Sommario: 1. La distinzione tra i servizi di rilevanza industriale e i servizi privi di rilevanza industriale: i due modelli. - 2. Il c.d. momento politico della distinzione. - 3. Le gestioni dirette di servizi privi di rilevanza industriale al vaglio del diritto comunitario. - 4. Alcune ulteriori osservazioni sulle forme di gestione di servizi privi di rilevanza industriale: riflessi concorrenziali della confusione sistematica. - 5. E' possibile ordinare le forme di gestione dei servizi privi di rilevanza industriale? A) la società di capitali. - 6. (segue): B) le associazioni e le fondazioni per la gestione dei servizi culturali e del tempo libero.
1. La distinzione tra i servizi di rilevanza industriale e i servizi privi di rilevanza industriale: i due modelli
Uno dei cardini su cui poggia la recente riforma della gestione dei servizi pubblici locali è la distinzione tra i servizi di rilevanza industriale e i servizi privi di tale rilevanza. Come è noto, alla distinzione corrispondono due modelli organizzativi profondamente diversi: quelli rispettivamente delineati dal nuovo art. 113, Testo unico sull'ordinamento delle enti locali, (d. lg. 18 agosto 2000, n. 267) e dal nuovo art. 113 bis dello stesso Testo unico.
I due modelli organizzativi si distinguono principalmente per l'intensità della esclusione della gestione del servizio dai meccanismi dell'economia decentrata. In altri termini per la gradazione della protezione dalla concorrenza anche potenziale che viene garantita al gestore.
Come è noto la gestione dei servizi di rilevo industriale dovrebbe in linea di fatto essere - almeno stando alla criticabile formulazione del quinto comma del nuovo art. 113 T.U. - esclusiva nella maggioranza dei casi. La concorrenza è però spostata al livello dell'entrata nel mercato locale: l'impresa si aggiudica la titolarità della gestione (che parrebbe) esclusiva all'esito di una procedura concorrenziale, che serve a comparare l'efficienza degli aspiranti gestori sulla base di indici predeterminati dall'amministrazione.
Altrove si è già criticata la generalizzazione legislativa del principio della gara per la gestione dei servizi di rilevanza industriale [1]. La c.d. concorrenza per il mercato non è vera concorrenza, ma solo un succedaneo di questa (la cui efficacia è peraltro tutta da dimostrare, come da tempo si è osservato nella letteratura economica): succedaneo, a cui conviene ricorrere solo laddove non sia possibile introdurre forme più intense (sia pure regolate) di concorrenza nel mercato [2].
Per quanto possa essere criticabile al livello generale, il modello di gestione dei servizi locali di rilevanza industriale quanto meno garantisce un certo grado di concorrenzialità del mercato complessivo delle gestioni: tutte le imprese (anche quelle pubbliche) dovranno confrontarsi in sede di gara per aggiudicarsi l'appannaggio di uno o più bacini di utenza.
Questo livello minimo ed artificiale di concorrenza non è invece garantito ove si consideri il modello di gestione dei servizi locali privi di rilevanza industriale previsto dal nuovo art. 113-bis del Testo unico. Qui il principio della gara non è previsto di regola, bensì quale eccezione. E l'operatività dell'eccezione è affidata ad una locuzione ("quando sussistano ragioni tecniche, economiche o di utilità sociale") di cui non può sfuggire l'indeterminatezza. In altri termini le amministrazioni locali rimangono sostanzialmente libere di sottrarre le gestioni dei servizi privi di rilevanza industriale a quel livello, sia pure minimo, di concorrenza che è affidato al principio della gara.
E' bensì vero che il nuovo art. 113-bis non lascia di per sé intendere che la gestione dei servizi privi di rilevanza industriale debba essere esclusiva: si prevedono infatti solo forme di gestione in affidamento diretto. Ma, allo stesso tempo, non si può omettere di considerare che l'affidamento diretto sovente equivalga al riconoscimento di una posizione di preminenza nel mercato locale, se non di un diritto di monopolio (non contendibile) per l'attività considerata.
Le osservazioni che precedono valgono specialmente per i servizi culturali e del tempo libero, posto che questi, in base al terzo comma dell'art. 113-bis del Testo unico, sono ordinariamente affidati direttamente ad associazioni o fondazioni costituite o partecipate dalle amministrazioni locali. In questo caso non è neppure previsto che i privati eventualmente coinvolti nell'iniziativa gestoria siano scelti con gara.
In questa prospettiva si coglie immediatamente la portata effettiva della distinzione tra i servizi dotati o privi di rilievo industriale. Si tratta di una distinzione che attiva due modelli diversi di intervento pubblico. E ai due modelli corrisponde un diverso grado di sottrazione di spazi di mercato alla libertà d'iniziativa e di concorrenza. Si potrebbe dire che nel primo modello la libertà privata sia semplicemente limitata (la gestione è esclusiva, ma il mercato è contendibile), nel secondo modello la libertà privata è, invece, in linea di fatto esclusa negli spazi che, in via di occupazione, l'amministrazione riserva a sé stessa o ai suoi partners preferenziali (la gestione non è esclusiva, ma l'affidamento è diretto).
In questa situazione mi pare che l'interprete non possa - prima di ogni altra considerazione - sottrarsi al dovere di verificare se il legislatore, e dunque le amministrazioni locali, siano effettivamente liberi (e quanto siano liberi) di sottrarre spazi ampi all'iniziativa dei privati (meglio: all'iniziativa di operatori privati o pubblici che agiscano su di un piano di parità ed eguaglianza, o iure privatorum), o non siano invece vincolati da superiori principi. Si tratta allora di inserire la distinzione che ci è oggi proposta nel quadro costituzionale e comunitario, di verificarne la portata e di proporre una interpretazione delle locuzioni impiegate dal legislatore che sia rispettosa della verifica.
2. Il c.d. momento politico della distinzione
Così come è letteralmente formulata, la distinzione è priva di sicuri riferimenti normativi nel nostro ordinamento.
E' peraltro vero che la nozione di "industrialità", contenuta nell'art. 2195, c.c. è stata nel tempo valorizzata nell'ambito del dibattito sulle c.d. imprese civili [3], ma è altrettanto vero che in tempi relativamente più recenti l'efficacia normativa dello stesso art. 2195 c.c. è stata ampiamente ridimensionata [4], essendosi spostato il centro dell'indagine sulla nozione di impresa (o di imprenditore) tout court. Peraltro anche una nuova valorizzazione dell'attributo dell'industrialità gioverebbe ben poco alla nostra distinzione. Posto che è indubbio che il legislatore dell'art. 35 della legge finanziaria non miri a ricomprendere nella categoria solo i servizi pubblici locali che sarebbero industriali ai sensi dell'art. 2195 c.c.
Come si ricorderà, nel previgente testo dell'art. 113 (e l'espressione veniva mantenuta in un precedente disegno di legge: il c.d. d.l. Vigneri) ci si riferiva ai servizi "di rilevanza economica ed imprenditoriale", per distinguerli da tutti gli altri (ed in particolare dai c.d. servizi sociali). Il riferimento, ad avviso degli interpreti, consentiva di recuperare nella fattispecie del servizio pubblico locale la fattispecie descritta dall'art. 2082 c.c. Sicché vi era una categoria di servizi locali che dovevano essere considerati imprese, ed altri che imprese non erano, con tutte le conseguenze in punto di regime e disciplina [5]. Oggi però il legislatore della riforma pare avere abbandonato - almeno letteralmente - anche quell'utile riferimento.
Anche l'ordinamento comunitario non conosce la distinzione tra i servizi privi di rilevanza industriale e quelli che possiedono tale rilevanza. In quell'ordinamento vale invece la distinzione tra i servizi d'interesse generale tout court (che non hanno carattere economico o costituiscono prerogative inerenti alla potestà pubblica), e i servizi d'interesse economico generale (che hanno invece carattere economico).
La distinzione - a cui, come è noto, si è indirizzata anche la Commissione [6] - ruota attorno alla nozione comunitaria d'impresa (nel senso che i servizi d'interesse generale non sono imprese, mentre i servizi d'interesse economico generale dovrebbero esserlo); e comporta l'applicazione di un regime giuridico profondamente diverso: i servizi d'interesse generale sfuggono per lo più all'applicazione del Trattato, mentre ai servizi d'interesse economico generale si applica l'art. 86.
Se però è facile individuare il regime applicabile alle due fattispecie, molto più problematico risulta distinguerle nel concreto. Si tratta infatti di applicare la nozione comunitaria d'impresa.
I tentativi dottrinali o giurisprudenziali di ancorare la nozione comunitaria a parametri obiettivi (tali identificare una categoria generale ed astratta) sono stati numerosi e non inferiori nei risultati alle note elaborazioni nazionali sulla nozione di economicità.
Per limitarsi ad alcune ricostruzioni, vi è stato chi, valorizzando il formante giurisprudenziale, ha fatto riferimento all'idoneità dell'attività ad essere condotta da privati e per uno scopo di lucro [7]; altri, ulteriormente approfondendo le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, hanno ritenuto che, mentre nell'attività economica l'offerta delle prestazioni deve essere dimensionata in base a criteri di tipo efficientistico, quali la propensione a pagare dei clienti ed i costi sopportati per effettuarla, nelle attività non economiche le prestazioni sono allocate in base a criteri di merito o politici (mero criterio di cittadinanza, condizioni reddituali, etc.) [8]. Dunque la fornitura di quei beni (servizi) che la letteratura economica definisce "meritori" [9], o altrimenti pubblici, apparterrebbe al dominio dell'amministrazione (e non dell'impresa).
In realtà la ricerca del dato oggettivo a cui ancorare la distinzione non può che valere a posteriori. Rimane infatti ineliminabile il momento politico e discrezionale della scelta dei criteri allocativi a cui orientare l'offerta delle prestazioni.
Analogamente nella ricostruzione del requisito imprenditoriale dell'economicità - al quale si è annessa la rilevanza obiettiva e, come si è detto, strutturale, della nostra nozione d'impresa - si è fatto costantemente rinvio al metodo economico, e cioè quel metodo di conduzione dell'attività che consente la remunerazione degli input produttivi (compreso il capitale investito) ed all'impresa di essere auto-sufficiente nel mercato [10]. Anche qui però la scelta del metodo rimane esogena. E se si ammette che vi sia un soggetto che può liberamente scegliere il metodo (o il criterio) a cui orientare l'attività, ciò significa anche che l'occupazione di spazi produttivi che potrebbero essere aperti alla libertà d'impresa è in generale sottratta a qualsiasi sindacato di legittimità. Dunque, in conclusione, nella realtà dei fatti il momento politico della scelta rimane il dato esterno ed insindacabile da cui normalmente si fanno partire le indagini di diritto positivo [11].
E' così affermazione comune che i servizi c.d. sociali (sanità, istruzione) potrebbero essere indifferentemente condotti con metodo imprenditoriale o seguendo criteri equitativi, o di tipo politico. Analogamente la gestione di un museo, o di un sito archeologico, o di una dimora storica potrebbe essere indirizzata sia al conseguimento del massimo profitto, sia alla diffusione di valori culturali tra la generalità dei cittadini, sia alla massima tutela del valore artistico del bene.
Si potrebbe allora concludere che il legislatore dell'art. 35 abbia preso atto della difficoltà teorica ed abbia coerentemente abbandonato l'intento definitorio di livello generale ed ancorato alla nozione comunitaria o nazionale d'impresa.
Coerentemente i primi commentatori della riforma - pur decifrandovi l'evocazione alle note categorie tradizionali del service public - hanno interpretato la distinzione sia rifacendosi a quella (apparentemente) consolidata tra i servizi imprenditoriali e quelli sociali [12], ovverossia richiamandosi al momento politico e discrezionale della scelta legislativa (ormai, non senza ragioni, acquisito nella nostra letteratura amministrativistica) [13].
Dunque si potrebbe dire che la logica della distinzione, che ci è attualmente proposta tra i servizi locali privi o dotati di rilievo industriale, sia di tipo meramente stipulativo. Nella impossibilità di ordinare sistematicamente anche la distinzione tra i servizi imprenditoriali e quelli sociali, si è preferita una tecnica definitoria di tipo casistico. Sembra allora riproporsi anche in questa sede legislativa l'ineliminabile momento politico di tutte le ipotesi di intervento pubblico sul (o nel) mercato.
Sarà dunque il governo, quando verrà emanato il noto regolamento attuativo dell'art. 35, a dirci, elencandoli, quali sono i servizi locali che dobbiamo considerare di rilevanza industriale e quali sono i servizi locali privi di tale caratteristica. Quali i servizi interessati dalla pallida liberalizzazione introdotta dalla riforma, e quali i servizi conservati al monopolio delle amministrazioni. In questa logica, e nella prospettiva dell'emanazione del regolamento, è dunque indispensabile che il governo stili un elenco - nominando i servizi ad uno ad uno - piuttosto che avventurarsi in definizioni di livello generale, difficoltose anche per gli specialisti.
D'altronde le scelte legislative sono anche scelte di politica economica: ci si è ormai da tempo accorti che taluni settori "di rilevanza industriale", in cui sono tradizionalmente attive le imprese degli enti locali, sono strategici per l'economia nazionale e fonte di stabili e lucrosi profitti. Questi sono i settori che si vorrà nominare per sottrarli all'esclusivo appannaggio delle amministrazioni locali. L'operazione di politica economica può anche essere giustificata, considerando che l'intervento degli enti locali nel mercato non si giustifica certo con l'obiettivo di incamerare i profitti dell'azionista di un impresa in monopolio, ma certo occorre riconoscerla come tale e valutarne le conseguenze in punto di disciplina.
Per essere chiari - ma senza esprimere giudizi di merito - la principale conseguenza normativa della distinzione è che, mentre correttamente si offrono alle forze del mercato (ed in particolare alle realtà industriali private) i profitti di talune attività, si è ancora disposti ad accettare che altre attività (quelle che non saranno incluse nell'elenco e che costituiranno la categoria dei servizi privi di rilevanza industriale) rimangano definitivamente nel dominio auto-organizzativo delle amministrazioni locali.
Il dato sembra essere unanimemente accettato. Ed anzi si è salutata con favore (almeno al confronto con il livello statale) [14] la circostanza che al livello locale il comma terzo del nuovo art. 113-bis almeno prospetti la possibilità di collaborazioni tra amministrazioni e privati in enti (associazioni o fondazioni, o anche società di capitali) affidatari diretti (senza gara) di servizi culturali o del tempo libero; o che il quarto comma dello stesso articolo preveda (a mio avviso ottimisticamente) gestioni di servizi culturali a privati scelti con gara.
Come si è già osservato si tratta di eccezioni che si inseriscono nella regola della auto-organizzazione dell'amministrazione locale. Ma ciò che desta maggiori preoccupazioni è che l'applicazione della regola (o dell'eccezione) resti sostanzialmente libera, e non vincolata, per l'amministrazione.
Ma è proprio vero che il legislatore sia arbitro di "battezzare" talune attività economiche come "servizi privi rilevanza industriale" o anche "servizi culturali e del tempo libero", così assegnando alle amministrazioni il potere di sottrarre tali attività al mercato?
Si può forse ragionevolmente sperare che le amministrazioni impegneranno oculatamente il denaro dei cittadini, concentrando gli impegni di spesa in attività di valore spiccatamente sociale, anzi che avventurarsi (ma al riparo dalla concorrenza) in operazioni che sarebbe meglio abbandonare al mercato ed all'iniziativa privata. Ma esiste una regola che garantisca che ciò debba effettivamente accadere?
3. Le gestioni dirette di servizi privi di rilevanza industriale al vaglio del diritto comunitario
Per rispondere alla domanda, può forse essere utile ricordare che, valorizzando la sovraordinazione dei principi di concorrenza e di libera circolazione nell'ambito del Trattato, è possibile enucleare più regole o principi (in applicazione del generale principio comunitario di proporzionalità) che vincolano l'intervento delle amministrazioni:.
In base al diritto comunitario, l'amministrazione è legittimata ad occupare (direttamente o mediante proprie articolazioni organizzative) spazi di mercato che, altrimenti, rimarrebbero aperti all'iniziativa privata, solo se si dimostra che l'intervento, che si attua nei moduli amministrativi, è più efficiente (in termini di welfare complessivo) o efficace a realizzare gli obiettivi di interesse pubblico che ci si propongono, rispetto ad alternative più liberiste, o a modelli meno intrusivi o limitativi delle libertà economiche.
Addirittura, sempre valorizzando il dato comunitario, è possibile stabilire vincoli all'amministrazione (che si possono definire di proporzionalità in senso forte) anche quando questa predetermina gli obiettivi di interesse pubblico che vuole siano realizzati nel mercato, e dunque dimensiona la domanda di interesse pubblico da rifornire [15].
Simili pre-condizioni all'intervento sono tipicamente soddisfatte ogniqualvolta i poteri pubblici si prefiggano obiettivi che si pongono hors marché (per esempio, se le prestazioni di servizio sono offerte ai cittadini più poveri, il criterio allocativo è contrario a quello efficientistico). In tali casi l'obiettivo non potrebbe mai essere realizzato nel mercato, ed è dunque conveniente che l'iniziativa sia condotta dall'amministrazione, che rimane libera di articolarsi come meglio crede. In questi casi non si può parlare di impresa, ma di amministrazione, e quindi di libertà di auto-organizzazione. In questi casi non è dunque corretto parlare di diritti esclusivi, ma più semplicemente si deve riconoscere di avere a che fare con moduli organizzativi con i quali l'amministrazione diversamente articola la propria azione.
E' appena il caso di rammentare che quanto si va esponendo trova un preciso riscontro nella giurisprudenza più avanzata della Corte di Giustizia [16]. Limitandosi ai casi più noti e perspicui, nella sentenza Hofner [17] (e nella omologa sentenza Job Centre) [18] si è così affermato che il riconoscimento di un diritto esclusivo (di collocamento) ad una unità organizzativa dell'amministrazione (un ufficio di collocamento pubblico) pregiudica illegittimamente i principi di concorrenza fissati nel Trattato, qualora si dimostri che tale unità sia manifestamente incapace a soddisfare la domanda esistente sul mercato e siano invece presenti operatori privati che tale domanda sono in grado di soddisfare.
Si tratta del noto test di efficienza, con il quale la Corte è solita esaminare la legittimità delle "occupazioni" del mercato di matrice pubblicistica (p.es.: l'assegnazione di diritti esclusivi o lo stesso disimpegno di una attività all'interno dell'amministrazione), ed all'esito del quale la Corte ha sancito l'illegittimità di talune occupazioni e la legittimità di altre [19].
Occorrerà dunque valutare se l'astratto elenco di probabili affidamenti diretti che ci proporrà il governo sia in grado di superare questo test di efficienza di derivazione comunitaria. Il test - mi pare di poter prevedere - sarà particolarmente probante per quei servizi che non compariranno nell'elenco, e che dunque rimarranno generalmente abbandonati alle valutazioni discrezionali delle amministrazioni locali, e protetti dalle forze di mercato grazie agli affidamenti diretti e all'esclusività a questi inevitabilmente connessa.
Per finire brevemente sul punto si può anche osservare che una più attenta considerazione della letteratura economica potrebbe più correttamente indirizzare (e confortare) le future scelte di rango regolamentare. Mi riferisco, per esempio, alle teorizzazioni della c.d. "economia della cultura", la quale ha nel tempo illustrato le ragioni per le quali i servizi culturali sono intrinsecamente tributari di sovvenzioni pubbliche [20].
4. Alcune ulteriori osservazioni sulle forme di gestione di servizi privi di rilevanza industriale: riflessi concorrenziali della confusione sistematica
Il difetto di fondamento teorico o sistematico (o, se si vuole, la caratterizzazione meramente stipulativa) della distinzione tra servizi di rilevanza industriale e servizi privi di rilevanza industriale non può non riflettersi (e negativamente, come si dirà) sul tema delle forme di gestione ed, in particolare, sulla questione (che qui interessa) dell'orientamento causale dello schema organizzativo prescelto per la gestione dei servizi privi di rilevanza industriale.
Il nuovo art. 113-bis offre alle amministrazioni la più ampia gamma possibile di possibilità organizzative. Si va dall'istituzione (figura organizzativa poco studiata, e comunque di non agevole inquadramento) alla società di capitali (l'ente soggettivamente lucrativo per eccellenza) passando per l'azienda speciale, anche consorziale, (di questa, come è noto, si è da più parti professata la compresente natura imprenditoriale ed amministrativa, nonché la rigida strumentalità rispetto agli scopi dell'ente locale) [21], senza dimenticare la gestione in economia, le associazioni e le fondazioni per i servizi culturali o del tempo libero e - buon ultimo - l'affidamento (con gara) a terzi.
Di fronte ad un così ampio ventaglio di opzioni non si può che rimanere disorientati. L'unica conclusione che si può trarre è che il legislatore non potendo (o non volendo) differenziare tra le due categorie di servizi abbia coerentemente affastellato, come opzioni alternative a disposizione dell'ente locale, schemi organizzativi che, invece, si differenziano profondamente l'uno dall'altro, soprattutto dal punto di vista causale.
Ancora una volta sembra rimessa al buon cuore delle amministrazioni (senza dimenticare l'onere di motivazione di tipo comparativo di cui queste sono gravate) la volontà di differenziare lo schema organizzativo in rapporto alla natura od alla tipologia del servizio da gestire.
Il pericolo è però grande: posto che sulla base della natura stipulativa della distinzione non possiamo essere certi che i servizi privi di rilevanza industriale (si noti bene: di regola affidati direttamente all'ente incaricato della gestione) siano effettivamente attività produttive intraprese per realizzare obiettivi di interesse pubblico fuori-mercato, può benissimo darsi che domani un ente locale decida di affidare direttamente ad una istituzione la gestione di esercizi commerciali di proprietà comunale. Di converso, sulla base dell'attuale testo legislativo (ma per vero anche prima) non si può escludere che ad una società di capitali venga direttamente affidata la gestione di asili nido per bambini di famiglie disagiate.
Lasciando per un attimo da parte il tema del ricorso alla società di capitali per realizzare finalità neppure oggettivamente lucrative, desta timore la circostanza che alle amministrazioni sia riconosciuta la facoltà di occupare spazi di mercato che a loro non competono, almeno in base al diritto comunitario, e che potrebbero essere più convenientemente (anche nella prospettiva della destinazione delle risorse pubbliche) rimessi all'iniziativa privata, sia pure regolata.
Il rischio è allora che le amministrazioni sfruttino la leva legislativa per fare concorrenza (impari), o eliminare la concorrenza, in settori astrattamente lucrativi, nei quali la presenza di più operatori è non solo dovuta, ma anche opportuna per il benessere collettivo.
In più la concorrenza pubblica sarebbe condotta anche mediante moduli organizzativi (mi riferisco in particolare alle aziende ed alle istituzioni, ma anche alle associazioni ed alle fondazioni) che, sulla base del loro speciale statuto od orientamento causale, potrebbero malaccortamente sfuggire all'applicazione della disciplina antitrust.
Dunque, esaminando dappresso le singole forme di gestione, non ci si può esimere dal tentare di riordinarle. Il tentativo potrebbe essere anche funzionale ad un'altra e più generale operazione, che qui si può però solo accennare: ragionando sulla base dello schema organizzativo (del modulo di gestione) prescelto si può, per così dire a ritroso, tentare di stabilire vincoli all'intervento degli enti locali nel settore dei servizi privi di rilevanza industriale. Più chiaramente: se l'ente locale sceglie l'istituzione si vincola a fornire servizi diseconomici, se sceglie la società per azioni la finalità (e l'attività) non può che essere (almeno) obiettivamente lucrativa, ed allora l'intervento sul mercato dovrà essere compatibile con lo statuto concorrenziale di quest'ultimo.
L'operazione non cela l'intento di preservare i privati, il mercato od anche solo la concorrenza in senso oggettivo. Le gestioni di cui si discorre hanno infatti ad oggetto servizi pubblici, e per di più privi di rilevanza industriale. Come è noto l'attività di gestione di servizi pubblici suscita l'applicazione di un regime concorrenziale speciale (art. 86 Trattato e art. 8 legge antitrust), che ammette anche l'assegnazione di diritti esclusivi nella misura in cui l'esclusività valga a garantire la compensazione dei costi supplementari connessi alla gestione del servizio [22].
Laddove però vi debba essere esclusività, o l'esclusività sia una probabile conseguenza dell'iniziativa dell'amministrazione (dell'affidamento diretto a moduli organizzativi diversamente configurati), è necessario che il diritto di gestire sia messo a gara, a meno che non si possa dimostrare la superiorità (in termini di efficienza complessiva o di welfare) dell'azione diretta dell'amministrazione.
Un segnale può essere proprio il ricorso a moduli gestionali imprenditoriali o orientati in senso lucrativo. In tal caso l'iniziativa dell'amministrazione dovrebbe essere rispettosa dello statuto concorrenziale del mercato. In ogni caso il modulo gestionale dovrebbe rimanere potenzialmente aperto alla partecipazione dei privati, ma all'esito di una gara che serva a dimostrare chi può essere il miglior gestore del servizio. D'altro canto il meccanismo competitivo è quello che garantisce l'innalzamento del livello di efficienza e di qualità dei servizi.
5. E' possibile ordinare le forme di gestione dei servizi privi di rilevanza industriale? A) la società di capitali
Come noto, è ormai da lungo tempo che la dottrina commercialistica si interroga in merito alla legittimità delle società prive dello scopo di lucro. Senza volere ripercorrere un dibattito peraltro noto nei suoi termini essenziali [23], qui si può brevemente ricordare che la più autorevole dottrina, da un lato, nega che i privati siano liberi di privare il contratto della sua connotazione lucrativa e, dall'altro lato, ammette che il legislatore possa senz'altro escludere il lucro in senso soggettivo, con ciò pervenendo ad assimilare la società all'associazione.
Nel nostro caso però il legislatore ha fatto qualcosa di più: se è vero che il novero dei servizi privi di rilevanza industriale (oggetto di affidamenti diretti) potrebbe (almeno applicando il diritto comunitario) comprendere solo attività obiettivamente diseconomiche, se ne deduce che non potrebbe essere chiamato a gestire un'attività strutturalmente in perdita un ente (la società di capitali) che dovrebbe essere come minimo oggettivamente lucrativo. La logica conclusione è l'incompatibilità tra lo schema causale delle società di capitali e la gestione di servizi locali privi di rilevanza industriale.
Se invece il legislatore dietro lo schermo della mancanza del rilievo industriale ha voluto nascondere attività capaci di produrre profitti divisibili tra i soci (l'art. 113-bis non esclude lo scopo di lucro), diventa compatibile la società di capitali, ma illegittimo l'affidamento diretto.
Tanto più che la nostra disposizione non prevede neppure (ed a mio avviso seguendo ineccepibilmente la prospettiva del superamento della differenziazione tra società gestrici pubbliche e private) che la società debba essere controllata dall'ente locale, come peraltro richiede la citata sentenza Teckal. Ancora si deve considerare che la società non può non essere considerata a tutti gli effetti soggetto terzo rispetto all'ente locale, che pure l'abbia costituita. In proposito sarebbe utile rivalutare - o comunque mantenere fermo - l'orientamento che la Suprema Corte ha ineccepibilmente espresso nella ben nota (ma troppo spesso dimenticata) sentenza Siena Parcheggi [24]. Se la società è soggetto terzo, sarebbe allora irragionevole non applicare all'affidamento quanto previsto dal quarto comma dell'art. 113-bis.
6. (segue) B) le associazioni e le fondazioni per la gestione dei servizi culturali e del tempo libero
Si può qui riprendere con alcune precisazioni quanto si è appena osservato considerando la formula gestionale della società di capitali. Ed infatti, avuto anche riguardo alla futura riforma dello statuto degli enti del libro primo del codice civile [25], è certo che l'espressa esclusione legislativa del profilo soggettivo del lucro non preclude il possibile orientamento obiettivamente lucrativo dell'attività svolta dalle associazioni e dalle fondazioni.
Si può peraltro osservare che il recepimento legislativo del c.d. non distribution constraint [26] garantisce sia una chiara distinzione sistematica con i fenomeni lucrativi in senso stretto sia il perseguimento dello scopo altruistico, predisponendo associazioni e fondazioni alla gestione di servizi culturali e del tempo libero.
La garanzia dell'eterodestinazione dei risultati dell'attività associativa lascia però intatto il problema dello statuto concorrenziale degli enti non profit, ed in particolare la questione del rapporto tra imprese di enti lucrativi e imprese di associazioni e fondazioni.
Oggi si registra finalmente qualche tentativo di risolvere il problema - praticamente rilevantissimo, ma negletto - applicando la disciplina ordinaria. Nel nostro caso la questione si complica considerando che si è in presenza di associazioni o fondazioni che fanno concorrenza essendo titolari di affidamenti diretti, e cioè godendo di posizioni di mercato privilegiate se non dominanti.
Ora è chiaro che l'associazione è titolare di un servizio pubblico. Dunque, come già si è rilevato, occorre applicare l'art. 86 del Trattato (o l'art. 8 della nostra legge antitrust) verificando se la protezione della concorrenza sia davvero indispensabile in rapporto ai costi connessi allo svolgimento del servizio.
Resta però il fatto che, se il servizio (anche per essere protetto dalla concorrenza) è in grado di produrre utili (non divisibili tra gli associati), occorre garantire almeno parità di accesso alla gestione da parte di tutti gli aspiranti imprenditori benemeriti, e procedere alla sua assegnazione con gara.
L'obbligo di gara si impone certamente per le c.d. imprese funzionali delle associazioni, e cioè per quelle attività che alimentano l'attività meramente erogativa dell'associazione. In tali casi mi pare che l'amministrazione dovrebbe interpretare quanto è previsto dal quarto comma dell'art. 113-bis non alla stregua di una opportunità liberamente disponibile, ma come un obbligo.
Ma penso anche che l'obbligo di procedere - almeno in prima istanza - con gara per la scelta degli associati si dovrebbe imporre all'amministrazione in tutti i casi in cui sia possibile rinvenire elementi obiettivamente imprenditoriali nella gestione del servizio direttamente affidato all'associazione.
Non si tratta semplicemente di tutelare la concorrenza in senso oggettivo, ma di impedire che l'amministrazione, celandosi dietro la formula del servizio privo di rilevanza industriale, riservi preferenzialmente - e senza avere dimostrato con una gara la superiorità della formula organizzativa - alle imprese proprie o di amici benefattori spazi di mercato che dovrebbero essere assoggettati al minimo regime della concorrenza per il mercato.
[1] A. Pericu, Servizi pubblici locali e diritto comunitario, intervento al Convegno La nuova disciplina dei Servizi Pubblici locali, Università Roma Tre, Facoltà di Giurisprudenza, Roma, 19 aprile 2002 (destinato alla pubblicazione nella Rivista Giuridica Quadrimestrale dei Pubblici Servizi).
[2] Sia consentito il rinvio a quanto osservo in Impresa e obblighi di servizio pubblico, Milano 2001, 8 ss. e 377 ss. Opinioni analoghe sono state peraltro già chiaramente espresse dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nei suoi Pareri relativi, prima, al d.l. c.d. Vigneri (n. AC 7042 della scorsa legislatura) e, poi, al disegno di legge finanziaria contenente, nell'ultima versione all'art. 35, la riforma della gestione dei servizi pubblici locali.
[3] Cfr., per tutti, M. Casanova, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1974, X-1, 1¡, p. 30; E. Zanelli, La nozione di oggetto sociale, Milano, 1962.
[4] Cfr, per esempio, G. Santini, I servizi, Bologna, 1987, 15 ss.
[5] A. Pericu, op. ult. cit., 26 ss.
[6] Comunicazione della Commissione su I servizi d'interesse generale in Europa, del 19 settembre 1996, poi ripresa e sviluppata nella seconda Comunicazione, egualmente intitolata, del 25 settembre 2000 (COM/2000/0580 def).
[7] G. Tesauro, Intervento pubblico nell'economia e art. 90, n. 2, del Trattato CE, in Diritto dell'Unione Europea, 1996, 729, ove anche riferimenti alla giurisprudenza comunitaria.
[8] G. Pericu e M. Cafagno, Impresa pubblica, in Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da Chiti e Greco, Milano, 1997, Parte speciale, II, 792 ss.
[9] R. Musgrave, L'offerta di beni sociali, trad. it. in ID., Finanza pubblica, equità, democrazia, Bologna, 1995.
[10] Per tutti, G. Oppo, L'impresa come fattispecie, in Riv. dir. civ, 1982, I, 109 ss.
[11] Cfr. le considerazioni di F. Merusi, voce Servizio pubblico, in Novissimo Dig. It., XIV (1970), 215 ss.
[12] G. Sciullo, I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002 in questo numero di Aedon, richiamandosi anche a M. Cammelli, I servizi pubblici nell'amministrazione locale, in le Regioni, 1992, 25.
[13] V. Cerulli Irelli, Relazione agli Atti del Convegno Paradigma, Milano, 20 febbraio 2002, richiamandosi alle note opinioni di F. Merusi, op. e loc. ult. cit.
[14] E. Bruti Liberati, pubblico e privato nella gestione dei beni culturali: ancora una disciplina legislativa nel segno dell'ambiguità e del compromesso, in Aedon 3/2001, C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon, 3/2001.
[15] Nel testo accenno ad alcune tesi che ho più compiutamente sviluppato in Impresa e obblighi di servizio pubblico, cit., 272 ss.
[16] Salvo alcune battute d'arresto sempre più frequenti, tra le quali in particolare si ricorda la sentenza Teckal (Corte di Giustizia, 18 novembre 1999, nella causa c-107/98, Teckal Srl c. Comune di Viano e AGAC di Reggio Emilia), in cui la Corte, proprio nell'esaminare la legittimità di un affidamento diretto (la c.d. gestione in house) ha omesso di sottoporlo al test di efficienza illustrato nel testo.
[17] Corte di Giustizia, 23 aprile 1991, causa C-41/90, Klaus Hofner e Fritz Elser c. Macrotron GMBH, in Raccolta, 1991, I-1979.
[18] Corte di Giustizia, 11 dicembre 1997, causa C-55/96, Job Centre coop a r.l., in Raccolta, 1997, I-7140.
[19] Cfr. Corte di Giustizia, 21 settembre 1999, causa C. 67/96, Albany International BV c. Stitching Bedrijspensionenonds Textielindustrie, in Europa e diritto privato, 2000, 161.
[20] Cfr., il classico W. J. Baumol e W.G. Bowen, Performing arts. The Economic Dilemma, Cambridge Mass., 1966, ed il più recente reference book di F. Benhamou, L'economia della cultura, trad. it., Bologna, 2001.
[21] Per tutti, G. Caia, L'organizzazione dei servizi pubblici, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli et al., Bologna 2001, 997, ss.
[22] Sia consentito ancora il rinvio ad A. Pericu, Impresa e obblighi di servizio pubblico, cit., passim.
[23] Per tutti, C. Ibba, Le società "legali", Torino, 1992; G. Marasà, Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984.
[24] Cass., SS. UU., 6 maggio 1995, n. 4989, in Foro amm., 1996, 32 ss.
[25] Cfr. il progetto di revisione del codice civile, libro I, titolo II, curato dalla Commissione ministeriale presieduta dal Cons. L. Rovelli, e pubblicato in Associazioni e fondazioni: dal codice civile alle riforme annunciate, a cura di G. Visentini, Atti del I Seminario promosso dalla rivista Contratto e Impresa, Milano, 2000.
[26] Già patrocinato prima della riforma da G. Ponzanelli, Le "non profit organizations", Milano, 1985; v. anche P. Verrucoli, Non-profit organizations, Milano, 1985.