../home../indice../risorse%20web


Il riordino del ministero nel sistema dei beni culturali
(giornata di studio, 25 novembre 2004, Roma, Musei capitolini)

Ministero pesante e Codice debole

di Marco Cammelli


Del Codice dei beni culturali, qui e altrove, si è parlato a lungo ed è probabile che si continuerà a farlo. Molto meno, invece, si è discusso della parallela riforma del ministero, avviata dal decreto legislativo 8 gennaio 2004, n. 3, precisata dal regolamento di organizzazione (d.p.r. 8 giugno 2004, n. 173) e seguita da un cospicuo numero di ulteriori e più specifici interventi. La cosa è singolare per almeno due motivi.

Il primo è che per qualunque disciplina sostanziale affidata quasi completamente ai poteri di regolazione, di intervento operativo e di controllo degli apparati pubblici, e cioè ad alta densità amministrativa, non è possibile valutare la tenuta del disegno proposto e la bontà delle soluzioni adottate senza fare riferimento all'assetto posto in essere, vera e propria copertura organizzativa importante almeno quanto la copertura finanziaria. Tanto è vero che la (giustamente) celebrata bontà della legge 1089 del 1939 per lungo tempo è stata debitrice della propria riuscita alla solidità del tessuto istituzionale e amministrativo su cui poggia(va).

Il secondo è che il progetto tracciato dal Codice, come si sa, non è affidato ad un disegno rigido ma ad una opzione di fondo basata sulla flessibilità e sulla differenziazione, tanto da affidare larga parte di ciò che in concreto sarà destinato ad essere il sistema italiano dei beni culturali a due elementi chiave giustamente richiamati da Giorgio Pastori: la possibile cooperazione (pubblico/pubblico e pubblico/privato) e il possibile decentramento. Prospettive la cui definizione dovrà occupare i prossimi anni, ma che certo innanzitutto presuppongono l'adozione di un modello organizzativo statale che lasci aperta la strada a queste soluzioni, ed anzi sia predisposto in modo da agevolarle e sostenerle.

La spiegazione del silenzio è semplice, e risiede nel fatto che mentre il Codice, buono o meno che sia, non poteva che essere la disciplina di tutto e di tutti, l'organizzazione del ministero è stata invece concepita fin dall'inizio come un intervento riguardante in modo pressoché esclusivo gli apparati interni, le loro necessità o aspirazioni, e i rapporti reciproci. Un processo decisionale, in breve, del tutto interiorizzato ed emerso in superficie solo là dove le soluzioni immaginate erano troppo distanti dalle aspirazioni di qualcuno dei protagonisti interni. Basti pensare ai vibranti accenti che hanno accompagnato la vicenda dei beni archivisti e librari, terminati solo con l'accoglimento della richiesta, peraltro giustificata, di un autonomo dipartimento per il relativo settore (art. 1, comma 2, del regolamento).

Ora, è vero che il silenzio spesso è virtuoso, ma certo non lo è se le ragioni sono quelle appena riferite. E le conseguenze, purtroppo, sono state pesanti. Il dibattito, teso e approfondito, promosso in Campidoglio dalla Rivista e dall'Editore il 25 novembre 2004 ha permesso, con gli interventi di Carla Barbati, Gaetano D'Auria, Sergio Foà, Fabio Merusi, Giorgio Pastori e Girolamo Sciullo, di analizzare con precisione tutti gli aspetti più importanti del riassetto del ministero. Non mancano aspetti positivi ed apprezzabili, certo, ma la maggior parte dei profili problematici o decisamente inadeguati emersi in questa occasione sono dovuti proprio alle premesse che si sono dette. E con conseguenze, per l'intero sistema, decisamente rilevanti.

La Rivista, in questo numero, pubblica tutti gli interventi e dunque i lettori potranno direttamente verificare il merito, la fondatezza e la portata dei problemi appena richiamati. Ma è bene anticipare che le valutazioni critiche sono decisamente prevalenti. Non perché manchino aspetti condivisibili, ma perché sui punti più importanti la risposta non è persuasiva ed anzi si registrano, in più di un caso, veri e propri passi indietro.

Degli uni e degli altri si era già anticipata, si veda il numero 3/2003 della Rivista, una prima lettura. La valutazione risulta oggi confermata dalle analisi circostanziate pubblicate in questo numero. Alle quali, ovviamente, è bene fare rinvio.

In questa sede, piuttosto, è giusto chiedersi quali di questi aspetti critici siano riferibili a scelte del ministero e dell'Esecutivo, e fossero perciò evitabili, e quali invece dipendano da altro, e siano dunque il frutto di variabili fuori dal controllo di chi ha posto mano a questa disciplina. Il che non incide solo sulla esatta delimitazione delle responsabilità per il risultato conseguito ma, ancor più, serve a capire quali siano i vincoli esterni destinati ad incidere, lo si voglia o meno, sulla materia.

Il quadro assai complesso che emerge dall'intervento di Sergio Foà in ordine alle modalità di gestione, ad esempio, rientra in buona parte in quest'ultima categoria perché l'intreccio tra discipline comunitarie in materia di appalti pubblici, disposizioni generali in ordine alla gestione di servizi privi di rilievo economico caducate da recenti sentenze della Corte costituzionale (art. 113-bis Tuel e sentenza 272/2004) e riforma del diritto societario è tale da rendere il regime di questa materia, e in particolare il ricorso a forme di collaborazione pubblico-privato affidate al modulo delle società miste, molto problematico e comunque incerto. Il che, evidentemente, non può essere riferito alle specifiche soluzioni adottate in questa occasione.

Qualcosa di analogo può dirsi in ordine alla disciplina tra livelli centrali e articolazioni decentrate del ministero. Certo, è assai dubbio che la forma regolamentare sia quella più adeguata per dettare il regime di un profilo decisivo nei rapporti tra centro e periferia, sia per il dato formale che l'allocazione delle funzioni amministrative (di tutte, non solo di quelle di competenza regionale o locale) è, ex art. 118 commi 1 e 2 Cost., rimessa alla legge, sia perché sul piano sostanziale la ripartizione di funzioni tra i diversi livelli non può che essere frutto di valutazioni sistemiche, e dunque da adottarsi nelle sedi più generali e rappresentative.

Ma è innegabile che la comprensione di questo dato, e soprattutto del fatto che la definizione delle competenze degli organi decentrati dello Stato non è più confinabile ai rapporti interni tra vertice e organizzazione periferica ministeriale ma è espressione, a pari titolo del resto, del principio di sussidiarietà verticale, è tuttora carente per l'intera amministrazione statale. Con la complicazione aggiuntiva di una evidente e inevitabile tensione tra l'esigenza di garanzia e di stabilità, cui corrisponde la veste legislativa, e quella egualmente presente della flessibilità e della differenziazione, che presuppone invece una strumentazione più fluida che certo la legge non può assicurare.

Si tratta, come si può vedere, di un aspetto insieme molto importante e molto complicato, perché apre la questione del se e quanto l'amministrazione periferica dello Stato ricada, nel propri rapporti con il centro ministeriale, sotto un regime analogo a quello dettato per la allocazione di funzioni tra i livelli di governo, il che significa liberare l'art. 118, comma 1, Cost. e la sussidiarietà verticale dal riferimento necessario alle autonomie territoriali facendone, invece, un principio generale riguardante l'intero sistema amministrativo. Un problema certo da meditare, ma che va segnalato proprio quando, come in questi casi, si pone senza essere pienamente avvertito.

In ogni caso, se dunque per questi aspetti si riflettono sul ministero e sul relativo assetto incertezze più generali, va invece detto che altri decisivi elementi critici non hanno altra ragione che la volontà di chi vi ha posto mano. E di averlo fatto, come si diceva, in un'ottica largamente interna ed autoreferenziale.

Due soli esempi.

Il raccordo tra ministero e realtà regionali e locali, vale a dire ciò su cui si gioca la capacità del primo di costituire il centro del sistema e non solo una amministrazione centrale, è interamente affidato nelle sue linee ordinarie all'incontro in sede di Conferenze permanenti (stato-regione e stato-città) (Barbati), con tutti i limiti delle sedi politiche e generali, o veicolato per linee interne e verticali dagli apparati (sovrintendenti, direttore regionale, direttori generali: Sciullo), con le difficoltà e le strozzature che si possono immaginare. In mezzo non c'è nulla, a meno di non prendere sul serio il Consiglio nazionale dei beni culturali in cui siedono i vertici dell'amministrazione e esperti di designazione nazionale e regionale. Ma è difficile farlo se si sta al poco che la disciplina indica e al molto che si trae dall'esperienza di questi anni in base alla quale tale organo, tenuto al di fuori financo dalla informazione sui principali provvedimenti elaborati dal ministero (a cominciare dal Codice) e per il quale si era tempo fa avanzata l'ipotesi di farne una sede tecnico consultiva di elevato livello anche ai fini della decisione sui ricorsi amministrativi avanzati nei confronti dei provvedimenti degli organi periferici del ministero, ormai sopravvive in una dimensione esclusivamente amministrativa con il solo compito di rendere celermente, e senza opporre difficoltà, pareri obbligatori su dossier già definiti.

Quanto al modello organizzativo che esce dal riordino, è sufficiente richiamare l'insuperabile contraddizione tra potenziale flessibilità delle funzioni e attuale rigidità delle strutture (Pastori), l'enorme aumento di direzioni generali (rispetto alle due del 1975) ben al di là dell'incremento di compiti, la sovrapposizione di funzioni eterogenee, il mero assemblaggio della dimensione dipartimentale (D'Auria).

In breve un ossimoro amministrativo, che ipotizza nel Codice circolarità di processi decisionali e flessibilità e realizza nella disciplina di riordino del ministero una struttura fondata su dinamiche "a cascata" e contrassegnata da un Dna irrigidito prima, al suo interno, nella difesa di ogni unità amministrativa rispetto alle altre e poi, all'esterno, nei rapporti con gli altri elementi del sistema.

Può darsi che un simile quadro possa essere alleggerito dagli effetti benefici degli accordi di programma con regioni e sistema locale, come in qualche caso è accaduto in passato e forse (v. Toscana) si sta tentando anche oggi. Ma è dubbio che in via convenzionale si possa superare l'inadeguatezza dell'assetto strutturale che si è definito ed è certo, comunque, che quanto si è fatto in questa occasione fa parte più dei problemi da superare che degli strumenti per risolverli.

Insomma, il disegno del Codice esce indebolito e non certo rafforzato dal d.lg. 3/2004 e dal d.p.r. 173/2004. E questo, inutile nasconderselo, lo si è fatto tutto con le proprie mani.

 


copyright 2005 by Società editrice il Mulino


inizio pagina