Il Mibact: dalle origini ad oggi
Dal Risorgimento a Bottai e a Spadolini. La lunga strada dei beni culturali nella storia dell'Italia unita
di Guido Melis
Sommario: 1. Cinque scene e un proemio. - 2. Le origini. - 3. La costruzione dell'amministrazione. - 4. La grande riforma: Bottai. - 5. Il dopoguerra e la ripresa del progetto. - 6. Conclusioni: l'inattuale attualità di Spadolini.
From the Risorgimento to Bottai and Spadolini. The long road of cultural heritage in the history of Italian Unification
Cultural heritage in contemporary
Italy starts immediately after unification. A number of good laws (but some
preunification systems already dealt with this issue) increase protection on
the part of the State and enlarge little by little the number of assets to be
protected. At the same time the first nucleus of a specialized administration
sees the light. All this situation is the origin of a sector legilsation during
Giolitti's time. During last part of the 30s, fascist legislation, promoted by
Minister Bottai, gives new strenght to the superintendences on the whole
italian territory and creates important central foundations. A real policy for
cultural heritage arises and it extends itself to the landscape and other
subjects, with strict restrictions for private citizens. Minister Spadolini has
an important role after the second world war period: thanks to him Italy has a
specific ministry for cultural heritage.
Keywords: Cultural Heritage; Protection;
Cultural Promotion.
Il proemio è una citazione inedita, tratta dai verbali del Consiglio dei ministri fascista, seduta del 18 marzo 1930. Testualmente: "Prende la parola il ministro degli Esteri Grandi, che propone che la direzione generale dei Monumenti venga spostata al Sottosegretariato al turismo. Per industrializzare i Monumenti". Niente di più. Non so il seguito, forse non esiste. Però l'indizio è eloquente. Testimonia di una seconda linea, al di sotto di quella della conservazione e della tutela: la linea - per dirla con Grandi - della "industrializzazione dei monumenti".
Prima scena: le origini. Si apre nel 1866, l'anno della Terza guerra di indipendenza, quando in tutte le maggiori città italiane furono create le commissioni di belle arti, e poi, l'anno dopo, la Giunta di belle arti in seno al Consiglio superiore della pubblica istruzione.
Nel 1870 il direttore delle Gallerie di Firenze Gamurrini propose al ministro Correnti di creare in ogni regione una Commissione per la conservazione dei monumenti. Al centro, ad assicurarne il coordinamento, soltanto nove persone in un'apposita divisione diretta da Giulio Rezasco (un dirigente che fu anche l'autore del primo lessico della burocrazia italiana). Correnti riprese solo in parte la proposta. Istituì nel 1872 la Giunta consultiva di storia, archeologia e paleografia, collegata a una prima rete di commissioni provinciali. Ne sarebbe venuto più tardi il Consiglio centrale di archeologia e belle arti. Vigilanza, inventario del patrimonio, notizie periodiche al Ministero: il prefetto a garantire il nesso centro-periferia.
Le riforme amministrative non avvengono mai per caso. Era nata in quegli anni in Italia, sebbene anche prima, negli antichi Stati, non mancassero leggi virtuose, una sensibilità nuova per le antichità e le cose d'arte. L'emozione davanti alle bellezze italiane che Goethe provò nel suo Viaggio in Italia si era impadronita di un'intera generazione: non necessariamente accademici ma patrioti, reduci delle battaglie risorgimentali, eruditi locali, semplici e spesso ingenui appassionati di tradizioni patrie. Una nazione in cerca di identità scopriva le sue radici nel passato, prossimo e remoto.
Nel 1875 un ministro della Destra, Ruggiero Bonghi, istituì la Direzione centrale degli scavi e dei musei. Organico, 12 impiegati. Competenze, conservazione delle collezioni, delle vestigia antiche, scavi, preparazione del personale. I commissariati periferici le davano gambe in provincia. Si affermava il concetto, per quanto ancora embrionale, della tutela statale.
Non era un'idea scontata. Anzi, la concezione dominante era che il bene dovesse essere lasciato nella disponibilità piena del proprietario. La creazione della prima rete istituzionale, il ruolo attivo del Ministero, la vigilanza in periferia delle commissioni provinciali, la mobilitazione in tutto il Paese di una schiera di appassionati consentirono il primo passo. Lo Stato, magari ancora timidamente, cominciava ad ingerirsi nella conservazione.
Nel 1877 due regolamenti, per gli scavi e i musei, ordinarono la materia. Un periodico che sarebbe diventato glorioso, "Notizie degli scavi", contribuì a diffondere l'attenzione per l'archeologia.
Nel 1881, con la Sinistra da qualche anno al potere, il ministro Baccelli trasformò la Direzione degli scavi e musei in Direzione generale delle belle arti, affidandone la guida a un funzionario eccellente, Giuseppe Fiorelli. Chiusa l'era operosa ma ancora incerta delle origini, si apriva quella matura dell'organizzazione. E dei progetti.
3. La costruzione dell'amministrazione
Seconda scena: la costruzione dell'apparato. Nel 1882 Baccelli promosse il primo ruolo unico degli impiegati. Era la prova che stava nascendo, o era già nata, una leva di specialisti: 388 posti distinti in personale tecnico e amministrativo. Custodi, guardie, bidelli, inservienti; ma anche ispettori, architetti e topografi, disegnatori, esperti in musei. Fiorelli dirigeva l'apparato con polso sicuro. Nel 1889 fu lui a volere 12 Commissariati regionali per le antichità e le belle arti. Una particolare attenzione fu riservata alle Scuole d'arte. Una leva di nuovi tecnici di settore conquistò i vertici dell'amministrazione. Un nome per tutti, ma illustre: quello di Felice Barnabei.
Nel 1895 il personale venne distinto tra addetti ai monumenti da una parte, e alle gallerie, musei e scavi dall'altra. Del 1902 venne la prima legge per la conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e d'arte, nel 1903 fece seguito quella sull'esportazione di oggetti di scavo e di altri oggetti di rilevanza archeologica e artistica. Dal 1907 gli uffici locali, attivi sul territorio, presero il nome e la struttura di Soprintendenze. Del 1909 è la legge Rosadi, il punto più alto dell'intervento giolittiano, lucida anticipazione di un disegno virtuoso che poi purtroppo si interruppe. Lo Stato cominciava a mettere ordine. Poneva limiti ai diritti dei privati nel nome dell'interesse pubblico. Combatteva il commercio clandestino, instaurava una prima legislazione di settore, affermava l'idea di un interesse pubblico alla tutela.
Non fu un cammino agevole. Contrari grandi interessi, conservatorismi atavici, malintese ideologie liberiste. Un solo esempio: nel 1908-10 la grande inchiesta promossa nel Ministero Pubblica istruzione per reagire allo scandalo Nasi (un ministro accusato di malversazioni e appropriazione indebita di oggetti d'arte) mise sotto accusa le cosiddette amministrazioni "tecniche". I dirigenti amministrativi - che non avevano la laurea in giurisprudenza, si scrisse nero su bianco nella relazione finale - non erano stati in grado di esercitare efficacemente la loro funzione. I "tecnici" (e tra questi quelli delle Belle arti) potevano, sì, vantare competenze settoriali anche prestigiose, ma non potevano dirigere gli uffici, tanto meno quelli di vertice. Mancava loro la competenza delle competenze: il diritto amministrativo. Persino il grande Corrado Ricci, come fu scoperto un certo disordine nelle sue carte di direttore dei Musei, fu colpito da un severo richiamo disciplinare. La laurea in giurisprudenza diveniva il requisito per assurgere alle direzioni generali e alla guida delle divisioni. Vi corrispose subito quella che Sabino Cassese ha chiamato, anni fa, "la fuga dei tecnici dall'amministrazione".
Terza scena: il fascismo. Inizialmente il quadro non cambiò. Nella quotidiana pratica degli uffici il nuovo regime si conformò alla vecchia regola burocratica.
Tutto ciò sinché non arrivò Bottai. Su questa controversa figura è in atto da tempo una problematica discussione storiografica. Quel che interessa qui è quale sia stato il suo ruolo nel campo dei beni culturali e quale l'eredità profonda della sua riforma.
Nel 1922 c'era stata, ancora su ispirazione liberale (soprattutto di Croce), la legge sulle bellezze paesistiche: dichiarazione di interesse pubblico, obbligo di conservazione da parte del proprietario, poteri all'amministrazione. Poi quasi più niente. Sino a Bottai. "La normativa del tardo fascismo - ha scritto Cassese - rappresentò un autentico complessivo programma di politica della cultura".
Due i capisaldi: l'istituzione di un unico Consiglio nazionale dell'educazione, della scienza e delle arti; e naturalmente il riordino e la modernizzazione delle soprintendenze, dotate di poteri più incisivi. La riforma centralizzò molte decisioni, prima disperse o disordinatamente divise tra più soggetti, ed estese il raggio dell'intervento: non più solo le tradizionali "cose culturali", gli oggetti, ma un complesso di materie e campi sino ad allora ignorati: le "nuove arti" del Novecento, in primo luogo, comprese quelle legate alle tecnologie d'avanguardia.
Colpisce l'ampiezza dell'intervento, ma anche la coerenza del disegno, e la qualità della sua traduzione in leggi e in norme secondarie. Cassese ha ricordato come agisse, non solo da suggeritore sapiente alle spalle del ministro ma da vero e proprio autore del drafting legislativo, il giurista più importante del momento, il presidente del Consiglio di Stato Santi Romano, coadiuvato da un funzionario giovanissimo ma di grande valore, Mario Grisolia. La legge sulle cose d'arte passò nelle due aule del Parlamento fascista in pochissimo tempo e senza subire alcun emendamento, esattamente nella versione licenziata da Romano. L'altra, sulle bellezze paesistiche, ebbe un iter più lento, ma dovuto solo alla richiesta corporativa di immettere rappresentanze locali nelle commissioni provinciali.
Emergevano concetti moderni. Ad esempio l'identificazione dell'oggetto, che da una concezione estetizzante e particolaristica passava ad un'altra, più consapevole della realtà e sensibile ai contesti, agli insiemi: le peculiarità geologiche, le ville, i giardini di impianto storico, l'insieme del paesaggio ("le bellezze naturali considerate come quadri naturali"). Fondamentale la creazione dell'Istituto centrale del restauro, affidato alla acuta intelligenza di Cesare Brandi, affiancato dal giovane Giulio Carlo Argan. E si affermava anche l'idea del piano: i progetti delle nuove opere preventivamente vagliati, l'inserimento armonioso nel contesto paesaggistico o urbanistico, l'uniformità delle eventuali variazioni paesaggistiche e la loro conciliabilità con l'insieme.
E dietro il piano i differenti interessi in gioco: il complesso intreccio, tipico degli anni Trenta, tra interesse pubblico dominante e interessi settoriali, talvolta anche questi, seppure solo in parte, di rilievo pubblico, o altrimenti anche solo privati. Un celebre passaggio di Massimo Severo Giannini, il giurista che più di tutti colse per primo la novità di quelle norme, verte sull'immagine di un palazzo che sorga in un centro storico, dalla facciata pericolante ma con strutture architettonicamente di rilievo artistico, e con sale interne affrescate da pittori illustri: quale degli interessi in gioco deve prevalere? La sicurezza fisica dei passanti minacciati dai calcinacci? La conservazione e manutenzione della facciata originaria o la sua trasformazione modernizzante? O la tutela degli affreschi, il loro restauro a regola d'arte?
Le riforme Bottai ebbero un'altra caratteristica. Furono preparate da un movimento culturale esterno ma anche interno allo Stato (cito solo il Convegno dei soprintendenti del 1938): non caddero dall'alto, come spesso era stato per le riforme amministrative, ma nacquero in un laboratorio interno, col consenso partecipato di chi le avrebbe dovute applicare. In quella vera e propria pepinière di servitori dello Stato crebbero o furono allevati eccellenti specialisti, intellettuali di rango come - per fare un solo nome - lo stesso Argan. Una generazione nuova (ne esiste un'anagrafe nei bei volumi dedicati dal Ministero ai sovrintendenti), che sarebbe stata protagonista negli anni della guerra, salvando il patrimonio dalle distruzioni. E che avrebbe costituito poi il nerbo dell'amministrazione della Repubblica.
5. Il dopoguerra e la ripresa del progetto
Scena quarta: il dopoguerra. La Costituzione sancì la "valenza unitaria" dei beni culturali: "la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione", dice l'art. 9 comma 2.
E tuttavia, nei convulsi decenni che seguirono, specie in quelli della crescita, spesso sregolata, la consapevolezza dell'entità e del valore del patrimonio si smarrì. Non la ebbero quelle prime classi dirigenti, pure virtuose ma assediate da ben altri problemi immediati; non la ebbe l'opinione colta, se si eccettuano settori intellettuali di nicchia. Ha scritto Francesco Franceschini nel 1969: "Era fatale che si ingenerasse una sorta di rassegnazione e inefficiente stanchezza negli uffici: proprio mentre, per il disordinato svilupparsi delle nuove attività economiche ed edilizie, cominciavano a moltiplicarsi le infrazioni".
Nel 1955 però la Camera istituì una Commissione, che lavorò nel 1956-1958, pur senza produrre esiti. E nel 1964-66 venne, finalmente, la Commissione Franceschini. Tra i suoi buoni risultati, uno merita di essere sottolineato: l'idea di una amministrazione autonoma per i beni culturali.
Il progetto di Spadolini deve molto a quei lavori. Fu lì che prese corpo la nozione stessa di bene culturale come un tutto omogeneo. Fu lì che troviamo un passaggio ("il bene che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà") destinato a costituire un punto fermo. Da lì viene il disegno spadoliniano, arricchito dalla sensibilità del ministro per gli archivi, finalmente sottratti all'Interno. Uno dei più illuminati dirigenti dei Beni culturali, Mario Serio, ha scritto anni fa che Spadolini rifiutò di chiamare il nuovo Ministero come "della cultura", o anche "dei beni culturali", in favore della dizione "per i beni culturali e ambientali", volendo così significare la sua volontà di limitare il protagonismo del ministro e della struttura amministrativa a vantaggio di una attività legata alle cose, ai problemi reali, alla società e ai suoi bisogni. Oggi diremmo al servizio del cittadino.
6. Conclusioni: l'inattuale attualità di Spadolini
Scena quinta: epilogo. Chi ha vissuto l'età costituente di Spadolini ministro potrà testimoniare delle promesse di quella stagione. Un altro modello di amministrazione, con altri obiettivi, altre regole, altre sensibilità, altre competenze specialistiche. Un'amministrazione non più burocratica. Un ministero non ministeriale.
Che ne è stato di quella esperienza? In parte essa non produsse risultati, perché il Ministero fu una struttura irrisolta. Cambiava l'idea dei beni culturali, ma non, o non abbastanza, l'amministrazione.
Dopo Spadolini si sono susseguiti ben 24 ministri (25, se si conta un interim di Andreotti), i cui nomi da soli (una lunga serie di politici di secondo piano, solo episodicamente grandi personalità) dicono della marginalità del Ministero. La lunga sequenza delle riforme interne, un vero e proprio terremoto di norme e di sconquassi organizzativi, testimonia dell'assenza di un progetto unitario e della frammentarietà e spesso improvvisazione e velleitarismo degli interventi. Bilancio non positivo.
Perciò in molti guardiamo con speranza all'oggi. Vi riconosciamo il recupero di un'idea che, come nel 1974, mette insieme le virtù di una storia gloriosa con le sfide ineludibili del cambiamento. Vi vediamo finalmente la consapevolezza delle grandi trasformazioni che stanno cambiando il mondo contemporaneo: i saperi un tempo a canne d'organo ed ora non più scissi ma intrecciati; l'organizzazione non più gerarchica e burocratica; le professionalità in via di repentina mutazione; l'influenza che la cultura delle reti e delle connessioni sta già potentemente esercitando. Tempi nuovi, adatti a politiche nuove.
Che ne avrebbe detto Giovanni Spadolini, intellettuale e politico così profondamente legato all'eredità della storia? Non lo sappiamo.
Ma, per citare il titolo di un bel libro di Lorenzo Casini, io penso che alla sua singolare sensibilità di grande conservatore capace di scommettere sull'innovazione non sarebbe dispiaciuto quell'ossimoro: "ereditare il futuro".