La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha sanzionato a livello costituzionale ciò che era stato già determinato in leggi ordinarie più o meno recenti (quando, invece, ci si attenderebbe che siano le leggi a discendere dalla Costituzione e non viceversa).
Pertanto, se oggi ci chiediamo che cosa il legislatore abbia voluto intendere introducendo nella Costituzione italiana le nozioni di "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali come funzioni nettamente distinte, dobbiamo necessariamente rifarci ad alcune fonti normative recenti, in particolare al d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, che, evidentemente, è da leggersi in raccordo diretto con la legge 15 marzo 1997, n. 59, ove si escludono da possibili conferimenti alle regioni ed agli enti locali le funzioni ed i compiti amministrativi in materia - tra l'altro - di "tutela dei beni culturali e del patrimonio storico-artistico" (ar. 1, c. 3, lettera d) nonché "per la difesa del suolo, per la tutela dell'ambiente e della salute, per gli indirizzi, le funzioni e i programmi nel settore dello spettacolo" (art. 1, c. 4, lettera c) [1].
In base alle disposizioni contenute nel d.lg. 112/98 (capo V, art. 148), per tutela deve intendersi "ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali"; per gestione "ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione"; per valorizzazione, "ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione"; per attività culturali, "quelle rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell'arte" e, infine, per promozione, "ogni attività diretta a suscitare e a sostenere le attività culturali". Si osservi che lo spettacolo è trattato nel successivo capo VI del decreto e pertanto non può essere ricondotto nell'ambito delle "attività culturali".
Ebbene, proprio considerando queste definizioni, ritengo che non vi sia tutela senza corretta gestione e valorizzazione: non solo per quello che oggi è stato detto, ma anche per ragioni specifiche, ricavabili, anzitutto, dal Testo Unico dei beni culturali e ambientali; penso all'attuale art. 21 del d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 (come del resto, l'art. 11 legge 1089/1939), che disciplina dal punto di vista della tutela proprio le destinazioni d'uso e quindi la gestione dei beni culturali.
Dunque, se questo legame tra tutela e utilizzazione è individuato ormai storicamente, almeno dal '39, è impensabile separare così nettamente tutela / valorizzazione / gestione senza darne conto in modo esplicito e perspicuo. Peraltro lo stesso lessico adottato nel dare le definizioni di tali funzioni - come si è appena constatato - si caratterizza per il ricorrere, in ciascuna definizione, di termini il cui significato - e talvolta anche il significante - si richiama esplicitamente ad una o ad entrambe le funzioni dalle quali si vorrebbe prendere le distanze; ad esempio, la parola conservazione ricorre nelle definizioni sia di tutela che di valorizzazione, così come la valorizzazione si intreccia con le attività culturali [2].
Oggi, con la legge cost. 3/2001, si è invece fissato un testo costituzionale in cui, nel nuovo art. 117, tutela e valorizzazione risultano nettamente divaricate e dove peraltro, sotto il profilo della tutela, si prescinde da ciò che già si fa a livello regionale e locale.
Vorrei ricordare che nel 1972 [3], quando si definirono i primi provvedimenti di trasferimento di competenze dallo Stato alle regioni, il legislatore individuò una stretta connessione tra organizzazione e gestione. Di quello che allora aveva statuito il legislatore ci si è oggi completamente dimenticati: nel momento in cui lo Stato si muove verso un'organizzazione che è detta federale, le attribuzioni di competenza legislativa in materia di tutela sembrano deresponsabilizzare completamente i livelli territoriali e locali.
Difficile dire quanto su questa esclusività di competenza legislativa posta in capo allo Stato centrale pesi la diffusa, comprensibile convinzione che la tutela del paesaggio o la delega alla tutela del patrimonio librario siano state gestite male o malissimo da parte di alcune (magari troppe) regioni. Considerato che, almeno riguardo ai beni librari, lo Stato centrale - ove negli ultimi trent'anni si fosse organizzata un'azione di confronto con le regioni - avrebbe potuto o dovuto revocare la delega alle regioni inadempienti (come richiesto nel 1999 dal Coordinamento beni culturali delle regioni), appare comunque evidente che il disegno di revisione costituzionale non può limitarsi a registrare pur gravi inadempienze normative e tecniche della pubblica amministrazione, ma deve piuttosto delineare una riforma concretamente ispirata ai principi di federalismo e sussidiarietà.
Nella considerazione di tutta la materia non va poi trascurato il nuovo art. 118 Cost. ove si prevede che "la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell'articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali".
Lasciando da parte la sorpresa di non trovare qui menzionata la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di cui alla lettera s) dell'art. 117 (materia di evidente competenza regionale, almeno fino ad ora, e perciò ragionevolmente bisognosa, più che la stessa tutela dei beni culturali, di azioni di coordinamento), si deve osservare che già la riserva legislativa statale disposta con il nuovo art. 118 potrebbe ampiamente essere sufficiente per garantire un'organica disciplina statale di indirizzo in materia di tutela dei beni culturali, in tutti i suoi risvolti (almeno tutti quelli trattati dal Testo Unico, dunque anche i beni ambientali) e, pertanto, anche sotto questo profilo la separazione della tutela dalla valorizzazione e l'attribuzione di competenza legislativa esclusiva allo Stato centrale in tale materia appare del tutto pleonastica e discutibile.
Un altro punto di vista per affrontare queste tematiche - correlato di fatto con la riscrittura del predetto art. 118 Cost. comma 1 - può essere offerto dal recente Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con d.lg. 18 agosto 2000, n. 267. In esso appare un importantissimo principio di fondo: e cioè che le funzioni amministrative e quindi in particolare quelle di gestione vengono individuate in prima istanza come compito degli enti locali e non come compito dello Stato, né delle regioni. Né viene fatta riserva alcuna di poteri residuali alle regioni o allo Stato semplicemente in ragione della proprietà dei beni o delle strutture da gestire; ciò potrebbe intendersi anche come un netto superamento dell'art. 150 del d.lg. 112/98, nel senso che la gestione di musei o altri beni culturali da parte degli enti locali e più precisamente dei comuni è da intendersi come modalità ordinaria, mentre sarebbe la permanenza di tali gestioni in capo al governo nazionale a dover trovare una giustificazione nel principio / obiettivo, se davvero applicabile a casi del genere, di "assicurarne l'esercizio unitario".
Si è consapevoli che è ben difficile passare da un giorno all'altro ad una situazione in cui lo Stato e le regioni si spoglino completamente di compiti di natura gestionale, ma il principio guida della Costituzione ora è questo e bisognerebbe trarne le debite conseguenze.
Tra l'altro il T.U. degli enti locali attribuisce comunque alle regioni la funzione di organizzare l'esercizio delle funzioni amministrative a livello locale, ad opera, dunque, di comuni, province e città metropolitane. Ciò significa che le regioni sono chiamate ad esercitare in modo più pieno funzioni di governo e questo dovrà spingerle, attraverso i nuovi statuti che esse potranno approvare con propria legge, a distinguere il consiglio regionale come organo di legiferazione dai consigli comunali, che continuano ad esercitare funzioni di gestione. Eppure c'è ancora chi confonde il ruolo delle regioni con quello degli enti locali.
Il problema è, semmai, che la regione dovrebbe saper indicare anche i principi di coordinamento e cooperazione dell'attività dei comuni e delle province. L'emanazione di tali principi e quindi le relative funzioni di coordinamento sono fondamentali funzioni di governo del territorio e questo è ben chiaro nel d.lg. 267/2000; ed è essenzialmente secondo la stessa logica che dovranno essere individuati o creati i momenti e gli strumenti di raccordo a livello interregionale e nazionale.
Assumendo questo approccio, ci si pone tendenzialmente in una prospettiva federalista: partendo dal riconoscimento delle autonomie proprie delle realtà locali, si individua l'esigenza che di talune particolari funzioni vadano invece investiti, dal basso, livelli di coordinamento sovraordinato. Il problema è che a volte si confonde il federalismo con il decentramento, che presuppone invece un'organizzazione accentrata e un trasferimento, "per grazia" o per esigenze organizzative, di talune funzioni ad organismi periferici.
Occorre, dunque, operare una rilettura contestuale del nuovo art. 118 Cost. e del T.U. degli enti locali, lavorando alla realizzazione di strumenti e procedure di raccordo e concertazione.
Ma il cambiamento e la crescita più importanti interessano le regioni. Anzitutto, va riconosciuto che molte di esse, o loro comparti, continuano ad operare tutt'oggi secondo linee di azione orientate prevalentemente al riparto di risorse finanziarie tra soggetti che presentino apposite istanze (cioè con "piani di riparto"), senza dunque intraprendere delle vere e proprie politiche di settore; in altre parole, senza correlare la programmazione alla pianificazione finanziaria mediante atti impostati dal governo regionale con diretta assunzione di responsabilità politico-programmatica sugli obiettivi. Al riguardo vorrei però segnalare che anche nel settore dei beni e delle attività culturali talune regioni, a partire dalla Lombardia, hanno cominciato a muoversi verso la direzione della programmazione negoziata [4], vale a dire l'adozione di strumenti di tipo contrattuale da parte di più amministrazioni pubbliche (con possibilità di successiva adesione anche di soggetti privati) per consolidare e rendere operative le decisioni di attuare determinati interventi, precisando con chi, per quali fini, con quali risorse, in quali tempi e con quali metodi si voglia operare; e, quindi, formalizzando tutto ciò in un accordo di programma, che, producendo obbligazioni pluriennali nei bilanci degli enti sottoscrittori, supera decisamente la mera manifestazione di interesse o di volontà ed assume, appunto, connotazione propriamente contrattuale pubblica.
Un altro aspetto della normativa regionale che andrebbe modificato riguarda la necessità di promuovere l'assunzione di maggiori responsabilità da parte delle autonomie locali; non si tratta di "scaricare" responsabilità, ma di intraprendere un percorso, comunque lungo e complicato, perché le amministrazioni locali diventino capaci di svolgere in modo veramente qualificato funzioni forti di gestione, nel quadro di significativi sistemi di qualità.
Penso alla Regione Lombardia, che ha 1.550 comuni circa, poche decine dei quali hanno una popolazione che supera i 10.000 abitanti; la maggioranza non dispone neanche di un vero ufficio tecnico.
La regione deve dunque contemperare l'azione di trasferimento di molte delle attuali competenze agli enti locali, con l'esigenza di assumere nuove funzioni di tipo regolativo, con adeguati strumenti di partecipazione delle autonomie e delle parti sociali, volte ad assicurare la qualità della gestione in sede locale, ovvero, azioni di sistema che tale qualità promuovano. Essa deve ad esempio trovare, soprattutto insieme alle province, il modo per definire criteri per l'individuazione di partner (nella logica della cosiddetta "sussidiarietà orizzontale"), che siano soggetti selezionati in rapporto alla loro capacità di operare secondo gli standard di qualità approvati o definiti in ultima istanza dalla regione, eventualmente in condivisione con le preposte articolazioni del governo nazionale.
Proprio questo tema dell'individuazione degli standard è a mio avviso cruciale nel settore del patrimonio culturale, che impone modalità di gestione adeguate alla irreplicabilità dei beni e al loro stretto legame con il sistema delle identità culturali.
In questa linea, le regioni dovrebbero soprattutto favorire l'integrazione delle risorse e dei servizi secondo modelli di gestione innovativi: se non altro perché, se si vuole fare un lavoro di promozione della qualità, non si può assolutamente pensare di lavorare in termini di frammentazione [5]; ma vorrei anche sottolineare che la qualità non è necessariamente frutto di centralismo, spesso si sviluppa da un ben più faticoso impegno di confronto e di coordinamento per la costruzione di processi e culture condivise [6].
Per individuare, poi, le aree di intervento sul piano gestionale, credo che in primo luogo occorra che gli organi costituzionalmente titolari di funzioni legislative (dunque, quantomeno di indirizzo) assumano come obiettivo la definizione degli standard di qualità e anche degli incentivi per il loro raggiungimento.
Molto poi si dovrà lavorare per la produzione di strumenti di supporto alle decisioni: troppo spesso i decisori operano scelte senza conoscere esattamente quali siano le effettive necessità di sviluppo. Il rischio, ad esempio, è che le richieste di finanziamento siano avanzate da strutture che sono già ben organizzate, mentre, laddove il patrimonio culturale è più deperibile e abbandonato, se si opera in assenza di un obiettivo sistema di conoscenza territoriale e sociale e, poi, di un sistema di supporto alle decisioni (penso ad esempio alla "Carta del rischio del patrimonio culturale"), risulta davvero forte la probabilità che proprio il patrimonio più esposto a rischio vada in effetti perduto.
C'è dunque bisogno di efficaci strutture di servizio, che siano idonee a produrre un'analisi vera dei bisogni dell'utenza ed a costruire nell'ambito dei servizi culturali (anche con le logiche e gli strumenti del marketing e della comunicazione) percorsi di facilitazione dell'accesso al patrimonio da parte della collettività. Mi riferisco in particolare alla necessità di valorizzare le eccellenze esistenti sul territorio: ebbene, le regioni e lo Stato dovrebbero saper leggere e valorizzare queste realtà, in modo tale da creare dei sistemi di servizio che non siano di tipo piramidale, gerarchico, ma che mettano al servizio di tutti le eccellenze presenti sul territorio secondo approcci sistemici, eventualmente a rete.
Porre a tema la questione dei modelli di gestione dei servizi culturali è dunque oggi assolutamente urgente [7]. Non si tratta di precostituire soluzioni rigidamente definite: nell'ambito di ciò che è legittimo (e prima il prof. Bruti Liberati ci ha dato un'esemplificazione di norme di carattere generale che rendono legittime diverse opzioni) si possono prevedere molte azioni di tipo innovativo. Prima di irrigidire con norme i processi di innovazione gestionale, occorrerebbe almeno farli partire e garantire periodi di sperimentazione.
Ciò su cui bisogna convenire è la necessità di rigettare l'idea che per fare cose nuove occorra sempre il tramite di una nuova legge, perché spesso leggi così prodotte risultano o troppo costrittive (cioè inadatte a gestire la diversità e la specificità) oppure troppo generiche, nel senso che individuano meri indirizzi politici, la cui traduzione in fatti viene demandata a regolamenti che, soprattutto alla luce dell'esperienza degli ultimi anni, si rivelano di assai difficile adozione [8].
Se dunque l'attività legislativa di settore da parte del parlamento andrebbe reindirizzata, sarebbe semmai un compito del governo quello di dare gli indirizzi politici e di programmazione: ad esempio, e in concreto, spiegare come pensa di promuovere la gestione dei musei statali, possibilmente in rapporto con il sistema territoriale.
Occorre dunque liberarsi dall'iperlegificazione, ma, anche, assumere la consapevolezza che in qualsiasi organizzazione la qualità complessiva trova un indicatore assai pesante nella qualità del suo management addirittura più che nel capitale a disposizione.
Proprio su questo punto vorrei incentrare il mio intervento: occorre veramente un'azione poderosa di potenziamento e finalizzazione dell'offerta formativa e le università hanno al riguardo un ruolo decisivo [9].
Una prioritaria linea di azione dovrebbe essere quella di potenziare la presenza di personale altamente qualificato, non solo presso gli operatori istituzionali di ambito nazionale regionale e locale, ma anche presso gli operatori imprenditoriali oltre che anche nel mondo del non profit. Ciò dovrebbe affiancarsi ad un'altra azione fondamentale: favorire economie di scala in contesti in cui le risorse sono scarse, ad esempio attraverso associazioni di comuni, e la costruzione altresì di un'offerta integrata, che renda evidentemente più ricca l'offerta stessa e consenta ad un tempo risparmi delle risorse, con i quali sia possibile finanziare la qualità [10].
Si può ben dire che se per qualsiasi processo - e in particolare nel campo della promozione e dei servizi culturali - la qualità degli operatori e degli addetti è la leva strategica dello sviluppo, allora le politiche della formazione e dell'istruzione hanno valenza assolutamente strategica.
Non credo che l'articolazione dello Stato secondo principi di sussidiarietà possa realizzarsi replicando a livello locale il medesimo modello organizzativo e finanziario oggi in essere a livello centrale; limitandosi, cioè, a "sganciare" determinate linee di finanziamento dalla gestione centrale per riallocarle a livello locale: questa soluzione potrà funzionare - ed anche bene - per strumenti di decentramento (come le soprintendenze regionali, gli istituti statali a gestione autonoma, etc.) ma non ha nulla di riconducibile ad una organizzazione di tipo federale.
Esistono oggi strumenti formidabili - dalla nuova normativa alle potenzialità delle reti e dei servizi infotelematici - per la creazione di economie di scala integrando le risorse finanziarie, umane e organizzative, senza bisogno di procedere a deportazioni ed aggregazioni fisiche di beni culturali in un unico luogo lontano dal contesto storico, visto che ogni bene culturale può avere, restando al suo posto, una preziosa funzione di presidio dell'identità locale.
Anche sulla base della considerazione che è in atto una crescita culturale media della popolazione (come evidenziato recentemente, fra gli altri, da Pietro Valentino in un rapporto prodotto per Civita), e che essa implica l'esigenza di un arricchimento delle offerte, è evidente e pressante l'esigenza di poter disporre di operatori più qualificati, sia nel privato che nel pubblico; ma siccome avere operatori altamente qualificati è costoso, bisogna rendersi conto che spesso un medesimo operatore (o struttura operativa) può ben operare per una pluralità di realtà locali. Ricordo che il quadro normativo più recente consente, ad esempio, a più comuni di assumere un'unica persona per servizi condivisi.
Quindi il tema dei servizi culturali non può essere visto come un tema di contrapposizione pubblico-privato, ma neanche, nell'ambito del pubblico, come segnato dall'antinomia centrale-locale.
Giovanni Urbani, che è stato uno straordinario direttore dell'Istituto Centrale del Restauro, scrisse nel 1978: "in tema di conservazione e restauro, il dibattito su chi debba fare, se lo Stato o le Regioni, rappresenta solo un puro esercizio di formalismo giuridico, a copertura di un palese vuoto culturale: l'incapacità di definire la cosa da farsi e come possa essere fatta" una volta che si è compreso questo, è più facile stabilire quale sia il livello istituzionale più efficace [11].
Riassumendo: occorre anzitutto imparare a lavorare come sistema e, laddove si sia già operato in tal modo, occorre proseguire in questa direzione, come del resto si è fatto in pieno clima elettorale tra regioni, province, comuni e ministero su temi cruciali, quali quello della gestione dei musei e quello della catalogazione.
Occorre poi investire sulla qualificazione degli operatori e investire di più sulla ricerca applicata.
Si deve, inoltre, rilanciare, veramente e senza retorica, la capacità educativa che è propria del patrimonio culturale, che - si badi bene, risulta da tutta la normativa europea in materia dal sec. XVII in poi - è realtà a pieno titolo interprete della nostra identità e quindi dei nostri processi educativi.
Vorrei concludere con un'idea che in qualche modo interpreta almeno una parte di quello che ciascuno dei relatori della giornata di oggi ha detto: si tratta di prendere dalla cultura aziendale quanto occorre per mettere al centro dell'attenzione il rapporto tra patrimonio culturale e fruitori.
L'Italia ha una riconosciuta competenza per tutto quanto concerne l'analisi dei problemi e il conseguente approntamento degli strumenti relativi alla conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale, ma la stessa affermazione non vale per quanto attiene al rapporto tra patrimonio culturale e fruitori, che richiede nel nostro Paese maggiore riflessione e approfondimento. La ricerca di modelli di gestione innovativi e più efficaci rappresenta ora la nostra nuova sfida per salvare quanto ci è arrivato della nostra cultura, delle nostre culture.
[*] Relazione svolta al convegno "Pubblico e privato per la gestione e per la valorizzazione dei beni culturali", Lecce, 30 novembre 2001.
[1] Sarebbe utile confrontare questo assetto normativo, da un lato con gli elaborati della bicamerale sulle stesse materie e, dall'altro, con il testo del titolo V della Costituzione, a seguito delle modifiche apportate dalla l. cost. 3/2001: si noterebbe come il nuovo disposto costituzionale in materia discenda dal lavoro della bicamerale in misura significativa.
[2] E' poi tradizione della legislazione in materia, resa esplicita nella normativa italiana dal 1939 in poi, che il primo responsabile della tutela è il proprietario dei beni tutelati; tant'è vero, che la legge mette in capo al proprietario - e non allo Stato - gli oneri di salvaguardia e gestione, per esempio della conservazione, e prevede che lo Stato intervenga soltanto al ricorrere di determinate condizioni, come l'impossibilità del proprietario a provvedere; salvo poi prevedere nel Testo unico sulle imposte dirette (a partire dalla l. 512/80) forme di agevolazione fiscale per gli interventi di salvaguardia e valorizzazione dei beni di rilevante interesse culturale, che si sono aggiunti al meccanismo, in verità poco efficace, dei contributi ex lege 1552/61 (art. 3, comma 2).
[3] D.p.r. 14 gennaio 1972, n. 3; cfr. in partic. gli artt. 7 e 9, che includono con evidenza tra le "funzioni amministrative" tanto le azioni di tipo gestionale, quanto quelle di tutela e, in parte, di valorizzazione (ad es.: il "miglioramento delle raccolte dei musei e delle biblioteche", "le mostre di materiale storico ed artistico", etc.)
[4] Per la Lombardia cfr. il sito web www.lombardiacultura.it. In merito alla programmazione degli interventi per il patrimonio culturale nella nuova normativa italiana, si veda, in particolare, quanto disposto dagli articoli 154 e 155 del d.lg. 112/98, nonché dall'art. 46, comma 4, del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di Beni culturali e ambientali approvato con d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490.
[5] A riguardo si rinvia alla pubblicazione di una ricerca promossa dalla Regione Lombardia: S. Bagdadli, "La rete di musei. L'organizzazione a rete per i beni culturali in Italia e all'estero", (Università Commerciale Luigi Bocconi - CRORA), Milano, Egea, 2001. Cfr. breve recensione.
[6] Cfr. Museo e cultura della qualità, a cura di N. Negri e M. Sani, Bologna, CLUEB e Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della regione Emilia-Romagna, 2001.
[7] D. Jalla, Il Museo contemporaneo. Introduzione al nuovo sistema museale italiano, Torino, 2000, pp. 112-128.
[8] Emblematico è il caso del regolamento di attuazione dell'art. 10 del d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368, mancante da oltre tre anni, inerente proprio modalità innovative di gestione dei beni culturali di proprietà statale; c'è da chiedersi, provocatoriamente, se il nuovo art. 118 Cost. non lo abbia reso inutile.
[9] Per costruire un'offerta formativa sensata, calibrata sulle esigenze vere del mercato del lavoro e del cammino verso una progressiva qualificazione dei servizi culturali occorre lavorare su due fronti: il primo è senz'altro la definizione degli standard di qualità per la gestione (cfr. Jalla, cit., 2000, pp. 171-178 e D.M. Beni e Attività Culturali 1° maggio 2001, "Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei (art. 150, comma 6, D.L. n. 112/1998)" pubblicato in GURL, suppl. ord. , parte prima, n. 238 del 19 ottobre 2001); ma il secondo fronte è non meno importante; si tratta della definizione dei processi di produzione dei servizi culturali e della conseguente definizione dei profili di competenza degli addetti a tutti i livelli; a riguardo, per le biblioteche e per i musei, la Regione Lombardia ha prodotto i relativi documenti analitici, disponibili su web quale premessa per l'emanazione di atti di indirizzo sui profili professionali dei due settori.
[10] Cfr. P. Petraroia in, S. Bagdadli, cit., 2001, XIII-XX.
[11] G. Urbani, La prospettiva del decentramento delle attività di ricerca e formazione, in "Il Comune democratico", 10, 1978, 34-36; ora in G. Urbani, Intorno al restauro, a cura di B. Zanardi, Milano, 2000, 121.