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La gestione degli archivi: un problema (non solo) di competenza

Profili problematici dell'integrazione fra principi, regole e canoni scientifici nella gestione dei beni culturali

(a proposito del tentativo di conferire l'esercizio delle funzioni di tutela in materia di archivi alla Regione Autonoma Valle d'Aosta)

di Luca Geninatti Satè

Sommario: 1. Il problema di regolare giuridicamente la gestione dei beni culturali. - 2. Il riparto di competenze in materia di gestione degli archivi storici e le regioni a statuto speciale. - 3. La tutela dei beni culturali: principi e regole. - 4. I principi di integrità e di non interrotta custodia nella scienza archivistica. - 5. La difficile integrazione fra principi e regole nel tentativo di conferimento dell'esercizio delle funzioni amministrative in materia di archivi alla Regione Autonoma Valle d'Aosta. - 6. Diritto, scienza e "natura delle cose".

Some Issues about Relationship between Principles, Rules and Scientific Dogma (and between Law and Science) in Cultural Heritage Management
The article resumes the subject of the relationship between principles and rules, underlining some crucial issues that arise with reference to the cultural heritage management. Its starting point is the attempt made to transfer to the Valle d'Aosta Region some administrative functions regarding historical archives, and in this perspective the article aims, in the first place, to retrace the allocation of the Regions' administrative powers in that field. The analysis mainly focuses on the criteria of the archival science and on their relationship between legal principles, pointing out that the issues regarding the cultural heritage management are, in fact, symptoms of a more difficult problem: the comparison between legal positivism and science and the pretension that the results achieved by the science must take priority on the provisions set forth by the law.

1. Il problema di regolare giuridicamente la gestione dei beni culturali

La tradizionale distinzione (tradizionale quanto discussa [1]) fra principi e regole conosce, in materia di gestione dei beni culturali, un'ulteriore variante, che ne genera uno sdoppiamento.

All'antitesi che differenzia i principi, intesi come "norme aperte, a prescrizione generica" [2], dalle regole, intese - kelsenianamente - come precetti che impongono uno specifico comportamento al ricorrere di uno specifico evento [3], si aggiunge la dicotomia fra i principi scientifici che governano la disciplina archivistica (ossia i canoni elaborati e condivisi dalla comunità scientifica e ritenuti adeguatamente capaci di orientare e reggere l'attività di gestione degli archivi, intesa come scienza) e le norme giuridiche (siano esse espresse in forma di principi o di regole) chiamate a regolare quella scienza.

Il problema di regolare giuridicamente la gestione dei beni culturali si sdoppia quindi in una duplice questione: (a) come conciliare i canoni della scienza archivistica con le norme giuridiche in materia di gestione (questione a sua volta scomponibile nel problema di conciliare quei canoni con i principi costituzionali in materia di gestione e in quello di contemperare i medesimi canoni con le disposizioni normative dettate sulla stessa materia); (b) come assicurare la corrispondenza fra i principi costituzionali in materia di gestione e la conseguente disciplina normativa (corrispondenza intesa come adeguata, condivisa e concettualmente corretta riconducibilità della seconda ai primi).

Un esempio di questa complessità è rappresentato dalla questione del conferimento dell'esercizio delle funzioni in materia di gestione degli archivi storici a una regione a statuto speciale (nella specie: la Regione Autonoma Valle d'Aosta).

La questione è interessata da una serie di profili strettamente concernenti il riparto di competenze sulla materia fra Stato e regioni, oltreché da elementi, anche procedimentali, specificamente legati all'autonomia speciale della regione coinvolta.

Ma questi elementi costituiscono in realtà la cornice di un problema più profondo: la difficoltà del diritto nello stabilire principi e introdurre regole in settori che si ritengono governati (e governabili esclusivamente) da assiomi scientifici, una difficoltà che l'attuale stato di avanzamento teorico degli studi giuridici non sembra in grado di superare.

2. Il riparto di competenze in materia di gestione degli archivi storici e le regioni a statuto speciale

Sulla base dell'orientamento che riconosce nell'art. 9 Cost. la fonte che attribuisce la tutela dei beni culturali allo Stato-ordinamento [4] (e dunque sul presupposto che esista un principio costituzionale a fondamento della compartecipazione dei vari soggetti pubblici allo sviluppo e alla tutela dei beni culturali [5]) e dell'interpretazione dell'art. 117 Cost. secondo cui esso, in materia di beni e attività culturali, ha introdotto un riparto di competenze che assume a criterio non la "materia (oggetto) a sé stante" [6], ma le attività che possono riguardarla, le funzioni amministrative concernenti la gestione degli archivi storici dovrebbero ritenersi trasferibili (anche) alle regioni a statuto speciale, essendo piuttosto la permanenza di tali funzioni "in capo al governo nazionale a dover trovare una giustificazione nel principio/obiettivo, se davvero applicabile a casi del genere, di assicurarne l'esercizio unitario" [7].

Rispetto a questo punto, il fatto che si tratti di una regione a statuto speciale rileva soltanto rispetto ai peculiari profili connessi con il procedimento di attuazione dello statuto speciale.

Posto, infatti, che gli statuti delle regioni ad autonomia speciale vengono attuati attraverso disposizioni approvate con la forma di decreto legislativo, ciascuno statuto prevede un procedimento che contempla l'emissione, sullo schema della norma di attuazione dello statuto speciale, di un parere da parte della c.d. Commissione paritetica, composta di un uguale numero di rappresentanti dello Stato e della regione nominati con decreto del Ministro per gli affari regionali, il turismo e lo sport (decreto che ha natura costitutiva per i componenti di parte statale e ricognitiva dei componenti di parte regionale: cfr. art. 48-bis dello statuto speciale della regione Valle d'Aosta, approvato con decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato 23 dicembre 1946, n. 532); in seguito al parere favorevole della Commissione, lo schema viene sottoposto alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, promulgato e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.

Per quanto sin qui detto l'ordinamento della gestione dei beni culturali (e in particolare quella sua componente che consiste nel ripartirne le competenze fra Stato e regioni) può dunque ritenersi regolato:

a) dal principio della compartecipazione dei vari soggetti pubblici allo sviluppo e alla tutela dei beni culturali (dedotto interpretativamente dall'art. 9 Cost.)

b) dal principio della ordinaria trasferibilità delle funzioni amministrative in materia di gestione dei beni culturali alle regioni (ricavato ancora interpretativamente dall'art. 117 Cost.),

c) dalla regola per cui la permanenza di tali funzioni in capo all'amministrazione centrale può essere ammessa, come deroga al principio sub (c), solo ove si fondi sulla necessità di assicurarne l'esercizio unitario (regola che costituisce applicazione della norma costituzionale dettata dall'art. 118 Cost., che talora la dottrina tende a considerare un principio [8] ma che è invece una regola che costituisce eccezione a un principio).

Si tratta di principi e di una regola volti a disciplinare il riparto delle funzioni amministrative e, dunque, non correlati all'esigenza di tradurre normativamente canoni della scienza archivistica, il che lascia quindi aperto il quesito sulla compatibilità degli uni rispetto agli altri.

3. La tutela dei beni culturali: principi e regole

Il principio della trasferibilità alle regioni delle funzioni amministrative di materia di gestione dei beni culturali va confrontato con il presupposto della titolarità necessariamente statale delle funzioni amministrative di tutela e vigilanza, dedotto in via interpretativa dagli artt. 4 e 5 del Codice dei beni culturali.

Anche senza ripercorrere il complesso dibattito sulle distinzioni (scientifiche e normative) fra i concetti di "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali (dibattito che contiene, a propria volta, numerosi esempi della separatezza fra classificazioni legislative e concetti scientifici, pur essendo noto che l'esigenza di una distinzione concettuale fra le due nozioni è divenuta sensibile più per la contingenza normativa legata all'entrata in vigore della legge n. 59/1997 che non per un impulso, da parte della scienza archivista, volto all'affinamento delle proprie categorie) [9], l'esegesi delle norme dettate dal Codice dei beni culturali induce a ritenere che le funzioni dirette a garantirne la protezione e la conservazione dei beni costituenti il patrimonio culturale per fini di pubblica fruizione spettano al Ministero per i beni e le attività culturali, che può tuttavia "conferirne l'esercizio" alle regioni, mediante le forme di intesa e coordinamento previste dall'art. 5 del medesimo d.lg. n. 42/2004 s.m.i.

La necessaria titolarità statale delle funzioni di tutela non è dunque un principio normativo, ma una regola legislativa (e anche l'autoqualificazione contenuta nell'art. 4 del Codice dei beni culturali, che considera tale regola applicativa dell'art. 118 Cost., non muta questa qualifica), regola che resta rispettata anche nel caso in cui l'amministrazione statale conferisca l'esercizio di tali funzioni alle regioni (osservando le modalità procedimentali imposte dalla legge).

In conseguenza del fatto che la classificazione normativa di queste funzioni di tutela include in esse, fra l'altro, le c.d. "misure di protezione", e dunque gli strumenti volti a limitare (ai sensi del Capo III della Parte II, Titolo I del Codice dei beni culturali) "l'uso e il godimento materiale dei beni culturali, a protezione del loro valore culturale", il codice dei beni culturali assoggetta ad autorizzazione ministeriale "lo spostamento, anche temporaneo, dei beni culturali" (art. 21, c. 1, lett. b) e "lo smembramento di collezioni, serie e raccolte" (art. 21, c. 1, lett. b).

Quanto agli archivi, l'art. 20, c. 2, stabilisce espressamente che essi "non possono essere smembrati" [10]. Il divieto di smembrare gli archivi costituisce una regola generale che, in quanto applicabile a qualunque archivio (e dunque a fattispecie aperta), può essere configurata come un principio, costituendo di fatto la traduzione normativa del c.d. "principio di integrità" dei fondi archivistici.

Questo principio (normativo) è stabilito dal legislatore statale in attuazione della potestà legislativa esclusiva in materia di tutela dei beni culturali attribuita dall'art. 117, c. 2, lett. s), Cost. e sul presupposto che il divieto che esso sancisce sia intrinsecamente funzionale alla tutela dei beni stessi.

Questo divieto non è però connesso (né logicamente, né giuridicamente) alla regola della necessaria titolarità statale delle funzioni di tutela: sia perché, dopo il superamento del necessario parallelismo tra potestà legislativa e funzioni amministrative (dedotto dall'art. 118 Cost. [11]), la titolarità statale della competenza legislativa in materia di tutela non comporta necessariamente la medesima titolarità delle corrispondenti funzioni amministrative, che infatti l'art. 4, d.lg. n. 42/2004, attribuisce al Ministero dei beni culturali (in via eccezionale e) in attuazione della regola per cui la permanenza di tali funzioni in capo all'Amministrazione centrale può essere ammessa ove si fondi sulla necessità di assicurarne l'esercizio unitario; sia perché, diversamente da quanto disposto in materia di "collezioni, serie e raccolte" (ove lo smembramento è ammesso previo esercizio di una funzione amministrativa di natura autorizzatoria), in materia di archivi lo smembramento è vietato tout court dalla legge, e dunque prescinde dall'esercizio di funzioni amministrative (dissolvendo il problema della relativa titolarità).

Pertanto, riepilogativamente: (a) la titolarità statale delle funzioni amministrative in materia di tutela è una regola, e non un principio, frutto di una scelta compiuta dal legislatore statale, scelta il cui fondamento di competenza si rinviene nell'art. 117, ma il cui fondamento di legittimità va ricondotto all'art. 118 (e alla regola in esso contenuto che ammette l'attribuzione allo Stato delle funzioni amministrative per assicurarne l'esercizio unitario); (b) le medesime funzioni possono peraltro venire conferite alle regioni (essendo quindi ammessa la dissociazione fra titolarità ed esercizio che tradizionalmente corrisponde all'istituto della delega); (c) in materia di archivi, il legislatore statale, ex art. 117 (ma non ex art. 118), ha stabilito il principio del divieto di smembramento (o principio d'integrità), sul presupposto - dunque - che esso costituisca esercizio della potestà normativa in materia di tutela dei beni culturali (in altri termini: che il principio di integrità dei fondi archivistici sia uno strumento per la loro tutela).

4. I principi di integrità e di non interrotta custodia nella scienza archivistica

Il principio di integrità degli archivi è talmente coessenziale alla scienza archivistica da costituire il primo dei doveri degli archivisti secondo il codice internazionale di deontologia approvato a Pechino, dall'assemblea generale del consiglio internazionale che li raggruppa, il 6 settembre 1996: "Gli archivisti tutelano l'integrità degli archivi e in tal modo garantiscono che questi continuino ad essere affidabile testimonianza del passato". Mantenere l'integrità dei documenti affidati alla loro sorveglianza è dunque "il primo dovere degli archivisti" [12].

Il principio di integrità è però più articolato del semplice divieto di smembramento.

Anzitutto, esso è correlato, nel dibattito archivistico, al principio di appartenenza e connessione dei fondi con l'organo produttore e con il territorio nel quale si sono formati (indipendentemente dalla circostanza che, per la competenza di tale organo, il loro contenuto possa riferirsi ad altri territori [13]), divenendo quindi, il principio di integrità, strumento per la garanzia del principio di appartenenza.

Nella tradizione degli studi archivistici, inoltre, il principio di integrità è fatto discendere dal principio del rispetto dei fondi archivistici, che diviene, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, il principio fondamentale dell'archivistica [14].

Il rispetto dell'integrità del fondo, in particolare, si articola (a) nel principio del rispetto dell'integrità esterna e (b) nel principio del rispetto dell'integrità interna.

Il primo deriva dall'estensione del principio del rispetto al concetto di "rispetto esterno", e impone di non separare i documenti provenienti da un certo organo e, viceversa, di non unire documenti provenienti da organi diversi.

Il divieto di smembramento corrisponde, quindi, solo al primo dei due segmenti che compongono il principio del "rispetto esterno".

Il principio di integrità comprende, invece, anche il secondo di quei segmenti e include anche il principio del rispetto dell'integrità interna, inteso come il rispetto del c.d. "ordinamento originario", ossia dell'ordinamento attribuito all'archivio dai suoi originari produttori, mantenendo, quindi, le divisioni interne del fondo.

Il divieto di smembramento degli archivi, normativamente sancito dall'art. 20 del Codice dei beni culturali, non coincide, dunque, con il principio di integrità, ma ne costituisce una componente, corrispondendo a una delle implicazioni del principio di rispetto esterno dei fondi.

L'attuazione del principio di rispetto dei fondi è anch'essa naturalmente connessa alla garanzia del principio di appartenenza e connessione, ed è a propria volta assicurata dal principio di c.d. "non interrotta custodia", che impone (proprio al fine di proteggere l'autenticità del documento d'archivio) di mantenere ininterrotta la linea di cura, controllo e possesso di un complesso di documenti d'archivio dalla produzione alla conservazione.

Il principio non esige, a ben vedere, che non intervengano modifiche nella titolarità delle funzioni di tutela degli archivi, imponendo però che siano registrati e documentati tutti i cambiamenti subiti dai documenti e dei processi di selezione, trasferimento, riproduzione e conservazione.

L'ininterrotta custodia (che la scienza archivistica riconduce alla tradizione anglo-americana [15]) è ritenuto principio fondamentale dell'archivistica perché idoneo a garantire l'autenticità dei fondi [16]: la "natura archivistica" di un documento dipende, secondo gli archivisti, dalla possibilità di provare l'esistenza di una "serie ininterrotta di custodi responsabili" dei fondi.

Il principio della unbroken custody esclude, quindi, di poter considerare parte di un archivio il materiale documentario uscito da una catena non interrotta di custodi, dato che tale evento determina il venir meno del carattere dell'autenticità e, quindi, uno dei requisiti archivistici essenziali.

La necessità di una sequenza non interrotta di custodi responsabili, identificabili come tali e la cui attività sia registrata e documentata, non esclude, peraltro, la successione di custodi diversi (essendo, anzi, l'avvicendarsi di più custodi un presupposto del principio stesso, poiché nell'ipotesi ideale di un custode unico nemmeno sussisterebbe l'esigenza di chiarire che la sequenza - dunque: la successione di più soggetti - non deve essere interrotta).

5. La difficile integrazione fra principi e regole nel tentativo di conferimento dell'esercizio delle funzioni amministrative in materia di archivi alla Regione Autonoma Valle d'Aosta

È in corso ormai da alcuni anni il tentativo, da parte della Regione Autonoma Valle d'Aosta, di ottenere il conferimento dell'esercizio delle funzioni amministrative di tutela e protezione degli archivi storici.

Per quanto ricostruito in precedenza, il conferimento (non delle funzioni, ma) dell'esercizio di esse può trovare fondamento nella regola dell'art. 4, d.lg. n. 42/2004, non è di per sé precluso dall'art. 118 Cost. (che, anzi, da quella regola è eccezionalmente derogato) ed è soggetto, sotto l'aspetto procedimentale, alle forme di intesa e coordinamento previste dall'art. 5 del medesimo d.lg. n. 42/2004 e all'approvazione di un decreto legislativo attuativo dello statuto speciale, previo parere della Commissione paritetica.

L'iter di approvazione di questo decreto include una fase istruttoria, da parte della Commissione paritetica, volta ad acquisire l'orientamento delle amministrazioni statali interessate (anche in attuazione del principio, ora richiamato, che prescrive il coordinamento fra Stato e regione all'atto del conferimento delle funzioni).

Nel corso di questa istruttoria, le osservazioni formulate dalle amministrazioni statali hanno indicato in modo emblematico la difficile integrazione fra principi e regole nella gestione dei beni culturali, dimostrando la complessità di costruire una disciplina normativa rispondente a un modello virtuoso di integrazione.

Il primo aspetto problematico riguarda il conferimento delle funzioni: l'amministrazione statale ha infatti originariamente assunto la (corretta) impostazione secondo cui l'applicazione della norma contenuta nell'art. 8, d.lg. n. 42/2004, ai sensi della quale "restano ferme le potestà attribuite alle regioni a statuto speciale" dagli statuti e dalle relative norme di attuazione, comportano la persistente titolarità in capo alla regione autonoma delle funzioni trasferite dal citato decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato n. 532/1946, le quali però riguardano le antichità e le belle arti, e non gli archivi, le cui funzioni amministrative sono pertanto disciplinate dall'art. 118 Cost. e, per quanto riguarda la tutela, dalla regola, che del principio costituzionale costituisce eccezione, stabilita dall'art. 4 del Codice dei beni culturali.

Per conseguenza, il conferimento delle funzioni di tutela degli archivi storici a favore delle regioni può avvenire attraverso un istituto che determini la dissociazione fra la titolarità statale di tali funzioni e il relativo esercizio da parte delle regioni.

Allorché, però, la regione autonoma ha proposto l'approvazione di una norma (attuativa dello statuto, dunque nella forma del decreto legislativo adottato previo parere della Commissione paritetica) idonea a delegare l'esercizio delle funzioni di competenza della Sovrintendenza archivistica della Valle d'Aosta, di cui al d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233, e delle funzioni di competenza dell'Archivio di Stato di Aosta, di cui alla legge 22 dicembre 1939, n. 2006, e dal d.p.r. 30 settembre 1963, n. 1409, alla regione Valle d'Aosta, il Ministero dei beni culturali ha sollevato quattro obiezioni.

In primo luogo, si è sostenuto le funzioni di tutela degli archivi non statali devono necessariamente rimanere di competenza dello Stato, ai sensi del 117, c. 2, lett. s), Cost.

L'asserzione contiene tre errori: (a) anzitutto, non l'art. 117 va invocato (riguardando la titolarità della potestà legislativa volta a disciplinare le funzioni), ma l'art. 118, che autorizza l'eccezionale conservazione allo Stato delle funzioni; (b) secondariamente, non è una disposizione costituzionale che stabilisce la necessaria titolarità statale delle funzioni amministrative, ma l'art. 4 del Codice dei beni culturali, e dunque una disposizione legislativa che, in attuazione della deroga autorizzata dall'art. 118 Cost., conferisce allo Stato le funzioni di tutela sul presupposto dell'esigenza di un loro esercizio unitario (fine dichiarato dal medesimo art. 4 ma sempre revocabile in discussione nei casi concreti); (c) infine, la titolarità statale delle funzioni è compatibile con il conferimento alle regioni del loro esercizio (ossia con la relativa delega).

La seconda obiezione dell'amministrazione statale è consistita nel rilievo che, anche a voler ammettere una delega, essa non può riguardare tutte le funzioni di tutela, dovendo limitarsi a soltanto alcune di esse, e ciò al fine di osservare il principio di differenziazione, che imporrebbe di attribuire alle regioni soltanto funzioni di tutela che abbiano ad oggetto archivi diversi da quelli regionali, intendendo perciò la differenziazione come necessaria distinzione fra controllante e controllato.

Anche questo argomento poggia su alcune erroneità: (a) il principio di differenziazione è richiamato dall'art. 118 Cost. come criterio da rispettare (insieme con quelli di sussidiarietà e adeguatezza) ove si tratti di conferire a un ente funzioni amministrative destinate ad essere attribuite ai comuni, trattandosi in questo caso (al di là delle criticità lessicali che l'uso di questi lemmi solleva [17]) del conferimento della titolarità delle funzioni, non di quello del loro esercizio, e del conferimento a un ente sovradimensionato, anziché a quello sussidiario al centro degli interessi regolati; (b) il principio di differenziazione non comporta la differenziazione tra soggetto controllante e controllato: il suo contenuto precettivo si riassume, infatti, nell'imporre al legislatore, all'atto di distribuire le funzioni amministrative, di considerare le differenti caratteristiche degli enti destinatari, in termini demografici, territoriali, associativi e culturali [18].

Lo stesso argomento, inoltre, si fonda su alcuni presupposti impliciti che denotano una particolare concezione ("scientifica", ma non giuridica) delle funzioni di tutela degli archivi, ossia: che la funzione di tutela consista in (o sia comunque riconducibile a) una funzione di controllo, e dunque che vi sia un'alterità di interessi fra l'organo produttore dei fondi e quello volto a garantirne autenticità e integrità; e questa alterità operi segnatamente allorché uno dei due organi sia diverso dallo Stato, atteso che, invece, nel caso dell'esercizio da parte dell'Amministrazione statale su fondi prodotti dallo Stato la distinzione fra controllante e controllato non sussiste (e dunque, si deve supporre, non esiste la presupposta divergenza di interessi).

La terza osservazione statale ritiene che il conferimento determinerebbe l'esercizio di funzioni di tutela da parte della regione autonoma su fondi prodotti da organi statali, in violazione del principio della ininterrotta custodia.

Il punto meriterebbe accertamenti di fatto (in particolare: la verifica sull'esattezza del presupposto che le funzioni di tutela riguarderebbero, nel caso concreto, documenti prodotti dallo Stato), ma il nucleo rilevante della questione sta nell'interpretazione del principio di ininterrotta custodia: l'ininterrotta custodia, come si è visto, non esclude la successione di diversi enti responsabili (ma, anzi, concettualmente presuppone una sequenza di custodi diversi, prescrivendo la continuità di questa sequenza), sicché l'esigenza di garantire una catena non interrotta di custodi responsabili non è incompatibile con la modifica del custode ove sia assicurata la registrazione e documentazione della successione.

Infine, il quarto rilievo dello Stato nota che la previsione di sottoporre alle funzioni di tutela esercitate dalla regione autonoma beni archivistici conservati fuori dal territorio valdostano, ma di interesse storico per la regione stessa, contrasterebbe con il principio di integrità, e dunque con il divieto di smembramento ex art. 20, d.lg. n. 42/2004.

Anche in questo caso, la fattispecie richiederebbe approfondimenti materiali: la proposta regionale prevedeva, infatti, l'istituzione di un'apposita commissione dotata di compiti ricognitivi volti a individuare i beni archivistici attualmente conservati fuori dal territorio regionale e che, in ragione del loro peculiare legame con il territorio e con la storia della Valle d'Aosta, risultino meritevoli di conservazione a cura della regione autonoma; non è perciò indubbio che costituisca conseguenza diretta di tale previsione uno smembramento dell'archivio, non solo perché la ricognizione non comporta in sé il trasferimento, ma anche perché il suo esito potrebbe condurre non ad acquisire singoli documenti (che, anche laddove fossero frutto di uno smembramento precedente, potrebbero essere acquisiti solo ove fosse dimostrata l'ininterrotta custodia, perdendo altrimenti il fondo la caratteristica stessa di bene d'archivio), ma interi fondi, che dunque non verrebbero smembrati, ma semplicemente trasferiti.

Vero è, invece, che dall'esito della ricognizione non potrebbe conseguire l'aggregazione di fondi di provenienza diversa, perché (non il divieto di smembramento, ma) quel segmento del principio di integrità che impone il rispetto esterno dei fondi comporta anche il divieto di mischiare fondi di provenienza diversa.

La previsione regionale aveva peraltro cercato di neutralizzare questa eventualità, prevedendo che la ricognizione in discorso, eventualmente prodromica al trasferimento dei beni, dovesse in ogni caso assicurare la salvaguardia dei principi di appartenenza al territorio e di integrità dei fondi archivistici: pertanto, non il richiamo al principio della ininterrotta custodia, ma quello all'integrità dei fondi (inteso come principio del rispetto esterno, in tutte le sue componenti) costituisce ostacolo al trasferimento dei fondi, e questo principio (non quello dell'ininterrotta custodia) è stato recepito, e normativamente codificato, come criterio di esercizio delle funzioni di tutela da parte della proposta regionale.

Questa ricostruzione dimostra la difficoltà di integrare principi e regole (e, soprattutto, principi e regole giuridici, da una parte, canoni scientifici, e loro interpretazioni, dall'altra), perché rivela:

a) che la regola dell'art. 4 non è correttamente ricondotta all'attuazione dell'eccezione consentita dall'art. 118 Cost., ma è considerata espressione di una incondizionata potestà legislativa statale, enfatizzando la fonte attributiva della competenza (l'art. 117 Cost.) e svalutando quella che ne regolamenta l'esercizio (l'art. 118);

b) che le regole sulla tutela sono implicitamente considerate prodotti dell'esercizio delle funzioni di controllo e che la necessità di esercitare funzioni di controllo è implicitamente ricondotta all'alterità fra gli interessi dell'organo produttore dei fondi e quello deputato alla loro protezione, alterità che (ancora implicitamente) si ritiene sussistere quando gli organi non appartengano all'Amministrazione statale e che invece si suppone inesistente in caso contrario;

c) che il principio di differenziazione è inteso come fonte della distinzione fra controllante e controllato, anziché criterio per l'allocazione delle funzioni amministrative sulla base delle diverse caratteristiche dell'ente destinatario;

d) che il principio di ininterrotta custodia è interpretato, ultra vires, come principio che vieta qualunque successione fra custodi, considerando perciò con esso incompatibili le regole che ammettono una sequenza di enti responsabili (ancorché ne sia tracciata e documentata la sequenza);

e) che il principio di integrità dei fondi è riduttivamente identificato con la regola che vieta lo smembramento;

f) che il trasferimento di un fondo da un archivio all'altro è ritenuto lesivo del principio di ininterrotta custodia anziché, se del caso, di quello di integrità dei fondi (non inteso come divieto di sembramento, ma come rispetto esterno dei fondi stessi).

6. Diritto, scienza e "natura delle cose".

Sotto il profilo giuridico, queste difficoltà si possono facilmente sdrammatizzare.

Il rapporto fra l'art. 117 e l'art. 118 va chiarito attribuendo al primo la fonte attributiva della competenza, al secondo la funzione di principio regolatore della distribuzione delle funzioni, che ammette, pur in via d'eccezione, la titolarità statale delle funzioni di tutela: ristabilendo questa distinzione, e il rapporto fra regola ed eccezione sotteso all'applicazione dell'art. 118, la criticità viene risolta.

Quanto alla portata precettiva del principio di differenziazione, è sufficiente chiarire la sua nozione, argomentata anche (secondo il canone della coerenza orizzontale e quello della sedes materiae) dalla sua inserzione nell'art. 118 Cost., insieme con i principi di sussidiarietà e adeguatezza.

I problemi che residuano si concentrano, quindi, sulla resistenza che i canoni della scienza archivistica oppongono a una regolamentazione giuridica della gestione dei beni culturali che preveda il conferimento dell'esercizio delle funzioni di tutela alla regione autonoma.

L'interpretazione del principio di ininterrotta custodia come fonte preclusiva di qualunque successione fra gli enti responsabili degli archivi; l'interpretazione del principio di integrità come divieto di smembramento e soprattutto, a monte, dello spostamento fisico di un fondo archivistico come fatto contrastante con tale divieto; l'assimilazione delle funzioni di tutela a funzioni di controllo (e la conseguente concezione del principio di differenziazione come impositivo di una necessaria distinzione organica fra controllante e controllato), sono sintomi di una rappresentazione della gestione dei beni culturali frutto di un modello scientifico che gli archivisti mostrano di voler proteggere dalle interferenze del diritto, assumendo che la gestione dei beni culturali sia un "fatto di scienza" dinnanzi al quale la legge deve arrestarsi, prendendo atto della propria impotenza.

Questo rilievo mostra che il problema della integrazione fra principi e regole, non infrequente nella scienza giuridica, diviene eclatante quando il diritto positivo si propone di regolare fenomeni che trovano in altre scienze un proprio statuto regolamentare.

La difficile integrazione fra regolamentazione giuridica e concezione scientifica della gestione dei beni culturali diviene cioè un indicatore del più vasto problema che consiste nella impermeabilità al diritto di quei complessi di conoscenze che una comunità scientifica ritiene i più idonei a disciplinare un dato fenomeno.

È questo un caso molto ricorrente nell'epoca contemporanea: la pretesa di arretramento del legislatore (e del preliminare riconoscimento della propria impotenza) di fronte alla configurazione che, ai fenomeni che il diritto vorrebbe regolare, è già stata diversamente attribuita dalla scienza, come se vi fosse una competizione fra diritto e scienza nella quale il primo deve necessariamente soccombere alla seconda.

Questa tendenza può essere considerata come una riedizione dell'argomento della "natura delle cose" (che infatti, nella tradizione ermeneutica, è anche classificato come "argomento del legislatore impotente").

Ma mentre nella teoria dell'interpretazione giuridica questo argomento "serve a motivare e a proporre combinazioni di enunciati normativi e attribuzioni di significato ai medesimi, tali da ravvisare, nelle norme espresse dagli enunciati a disposizione, delle norme che si uniformano - o perlomeno non sono in disaccordo - con la (una qualche concezione della) "natura": natura dell'uomo, natura dei rapporti disciplinati" [19], in questa sua riedizione esso va oltre, divenendo uno strumento per rendere preferibile (talora: per imporre radicalmente) una disciplina normativa a un'altra, o addirittura per escludere l'intervento del legislatore.

La "natura delle cose" (intesa anche come la rappresentazione del miglior assetto possibile di un fenomeno secondo la scienza che se ne occupa) assume così il carattere di un criterio di validazione del diritto positivo, criterio la cui applicazione tende a venire anticipata sino al punto di impedire una particolare disciplina normativa laddove ritenuta, eteronomamente, incompatibile con la natura delle cose [20].

Questa versione della "natura delle cose" si propone dunque come un antidoto contro il volontarismo e il legalismo propri del positivismo giuridico, come principio di legittimazione delle scelte normative, e dunque come base extranormativa legittimante [21], a fronte della quale la dogmatica giuridica (e dunque la riflessione sui concetti giuridici e sulla logica in grado di reggerne la struttura) deve arretrare.

I problemi che incontra la regolamentazione giuridica della gestione dei beni culturali divengono perciò un esempio di una controversia più vasta: quella fra il diritto positivo, con la sua pretesa regolatrice dei fenomeni umani, e la scienza portatrice della esatta ricognizione dei caratteri empirici di quei fenomeni, caratteri che si ritiene debbano prevalere sul diritto quali fonti di disciplina.

Si tratta di un conflitto non nuovo, ma che l'evoluzione delle scienze e l'approfondimento analitico delle loro frontiere rendono progressivamente più insidioso, indebolendo ulteriormente la funzione ordinatrice del diritto; un conflitto che solo l'avanzamento teorico della scienza giuridica potrebbe riuscire a comporre, superando gli isolamenti dogmatici e rivalutando il ruolo del diritto come fonte che, senza prescindere dalla natura dei fatti che intende disciplinare, non rinuncia a una conformazione della disciplina rispondente a un interesse pubblico che trascende i modelli ideali elaborati dalle scienze, modelli che il legislatore non deve trascurare, ma che non ha il compito di attuare.

Comporre questo conflitto è dunque possibile, a condizione che i giuristi non ingaggino sfide con gli altri scienziati su specialismi settoriali, ma dedichino una parte del proprio lavoro a rimeditare il compito del diritto nel tempo attuale.

 

Note

[1] Cfr., per tutti, L. Ferrajoli, Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, in Giur. cost., 2010, pag. 2771 ss.; G. Zagrebelsky, Diritto per: valori, principî o regole? (a proposito della dottrina dei principi di Ronald Dworkin), in Quaderni fiorentini, 2002, XXXI, pag. 865 ss.; R. Guastini, L'interpretazione dei documenti normativi, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2004, pag. 199 ss.

[2] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2009, pagg. 213-215.

[3] H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it. Milano, 1994, pag. 45; L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. 1, Roma, 2007, pagg. 419-428.

[4] Cfr. Corte cost., sentt. n.ri 378/2000, 277/1993, 921/1988, 359/1985, in www.cortecostituzionale.it. In dottrina, F. Merusi, Art. 9, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1976, pag. 456.

[5] F. Merusi, Art. 9, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1976, pag. 456.

[6] C. Barbati, I soggetti, in, Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo Bologna, 2003, pag. 108.

[7] P. Petraroia, Il ruolo delle regioni per la tutela, la valorizzazione e la gestione dei beni culturali: ciò che si "può" fare e ciò che "resta" da fare, in Aedon, 2001, n. 3.

[8] Cfr. ibidem.

[9] Sui concetti di tutela e valorizzazione v. N. Aicardi, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del ministero per i beni culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon, 2003, n. 1; T. Alibrandi, P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 1995, pag. 417; P. Stella Richter, E. Scotti, Lo statuto dei beni culturali tra conservazione e valorizzazione, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, Padova, 2002, pag. 497; R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e ambientali, Milano, 2000 pag. 2 ss.; L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, pag. 651 ss. Da ultimo, può leggersi D. Vaiano, La valorizzazione dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2011.

[10] Per un'analisi delle istituzioni archivistiche e del loro ruolo, L. Giuva, I. Zanni Rosiello, S. Vitali, Il potere degli archivi. Gli archivi nel mondo contemporaneo, Milano, 2007, nonché gli scritti di C. Pavone raccolti e pubblicati dalla Direzione generale per gli archivi del Ministero per i beni e le attività culturali, a cura di I. Zanni Rosiello, nel volume Intorno agli archivi e alle istituzioni. Scritti di Claudio Pavone, Roma, 2004. Si vedano, inoltre, L. Casini, Archivi e biblioteche: memorie del passato dall'incerto futuro, in Giorn. dir. amm., 2007, pag. 1029 ss., nonché i due volumi di E. Lodolini, Legislazione sugli archivi. Storia, organizzazione dell'Amministrazione archivistica italiana, I. Dall'Unità d'Italia al 1997 e II. Dal 1998 al 2004, Bologna, Patròn, 2005. Sulle disposizioni del testo unico sui beni culturali e ambientali (d.lgs. n. 490/1999) in materia di archivi, E. Lodolini, Gli archivi nel T.U. sui beni culturali e in altre recenti riforme: una legislazione tutta da rivedere, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003, pag. 463 ss.

[11] Cfr. R. Bin, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, pag. 365 ss.; D. Nardella, Un nuovo indirizzo giurisprudenziale per superare le difficoltà
nell'attuazione del Titolo V in materia di beni culturali?, in Aedon, 2004, n. 2.

[12] P. D'Angiolini, C. Pavone, Introduzione, in Guida generale degli Archivi di Stato italiani, I, Roma, 1994, pag. 31.

[13] R. Scambelluri, Un archivista: Roberto Cessi, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma, 1958; P. Carucci, Conservazione delle fonti e ricerca storica, in Le carte e la storia, 1996, pag. 17.

[14] M. Duchein, Le respect des fonds en archivistique. Principles théoretiques et problèmes pratiques, in La Gazette des Archives, 1977, pag. 71 ss.

[15] Cfr. H. Jenkinson, The English Archivist: A New Profession, Londra, 1947; T.R. Schellenberg, The Appraisal of Modern Public Records: Introduction, in Bulletins of the National Archives, 1956.

[16] E. Lodolini, Archivistica. Principi e problemi, Milano, 201114, pagg. 256-257.

[17] In argomento, R. Bin, La funzione amministrativa, in Aa.Vv., Il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione. Primi problemi della sua attuazione, Milano, 2003, pag. 116; A. D'Atena, Il nodo delle funzioni amministrative, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[18] In argomento, A. Poggi, Il principio di "differenziazione" regionale nel Titolo V e la "clausola di differenziazione" del 116, comma 3: modelli, prospettive, implicazioni, in Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano e quello spagnolo a confronto, a cura di A. Mastromarino, J. Andreu, Milano, 2001; M. Renna, I principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, in Studi sui principi del diritto amministrativo, a cura di M. Renna, F. Saitta Milano, 2012, pag. 283 ss.

[19] G. Tarello, L'interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, vol. I, tomo 2, Milano, 1980, pag. 378.

[20] Cfr. V. Omaggio, Natura della cosa, in Enciclopedia filosofica, AA.VV., vol. VIII, Milano, 2006, pag. 7759: "Con natura della cosa s'intende quella dottrina o quelle diverse dottrine che considerano possibile derivare dalla conoscenza dei caratteri rilevanti di alcune realtà sociali la disciplina giuridica più adatta a esse, indipendentemente da atti soggettivi di scelta. Poiché non ci si riferisce a oggetti materiali, bensì a fatti sociali (da cui l'altra formula equivalente di "natura dei fatti"), la loro natura non è data dall'essenza, ma dal complesso dei caratteri empirici presenti nei fatti sociali di un determinato tipo. Tali caratteri sono perciò rilevabili in termini descrittivi e non metaempirici (che risulterebbero "giusnaturalistici"), e nel contempo, rappresentano fonti normative per il contesto cui appartengono".

[21] Sul tema, di recente, L. Patruno, La natura delle cose, in Archivio di diritto e storia costituzionali, http://www.dircost.unito.it; I. Massa Pinto, La superbia del legislatore di fronte alla 'natura delle cose', Torino, 2012. Sulla ricostruzione della 'natura delle cose' nella dottrina italiana, e in particolare nel pensiero dei giusprivatisti e dei giuscommercialisti tra il 1890 e il 1930, N. Bobbio, Appendice b, La natura delle cose nella dottrina italiana, in Giusnaturalismo e positivismo giuridico, a cura di N. Bobbio, Milano, 1965, pag. 225 ss.; P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano, 2000, pagg. 51-57, 134-171.

 



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