Qualche osservazione in punta di penna, sull'onda dei rilievi mossi da Cammelli e poi da Bobbio, Chiti, Sciullo, all'assetto delle competenze culturali fra centro e periferia, quale risulta dal decreto n. 112 del 31 marzo 1998. È un'onda alta, persino travolgente: una critica spietata che sommerge in pratica ogni comma dell'articolato normativo. E la replica non è senza imbarazzo: come diceva Nietzsche, "l'autore deve chiuder bocca, quando apre bocca la sua opera". Nella circostanza tuttavia è senz'altro lecito rompere il silenzio, non foss'altro perché questo testo normativo non è affatto imputabile a una mano solitaria, ma piuttosto al lavoro d'una commissione di otto studiosi di varie discipline, della quale pertanto chi scrive risponde solo per ... un ottavo (anzi per meno, giacché il testo da noi licenziato fu poi - com'è del resto naturale - rivisitato in sede politica).
Si tratta della cd. commissione Cheli, istituita con un d.m. del 5 dicembre 1996, e della quale hanno fatto parte - oltre per l'appunto al suo presidente nonché all'autore di queste note - Marco D'Alberti, Gaetano D'Auria, Paolo Leon, Giuseppe Palma, Vincenzo Roppo, Francesco Rimoli. La commissione ha poi lavorato durante tutto l'arco del 1997 non soltanto ai temi del decentramento culturale, bensì pure (e soprattutto) alla riorganizzazione del ministero per i Beni culturali e ambientali, delle sue competenze, delle sue leve d'intervento. Ed è stato un lavoro duro, questo va detto subito rispetto alla critica fin troppo ingenerosa di "sommarietà" nelle scelte normative; un lavoro che si è tradotto infine nella redazione di 38 verbali di sedute collegiali (dal 19 dicembre 1996 al 22 dicembre 1997), in molte altre riunioni dei vari sottogruppi (affiancati dalla burocrazia ministeriale), e infine in innumerevoli audizioni: dei direttori generali del ministero; dei presidenti dei comitati di settore del Consiglio nazionale per i beni culturali; dei rappresentanti degli enti locali (l'Upi, l'Anci, ma anche il Coordinamento degli assessori regionali alla cultura e allo spettacolo, nonché il Coordinamento regionale per i beni e le attività culturali); dei direttori delle due biblioteche nazionali di Roma e di Firenze; di molti soprintendenti ai beni archeologici, storici, artistici (da La Regina a Paolucci, a Emiliani e a vari altri); dei direttori degli archivi di Stato; dei rappresentanti sindacali; delle più importanti associazioni di settore (dalla Federazione italiana amici dei musei al World monuments fund, dall'associazione Bianchi Bandinelli a Italia Nostra, al Touring Club, all'Associazione italiana biblioteche e a diversi altri organismi che sarebbe troppo lungo elencare in questa sede).
Poi in una commissione, com'è ovvio, si discute, si confrontano diverse posizioni, si cercano punti di raccordo. Nel caso di specie l'autorevolezza e le doti d'equilibrio del suo presidente hanno facilitato tale compito; sicché in ultimo, anche se può essere accaduto che su questo o quel punto la voce di questo o di quel componente sia rimasta in minoranza, nell'insieme il lavoro è stato da tutti condiviso. Pure da chi scrive, certo; e ciò facilita la replica, e forse la rende doverosa. Una replica non "togata", non condotta secondo i toni paludati usuali all'accademia; ma del resto la sede in cui essa viene ospitata, almeno questo vantaggio lo consente.
E dunque, veniamo al primo nodo. A norma dell'art. 150 del d.lg.112/98, una commissione paritetica provvederà ad individuare "i musei o altri beni culturali statali" da trasferire in gestione alle regioni, alle province o ai comuni. È l'avvio di un processo di devoluzione da lungo tempo (e finora invano) sollecitato dalle amministrazioni locali: un processo che alla fine ricondurrà sotto la diretta responsabilità di quelle amministrazioni la massima parte dei circa 500 musei affidati alle cure dello Stato, senza contare le aree archeologiche e gli altri monumenti. Insomma, salvo gli Uffizi o altre (poche) grandi istituzioni d'interesse nazionale, tutto il resto fra due anni passerà di mano. Funzionerà questo progetto? Vedremo. Per il momento tuttavia è forse prematuro aprire un processo alle intenzioni dei futuri protagonisti del ... processo, pronosticando conflitti irresolubili e dunque il fallimento dello "scenario cooperativo" che viceversa sta dietro le quinte della commissione (non a caso a composizione paritetica: cinque rappresentanti del ministero, cinque delle autonomie territoriali). In passato - è vero - esperienze analoghe non hanno offerto buona prova; oggi però il clima politico, e perciò anche le tendenze istituzionali sulla questione del decentramento, parrebbero di tutt'altro segno. E in faccende simili è il contesto l'elemento decisivo.
Secondo. I musei - lamenta Bobbio - non sono cose inerti ma piuttosto "istituzioni", e perciò non meritano di venire sballottati da un ente all'altro come pacchi postali; oltretutto nel passaggio non è detto che il loro grado d'efficienza ci guadagni, non almeno quando l'efficienza del comune o della regione subentrante sia minore di quella dello Stato. Che cosa servirebbe invece? Di valorizzarne l'autonomia, la non-dipendenza da un'autorità esterna, centrale o locale che essa sia. In questi termini, il rilievo è senz'altro convincente: tanto che la stessa commissione Cheli ha avuto d'occhio il modello delle gestioni autonome, quanto alle strutture periferiche del ministero. Solo che il decreto Bassanini sul decentramento amministrativo non era certo la sede più adatta per introdurre questo tipo di riforma; se e quando verrà licenziata la parte restante dello schema di decreto legislativo predisposto dalla commissione Cheli, allora il quadro risulterà meglio delineato. La cura, insomma, vorrebbe essere duplice: autonomia e decentramento. A questo punto del percorso, ciò che intanto si intravede è per l'appunto un'iniezione di decentramento, ma di decentramento cooperativo, solidale, che non tollera compartimenti stagni fra i suoi diversi poli. Ecco perché l'ulteriore critica (mossa da Sciullo) d'aver tradito i criteri di unicità e di responsabilità dell'amministrazione - dettati nell'art. 4 della legge di delega - è fuori bersaglio a propria volta. In primo luogo, la delega disposta dalla l. 59/1997 era tutt'altro che omogenea: a prendersi la briga di fare un po' di conti, vi si rintracciano difatti 14 (quattordici) fra principi e criteri direttivi, talvolta reciprocamente conflittuali. Com'è appunto il caso dei due appena menzionati, che però coesistono col principio della "cooperazione" fra Stato, regioni ed enti locali; così come, per fare un altro esempio, il principio d'omogeneità dev'essere accordato al principio della differenziazione nell'allocazione delle funzioni trasferite "in considerazione delle diverse caratteristiche degli enti riceventi". Ma il fatto è che la l. 59/1997 si muove su un crinale stretto, reca l'impronta di un'epoca di transizione; tant'è che qualcuno l'ha giudicata incompatibile sia con la costituzione vecchia che con la ... nuova.
Si può ancora aggiungere che nel caso di specie il decreto delegato spinge non solo verso la cooperazione dei vari attori pubblici, ma li sollecita altresì a programmare gli interventi sul nostro patrimonio culturale, aprendo stanze di consultazione reciproca e di reciproco progetto. Su quest'ultimo fronte, avranno un ruolo cruciale le commissioni regolate agli artt. 154 e 155 del decreto, cui spetta una funzione d'impulso sulla definizione degli obiettivi di tutela e valorizzazione dei beni culturali, nonché circa l'attività di promozione. Non è una novità di poco conto: sia perché s'affaccia in questa veste un luogo di governo "orizzontale" del nostro patrimonio culturale, sollecitato a più riprese proprio dai rappresentanti delle autonomie territoriali (da ultimo, nel documento congiunto di regioni, province e comuni firmato al Cnel il 5 marzo 1997); sia perché lo strumento d'intervento risponde a una logica di piano, ciò che in futuro dovrebbe scongiurare decisioni estemporanee; sia perché le commissioni regionali integrano al proprio interno sensibilità molteplici, dato che i loro membri verranno nominati in parte dal ministro per i Beni culturali, in parte dal ministro per l'Università, in parte dalla regione e dagli enti locali, in parte dalla Conferenza episcopale, in parte dal Cnel tra le forze imprenditoriali. Esse saranno insomma i nuovi crocevia delle politiche culturali pubbliche; e non è affatto marginale la possibilità che a smaltire il traffico vi vengano chiamati uomini estranei all'amministrazione, e insomma che vi prenda posto "il denigrato e però insostituibile personaggio dell'esperto", come diceva Adorno.
Terzo punto di critica: perché trasferire la gestione, e non anche la proprietà dei beni museali? Ma perché esattamente questo era lo spazio del legislatore delegato: basta rileggere l'art. 17, comma 131, della l. 127/1997. Ma poi: siamo davvero certi che il tasso di federalismo si misuri sull'astratta titolarità dei beni, e non piuttosto sul potere di disporne? E siamo sicuri inoltre che le regioni e gli enti locali in concreto avrebbero "gradito" di sostenere il peso della proprietà dei beni? Proviamo a chiederlo all'italiano medio, a chi ha investito i suoi risparmi nel mattone ed è infine diventato proprietario della casa in cui vive, e magari ci paga sopra un mutuo ventennale, e l'Ici, e le tubature che si rompono. Proviamo a chiedergli se preferirebbe invece averne l'usufrutto per sé e per i propri nipoti, ed anzi con la prospettiva di guadagnarci qualche lira sopra: quale sarebbe la risposta?
Quarto: la tutela. Nel d.lg. 112/1998 non v'è traccia di decentramento quanto alla protezione del nostro patrimonio culturale; tutto rimane saldamente nelle mani dello Stato, ed anzi si tratta di "funzione riservata", ai sensi dell'art. 149. Da qui proteste e contumelie, in primo luogo - e com'è ovvio - da parte dei politici locali e regionali. Non di tutti, per la verità, e non sempre ad alta voce: perché c'è anche chi ha capito che si tratta d'una competenza scomoda, che le misure prese a salvaguardia del patrimonio storico ed artistico limitano e delimitano la proprietà privata, e insomma non creano consensi ma piuttosto offendono interessi. Ecco perché difficilmente l'azione di tutela può venire perseguita con il rigore necessario dalle amministrazioni locali, che sono poi le più vicine a chi subisce il vincolo. Al di là dell'esperienza quasi mai esaltante che è venuta maturando quando invece tale competenza è rimasta in mano alle regioni: il caso Noto insegna, benché la sorte di Pompei (della quale è viceversa responsabile lo Stato) non sia poi meno infelice. E del resto, vogliamo davvero decentrare la tutela? Bene, facciamolo pure; ma allora decentriamo anche polizia e magistratura, creiamo corpi separati di carabinieri e giudici, giacché la difesa dei beni culturali risponde alla medesima esigenza, ed anzi tende a preservare l'integrità della nostra maggiore ricchezza nazionale.
In ogni caso, qui davvero il legislatore delegato aveva le mani... legate. L'art. 1, comma 3, lett. d) della legge di delega 59/1997 esclude infatti apertis verbis dal conferimento la funzione di "tutela dei beni culturali e del patrimonio storico artistico"; e per sovrapprezzo si può aggiungere che nel testo della Bicamerale la materia rientra fra quelle attribuite alla solitaria competenza dello Stato (art. 58). Come a dire che almeno in questo campo è affiorato un indirizzo univoco, sottoscritto sia dalla maggioranza di governo che dall'opposizione. Sennonché la critica (avanzata soprattutto da Cammelli) non nega la titolarità della tutela in capo all'amministrazione centrale, quanto piuttosto l'accezione troppo larga, "onnicomprensiva", che tale nozione ha assunto in seno al decreto delegato. Aveva ragione Bobbio (nella fattispecie Norberto, non Luigi): le controversie giuridiche quasi sempre si riducono a logomachie - sono insomma dispute su parole, non su cose. E dunque, che significa "tutela"? Ce lo spiega il decreto delegato (art. 148): "ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali". Riconoscere, conservare, proteggere: nulla di meno, ma anche nulla di più.
Certo, l'elenco che poi figura all'articolo seguente può apparire fin troppo capillare, mettendo in fila le diverse funzioni di tutela imputabili allo Stato (benché nel caso di specie l'analiticità intenda soddisfare un'esigenza di certezza nella distribuzione delle competenze); per qualche aspetto esso risulta inoltre esorbitante; ma bisognerebbe tener conto di almeno un altro paio d'elementi, prima di liquidare questa vicenda normativa come l'ennesima manovra di stampo centralistico. Intanto, il medesimo art. 149 (al comma 5) riconosce a regioni ed enti locali la facoltà di proporre interventi di tutela: è già qualcosa. Per di più esso descrive (al comma 2) l'attività di conservazione come compito comune dello Stato, delle regioni e degli enti locali: dunque uno dei tre poli concettuali della tutela (su cui lo Stato ha il monopolio) viene in realtà esercitato in condominio, anche a costo di determinare talune ambiguità nella definizione dei concetti. Se mai su questo versante si è verificato un eccesso di delega, esso va quindi nella direzione opposta a quella contestata da Cammelli: non troppa tutela, ma troppo poca. Anche perché la tutela - nel catalogo di definizioni con cui s'apre il capo V del decreto - a sua volta si distingue dalla gestione, dalla valorizzazione, dalla promozione: sicché non è vero che tutto sia tutela, e non è vero dunque che ogni intervento in materia culturale sia di esclusiva spettanza dello Stato, nell'architettura del d.lg. 112/1998. Almeno su questo punto le norme sono chiare: l'amministrazione statale e quelle decentrate concorrono (ciascuna nel proprio ambito, o anche congiuntamente) alla gestione e alla valorizzazione dei beni culturali, nonché alla promozione delle attività della cultura (artt. 150, 152, 153). Ma già il fatto stesso d'aver distinto l'azione di tutela da altre leve d'intervento sulla sfera culturale ha una portata anticentralistica, perché s'oppone alla visione "tutelocentrica" che pure era stata sostenuta con vigore da ampi settori della burocrazia statale (contestando, per esempio, la possibilità di separare la difesa dei beni culturali dalla loro valorizzazione); e questo argomento ci porta dritti sull'ultimo fronte di critica al decreto.
Quinto: le definizioni. Qui davvero le critiche di Chiti (ma anche di Cammelli e Sciullo) suonano troppo severe. Un "pasticcio verbale": e perché mai? Può darsi che fra l'una e l'altra categoria si registri qualche sovrapposizione, come sollecita del resto il modello di regionalismo cooperativo adottato dal d.lg. 112/1998; ma a leggerne senza pregiudizi il testo, i diversi campi rimangono sufficientemente delineati. Cammelli stesso d'altronde riconosce che questa parte è la migliore del decreto. Che intanto non inventa nulla, ma semmai riordina e razionalizza alcuni concetti già da lungo tempo in prima fila nell'arsenale del legislatore: tanto per dire, di "valorizzazione" dei beni culturali si parlava già all'art. 1 del decreto 805/1975, quello con cui Spadolini fondò il nuovo ministero. La separazione concettuale tra le funzioni di tutela, di gestione e di valorizzazione corrisponde inoltre a una precisa richiesta delle regioni e delle autonomie locali, nel documento unitario discusso al Cnel lo scorso anno: ulteriore spia di come le definizioni normative trascritte nell'art. 148 non siano affatto il cavallo di Troia di un'operazione neo-centralistica. Ma probabilmente aveva ragione Giavoleno: "omnis definitio in iure civili periculosa est". Sennonché è senz'altro vero che le definizioni irrigidiscono, che per il loro tramite si frena l'adattamento degli istituti giuridici all'evoluzione politica e sociale; però nella fattispecie esse alimentano l'albero delle competenze, sono insomma la radice su cui il decreto costruisce i diversi ruoli dello Stato e degli enti decentrati.
E la radice si dirama verso un doppio apice, su cui adesso in conclusione sarà bene mettere l'accento. In primo luogo, la distinzione fra tutela e promozione: l'una diretta a conservare la memoria, il deposito delle testimonianze culturali ereditate dalle generazioni che ci hanno preceduto; l'altra rivolta verso il nuovo, per dare gambe e fiato alle energie intellettuali della generazione che ci è contemporanea. Ecco perché - ed è questo il secondo caposaldo della trama normativa intessuta dal decreto - la tutela ha per oggetto "beni", anche se non necessariamente cose materiali (i beni culturali, come ha insegnato Giannini, sono sempre immateriali, esibiscono un attributo ulteriore rispetto al corpo fisico in cui per avventura siano incastonati, così come il suono d'una melodia è qualcosa in più dello spartito o dello strumento musicale da cui esso viene generato); mentre la promozione ha di mira viceversa un facere, e perciò un'"attività" culturale in gestazione. Ciò consente d'evitare le acrobazie verbali cui la dottrina è stata costretta nel passato, per reperire un fondamento normativo alle manifestazioni immateriali della vita culturale (per primo fu Cassese, nel 1976, a parlare di "beni culturali-attività"); ma soprattutto in futuro può permettere un più decisivo impulso alla formazione di nuovi scenari, di nuovi attori culturali, dato che fin qui il carico della tutela ha reso in Italia pressoché insignificante l'azione di sostegno verso l'arte (e la cultura) contemporanea. E naturalmente anche quest'ultimo costituisce un compito comune dello Stato e delle autonomie territoriali.
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