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Tavola rotonda sul regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (Roma, 9 marzo 2000)

 

Intervento di Oberdan Forlenza [1]



Grazie innanzitutto agli organizzatori per questo confronto extra-moenia sul regolamento del ministero per i Beni e le Attività Culturali. Io cercherò di essere il più possibile chiaro e sintetico su un discorso che invece potrebbe essere, per gli spunti che offre e per le sue caratteristiche, molto più ampio. Se questo fosse un dibattito in sede giudiziaria, avrei dovuto parlare per ultimo, perché il testo ha già espresso il punto di vista del ministro per i Beni Culturali e del governo che lo ha approvato in via preliminare.

Tuttavia, pur dando per scontato l'ambito del dibattito di questa sera e la conoscenza del testo, credo che un minimo di introduzione su alcune tematiche proprie del regolamento, a partire dalla cornice nella quale questo si muove, debba essere necessariamente fatta.

Io vorrei chiarire innanzitutto che non ci sono affatto vari testi del regolamento, c'è un solo testo che è quello approvato dal consiglio dei ministri. Chiunque lavori su testi normativi sa che questi sono offerti alla verifica, al dibattito, all'arricchimento di una serie di interlocutori che sono quelli propri della sede governativa. In particolare, nel caso del regolamento di cui stiamo parlando, il confronto riguarda altre amministrazioni ed in particolare il ministero della Funzione Pubblica e quello del Tesoro, ma anche, sul piano interno del ministero, i soggetti che a vario titolo sono interessati all'argomento.

Non a caso, infatti, la prima bozza del regolamento portava programmaticamente scritto "bozza", fin dalla sua copertina, cioè essenzialmente canovaccio di lavoro. Non era un testo, era essenzialmente ciò che è prodromico ad un testo, un argomento di esame e di dibattito. Il testo, invece, è quello di oggi, quello cioè che ha già superato il vaglio del consiglio dei ministri. Questo lo dico perché è veramente singolare che un testo che parta programmaticamente come bozza, possa essere interpretato come lavoro compiuto. In realtà una bozza è tale, se le parole hanno ancora un loro senso, non è un testo definitivo, è un oggetto di dibattito e non può rappresentare evidentemente una scelta compiuta.

Non a caso si sarà notato che nella prima stesura vi era una pedante elencazione di compiti, sia sulle direzioni generali sia sulle singole soprintendenze, del tutto inutile, perché già documentata da testi normativi primari, ma che era necessaria proprio per la natura stessa del documento. Se doveva essere un oggetto di lavoro da rifinire era bene che tutti coloro che fossero stati chiamati ad occuparsene avessero davanti il panorama delle cose su cui lavorare. Nella seconda versione, quella che poi è il regolamento approvato, evidentemente di tutto questo non c'è bisogno, perché non occorre richiamare una disciplina primaria per definire i compiti di una direzione generale, basta indicare il settore, poi evidentemente questo richiama la legislazione relativa, ed è quest'ultima che indica quali sono i compiti rientranti in quella materia, in quel settore affidato a una singola direzione generale.

C'è un contesto generale nel quale il regolamento si colloca ed è quello della normativa inerente il ministero per i Beni e Attività Culturali, specificamente il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 e gli articoli 52, 53, 54 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. C'è, infine, un normativa generale relativa al rapporto di lavoro nell'ambito delle pubbliche amministrazioni che è quella del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29.

Un giorno, quando questi anni un po' convulsi saranno lontani, faremo una riflessione su che cosa si intende per regolamenti di delegificazione, ma ora risparmio a questa sede questo discorso molto tecnico. In realtà, i regolamenti di delegificazione sono un po' una merce strana, perché a volte possono derogare alla legge, a volte no. La realtà è che sono un tipo di fonte che non conosciamo, di cui sostanzialmente ci sfuggono gli esatti confini.

Una cosa però mi sembra di poter dire, l'interpretazione della Corte di Conti sui regolamenti di delegificazione è talmente restrittiva che ormai sono paragonati a regolamenti di attuazione un po' più ampi. Una cosa è certa, che un regolamento di questo tipo non può derogare a quelle che sono le scelte fatte con la sua fonte autorizzatoria. Se esiste un decreto legislativo di settore, evidentemente il regolamento che gli dà attuazione, potrà fare tutto salvo che derogare quella fonte primaria dalla quale trae la sua origine.

Quindi il quadro di riferimento ha, da un lato, il d.lg. 368/1998 e il d.lg. 300/1999, per ciò che riguarda specificamente il ministero e, dall'altro, il d.lg. 29/1993, per ciò che riguarda più in generale l'organizzazione pubblica in relazione anche al rapporto di lavoro. Mi dilungo su questo perché ci sono una serie di scelte che, a torto o a ragione (in questo momento non interessa), in qualche misura ho seguito personalmente, per la parte relativa alla Commissione Cheli, ma anche successivamente, per ciò che riguarda le nuove vicende del ministero. Queste scelte sono già state fatte e possono eventualmente essere ridiscusse in sede legislativa, ma sicuramente non in sede regolamentare.

Se il dibattito verte sul regolamento, deve essere guidato in questo senso, cioè sui contenuti del regolamento e sui suoi margini di flessibilità di intervento. Se il discorso invece, attraverso il regolamento, diventa un discorso sulle fonti primarie, può essere sicuramente interessante, può essere un approfondimento o una serie di riflessioni sulla rosa che non fu colta, però evidentemente è sterile per ciò che riguarda le finalità proprie del regolamento.

Dico questo perché ci sono delle scelte che non sono facilmente controvertibili, anzi direi non sono controvertibili affatto in sede regolamentare. Il d.lg. 368/1998, al di là della sua relativa brevità (sono appena 12 articoli), esprime una serie di scelte ormai vincolanti sull'organizzazione del ministero. A questo proposito uno dei punti più discussi è proprio in riferimento ad una sorta di appesantimento dell'organizzazione ministeriale, nel senso che a causa del regolamento ci sarebbero più livelli rispetto a quello che era il ministero del passato.

Io non so se questo sia vero e credo che non lo sia, però, per le ragioni che dirò, una prima considerazione va fatta. Oggi noi abbiamo un ministero che prevede direzioni generali come primo livello di organizzazione (evidentemente prescindo dagli uffici di staff, ad esempio il gabinetto del ministro, che sono altra cosa). Sono troppe o poche le dieci direzioni generali previste dal regolamento? Oggi noi abbiamo otto direzioni generali nel perimetro del ministero per i Beni e le Attività Culturali, quindi non si può fare il calcolo sulle cinque tradizionali. La legge ci dice che le direzioni generali non possono essere più di dieci, ma bisogna tenere presente che partiamo già da una base di otto.

La scelta fatta nell'organizzazione complessiva del governo con il d.lg. 300/1999 prevede comunque un livello superiore alle direzioni generali. La scelta quindi non verte sull'esistenza del livello, ma è esclusivamente sul tipo di livello superiore alle direzioni generali. Si può optare per un sistema per dipartimenti e quindi prevedere una pluralità di capi dipartimento, ovvero per un sistema, diciamo così, monoantropico con un segretario generale. Questa è una scelta, ma non vi è la possibilità di scegliere tra l'esservi questo livello superiore alle direzioni generali, o il non esservi.

Su questo a suo tempo, per il ministero per i Beni e le Attività Culturali, fu fatta la scelta del segretario generale (ancora una volta io non so se giusta o sbagliata), e se qui discutiamo di regolamento discutiamo di cose concrete e non di scelte del passato. Io ricordo che uno dei motivi di dibattito in seno alla Commissione Cheli, per lo meno da parte di chi sosteneva la scelta del segretario generale, anziché quella dei dipartimenti, si sostanziava in due discorsi: che il ministero per quanto crescesse era ancora piccolo per avere una sua articolazione per dipartimenti (come il ministero del Tesoro o delle Finanze per esempio), e che, contemporaneamente, ha anime diverse e con la creazione di un'organizzazione dipartimentale si sarebbe corso il rischio di ritrovarsi due ministeri sostanzialmente distinti. Questi erano in sintesi gli argomenti di chi propendeva per scelta del segretario generale.

Ciò che deve essere chiaro è che si può anche interpretare la scelta del segretario generale come un appesantimento, ma è certo che un livello superiore alle direzioni generali ci deve essere comunque, per tutte le amministrazioni pubbliche. Nella prospettiva dei 12 ministeri di cui parla il d.lg. 300/1999, abbiamo 9 ministeri con dipartimenti e 3 ministeri con segretario generale, ma un primo livello, ripeto, è comune a tutte le amministrazioni pubbliche.

Su questo ho detto, la legge prevede non più di 10 direzioni generali e spesso nel dibattito si dimentica di indicare il punto di partenza, e cioè che oggi gli uffici dirigenziali generali nella nostra amministrazione sono 8, non sono più i 5 del passato, con una serie di competenze nuove: l'arte e l'architettura contemporanea, per esempio, ovvero quella della promozione del libro, che solo in parte è nel perimetro delle due direzioni generali, quella delle biblioteche e quella che ci viene dal dipartimento editoria della presidenza del consiglio.

Scendendo ancora, poi, troviamo il sovrintendente regionale come ufficio a sé, di coordinamento nella regione delle soprintendenze di settore. Il sovrintendente regionale era prefigurato addirittura in un testo anteriore al d.lg. 368/1998, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, che, negli articoli relativi ai beni culturali (artt. 148 ss.), prevede una forma di cooperazione tra stato, regioni, enti locali con la commissione regionale per i beni culturali, prevista dall'art. 154.

Nella logica originaria del d.lg. 368/1998, quello del sovrintendente regionale era un incarico aggiuntivo, non un ufficio a sé, con la riforma del d.lg. 300/1999, invece, il sovrintendente regionale diventa un ufficio a sè. Ora non è il caso di dire che in realtà l'incarico aggiuntivo venne previsto dal d.lg. 368/1998, non per una scelta ideologica, ma per problemi di copertura.

Premesso che il sovrintendente regionale non è controvertibile, perché è una scelta legislativa, bisogna sottolineare che la struttura dell'amministrazione pubblica, ivi compresa quella del settore dei beni culturali, ha ormai assunto un livello regionale di confronto e di dimensione che non è eludibile. Noi andiamo a passi spediti verso una articolazione del bilancio dello Stato per livelli regionali e per questo, pur a struttura dello stato invariata, si ha comunque un progressivo avvicinamento al livello regionale nell'articolazione della gestione delle politiche pubbliche. Non c'è alcuna amministrazione che può rimanere indietro.

Un'amministrazione deve essere pronta a confrontarsi a livello regionale e avere una propria struttura di quel livello, perché è attraverso questo che passa gran parte della sua programmazione. La vicenda dei fondi CIPE (per la prima volta questo ministero nel piano 2000-2006 è entrato per circa 5.300 miliardi) e comunque la vicenda di cooperazione con le regioni, ci chiama ad articolare 17 tavoli regionali di confronto. Questo può non piacere, può essere una dimensione diversa, un'incognita o anche un buco che ci suscita l'horror vacui, ma è la realtà.

L'amministrazione pubblica complessiva sta andando in questo modo, ora noi non possiamo essere un'amministrazione autoreferenziale, perché l'autoreferenzialità non porta lontano. Il bilancio dello Stato sta andando in questo modo, e non possiamo pensare che il bilancio dello Stato e l'articolazione delle politiche pubbliche non ci riguardano.

Sono caduto anch'io nell'errore di discutere una scelta che, in realtà, a livello di regolamento, non è più discutibile e per questo si potrebbe liquidare la discussione sul sovrintendente regionale affermando che è una scelta già fatta dalla legge, che il regolamento deve solo applicare. Mi si consenta però di dire che la scelta fatta nel 1998 con il sovrintendente regionale e confermata con quella strutturazione nel 1999, risulta ampiamente confermata da quello che è stato il procedere, quasi al galoppo, dell'articolazione delle politiche pubbliche nel corso di questo anno e mezzo. Aggiungo ancora un'altra cosa riguardo il livello dei soprintendenti di settore e cioè che le loro competenze non sono state minimamente toccate, per cui ci sarebbe una sottrazione di competenze al settore tecnico. E' un bel tema, però bisogna capire quali sono queste competenze che sarebbero state, in concreto, sottratte.

In realtà, queste competenze sottratte non ci sono e sarei ben lieto di poter verificare laddove mi si dica quali sono.

Si verifica, in realtà, una deconcentrazione di competenze, dal centro verso la periferia dell'amministrazione, che è funzionale al rafforzamento della tutela, non alla sua dismissione.

Noi siamo l'unica amministrazione statale ad accentrare a Roma il potere di vincolo. Occorre capire quanto questo sia funzionale ad una tutela efficace, immediata e soprattutto consapevole, tenendo presente che le ragioni della tutela sono più facilmente conoscibili dalla periferia e dal sovrintendente che opera in quei luoghi, non da un puro onnisciente direttore generale che si trova a Roma. Noi siamo l'unica amministrazione dello Stato ad avere un accentramento di una funzione a livello di direzione generale.

Questa funzione di vincolo, quindi, archeologico, storico-artistico e via discorrendo, passa a livello di soprintendenza regionale. Si è individuato un ufficio a livello regionale e a questo è stato trasferito un potere, abbiamo cioè diviso per 17 (perché che per tre regioni noi non abbiamo competenza), il potere di tutela.

Aggiungo inoltre, per maggior chiarezza, che il sovrintendente regionale è un tecnico. Per questo vorrei dire a chi sostiene che in questo modo c'è meno tutela (o non c'è più tutela) e un eccesso di burocrazia, che abbiamo moltiplicato per 17 i luoghi di tutela, rispetto all'unico attuale, la direzione generale. Noi supponiamo, per atto di fede, che l'emissione di un provvedimento di vincolo sia un atto consapevole, in esercizio di discrezionalità tecnica da parte del direttore generale, che ovviamente sovrappone una sua valutazione finale a quella che è la valutazione tecnica espressa dal sovrintendente di settore.

A me non pare che questo procedimento si sostanzi in un eccesso di burocratismo e nell'emarginazione dei tecnici. A me pare, invece, che ci sia deconcentrazione dell'amministrazione, che non ci sia meno tutela, ma anzi, che questa sia più efficace e che ci sia valorizzazione del ruolo tecnico. Oggi il momento essenziale della tutela in questo paese, il potere di vincolo che noi abbiamo difeso in sede di legge 15 marzo 1997, n. 59, procede in un rapporto tra soprintendenza e direzione generale.

E' il momento di interloquire con gli uffici e con i burocrati, a meno che non vi sia il retro-pensiero che, essendo Roma lontana, non avendo gli strumenti, non essendo in grado di capire, la proposta del sovrintendente di settore, che viene dalla periferia, deve essere il provvedimento. Allora, però, occorre uscire dall'ipocrisia e affermare che il sistema attuale non è buono, perché quello è un provvedimento amministrativo dove un momento di valutazione da parte di chi provvede non c'è. Comunque si rigiri l'argomento, non è sostenibile la tesi contraria. Noi abbiamo 17 momenti di tutela, 17 soprintendenti regionali che, lo sottolineo ancora una volta, sono tecnici.

Oggi si dimentica che la dirigenza di ministero non esiste più.

Le scelte generali sull'organizzazione del pubblico impiego hanno determinato la creazione di un ruolo unico dei dirigenti, per cui i nostri soprintendenti, che sono dirigenti così come i dirigenti amministrativi, non sono più dipendenti dell'amministrazione dei beni culturali, ma sono dipendenti dell'amministrazione pubblica tout court, perché fanno parte di un ruolo unico della dirigenza, costituito presso la presidenza del consiglio.

Il d.p.r. 150/1999 prevede il ruolo unico, ma prevede anche le specializzazioni tecniche, ivi compresa la nostra, ed infatti è noto che si sta discutendo sui contorni del ruolo tecnico dei beni culturali. Di tutto questo bisogna tenere conto quando si dibatte, perché altrimenti sfuggono i contorni della vicenda e le rigidità che, piaccia o meno, il regolamento deve rispettare. Io non credo che, ad esempio, al ministero degli Interni, in questo momento, stiano dibattendo se al comandante provinciale dei Vigili del Fuoco può essere preposto un biologo che viene dall'ex ruolo della sanità. Non è un dibattito reale, ed infatti non è un dibattito che si sta svolgendo al ministero degli Interni, perché fermo il ruolo unico, le tecnicalità esistono, esistono per il comandante provinciale dei Vigili del Fuoco, così come esistono, evidentemente, per il sovrintendente archeologo.

Arrivo alla seconda parte e velocemente alla conclusione. Questa è la parte relativa alla struttura dell'amministrazione. Ora, permettetemi una considerazione su un aspetto che è un po' paradossale e un po' contraddittorio. Da un lato appesantimento della struttura, dall'altro lato dismissione della tutela, non sono propriamente la stessa cosa, anzi sono situazioni incompatibili. Se noi vogliamo rendere questa amministrazione efficiente, non dobbiamo appesantire la struttura, ma dobbiamo renderla coerente con un'amministrazione che è cresciuta e che affanna, per una serie di ragioni, di cui sarebbe interessante discutere (sul turn over dei quadri tecnici, che è una di queste, per esempio, discutevamo in consiglio di presidenza).

Per una serie di ragioni l'amministrazione affanna, ma non si può guardare all'amministrazione del ministero per i Beni e le Attività Culturali con gli occhi della direzione generale delle Antichità e Belle Arti del ministero della Pubblica Istruzione; certo, rispetto alla direzione generale del ministero della Pubblica Istruzione, la struttura appare pesantissima, ma sarebbe effettivamente pesantissima, se i compiti fossero i medesimi.

Esiste un rapporto tra le funzioni di cui viene caricata un'amministrazione e l'organizzazione che quelle funzioni deve svolgere. Si può discutere se quelle funzioni debbano essere gestite da quell'amministrazione o se siano migliori altri modelli, però questa non è scelta da regolamento. Qui bisogna capire quali sono le funzioni attribuite all'amministrazione e strutturare un'amministrazione che possa rispondere a quelle funzioni.

Aggiungo ancora un'altra cosa, e cioè che questa amministrazione è una delle poche a non avere avuto conferimento di funzioni e compiti verso le regioni e gli enti locali, ma ha avuto la previsione di forme di collaborazione, che tengono conto della presenza di diversi statuti proprietari dei beni culturali. Sostanzialmente sono forme di collaborazione tra proprietari, quelle previste dal d.lg. 112/1998, ma sotto il profilo del conferimento delle funzioni pubbliche, questa amministrazione non ha conferito nulla. So che questo è un punto di dibattito non pacifico, so anche che tutte le voci dell'amministrazione dei beni culturali erano contrarie al conferimento, ma allora, se questa amministrazione, come io ritengo sia giusto, deve gestire compiti che ha strenuamente difeso, per una serie di ragioni culturalmente valide, deve avere un'organizzazione che dimostri la ragione storica del perché ha mantenuto quei compiti e quelle funzioni.

Non si può teorizzare la tutela e contemporaneamente il rachitismo amministrativo. Noi pensiamo che con questa struttura amministrativa che abbiamo ereditato, con qualche aggiustamento, dal ministero della Pubblica Istruzione nel 1975, possiamo rispondere al carico di compiti e funzioni che ci sono arrivati e a ciò che oggi la società, che ha una sensibilità diversa, ci chiede in tema di tutela, di gestione, di valorizzazione e di promozione delle attività culturali? Se la risposta è positiva rappresenta però una scelta storica che l'amministrazione sta facendo.

Dal mio punto di vista, credo che non si possa teorizzare una grande amministrazione con tanti compiti e tante funzioni e difendere il rachitismo amministrativo. Questo non è possibile, o perlomeno è anche possibile, però bisogna essere consapevoli dell'operazione che si sta facendo.

Concludo affrontando il problema delle funzioni e dei compiti: noi abbiamo funzioni e compiti nuovi, ma ciò che dovrebbe essere premesso ad un'analisi dell'organizzazione del ministero per i Beni e le Attività Culturali, è una ricognizione del perimetro attuale di questo ministero che è molto cambiato, si è notevolmente dilatato, forse anche al di là di quello che noi immaginavamo, solamente due anni fa.

In questo momento abbiamo le tradizionali competenze che ci vengono dal ministero preesistente, abbiamo, ad esempio, competenze in tema di spettacolo, che non ha obiettivamente amministrazione periferica, non ha profili di gestione (il che è forse meno vero), ma ha semplicemente una funzione di erogazione.

Questa funzione di erogazione è pari a 1.000 miliardi! Attualmente i soggetti che ruotano intorno al dipartimento dello spettacolo sono decine di migliaia. Ed è evidentemente cosa diversa distribuire 1,000 miliardi agli organi periferici della propria amministrazione, rispetto alla distribuzione della stessa cifra a soggetti terzi. Noi abbiamo 20.000 soggetti a cui distribuiamo 1.000 miliardi e questo è danaro pubblico, dei cittadini, danaro del quale va controllata l'utilizzazione, l'efficacia della spesa, il rientro in termini di accrescimento culturale.

All'inizio di questa legislatura, ho vissuto l'esperienza di un ente lirico, perciò conosco lo spessore di problemi che crea quel settore dello spettacolo, e, ripeto, le migliaia di soggetti che vi sono impegnati. Ancora una volta, possiamo decidere di conferire la funzione alle regioni, e liberarcene, e in questo modo i 20.000 soggetti che girano intorno al dipartimento dello spettacolo si ripartiscono tra 20 regioni. Ciò è possibile, non è però il problema attuale. Il problema attuale è invece che abbiamo un dipartimento dello spettacolo, 20.000 soggetti, una realtà produttiva quale quella del cinema, che in America è la terza attività produttiva della nazione, e che una volta anche in questo paese era un'attività produttiva trainante e tale vorremmo che ritornasse ad essere; abbiamo due direzioni generali per lo spettacolo, perché i problemi di una direzione di impresa industriale, quale quella del cinema, sono molto diversi, a parte la valenza culturale del prodotto, rispetto a quelli della direzione dello spettacolo dal vivo.

Abbiamo poi lo sport, la vigilanza sulla SIAE, abbiamo, così come diceva il ministro Melandri in consiglio nazionale, tutti gli orizzonti nuovi connessi al diritto d'autore sul tema del digitale. Nessuno ha idea delle problematiche, a livello internazionale, che la tematica del diritto d'autore comporta. Intuiamo che c'è un problema, intuiamo che qualcuno si sta muovendo da qualche parte, e noi siamo affannosamente alla rincorsa.

Questo è però uno degli scenari di oggi, o forse addirittura di ieri, perché molte scelte sono state già fatte e il nostro paese deve trovare il modo di affrontarle.

Abbiamo poi una domanda di cultura, da parte dei cittadini, che è in crescita e a cui bisogna dare risposta, insieme alle regioni e agli enti locali. Abbiamo livelli di confronto diversi. E a tutto questo occorre dare una risposta. Abbiamo un'amministrazione, il ministero dei Beni cultuali e ambientali, che, fino al 1998, gestiva 2.300 miliardi di bilancio, oggi ne gestisce 4.200, a parità di organizzazione. Tutto ciò è possibile, ed è quello che sta accadendo, bisogna verificare, però, quanto renda in termini di risultato.

A mio giudizio, il regolamento, nei limiti in cui era consentito, ha aumentato la tutela, ha attuato una deconcentrazione dell'amministrazione, un rafforzamento della struttura in relazione ai compiti nuovi, in aderenza a scelte che sono state fatte a livello legislativo e che non sono più nel dominio del livello regolamentare.

Si può infine affermare che il ministero presenta una struttura leggera, tenuto conto della pesantezza dei compiti che gli sono attribuiti, perché il concetto di struttura pesante o leggera non significa nulla in sé, ma occorre verificare quanto questa è pesante o leggera in relazione ai compiti che le sono stati attribuiti.

Concludendo, noi dobbiamo fare una scelta, indipendentemente dalle discussioni sui singoli aspetti specifici, cioè dobbiamo aver presente che cos'è questo ministero oggi. C'è una strana sensazione nei confronti dell'approccio al tema dell'organizzazione del ministero, è una visione romantica, simile a quella che agli inizi dell'Ottocento faceva vedere il Medio Evo come un mondo fatto di cavalieri, un approccio che preferirebbe i bei tempi andati (ma c'è sempre un tempo passato migliore del presente), però non si può caricare, di tutte queste valutazioni, un regolamento, che deve rispondere all'attualità e alle scelte normative di livello primario che sono già state compiute.

C'è un altro approccio che è quello un po' sospettoso, nel senso che si pensa che qualcuno, in qualche modo, voglia tacitare le forze vive dell'organizzazione. A questo proposito ho già dimostrato l'infondatezza della posizione, spiegando come in realtà ci sia un potenziamento del settore tecnico dell'amministrazione. Bisogna guardare dentro questa amministrazione e interpretare correttamente le norme, interpretazione di buona fede, non l'interpretazione sospettosa che legge nella virgola e nell'aggettivo un tentativo, un retro-pensiero di chissà quali finalità, di burocratizzazione e di controllo della politica, perché la politica di per sé non è affatto una cattiva cosa, la politica è attività di tutti i cittadini e non può essere demonizzata. Ma neppure questo è il punto, il punto vero è che bisogna costruire un'amministrazione forte, perché è l'amministrazione, compresi i suoi tecnici, i suoi amministrativi e coloro che ci lavorano a qualunque livello, che fa politica molto di più di quella che può fare un ministro. Se un'amministrazione, perché è debole, non spende ciò che le è attribuito, aumentando il monte dei residui, fa politica, e fa delle scelte politiche, negative in questo caso, necessitate se si vuole, ma molto più rilevanti di quanto faccia un ministro con i suoi atti. Avere un'articolazione amministrativa che induce a fare delle scelte, è politica.

Ciò che però deve essere chiaro, veramente democratico, nell'interesse dei cittadini e a tutela del patrimonio culturale di questo paese, è che le scelte devono essere espresse, non devono essere né nascoste, né implicite, né ipocrite.

Se l'amministrazione non è adeguata ad esercitare la funzione di tutela che ha tanto difeso, noi consegneremo, nei prossimi anni, questo paese alla speculazione, alla dimenticanza del suo passato, al suo arretramento nel campo internazionale dove si discute di nuovi diritti, di nuove tutele, di nuovi aspetti del progresso culturale.

Questo è tutto, è una scelta che si deve fare a livello legislativo di cui il regolamento costituisce solo l'attuazione.



Nota

[1] Intervento non rivisto dall'Autore.



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