanti, tra cose minime e cose di maggiore rilievo, rischia tuttavia di condannare in futuro questi uffici a subire ulteriori e ancor più gravi ridimensionamenti, peggiori di quelli introdotti dalla riforma contenuta nella legge così detta "Madia" n. 124 del 2015, che ha già per parte sua provveduto a declassare gli interessi di tutela da interessi primari e assoluti a interessi "qualsiasi", superabili in conferenza di servizi non solo dal rappresentante unico di governo, ma senz'altro anche dall'autorità procedente, secondo il criterio di prevalenza.
8. Nuovi spunti ricostruttivi: le "comunità culturali" della Convenzione di Faro del 2005 e la sussidiarietà orizzontale
Ho sempre sostenuto che, nella tutela del paesaggio, la sussidiarietà "giusta" non è quella verticale, ma quella orizzontale. I veri guardiani del paesaggio sono i cittadini organizzati (se consapevoli del valore identitario del "loro" patrimonio culturale) che presidiano il territorio e assicurano una vigilanza sicuramente più stringente ed efficace di qualsiasi ufficio pubblico.
Tuttavia la sussidiarietà orizzontale, come è insito nel concetto stesso di sussidiarietà, deve supportare la funzione pubblica, non deve sostituirla. Bisogna prestare in altri termini la massima attenzione a evitare che dal supporto (prezioso) delle associazioni locali di tutela e dalla militanza attiva dei cittadini associati a difesa del paesaggio si passi a forme di "democrazia diretta" e alla delega al voto popolare locale delle decisioni di tutela del paesaggio. Riemerge qui il dilemma tra localismo consensualista (bottom up) e statalismo autoritativo centralista (top down): non sempre (quasi mai) la maggioranza locale esprime la lungimiranza necessaria per fare tutela del paesaggio; spesso prevalgono interessi produttivi (il lavoro, lo sviluppo, la crescita, l'occupazione, etc.), interessi corporati, strutturati, organizzati, che sono destinati a vincere quasi sempre sull'interesse diffuso, adespota, acefalo, che è di tutti e perciò non è di nessuno, di tutela del paesaggio e dell'ambiente. Insomma, non dobbiamo dimenticare le origini e il senso della teorica degli interessi diffusi [31], che sono naturalmente deboli, che sono, in definitiva, gli interessi generali, per i quali non a caso la legislazione e la storia dell'ordinamento moderno hanno imposto per legge la sottoposizione a tutela, che null'altro è, in fondo, se non la sottrazione alla libera scelta (democratica) del mercato e del diritto dei privati. Porre eccessivamente l'accento, dunque, sulla scelta democratica locale, sulla decisione affidata al voto della maggioranza occasionale del momento, significa svuotare di senso la stessa scelta fondamentale di limitare la libertà e la proprietà dei privati mediante sottoposizione di quei beni a tutela pubblicistica (mediante l'attribuzione di una competenza autoritativa funzionale pubblicistica ad organi tecnici a ciò specificamente preposti). Il coinvolgimento - necessario e proficuo - delle popolazioni locali non deve riportarci al punto di partenza del "governo di prossimità" che assolutizza la sussidiarietà verticale a discapito della differenziazione e dell'adeguatezza.
Una strada nuova e intelligente per valorizzare il contributo - centrale - delle comunità locali è forse indicata dalla Convenzione di Faro del 2005. Mi sono di recente occupato in altre sedi della Convenzione di Faro [32], alla quale ho mosso alcune critiche, ma per problemi di traduzione (oltre che per la genericità dei contenuti e l'ambiguità tra richiami identitari e fini inclusivi multiculturalistici), non per la bontà di molte delle previsioni in essa contenute, che giudico senz'altro utili e positive. Tra queste vi è, come è noto, la nozione di comunità di heritage (prevista dalla lettera b) dell'art. 2 della Convenzione), costituita da "un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del cultural heritage e che desidera, nel quadro di un'azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future", nozione che molti traducono con la locuzione comunità di patrimonio, mentre io preferirei tradurre con la locuzione comunità culturali (o di cultura).
Le comunità culturali (comunità di heritage) possono per certi aspetti offrire un quadro di riferimento innovativo, orientato verso una visione olistica, interdisciplinare, sistemica e integrale, all'interno della quale collocare e ridefinire le linee di azione (plurali e intersecanti diversi campi e settori di materia, così come plurali e diverse devono essere le competenze amministrative, oltre che tecniche, scientifiche e sociali, coinvolte). Una chiave di lettura e di interpretazione nuova, in cui le misure giuridiche, pur tra loro inevitabilmente eterogenee (quali quelle tipicamente di promozione e di incentivo e sostegno, proprie dei beni immateriali, rispetto a quelle tipicamente di conservazione e di tutela in senso tecnico, proprie dei beni materiali) convergano a formare un "pacchetto" omogeneo e coeso, reso uno per la finalità unitaria, pur nel molteplice dei mezzi di intervento messi in campo. V'è ovviamente da domandarsi se e in che misura questa presentazione "unitaria", questo tentativo di ricondurre a unitarietà giuridica una tale molteplicità eterogenea di azioni e strumenti giuridici abbia una sua validità euristica, conoscitiva, definitoria e, soprattutto, di regolazione e di disciplina prescrittiva dei fenomeni sociali ed economici "governati", che essa aspira o tende a regolare e governare: si sa, in diritto la definizione (se vogliamo, l'entità giuridica) segue la disciplina, nel senso che in tanto ha un senso creare una nuova entità giuridica, intesa come nuovo istituto/figura giuridica, in quanto essa racchiuda in sé un complesso di effetti precettivi e regolatori unitari, un regime giuridico proprio e speciale, diverso dagli altri, che meriti un "nome" proprio, di essere considerato nuovo, altro e diverso dai precedenti istituti giuridici già conosciuti.
Si tratta, peraltro, di una figura che trova un diretto riscontro e un antecedente logico specifico nella stessa Convenzione di Firenze del 2000, che ha posto al centro il ruolo delle comunità locali nella tutela del paesaggio.
Recentemente questi possibili sviluppi innovativi sono stati sondati dal Prof. Giuliano Volpe in occasione di un recente convegno su queste tematiche [33]: il Prof. Volpe, nella sua densa relazione, non ha mancato di porre l'accento sul rilievo per cui il paesaggio storico, frutto di plurisecolari stratificazioni, "è un organismo vivo e vitale", richiamando le acute parole del Prof. Carandini [34]: "un contesto paesaggistico è u n organismo naturale, agricolo-pastorale o insediativo che si è andato componendo e sovrapponendo nei millenni grazie al lavoro, all'abilità e al gusto di uomini tanto numerosi quanto a noi sconosciuti, i quali inconsapevolmente hanno determinato un ordine dovuto ad attività riproposte identiche o compatibilmente variate, che hanno conferito alla stratificazione un volto riconoscibile, al quale siano legati come quello di una persona amata. Ne consegue che qualsiasi intervento irresponsabile e incongruo sfigura in un attimo qualsivoglia millenario contesto, trasformando significati e bellezze in deprimente disordine": per concludere, per l'appunto, che questi studi interdisciplinari sul territorio, che offrono una sintesi paesaggistica dell'identità locale, sembrano dare attuazione concreta ed esemplare alla nozione di "comunità di heritage".
Ora, tutto questo discorso è molto stimolante e innovativo e merita di essere sviluppato e approfondito, soprattutto attraverso un faticoso e meticoloso lavoro sul territorio di studio, di ricerca, di comunicazione e informazione, di formazione, di sollecitazione della partecipazione attiva dei cittadini coinvolti, di sensibilizzazione della società civile e delle istituzioni, di spinta alla riappropriazione, da parte delle popolazioni locali, della consapevolezza e dell'orgoglio delle proprie radici e della propria identità. Non c'è dubbio che questa costituisce la strada maestra irrinunciabile per poter sperare in un futuro migliore e per poter garantire una migliore tutela e valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale (nella sua olistica unitarietà, come emerge tipicamente a livello di borghi antichi e centri e nuclei storici tradizionali del nostro Paese, o per l'agricoltura tradizionale dei paesaggi agrari): tutti ci auguriamo che le comunità locali sappiano conoscere e apprezzare il tesoro ricevuto in eredità e sappiamo ben gestirlo per tramandarlo alle future generazioni senza dilapidarlo. Ma non si può negare che la storia insegna che spesso la funzione pubblica, anche e soprattutto statale, è stata chiamata a intervenire per prevenire e impedire fenomeni di consumo del patrimonio culturale decisi e voluti a livello locale.
Riprendendo il filo del discorso avviato all'inizio di questo paragrafo, deve dunque restare altrettanto chiaro e inequivoco che questo tema delle comunità culturali locali non deve e non può tradursi in un modo per bypassare e aggirare la funzione pubblica di tutela dello Stato, affidata a un corpo scelto, organizzato e formato dello Stato, capace, anche grazie alla distanza minima necessaria che lo separa dai luoghi del conflitto politico locale, di assumere decisioni di tutela (anche unilaterali e autoritative), in una logica di lungimiranza e di lungo periodo, che ben può scontrarsi, nella realtà, e spesso si scontra, con gli interessi maggioritari immediati espressi da quella stessa "comunità di hetirage" che si assume titolare di quei beni e rappresentativa di quel patrimonio. Non devono dunque interpretarsi e applicarsi la Convenzione del paesaggio di Firenze del 2000 e la Convenzione di Faro del 2005 come riserva alle comunità locali della decisione di tutela, poiché, non lo dobbiamo dimenticare, la Costituzione, molto saggiamente, intesta il paesaggio alla Nazione. Bisogna prestare la massima attenzione a che questi concetti e queste figure giuridiche, pur molto importanti, introdotti dalle citate Convenzioni internazionali, siano collocati ed agiscano sul corretto piano della sussidiarietà orizzontale e non divengano (per così dire) dei "cavalli di Troia", attraverso i quali "far rientrare dalla finestra" il modello del governo di prossimità locale "cacciato dalla porta" sul filo del ragionamento sul necessario equilibrio tra sussidiarietà verticale e differenziazione e adeguatezza e sulla fragilità e recessività, nel confronto solo locale, degli interessi diffusi.
La comunità di cultura della Convenzione di Faro, dunque, indica uno strumento, un percorso parallelo, non alternativo, ma cumulativo, rispetto a quello istituzionale della tutela statale (e degli enti territoriali), uno strumento integrativo che agisce propriamente in sussidiarietà orizzontale (non in sostituzione), su di un piano complementare, che è quello della coesione sociale, della informazione, comunicazione e formazione, per rafforzare e diffondere nei cittadini il desiderio e la convinzione di dover difendere i luoghi che recano impressi nella loro natura e nei loro sviluppi culturali le loro tradizioni e la loro stessa identità. Ma non deve fare velo sulla necessità di una cura pubblica diretta, partecipata, sì, ma demandata a livelli decisionali (regionali e statali) rappresentativi del rilievo super-locale e nazionale dell'interesse di tutela del paesaggio.
Come accennavo nel paragrafo introduttivo, la diretta derivazione dalla nozione giuridica di paesaggio dell'organizzazione amministrativa e del quadro distributivo delle competenze costituisce un'acquisizione che era stata già tutta acutamente e mirabilmente focalizzata e svolta appieno dal Predieri nel suo fondamentale saggio del 1969, che ci offre oggi lo spunto per questo nostro dibattito [35]. Il Maestro propose, come è noto, una nuova lettura "integrale" del concetto di paesaggio, attribuendo per la prima volta a questo termine-concetto, innovativamente introdotto dall'art. 9 della Costituzione, un significato ben più ampio della nozione di bellezze naturali, di cui parlava allora le legislazione ordinaria: il paesaggio come "forma del paese nella sua interezza", "creata dall'azione cosciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata, in modo intensivo o estensivo, nelle città e nella campagna, che agisce sul suolo, che produce segni della sua cultura", che così "diventa forma, linguaggio, comunicazione, messaggio, terreno di rapporto fra gli individui, contesto che cementa il gruppo" ed è "per i componenti della società l'immagine dell'ambiente in cui vivono e che essi vedono. Quindi è il conferimento di senso o di valori a quel complesso di cose".
Il Predieri, come è noto, faceva derivare dalla nozione integrale del paesaggio come forma del Paese nella sua interezza un rapporto di genere a specie tra paesaggio e urbanistica (cfr. par. 13 del testo del 1969): "Ne deriva che la diversità fra tutela del paesaggio e urbanistica è da riportare alla differenza fra genere (tutela del paesaggio) e specie (regolazione urbanistica, che tende a coincidere con il paesaggio urbano, quale parte del paesaggio, ma investe un campo più ampio)".
Le implicazioni sulla struttura organizzativa dell'amministrazione chiamata ad attuare e garantire l'efficacia del precetto costituzionale sono evidenti e le abbiamo già viste nel paragrafo introduttivo, dove ho riportato il testo del paragrafo 14 del fondamentale contributo del 1969.
Ora, in altri, precedenti studi [36] ho rilevato come questo approccio - e le sue conseguenze sul piano della distribuzione delle competenze - abbiano di fatto fornito (o siano stati di fatto usati per fornire) le premesse e le basi teoriche per lo sviluppo del modello territorialista, affermatosi soprattutto a partire dagli anni '80 del secolo scorso, in linea con l'introduzione del primo regionalismo. Con l'effetto, se vogliamo, paradossale, dell'inversione dell'ordine dei rapporti tra paesaggio e urbanistica ipotizzato da Predieri: mentre per il Predieri il primo costituisce il genere, all'interno del quale la seconda deve essere inclusa come specie, l'espansione e il potenziamento della nozione onnicomprensiva di urbanistica, introdotta in sede di attuazione delle deleghe alle regioni negli anni '70 del secolo scorso, fino al varo della nozione di "governo del territorio", hanno indotto a configurare in taluni casi il paesaggio come una sottomateria dell'urbanistica-governo del territorio. Ho osservato, infatti, come il modello territorialista, della gestione sostenibile dello sviluppo del territorio, abbia utilizzato l'idea della gestione integrata e integrale del territorio per risolvere il problema della salvaguardia del paesaggio come un mero aspetto del governo del territorio. Avevo già precedentemente evidenziato come questa impostazione recasse in sé un sostanziale fraintendimento dell'insegnamento del Predieri [37].
Occorre dunque tornare alla corretta impostazione del rapporto tra paesaggio e urbanistica voluta dal Predieri: il paesaggio è, come si suole dire oggi, la costituzione del territorio [38], che definisce e ordina le invarianti strutturali, che si pone dunque come cornice all'interno della quale (e subordinatamente alla quale) si colloca l'urbanistica, intesa come riorganizzazione e sviluppo sostenibile degli usi antropici (essenzialmente edificatori, non agricoli) del territorio. Da questo punto di vista il cardine del sistema appare correttamente essere l'art. 145 del codice di settore, che pone la giusta gerarchia tra i diversi livelli di pianificazione territoriale e di settore.
Ma qual è l'assetto organizzativo più appropriato e la distribuzione delle competenze ottimale tra i diversi livelli territoriali di governo delle funzioni di tutela del paesaggio?
Questa domanda intercetta l'altro filone tematico essenziale in questa materia - che qui per evidenti ragioni di spazio-tempo non posso affrontare -, il tema della dialettica tra tecnica e politica, ossia, detto in altre parole, tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa (o tra discrezionalità e indirizzo politico) [39].
È valida l'idea delle soprintendenze come una "magistratura" tecnica", potere diffuso sul territorio a difesa estrema del paesaggio e del patrimonio culturale? La decisione di tutela (il provvedimento amministrativo di tutela) deve essere espressione esclusiva di discrezionalità tecnica o può "contaminarsi" con apprezzamenti di discrezionalità amministrativa con la ponderazione di interessi "altri"? Quale ruolo per l'indirizzo politico?
La difficoltà di definire un modello condivisibile e condiviso di governo del paesaggio è resa ancor più acuta dalla irrisolta diversità (a tratti profonda) che divide la Penisola: è arduo cercare regole e modelli organizzativi e di distribuzione delle competenze che vadano bene per ogni parte del Paese. Il federalismo differenziato è spia di questa insanabile tensione (che, ahimè, si va sempre più allargando, anziché ridursi e diminuire). A seconda dell'uso (o dell'abuso) che se ne può fare, il federalismo differenziato può essere la valvola di sfogo giusta per far decomprimere queste tensioni, ma può anche diventare l'innesco per dare fuoco alle polveri e far esplodere queste tensioni. Ho recentemente evidenziato le ragioni che, a mio avviso, ostano all'estensione del federalismo differenziato al campo della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, perché l'art. 9 della Costituzione è stato pensato e scritto (con l'apporto fondamentale di Concetto Marchesi) anche contro l'idea della regionalizzazione della tutela [40]. Ma la questione, dopo i referendum regionali in Lombardia e Veneto del 23 ottobre 2017, rischia purtroppo di essere nuovamente riproposta, e in termini forse meno blandi e più conflittuali.
Come concludere? Con la posizione di domande, alle quali la dottrina, la partecipazione sociale dei cittadini, la (buona) politica, i governi che verranno dovranno provare a dare delle risposte.
Può ritenersi ancora valido il tradizionale modello fondato sulla competenza (anche) gestionale del ministero dei Beni culturali (che tende sempre più a diventare ministero della cultura)?
Ha ancora un senso ed è ancora proponibile il modello della compartecipazione paritaria Stato-regioni in tutti e tre i segmenti fondamentali lungo i quali si articola la funzione di tutela del paesaggio (individuazione/dichiarazione/vincolo, pianificazione, gestione controllo autorizzatorio e sanzionatorio)?
Come risolvere il rebus del federalismo differenziato? Esiste un unico modello di organizzazione amministrativa e di distribuzione delle competenze che vada bene per l'intero Paese, pur così diviso sul piano dello sviluppo economico-sociale?
È pensabile e auspicabile un ritorno all'idea gianniniana dell'Agenzia indipendente? Ma senza uffici periferici? Come le Agenzie regionali per la protezione dell'ambiente - Arpa (non un bel modello, a dire il vero)? Ma ha un senso un'Agenzia nazionale centrale relegata solo alla "teoria" ed esclusa dalla "pratica" della tutela del paesaggio? Il modello dell'ISPRA [41] può avere una sua proponibilità?
Ha un senso, invece, l'idea "pan-paesaggistica" [42], in qualche modo sottesa alla stessa Convenzione di Firenze del 2000, che mira a invertire il rapporto, ossia a ricondurre tutto il governo del territorio sotto la guida e il governo paesaggistici [43]?
È sostenibile il modello delle soprintendenze come potere autonomo dello Stato, diffuso su tutto il territorio nazionale, dotate di libero convincimento (ancor più che di autonomia tecnico-scientifica) e di sostanziale insindacabilità dei giudizi e delle decisioni e sottratte al circuito della responsabilità politico parlamentare?
Tante domande, poche risposte. Concludo dicendo che, personalmente, diffido delle "rivoluzioni copernicane", dei cambi di paradigma epocali, dei cambi di passo radicali, che spesso si traducono in confusione e ulteriore paralisi, con indebolimento della tutela. Forse, secondo un principio di realtà, la risposta più sensata, oggi, nel contesto dato, è quella "meliorista", che guarda nella direzione di migliorare e rafforzare il quadro esistente, limando le asperità e gli spigoli che generano frizione tra i diversi livelli di governo, introducendo dosi ulteriori di semplificazione ragionevole e ragionata, rafforzando i ranghi dei funzionari delle soprintendenze, migliorandone la qualità e la formazione, educandoli alla cultura della funzione pubblica, del procedimento, della costruzione partecipata della decisione pubblica, a servizio dei cittadini e non contro i cittadini, rafforzando il contributo del volontariato e dei comitati e associazioni spontanei dei cittadini, favorendo e sostenendo la parte più evoluta, informata, responsabile delle popolazioni locali affinché prevalga in esse il senso di appartenenza e di identità della comunità di cultura, contro le spinte dell'economia estrattiva e del consumo di territorio.
Nei numerosi anni di esperienza presso l'ufficio legislativo del ministero ho maturato il convincimento (anzi, ho rafforzato il convincimento) che più delle cose valgono le persone, che spesso si ripongono nelle riforme organizzative vane speranze di rinnovamento e che, quasi sempre, la differenza la fa la qualità e l'impegno delle persone fisiche preposte agli uffici: pessime formule organizzative danno comunque buoni risultati quando a guidarle ci sono persone capaci, valide e motivate; ottime (sulla carta) formule organizzative danno comunque pessimi risultati, quando il personale non risponde, o non è all'altezza, o non è adeguatamente motivato e orientato.
Allegato. La gestione del personale ministeriale
L'ultima pianta organica del ministero, prima delle riforme introdotte nel corso della XVII legislatura, risaliva al gennaio 1997, con una dotazione organica pari a 25.050 unità.
Nel 2015 il ministero, con d.m. 4 agosto 2015, si è dotato di una nuova pianta organica delle strutture centrali e periferiche (ripartita per profili e funzioni), nei limiti delle 19.050 unità previste dal d.p.c.m. 22 gennaio 2013, emanato ai sensi del comma 5 dell'articolo 2 del decreto legge n. 95 del 2012 e, in particolare, della Tabella 8 allegata al predetto decreto, contenente la rideterminazione della dotazione organica del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo). La nuova pianta organica è stata quindi aggiornata e modificata con d.m. 19 settembre 2016.
La progressiva diminuzione della dotazione organica ministeriale per effetto delle manovre di riduzione della spesa è la seguente:
2006 - unità complessive 23.292
2008 - unità complessive 21.232
2012 - unità complessive 19.132
2014 - unità complessive 19.050
In breve alcuni dati sul personale nel raffronto tra la pianta organica del gennaio 1997 e quella vigente, approvata il 19 settembre 2016.
Archeologi (sedi centrali e periferiche): 471 nel 1997 (il 7,23% su 25.050 unità); 482 in base alla vigente pianta organica di cui al d.m. 19 settembre 2016 (il 9% su 19.050 unità).
Architetti: 528 nella pianta organica del 1997 (l'8% su 25.050 unità); 667 in base alla vigente pianta organica di cui al d.m. 19 settembre 2016 (il 12% su 19.050 unità).
Storici dell'Arte: (sedi centrali e periferiche): 509 nella pianta organica del 1997 (il 7,8% su 25.050 unità); 424 in base alla vigente pianta organica di cui al d.m. 19 settembre 2016 (il 7,7% su 19.050 unità).
La distribuzione del personale tra i diversi uffici e istituti e luoghi della cultura a seguito dei decreti ministeriali del 2015 e del 2016 di approvazione della nuova pianta organica (escluso il personale di vigilanza) è la seguente: 43,4% per soprintendenze e Istituti centrali; 12,2% per i poli museali e i musei dotati di autonomia speciale; 30,2% per gli archivi e le biblioteche. Il personale è stato ripartito privilegiando gli istituti di tutela (aumento medio + 32,6%), i poli museali (aumento medio + 30,3%) e gli istituti autonomi (aumento medio +11,6%). Anche per quanto riguarda gli archivi e le biblioteche, nonostante il ridimensionamento effettuato nelle regioni con surplus di personale, il dato è comunque in aumento (+24,3%).
Una considerazione a parte può essere utile riguardo all'introduzione dei musei statali di rilevante interesse nazionale, riorganizzati in uffici di livello dirigenziale dotati di autonomia speciale a seguito della riforma del 2014. Il dato sul "personale effettivo" in dotazione deve essere ovviamente valutato considerando il mutamento radicale di modello organizzativo rispetto al sistema vigente anteriormente alla riforma: prima della riforma, i musei avevano in dotazione esclusivamente personale dei profili di accoglienza e vigilanza. I funzionari tecnici (architetti, storici dell'arte, archeologi, etc.) erano incardinati presso l'ufficio-organo "Soprintendenza" (cui afferivano, come meri uffici interni, anche i musei) e si doveva occupare sia di territorio o di attività di ufficio, sia del museo. Con la riforma ogni museo autonomo dispone di propri funzionari dedicati alla conservazione e alla valorizzazione. Alcuni esempi: il Palazzo Ducale di Mantova anteriormente alla riforma contava solo 78 unità di accoglienza e vigilanza.; con la riforma sono previsti 17 funzionari dedicati; il Parco archeologico dell'Appia Antica: anteriormente alla riforma contava solo 16 unità di accoglienza e vigilanza; il funzionario responsabile, oltre all'Appia, aveva altri incarichi (presso il Museo nazionale romano e per una parte di tutela del primo municipio del comune di Roma), con la riforma il responsabile dell'Appia è un dirigente dedicato e dispone di 132 unità di personale di II e III area; ad oggi può già contare su 10 funzionari dedicati, assunti tramite concorso.
La gestione del personale nell'ambito del ministero negli ultimi decenni fa registrare una politica assunzionale che ha sempre privilegiato la II area alla III (tendenza corretta solo con gli ultimi concorsi) e un grave squilibrio nella distribuzione territoriale, a discapito delle effettive necessità degli uffici periferici: basti pensare alla presenza di 42 bibliotecari in Abruzzo (dove il ministero non ha nessuna biblioteca), oppure ai 56 tra archivisti e bibliotecari in Calabria, o ai 171 esuberi tra II e III area nella sola Soprintendenza di Salerno e Avellino.
La ragione di questo scompenso risiede nella carenza di una attività gestionale adeguata nel tempo oltre ad una dubbia programmazione organizzativa, senza alcuna verifica del nesso tra ciclo lavorativo delle strutture periferiche e carico di lavoro.
Una delle notazioni più preoccupanti e drammatiche riguarda l'età media del personale: al 2014 è di 54,66 anni; l'età media dei funzionari (area terza) è di ben 57 anni. Si prevede, a breve, nei prossimi anni, un ulteriore svuotamento dei ranghi del funzionariato tecnico, con il duplice inconveniente della perdita di background di esperienza, non trasmesso alle nuove generazioni, che si ha difficoltà a reclutare, e dello svuotamento degli uffici di tutela.
Le recenti assunzioni (500 funzionari tecnici, portati a 700 con la legge di bilancio per l'anno 2018: art. 1, comma 305, legge n. 2015 del 2017, che ha autorizzato l'assunzione di ulteriori 200 unità di personale, appartenenti all'area III - posizione economica F1, mediante scorrimento delle graduatorie di concorso delle procedure di selezione pubblica di cui all'articolo 1, commi 328 e seguenti, della legge 28 dicembre 2015, n. 208) non appaiono sufficienti, in prospettiva, a far fronte a queste lacune (nonostante il passaggio per mobilità di all'incirca altre trecento unità di personale dalle guardie forestali, dalle province e da altre graduatorie Formez-Ripam).
Note
[*] Il presente contributo riproduce, con alcune aggiunte e integrazioni, il testo della relazione presentata al Convegno di studi "Il "paesaggio" di Alberto Predieri. A cinquant'anni dal "Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio" organizzato dall'Università degli studi di Firenze e dalla Fondazione Cesifin, svoltosi a Firenze l'11 maggio 2018, e sarà incluso nei relativi Atti, in corso di pubblicazione.
[1] P. Carpentieri, Principio di differenziazione e paesaggio, in Riv. giur. ed., 2007, 3, pag. 71 ss. [il (troppo) frequente ricorso, in questo contributo, al richiamo di precedenti scritti dell'autore è imposto da esigenze di sintesi espositiva in prosecuzione di percorsi argomentativi già in parte sviluppati in precedenti studi].
[2] Si potrebbe associare all'una visione una propensione per le scienze dure, all'altra visione una tendenza verso le scienze dello spirito o comprendenti (nel senso che la prima visione tende a indirizzare il rinvio operato dai concetti giuridici indeterminati insiti nella nozione giuridica di paesaggio verso l'architettura, la pianificazione territoriale, le geografia, la geometria, la scienze ambientali in senso stretto, chimico-fisico-biologiche; mentre la seconda visione preferisce indirizzare il rinvio verso la storia, l'antropologia, la sociologia, oppure verso l'estetica, la semiotica, le scienze sociali in generale). Per una efficace panoramica sull'ampiezza ed eterogeneità della nozione metagiuridica di paesaggio si veda C. Tosco, Il paesaggio come storia, Bologna, 2007 (che spazia dalla pittura murale romana ad Ambrogio Lorenzetti; da Ruskin a Mérimée, da von Humboldt a Buckhardt, da Carl Ritter a Ratzel, fino all'idea del territorio come sedimento storico dell'Università di Lipsia del Meitzen; dall'Heimatschutz di Ernst Rudorff alla storiografia anglosassone di Marc Bloch e alla geostoria di Braudel; dagli studi di Vittorio Sereni sul paesaggio agrario fino alla strutturalismo di Biasutti e Gambi; dalla teoria dei sistemi fino all'ermeneutica di Joachim Ritter, Massimo Quaini, Rosario Assunto, etc.; molto importante, tra gli altri, il richiamo - 83 ss., ma anche 94 e 95 - della scuola italiana del restauro di Roberto Longhi e Giovanni Urbani, che, sin dalla metà del Novecento, aveva posto l'accento sulla necessità di tutelare il bene culturale nel suo contesto ambientale, tesi ora ripresa da Bruno Zanardi, che propone un Piano nazionale per la conservazione del patrimonio storico e artistico in rapporto all'ambiente, sulla premessa teorica per cui il detto patrimonio costituisce una componente ambientale antropica - Giovanni Urbani, 1982 - costituente "una totalità indissolubile dalla totalità dell'ambiente"). Ma come non ricordare anche l'idea di paesaggio del progetto della "Platonopoli" plotiniana del circolo mediceo riunito nella villa di Careggi come disegno razionale del territorio secondo schemi ideali superiori, o la ripresa del mito virgiliano dell'Arcadia come paesaggio spirituale, dal ciclo dei dipinti del Guercino (Et in Arcadia ego) all'Accademia fondata nel 1690 in Roma dal Crescimbeni attorno a Cristina di Svezia. Non può non ricordarsi, infine, in questo discorso, che una delle prime normative di tutela paesaggistica, la legge Rava - Rosadi n. 411 del 16 luglio 1905, era intitolata "per la conservazione della Pineta di Ravenna" e si proponeva, quale suo scopo precipuo, la difesa dei luoghi cantati da Dante nella Divina Commedia ["la divina foresta spessa e viva" del Canto XXVIII del Purgatorio, luogo narrativo poi ripreso anche dal Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti del Decamerone (V, 8)]. Si veda in proposito, il volume di R. Balzani, Per le antichità e le belle arti, la legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l'Italia giolittiana, ed. del Senato della Repubblica, Bologna, 2003, pag. 435 e 436. Sulla legge "Croce" n. 778 del 1922 si veda la bella prolusione di S. Settis, Benedetto Croce ministro e la prima legge sulla tutela del paesaggio, tenuta il 3 ottobre 2011 presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, reperibile al sito http://www.unive.it/media/allegato/infoscari-pdf/Croce-Ca_Foscari1.pdf.
[3] P. Carpentieri, Regime dei vincoli e Convenzione europea, in Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, (a cura di) G.F. Cartei, Bologna, 2007, pag. 135 ss.
[4] V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, pag. 389 e 427 ss.; P. Urbani, Urbanistica, tutela del paesaggio e interessi differenziati, in Regioni, 1986, pag. 665; Id., Ordinamenti differenziati e gerarchia degli interessi nell'assetto territoriale delle aree metropolitane, in Riv. giur. urb., 1990, pag. 609; P. Chirulli, Urbanistica e interessi differenziati: dalle tutele parallele alla pianificazione integrata, in Dir. amm., 2015, 1, pag. 51 ss. Peraltro, occorrerebbe avviare una critica adeguatrice di questa linea teorica, nel senso che gli interessi differenziati meritano e richiedono, sì, tutele distinte e autonome, ma non necessariamente parallele, nel senso che le diverse tutele differenziate devono in qualche modo incontrarsi e dialogare tra loro nella ricerca di un punto di sintesi unitaria. Occorre aggiungere che l'introduzione nell'ordinamento giuridico della figura del rappresentante unico di governo nella conferenza di servizi, ad opera della legge n. 124 del 2015 e del decreto attuativo n. 127 del 2016, rimette in discussione (e in parte scompagina) questa sistematica: basti considerare che il Consiglio di Stato, nel parere n. 01127/2018 del 27 aprile 2018, reso dalla Commissione speciale su richiesta della Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per il coordinamento amministrativo, ha senz'altro affermato il principio secondo cui "La possibilità di interfacciarsi con un unico interlocutore per l'insieme degli interessi pubblici di matrice statale costituisce, indubbiamente, una assai importante novità, sia sotto l'aspetto della funzionalità dell'istituto, sia non da ultimo sotto l'aspetto dell'immagine stessa che lo Stato dà di sé, atteso che la presenza di più Amministrazioni riconducibili alla stessa persona giuridica pubblica Stato che si trovino a rappresentare in maniera contraddittoria l'interesse pubblico dello Stato stesso appare ipotesi (non lontana dal vero, purtroppo) del tutto contrastante con il più basilare canone costituzionale del buon andamento dell'Amministrazione pubblica" (il che vale quanto dire che la differenziazione e la dialettica tra diversi interessi pubblici è vista come una patologia e non una fisiologia, opinione rispetto alla quale il sottoscritto mantiene un radicale dissenso).
[5] Sul punto si veda di recente L. Casini, "Todo es peregrino y raro...": Massimo Severo Giannini e i beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 3, pag. 987 ss., che richiama (pag. 997 ss.) la sintesi di Giannini (nello scritto Uomini, leggi e beni culturali, 1971, ora in Scritti, V, Milano, Giuffrè, 2004, pag. 281 ss.) delle conclusioni formulate al riguardo dalla Commissione Franceschini ("Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio" istituita dalla legge 26 aprile 1964, n. 310): "riordinare l'amministrazione statale, attribuendole i caratteri di un'amministrazione autonoma, di tipo aziendale, articolata in comitati nazionali per settori di beni culturali". L'idea di un'autonoma Agenzia tecnica è stata sviluppata anche da Giulio Carlo Argan e Giuseppe Chiarante (si veda in proposito G. Chiarante (a cura di), Giulio Carlo Argan. Storia dell'arte e politica dei beni culturali, Annali dell'Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, 2002, 12, Roma, 2002, pag. 162 ss., ove è riportato il testo del disegno di legge presentato al Senato dai sen. Argan e Chiarante il 5 ottobre 1989 per l'istituzione di un'amministrazione autonoma dei beni culturali, con soppressione del ministero e trasferimento delle sue funzioni di coordinamento e di indirizzo al ministero dell'Istruzione; nonché G. Chiarante, Sulla Patrimonio s.p.a. e altri scritti sulle politiche culturali, Annali dell'Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, cit., 2003, pag. 15, Roma 2003, soprattutto pag. 53 ss.).
[6] P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, Milano, 2006, pag. 26 ss.
[7] La Carta Nazionale del Paesaggio e il dossier che raccoglie gli interventi svoltisi in occasione degli Stati generali del Paesaggio del 25 e 26 ottobre 2017, ivi incluso il primo Rapporto sullo stato delle politiche sul paesaggio, sono reperibili al sito del ministero (http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/MenuServizio/Osservatorio-paesaggio/index.html).
[8] G. Melis, Dal Risorgimento a Bottai e a Spadolini. La lunga strada dei beni culturali nella storia dell'Italia unita, in Aedon, 2016, 3.
[9] Uffici tecnici regionali, istituiti dal Ministro Pasquale Villari nel 1891, che si erano aggiunti (acquisendone alcune competenze) alle Commissioni provinciali conservatrici, presiedute in genere da Prefetti, poi divenute Commissariati per le antichità e le belle arti (Ministro Boselli, r.d. 20 giugno 1889, n. 6197), con non pochi problemi di coordinamento (su cui si veda F. Verrastro, Emanuele Gianturco e la questione delle "Antichità e belle arti", in Atti del Convegno di studi sull'opera giuridica e politica di Emanuele Gianturco, Avigliano, 16-17 novembre 2007, di prossima pubblicazione a cura della Fondazione Gianturco, pag. 109 ss., soprattutto pag. 131 ss.).
[10] M. Serio, Il riordinamento delle strutture centrali e periferiche, in Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, (a cura di) V. Cazzato, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2001, II, pag. 615 ss.
[11] M. Serio, op. cit., pag. 616.
[12] M. D'Amelio, La tutela giuridica del paesaggio, in Giur. It., 1912, pag. 129 ss.
[13] Art. 2, terzo comma: "I proprietari possessori o detentori a qualsiasi titolo degli immobili i quali siano stati oggetto di detta dichiarazione, sono tenuti a presentare preventivamente alla competente sovraintendenza dei monumenti i progetti delle opere di qualsiasi genere relative agli immobili stessi, per ottenere l'autorizzazione ad eseguirle dal ministero dell'istruzione pubblica, il quale provvede, sentito il parere della giunta del consiglio superiore per le antichità e belle arti".
[14] Art. 4: "Nei luoghi nei quali si trovano cose immobili soggette alle disposizioni della presente legge, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori possono essere prescritte dall'autorità governativa le distanze, le misure e le altre norme necessarie, affinché le nuove opere non danneggiano lo aspetto e lo stato di pieno godimento delle cose e delle bellezze panoramiche contemplate nell'art. 1/a".
[15] Art. 7: "Gli ispettori onorari, le commissioni provinciali previste nell'articolo 47 della legge 27 giugno 1907, n. 386, gli uffici comunali e provinciali, gli uffici di dipartimenti forestali e del genio civile e gli uffici tecnici di finanza devono segnalare alle sopraintendenze dei monumenti e al ministero dell'istruzione pubblica le opere progettate o iniziate, nonché l'affissione dei cartelli ed altri mezzi di pubblicità che contravvengono alle disposizioni della presente legge".
[16] L. Matarazzo, Il nuovo ordinamento delle Soprintendenze alle opere di antichità e d'arte, in Le Arti, aprile-maggio 1939, pag. 415-415, riportato in Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 624, nonché M. Grisolia, Il riordinamento delle Soprintendenze all'arte e alle antichità, in Il Resto del Carlino, 27 luglio 1939, riportato in Cazzato, op. ult. cit., pag. 27. È da notare che fino alla riforma del 1939 i soprintendenti non erano dipendenti di ruolo, ma incaricati dal ministero della Pubblica istruzione e scelti tra i direttori e gli ispettori d'Istituti d'arte e d'archeologia, i professori d'Università, o per chiara fama (tra "le persone che per studi o per cognizioni dimostrate siano venute in meritata fama di singolare perizia nelle cose d'arte e d'archeologia; articolo 29)".
[17] Una soprintendenza ai monumenti a Milano per tutta la Lombardia, una a Venezia per tutto il Veneto, salvo che per le province di Verona, Cremona e Mantova ve ne era una propria di 2^ classe; una a Bologna per tutta l'Emilia-Romagna, ad eccezione delle province di Ravenna, Ferrara e Forlì che ne avevano una propria di 2^ classe; una a Firenze per tutta la Toscana, una a Roma per tutto il Lazio, una a Napoli per tutta la Campania, etc.
[18] Cito da G. Galasso, Spadolini e il Ministero per i beni culturali e ambientali, relazione tenuta in occasione della cerimonia di intitolazione a Giovanni Spadolini del salone monumentale dell'ex Consiglio nazionale, svoltasi nella sede del ministero di via del Collegio romano, in Roma, il 4 agosto 2016, in L'Acropoli, Anno XVII - n. 6, pag. 587.
[19] In tema cfr. G. Abbamonte, Programmazione e amministrazione per settori organici, Napoli, 1984, pag. 88 ss., nonché in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, Padova, 1990, vol. VIII; Id., Attualità e prospettive di riforma del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, 2, pag. 320.
[20] La razionalità dell'accorpamento delle materie in settori organici, se può apparire evidente a fini classificatori, scolastici o anche organizzatori (riparto di funzioni e compiti tra diversi livelli di governo nella sede dell'attuazione del regionalismo), risulta meno incisiva e condivisibile a livello di comprensione delle ragioni sostanziali dei valori, dei beni e degli interessi sottesi alle singole materie e meritevoli di autonoma e distinta considerazione e disciplina. In quest'ottica va svalutata la rilevanza del "rilancio" della nozione onnicomprensiva di "urbanistica" forgiata dal d.p.r. 616 del 1977 ad opera dell'articolo 34 del d.lgs. 80 del 1998, allo specifico fine di ampliare le nuove attribuzioni di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Sul tema cfr., comunque, per una completa informazione, F. Caringella, Corso di diritto processuale amministrativo, Milano, 2003, pag. 473 ss.
[21] Per questa efficace espressione cfr. D. Sandroni, sub art. 131, in AA.VV., Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, coord. da R. Tamiozzo, Milano, 2005, pag. 587 ss.
[22] L'art. 1, comma 327, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) ha stabilito che "entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 4-bis, lettera e), della legge 23 agosto 1988, n. 400, e dell'articolo 4, commi 4 e 4-bis, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, si provvede, nel rispetto delle dotazioni organiche del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo di cui alle tabelle A e B del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 agosto 2014, n. 171, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, alla riorganizzazione, anche mediante soppressione, fusione o accorpamento, degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, del medesimo Ministero". Si è lamentato da più parti che questo modo di procedere alla riforma dell'organizzazione ministeriale costituisse l'ennesimo esempio di "fuga dal regolamento" e di sottrazione di queste scelte al necessario confronto parlamentare (cfr. A. Lucarelli e M. Della Morte (a cura di), Dimensioni ed effettività del potere regolamentare. A trent'anni dalla legge n. 400 del 1988, "Focus" pubblicato nel n. 2 - 27 novembre 2017 di Federalismi.it, in particolare le conclusioni di B. Caravita di Toritto; V. Cocozza, La procedura di nomina dei direttori nei musei, ivi, n. 11, 23 maggio 2018; la legittimità e la conformità al quadro costituzionale del sistema delle fonti di questa riforma sono state acclarate infine da Cons. Stato, sez. VI, 24 luglio 2017, nn. 3665 e 3666, di riforma di Tar Lazio, sez. II-quater, 7 giugno 2017, n. 6719, che aveva invece annullato il decreto ministeriale di istituzione del Parco archeologico del Colosseo in accoglimento dei ricorsi proposti dalla Uil e dal Comune di Roma Capitale; sul tema della fuga dal regolamento cfr. più in generale, M Ramajoli, B. Tonoletti, Qualificazione e regime giuridico degli atti amministrativi generali, in Dir. amm., 2013, 1-2, pag. 53 ss., con ampi richiami di giurisprudenza e dottrina, nonché B. Tonoletti, Fuga dal regolamento e confini della normatività nel diritto amministrativo, ivi, 2015, 2-3, pag. 389 ss. Sulla normazione del potere esecutivo nell'ambito della "Nuova scienza del diritto amministrativo in Germania" cfr. E. Schmidt-Aßmann, La dogmatica del diritto amministrativo nel dibattito tedesco sulla riforma ("la nuova scienza del diritto amministrativo"), in Dir. Amm., 2015, 2-3, pag. 255 ss., pag. 277; in giurisprudenza cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 novembre 2016, nn. 5035 e 5036, di riforma del Tar Lazio, sez. II-quater, che aveva annullato il d.m. di disciplina del riparto FUS 1° luglio 2014, nonché Cons. Stato, ad. plen., 4 maggio 2012, n. 9 (ancorché relativa al d.m. del ministro delle Attività produttive del 28 luglio 2005, recante "Criteri per l'incentivazione della produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica della fonte").
[23] In allegato sono riportati alcuni dati attuali sulla distribuzione del personale ministeriale, che possono essere utili anche per un raffronto con le dotazioni organiche delle precedenti fasi organizzative.
[24] Vediamo un esempio in concreto: la Regione Campania.
1. Segretariato regionale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per la Campania, con sede a Napoli
2. Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Napoli, con sede a Napoli
3. Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per l'area metropolitana di Napoli, con sede a Napoli
4. Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Caserta e Benevento, con sede a Caserta
5. Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Salerno e Avellino, con sede a Salerno
6. Polo museale della Campania, con sede a Napoli
7. Soprintendenza archivistica e bibliografica della Campania, con sede a Napoli
8. Archivio di Stato di Napoli
9. Biblioteca Nazionale "Vittorio Emanuele II" di Napoli
10. Museo di Capodimonte
11. Reggia di Caserta
12. Museo Archeologico Nazionale di Napoli
13. Parco archeologico di Pompei
14. Parco archeologico di Ercolano.
15. Parco archeologico di Paestum
16. Parco archeologico dei Campi Flegrei.
[25] Sul punto si vedano le riflessioni di R. Cecchi, I Beni culturali, Testimonianza materiale di civiltà, Milano, 2006, pag. 110 ss.
[26] Sulla natura codecisoria del parere vincolante del soprintendente nel procedimento diretto al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del codice cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 15 maggio 2017, n. 2262.
[27] Questo ragionamento è sviluppato appieno in P. Carpentieri, Paesaggio, ambiente e sviluppo: la via italiana della tutela, nella rivista on line Giust.Amm.it, 1 dicembre 2015, in particolare nel par. 4, intitolato "La logica formale della tutela: autocertificabilità degli accertamenti tecnici vincolati (applicativi di scienze "dure"); non autocertificabilità della discrezionalità ermeneutica (applicativa di scienze sociali comprendenti)". Queste notazioni devono valere naturalmente "in linea di massima", posto che, non c'è dubbio, ben può accadere (e accade di frequente) che nel campo ambientale emergano questioni "opinabili" (implicanti giudizi tecnico-discrezionali di compatibilità) e in quello culturale questioni "certificabili" (implicanti meri accertamenti vincolati di conformità). Resta sottinteso - in quanto ovvio - che la distinzione tra "scienze esatte" e "scienze deboli", come quella storicistica tra "scienze della natura" e "scienze dello spirito", distinzione in realtà superata nel dibattito filosofico (si veda, ad esempio, H. Putnam, Fatto/valore; fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Roma, 2004), è qui richiamata per il profilo euristicamente ancora fecondo che da essa può utilmente trarsi ai fini di una migliore comprensione della logica formale interna del sillogismo che viene ad essere costruito nelle une (accertamenti tecnici) e nelle altre (scelte interpretative opinabili) decisioni amministrative.
[28] La discussione su quale sia il giusto punto di equilibrio tra professionalità tecniche e professionalità amministrative per assicurare una buona amministrazione imparziale nel campo della tutela del patrimonio culturale era vivace già ai tempi della prima costruzione dell'amministrazione preposta alle antichità e alle belle arti: si veda, ad esempio, F. Verrastro, Emanuele Gianturco e la questione delle "Antichità e belle arti", cit.
[29] Per un esame analitico sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, Autorizzazione paesaggistica semplifica. Guida commentata al d.p.r. n. 31/2017 e relative tabelle, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2017.
[30] Quanto il principio di proporzionalità - che bilancia Autorità e Libertà - sia essenziale nel diritto amministrativo è dimostrato dal fatto che la sua (forse) prima enunciazione si deve al Romagnosi: "far prevalere la cosa pubblica alla privata col minimo possibile sacrificio della privata proprietà e libertà" (cito da F. Merusi, Gian Domenico Romagnosi fra diritto e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 4, pag. 1234, dove si sottolinea anche come l'origine romagnosiana del principio fosse stata messa in rilievo già da A. Sandulli, La proporzionalità dell'azione amministrativa, Padova, 1998). Ben prima della recente elaborazione, in diritto tedesco, poi in diritto europeo, di questa nozione, G. Filangieri (Scienza della legislazione, in 8 voll., 1780-1791, rist. a cura di D. Tomassi, 1° vol., 1826, 262) ne esprimeva l'essenza nel seguente indirizzo fondamentale per l'amministrazione: "Ingerirsi quanto meno si può, lasciar fare quanto più si può" (cito da L. Mannori, in Treccani, la cultura italiana on line, al sito http://www.treccani.it/enciclopedia/l-amministrazione-degli-antichi-stati_(Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Diritto). Sul principio di proporzionalità, da ultimo, cfr. F. Trimarchi Banfi, Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 2, pag. 361 ss.; D.U. Galetta, Il principio di proporzionalità, in Codice dell'azione amministrativa, (a cura di) M.A. Sandulli con il coordinamento di D.U. Galetta e M. Gigante, Milano, 2011, pag. 110 ss., nonché Id., Il principio di proporzionalità, in Studi sui principi del diritto amministrativo, (a cura di) M. Renna, F. Saitta, Milano, 2012, pag. 389 ss. In generale, cfr. F. Merusi, Ragionevolezza e discrezionalità amministrativa, Napoli, 2011; V. Fiorillo, Il principio di proporzionalità da parametro di validità a fondamento del diritto alla protezione dei dati personali nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, in Federalismi.it, n. 15 - 26 luglio 2017); ampi richiami ulteriori in R. Cavallo Perin, I limiti ai poteri delle giurisdizioni, in Dir. proc. amm., 2016, 4, pag. 990, nota 21. Sul principio di proporzionalità nella teoria generale, con attenzione ai profili amministrativistici, S. Cognetti, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, Giappichelli, 2011; F. Di Porto, Regolazione, principio di proporzionalità e scienze cognitive, in Federalismi.it, 2018, 4, 14 febbraio 2018, al sito http://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=35748, con ampi richiami storici e di dottrina.
[31] Per un'informazione di sintesi sul vastissimo dibattito giurisprudenziale e dottrinario sul tema degli interessi diffusi cfr. V. Caianiello, Diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, pag. 156 ss., nonché F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 2001, pag. 483 ss. (ove si richiamano i fondamentali contributi di M.S. Giannini, La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, in Le azioni a tutela degli interessi collettivi, Padova, 1976 - ove si propone la teoria dell'interesse diffuso "adespota" che diviene interesse collettivo se si struttura in forme associative - e di M. Nigro, Le due facce dell'interesse diffuso: ambiguità di una formula, in Foro It., 1987, V, pag. 7 ss.).
[32] P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell'eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in Federalismi.it, 2017, 4, 22 febbraio 2017 (http://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=33604). La critica di fondo consiste nel rilievo per cui la traduzione della locuzione cultural heritage con patrimonio culturale (anziché, come da me proposto, con eredità culturale) confonde la cultura in senso antropologico (di cui in realtà parla la Convenzione) con il patrimonio culturale in senso giuridico (che è quello definito dal codice di settore).
[33] G. Volpe, Monterosso come laboratorio di una "Comunità di patrimonio", in Monterosso: la riscoperta dell'antico, (a cura di) P.M. De Marchi e D. Francescano nella collana Progetti di archeologia, edito dalla SAP Società archeologica, 2018, che raccoglie gli Atti del Seminario dedicato a Monterosso e al suo territorio tra i secoli IX/X e XV/XVI. Un altro contributo, di recente pubblicazione, che sembra molto utile nel senso di illustrare con eloquenti casi applicativi la fecondità della nozione di comunità di heritage come strumento di educazione e motivazione delle comunità locali alla consapevolezza del patrimonio di cultura e di tradizioni del proprio territorio, è rappresentato dal volume Luoghi e genti d'Abruzzo, (a cura di) M.G. Picchione, A. Lopardi e A. Mancinelli, De Siena Editore, Pescara, 2017.
[34] A. Carandini, La forza del contesto, Laterza, Roma-Bari 2017, pag. 9.
[35 A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, ora in Studi per il XX Anniversario dell'Assemblea Costituente, vol. II, Le libertà civili e politiche, Firenze, Vallecchi, 1969, pag. 381 ss.
[36] P. Carpentieri, Paesaggio, ambiente e sviluppo: la via italiana della tutela, cit.
[37] Avevo in particolare rilevato che "Tale ultimo modello sfocia in una visione panterritorialista, sospinta nella sostanza dal regionalismo e impostata culturalmente sull'idea del Predieri (ancorché recepita in modo parziale) del paesaggio come forma del territorio (l'idea guida del paesaggio come forma del territorio creata dalla comunità umana che vi è insediata, con una continua interazione della natura e dell'uomo, infatti, se da un lato mostra di considerare il paesaggio un fenomeno della cultura, lì dove per l'appunto il paesaggio è inteso come forma visibile del territorio, in contrapposizione all'ambiente come sostanza invisibile, dall'altro ha però fornito le basi concettuali per la linea di pensiero panurbanistica, dominante negli anni '70 del secolo scorso, attraverso l'idea per cui "la regolazione del paesaggio e del territorio è generale e globale")".
[38] Questa felice formulazione, che è peraltro alla base della legislazione toscana di settore e dello stesso piano paesaggistico, si deve a C. Marzuoli, Il paesaggio nel nuovo Codice dei beni culturali, in Aedon, 2008, 3, pag. 3 del documento.
[39] Per un avvio di questo dibattito si vedano gli interventi comparsi nel n. 3 del 2016 di Aedon: G. Sciullo, Presentazione, P. Carpentieri, Semplificazione e tutela, G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, F. Cortese, Le amministrazioni e il paesaggio, tra discorso di verità e discorso di volontà, G. Sigismondi, Valutazione paesaggistica e discrezionalità tecnica: il Consiglio di Stato pone alcuni punti fermi. Un altro campo nel quale il nodo della dialettica tecnica-politica è venuto al pettine in tutta evidenza è rappresentato dal procedimento di approvazione (regionale) del piano paesaggistico (tema su cui si veda il volume di G.F. Cartei, D.M. Traina, Il piano paesaggistico della Toscana, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015).
[40] Anche qui, ma solo per sintesi espositiva, devo rinviare al mio Gli indirizzi di politica del diritto nei più recenti interventi normativi sui beni culturali (contributo che raccoglie, con alcune integrazioni e le annotazioni in calce, l'intervento tenuto in occasione del Convegno Le attualità del diritto dei beni culturali, svoltosi presso il Dipartimento di diritto pubblico, internazionale e comunitario dell'Università degli studi di Padova il 2 febbraio 2018 in occasione dell'apertura del Corso di Alta Formazione "La dimensione giuridica dei beni culturali"), par. 4.
[41] Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, disciplinato con d.m. Ambiente 21 maggio 2010, n. 123, in attuazione dell'articolo 28 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, che ne ha disposto l'istituzione, sotto la vigilanza del ministro dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del mare, mediante la fusione dell'APAT, dell'INFS e dell'ICRAM, contestualmente soppressi.
[42] Prendo in prestito questa formula dal Prof. Sandro Amorosino, che l'ha impiegata nella sua relazione agli Stati generali del paesaggio del 25 ottobre 2017. Il Prof. Settis (Se Venezia muore, Einaudi, Torino, 2014, pag. 97, nonché Id., Paesaggio, Costituzione, cemento, Torino, Einaudi, 2010, pag. 194 ss., pag. 219 ss.) ha in più occasioni prospettato l'idea dell'accorpamento in un unico ministero di tutela delle diverse funzioni coinvolte (paesaggio, patrimonio culturale, ambiente-ecosfera, urbanistica, infrastrutture), sul rilievo per cui "il vizio di origine dell'ordinamento italiano... è il mancato raccordo tra tutela del paesaggio e leggi urbanistiche".
[43] Questo modello è posto al centro della carte del paesaggio, approvata all'esito degli Stati generali del paesaggio.