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Editoriale

Nuova legislatura e patrimonio culturale: il tempo è scaduto

di Marco Cammelli

New Legislature and Cultural Heritage: The Time is Over
On the occasion of the recent Italian general elections, the Director of this Journal suggests to the new Government some strategic objectives and immediate measures to be taken in order to improve the functioning of the public sector in the field of cultural heritage, while encouraging forms of collaboration with the private sector.

1. I problemi del nostro patrimonio culturale sono così annosi e ormai acuti che nel parlarne di solito si passa subito alle proposte e alle possibili soluzioni. E' così, e a maggior ragione si deve seguire questo schema in un breve intervento dedicato a ciò che la nuova legislatura dovrà affrontare tra poche settimane. Ma vi sono altri e più recenti motivi critici che non vanno trascurati sia per non lasciarli nel cono d'ombra nel quale tuttora versano sia perché, assommati a quanto è già da tutti acquisito, impongono alla pars construens delle proposte una fase in più: la necessità di affiancare alle profonde innovazioni funzionali e strutturali di medio periodo l'adozione di misure immediate. Insomma, di una vera e propria terapia d'urto.

La ragione è dovuta al serio aggravamento delle condizioni complessive del sistema a causa degli effetti, certi ed anzi ormai prossimi, generati dalle politiche di questi anni: il taglio delle risorse (v. in questo numero l'articolo di Barbati [barbati.htm]); la "deriva" delle burocrazie tecniche e amministrative; il combinato di inerzie politico-amministrative, da un lato, e di sovrapposizioni e conflitti positivi e negativi di competenze, dall'altro. A ciò si aggiungono altri fattori di declino quali il completo abbandono non solo della programmazione, ma della semplice prevedibilità (e dunque del reciproco affidamento tra soggetti, sia pubblici che privati) a causa dell'emergenza e della discontinuità-ritardo nei trasferimenti di risorse e nei processi decisionali; l'estrema difficoltà della azione ordinaria e il venir meno della già esigua manutenzione sui nostri beni immobili e mobili (con inevitabili ricadute sull'allargarsi del perimetro del restauro); la dissolvenza della memoria storica e dei saperi tecnico-amministrativi, perduti per il blocco del turn-over del personale e l'estendersi di rapporti precari, e il relativo venir meno della trasmissione sul campo delle esperienze e delle prassi; l'inevitabile (?) trasferimento alle risorse del sistema dei beni culturali di gran parte degli edifici già destinati alle comunità ecclesiastiche e a culto e oggi inutilizzati e esposti per l'abbandono a seri rischi di deterioramento, spoliazioni o veri e propri saccheggi (v. l'intervento in questo numero di Bruno Zanardi [zanardi.htm]).

Il futuro prossimo appena richiamato si somma agli effetti ormai evidenti di dinamiche maturate in passato. Da aspetti specifici, come il pensionamento nei prossimi mesi del 90% del personale archivi di Stato, frutto attuale dei reclutamenti di massa operati negli anni '70, a profili molto più generali, come la grave delegittimazione non solo del Mibac ma delle politiche e delle misure di tutela a causa dell'azione combinata di tre fattori dagli effetti paralizzanti: costante estensione della regolazione, operatività quotidiana al minimo, erraticità degli interventi e della loro impostazione.

In breve, una situazione più che critica: di vero e proprio pre-collasso che richiede una reazione altrettanto decisa, anche con misure straordinarie.

Veniamo alle proposte, cominciando da quelle collocate nel medio periodo non solo perché questo è il tempo necessario per andare alla radice dei problemi del settore, ma anche perché questo insieme costituisce il parametro cui rapportare, per valutarne coerenza sistemica ed efficacia pratica, anche le misure immediate.

Nel medio periodo gli interventi sono raggruppabili in alcune aree di intervento, delle quali oltre i contenuti va sottolineata in particolare la sequenza, in linea peraltro non solo con quanto sempre sostenuto in questa Rivista ma con le valutazioni di tutti gli studiosi più autorevoli, cominciando da Salvatore Settis e ricordando gli insegnamenti di Massimo Severo Giannini: il fatto cioè di muovere dalle funzioni e dagli interessi pubblici che vanno garantiti e passare poi, e solo poi, ai profili strutturali e organizzativi, alle normative e agli strumenti di applicazione.

Quanto alle policies, i passi sono tre:

1) si tratta innanzitutto di ridefinire le basi della tutela, nel senso di conservazione preventiva e programmata del patrimonio storico-artistico in rapporto all'ambiente, il che richiede di affrontare di petto il primo ineludibile passo, quello della conoscenza e della identificazione del patrimonio stesso - e cioè la catalogazione - nell'unico modo che l'urgenza, il buon senso e soprattutto l'effettiva operatività suggeriscono: quello della distinzione tra una prima scheda di inventariazione-identificazione (basata su foto digitale e un numero ridotto di elementi essenziali), da compilare in modo generalizzato e nel tempo più breve possibile, e una seconda scheda più articolata mirata alle esigenze della conservazione. In questo modo, una volta acquisite le conoscenze minime - tuttora in larga parte mancanti - relative alla identificazione del nostro patrimonio culturale, si apre la strada non solo alla messa a regime delle attività "ordinarie" cominciando dalla (ordinaria, appunto) manutenzione, ma anche alla "cucitura" del bene e dell'opera con il contesto (incluso il paesaggio stesso) basato sulla combinazione di attività svolte nei sistemi territoriali (in prospettiva, le c.d. "storie locali") e di quelle di studio e di formazione superiore assicurate dal ruolo, da ridefinire, degli Istituti centrali di catalogazione, del restauro, e altro;

2) su queste basi, si può poi passare dal rigido e indifferenziato regime di tutela attualmente vigente a quella articolazione che più volte si è indicata come "doppio cerchio" [1] ammettendo cioè per il cerchio più largo, quello dove l'intreccio tra le esigenze di conservazione e valorizzazione non solo è di diversa intensità e di diverso reciproco rapporto, ma diverso è anche il modo di correlarsi agli altri interessi pubblici e/o privati in gioco, un regime per alcuni elementi differenziato o differenziabile in termini di modalità di gestione, forme di regolazione (comprese quelle contrattuali), snellimento procedure, durata delle concessioni o prestiti di lungo periodo (questione depositi di musei), disposizioni sulla mobilità dei beni. Ed è in questa prospettiva che la disciplina internazionale del patrimonio culturale può offrire elementi molti utili, perché nel contesto globale vi sono più definizioni di bene culturale, funzionali alla finalità pubblica perseguita, dal controllo della circolazione alla protezione del patrimonio mondiale dell'umanità (si v. in questo numero l'articolo di Casini). La proposta del "doppio cerchio" può dunque avere concreta applicazione in una pluralità di nozioni di bene culturale, differenziate a seconda della finalità e dei diversi interessi pubblici: conservazione, fruizione, circolazione;

3) solo a questo punto si può infine porre mano per davvero ad una apertura, non certo solo su scala nazionale, ad altri soggetti pubblici e ai privati in tutte le loro specificazioni: privati-imprese, privati associazioni, privati fondazioni con forme di cooperazione anche di lungo periodo riguardanti in particolare siti archeologici, musei, edifici e complessi del patrimonio ecclesiastico. Cioè quelli per i quali è più urgente favorire modalità di cooperazione credibili e sostenibili. Ed è opportuno chiarire che la valorizzazione del patrimonio culturale va considerata non una possibilità subordinata alla disponibilità di risorse, ma, per tutti i beni che ne fanno parte e specie per quelli di particolare importanza, un preciso dovere a prescindere che innanzitutto implica un regime particolare delle risorse pubbliche destinate a tali compiti in modo da garantirne la stabilità anche in deroga alle normative e agli interventi di carattere generale sull'area pubblica (sottrazione tagli lineari, patto di stabilità, ecc.). Inoltre, alle giustificate limitazioni imposte al bene in mano privata mediante la notifica dovrà corrispondere la ricerca della disponibilità del privato se il pubblico non è in grado di provvedere alle esigenze di valorizzazione dei beni di cui è titolare. Solo a queste condizioni, è ammissibile che beni in mano pubblica (soprattutto se di apprezzabile valore) siano lasciati nei depositi, non visionabili, non restaurati, e altro.

E visto che ci siamo, sempre in tema di valorizzazione ma sul fronte del paesaggio, si potrebbe pensare di mettere in cantiere, con tutti i dovuti approfondimenti necessari, una legge sulle successioni bloccate da non conoscenza, irreperibilità, o inerzia degli aventi causa per superare gli effetti negativi delle eredità plurime in borghi, edifici, aree di interesse storico, artistico, paesaggistico. Siamo ormai, in molti casi, all'ultima chiamata, e proprio per questo andrebbe perseguito l'obbiettivo di riuscire ad identificare un interlocutore preciso cui proporre (per il recupero e la valorizzazione del bene) la scelta entro un tempo determinato tra due soluzioni: quella di provvedere direttamente all'arresto del degrado e meglio ancora alla valorizzazione del bene, il che dovrà essere accompagnato da agevolazioni fiscali o creditizie per i lavori da svolgere o, in alternativa, l'obbligo di trasferire in mano ad altri proprietà (con indennizzo) o gestione, per un periodo di tempo determinato, se alla fine della procedura l'interlocutore non è stato indiviaduato, o se la risposta manca o non è positiva.

2. E veniamo così alle strutture di cui il Mibac è ovviamente il perno, senza naturalmente riprendere per l'ennesima volta l'argomento, ma limitandoci ad un profilo (decisivo) di metodo. Al di là di singoli aspetti e delle molteplici sensibilità culturali e politiche dei diversi protagonisti pro tempore, per lo più abbastanza ininfluenti rispetto alla confezione (e ancor più, alla resa) delle varie riforme, il motivo per cui i reiterati tentativi di innovazione del ministero - ben 4 dal 1998 ad oggi - non hanno sortito risultati apprezzabili sta nel fatto che si è insistito a (tentare di) innestare funzioni nuove in strutture date, al più scomposte e riassemblate nei più diversi modi.

Il perché si sia perseverato su questa linea e i guai che ne sono derivati sono stati illustrati più volte e da molti in questa Rivista, fin dai suoi primi numeri, senza alcun risultato. Ci limiteremo ad osservare che le ricorrenti denunce relative alla inaffidabilità delle regioni, all'ignoranza degli amministratori locali, alla avidità delle imprese private, al day after post riforma Titolo V, all'inettitudine (per modestia e/o sovrabbondanza) della formazione universitaria in materia pur richiamando questioni di per sé significative non spieghino nessuno dei problemi più rilevanti che ci troviamo oggi da affrontare. Basta richiamarne alcuni.

La perdita pressoché totale di autonomia del Mibac rispetto al ministero dell'Economia e delle Finanze (il taglio di risorse, oltre un certo livello, non ne è la causa, ma l'effetto), la crisi (di ruolo) degli Istituti centrali, l'ostinato settorialismo tetragono ad ogni reciproca collaborazione tra le direzioni generali, le difficoltà e l'evanescenza delle relazioni tra centro e organi periferici, il pensionamento contestuale di interi corpi tecnici (v. archivi di stato) assunti in blocco decenni or sono nello stesso periodo, l'ormai evidente crisi di adeguate competenze giuridico-amministrative interne (v. contenzioso e blocco delle gare) e soprattutto la formazione dei soprintendenti e la perdurante assenza (spesso neppure avvertita) di conoscenze nuove in materia organizzativa, ambientale ed economica cui si aggiunge un intervento di tutela troppo spesso basato sull'autosufficienza dei saperi, la diffidenza per ogni altro tipo di interesse (ancorché egualmente pubblico) e interventi di restauro (anche per questo) condotti in modo puntiforme, senza riguardo al contesto storico-ambientale nel quale l'opera si trova e del quale è espressione.

Con tutto questo, Titolo V, regioni e università, comuni e imprese, speculazione e per molti aspetti lo stesso taglio di risorse hanno poco o niente a che fare. Rileva invece, ed è decisivo, il fatto che il mondo, dal celebre incontro del 1938 di Bottai con i soprintendenti, è radicalmente cambiato, che l'esclusività centrale di principi scientifici e interventi tecnici in un'Italia povera e rurale e dunque intatta non ci sono (l'esclusività e l'Italia rurale) più da mezzo secolo, che le autorità di tutela non si muovono in un deserto di saperi e di conoscenze ma in una società densa e sovraccarica di (altri) saperi e di informazioni oltre che di (altri) interessi non necessariamente e solo ostili, che un centro in grado di tutto conoscere e decidere non c'è più né sarebbe possibile ci fosse, e che di conseguenza una struttura fortemente centralizzata basata sulla autosufficienza e sulla sequenza generale-particolare e centro-periferia ha le stesse possibilità di orientarsi e di giungere a destinazione di un pilota d'aereo che disponesse solo della clessidra e del sestante.

L'enorme vuoto che si è aperto tra il cocciuto mantenimento di mentalità e di forme amministrative definite ormai 75 anni fa e le condizioni odierne, ben più e prima del gravissimo taglio di risorse (che comunque andranno recuperate), è la ragione nello stesso tempo dell'insistenza altrimenti incomprensibile e degli scarsi effetti delle riforme legislative, della seria difficoltà operativa nell'attività ordinaria delle soprintendenze e degli organi centrali e periferici (non compensata, né compensabile dall'orgoglio professionale e dalla disponibilità ai limiti dell'abnegazione di una parte del personale che vi opera), e dell'ancor più grave delegittimazione agli occhi dell'opinione pubblica e dei singoli che un agire insieme autoritario ma scoordinato, parziale e tardivo ha finito per generare.

Le cose cambiano radicalmente se si adottano, anche in tema di organizzazione, metodologia e sequenza utilizzate per le azioni da svolgere, vale a dire poggiando sulla solida base di una funzione di tutela ridefinita (v. sopra), e se ci si muove anche in questo caso dagli interessi e dai beni tutelati e dunque dall'intreccio di questi ultimi con l'ambiente e gli interessi di vita della società, cioè dal basso verso l'alto. Istituti e luoghi della cultura dovrebbero essere davvero intesi come poli di riqualificazione territoriale e occasione per investimenti infrastrutturali, perché i beni culturali sono parte integrante del paesaggio e dell'ambiente della Nazione. Allo stesso tempo, esperienze concrete di nuovi modelli organizzativi potrebbero essere sperimentati in alcuni contesti (per es. siti Unesco, come Pompei, Villa d'Este e Villa Adriana), ma senza le illusioni o i preconcetti che si sono visti nel caso della "Grande Brera" (si v. intervento in questo numero di Baia Curioni).

Tutto questo implica partire dai c.d. organi periferici, archivi, poli, musei, e dalle relative esigenze di operatività, cui riferire anche la questione autonomia gestionale e amministrativa, per poi passare alle soprintendenze attrezzate per e giocate come pivot delle parti locali del sistema (le "storie locali" tramite la catalogazione, le "normative locali" per la parte cedevole, adattabile e semplificabile del tessuto normativo e delle procedure) e come controllori di quanto avviene sul territorio (il che non escluderebbe l'utilità sul piano amministrativo di nuclei di valutazione congiunti centro-soprintendenze-enti locali), per giungere infine, dopo avere precisato il ruolo delle direzioni regionali in termini di snodo e coordinamento dei flussi finanziari e comunicativi più supporto giuridico-amministrativo specialistico alle soprintendenze, al centro.

Un centro inteso, come da anni non ci stanchiamo di ripetere, non come "centro amministrativo", ma "centro del sistema", il che abbraccia un vasto ambito che va dalla revisione degli istituti centrali in termini di studio e formazione avanzata e superiore dei soprintendenti, a tutte le funzioni superiori e indivisibili quali rapporti sovra-nazionali, università e istruzione superiore, circolazione informazioni e dati, reperimento e difesa risorse, promozione e trasferimento dell'innovazione, ecc. In breve, un centro profondamente rinnovato, che sappia attrezzarsi in funzione dei diversi profili in gioco (relazioni multi-livello, agenzie tecniche a latere, organizzazione interna) adeguandosi in particolare su un versante decisivo: la distinzione anche organizzativa tra le funzioni di elaborazione, regolazione e controllo e quelle operative e di produzione di beni e servizi se ed in quanto affidate alla cura diretta degli apparati.

Quanto basta per concludere che si può mantenere anche il termine, ma che tutto questo dovrà essere oggetto di un'analisi e di una (questa sì) riforma che con un "ministero", almeno quello fin qui conosciuto, hanno ben poco da spartire.

3. Tutto ciò, anche se vi si ponesse mano il giorno dopo la costituzione del nuovo Governo, si colloca in una prospettiva di medio periodo, insieme a tutti gli altri interventi possibili per uscire dalla situazione di collasso: dall'alimentare la struttura organizzativa con forze e competenze nuove al rendere la fruizione dei beni culturali vero motore di percorsi formativi nelle scuole e nelle università, sino al ripensare le politiche tariffarie dei biglietti di ingresso per luoghi e istituti della cultura e le modalità di offerta al pubblico (tramite investimenti in nuove tecnologie e accordi con le imprese, ad esempio).

In parallelo, e subito, andrebbe adottata una terapia d'urto basata sul recupero di una quota delle risorse di entità pari almeno ai tagli pesantissimi e anche finanziariamente ingiustificati nel doppio senso di moltiplicatori di spesa pubblica nel breve-medio periodo (basta fare i conti di quanto incide l'omessa manutenzione ordinaria sui beni e sul paesaggio in termini di successive risorse necessarie per restauri e interventi straordinari) e di mancato avvio di iniziative produttrici di reddito. Senza contare l'inadeguatezza delle politiche fiscali fin qui seguite in materia di patrimonio culturale: le norme per chi vuole investire in cultura dovrebbero essere chiare, semplici e leggibili e le relative agevolazioni fiscali non possono essere nascoste in un "codicillo" del testo unico delle imposte, ma dovrebbero essere una parte importante ed imprescindibile del Codice dei beni culturali e del paesaggio (come avviene in Francia).

A questo andrebbe aggiunta la costituzione di un fondo straordinario a maggioranza privata (frutto di conferimenti a titolo di investimento a tasso etico di banche e fondazioni cui aggiungere i proventi di una sottoscrizione pubblica, non limitata all'Italia) cui affidare l'assunzione di un numero di giovani con titoli di studio attinenti alla materia sufficiente a procedere entro un tempo definito (non più di due anni) e con l'indirizzo e la vigilanza degli Istituti e degli organi competenti alla totale catalogazione di tutti i beni del patrimonio artistico italiano mediante la semplificata scheda di identificazione di cui sopra si è detto.

Se ci sono proposte migliori, ben vengano. Ma i tempi sono questi e il rischio del collasso, da cui siamo partiti per queste brevi riflessioni, è sotto gli occhi di tutti. Il che rende ancora più incomprensibile, ma è un eufemismo, il d.p.c.m. 22 gennaio 2013 con cui si è provveduto a rideterminare le dotazioni organiche del Mibac. Insomma, l'ennesima fatica di Sisifo, questa volta affidata alla stesura delle piante organiche.

Siamo ancora sicuri che le risorse che mancano siano solo quelle finanziarie?

 

Note

[1] Da ultimo, L. Casini, Oltre la mitologia giuridica dei beni culturali, in I beni culturali tra tutela, mercato e terrritorio, a cura di L. Covatta, Astrid, Firenze, 2012, p. 161 ss., anticipato in questa Rivista.

 

 



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